diff --git "a/C014/Y01343.json" "b/C014/Y01343.json" new file mode 100644--- /dev/null +++ "b/C014/Y01343.json" @@ -0,0 +1,7 @@ +[ +{"source_document": "", "creation_year": 1343, "culture": " Italian\n", "content": "VOL. IV ***\n A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA\nLIBRO OTTAVO\nCAPITOLO PRIMO.\n_Il Prologo._\nAvvegnach\u00e8 antica questione sia stata tra\u2019 savi, nondimeno la mente\nnostra s\u2019\u00e8 affaticata in ricercare gli esempi degli autori d\u2019ogni tempo\nper avere pi\u00f9 chiarezza, quale sia al mondo di maggiore operazione,\no la potenza dell\u2019armi nelle mani de\u2019 potentissimi duchi e signori\nsenza la virt\u00f9 dell\u2019eloquenza, o la nobile eloquenza diffusa per\nla bocca de\u2019 principi con assai minore potenza; e parne trovare,\navvegnach\u00e8 il mio sia lieve e non fermo giudicio, che l\u2019eloquenza abbi\nsoperchiata la potenza, e fatte al mondo maggiori cose; e l\u2019eloquenza\ndi Nembrot, ammaestrato da Gioniton suo maestro, raun\u00f2 d\u2019oriente\ntutta la generazione umana in un campo a edificare la torre di Babel;\nla confusione della lingua mise la loro forza e la loro opera in\ndistruzione. Serse volendo occupare la Grecia copr\u00ec il mare di navi,\ne il piano e le montagne d\u2019innumerabili popoli; la leggiere forza\ndi Leonida, con cinquecento compagni inanimati dall\u2019ammaestramento\ndell\u2019eloquenza di quello uomo, fece s\u00ec incredibile resistenza a quello\nsformato esercito, che a\u2019 Greci diede speranza di vincerlo, e al\nre volont\u00e0 con pochi de\u2019 suoi di ritornare indietro. Alessandro di\nMacedonia con piccolo numero di cavalieri infiammati dall\u2019informazione\ndella compiacevole lingua di colui, vinse le infinite forze di Dario\ne\u2019 suoi tesori. I nobili principi romani pi\u00f9 per savio ammaestramento\ndella disciplina militare, che per arme o per forza di loro cavalieri\ndomarono l\u2019universo. E cominciando a Tullio Ostilio re de\u2019 Romani,\ncondotto in campo per combattere co\u2019 Toscani, vedendosi in su gli\nestremi abbandonato e tradito da\u2019 compagni, e preda de\u2019 nemici, tanta\nvirt\u00f9 ebbe la sua provveduta ed efficace eloquenza nel confortare i\nsuoi con fitte suasioni, ch\u2019e\u2019 li fece vincitori. E che fece il nobile\nScipione affricano? Non rimoss\u2019egli con la virt\u00f9 della sua lingua\nil malvagio consiglio de\u2019 senatori, che per paura voleano ardere e\nabbandonare la citt\u00e0 di Roma, e per questo vinse e soggiog\u00f2 Affrica\nal romano imperio? Il magnifico Cesare con poca compagnia, a rispetto\ndella moltitudine de\u2019 suoi nemici, potendosi arbitrare in Francia,\nin Borgogna, in Sassonia e in Inghilterra molte volte preda de\u2019 suoi\navversari, per l\u2019ammaestramento e conforto della sua voce tante volte\nvinse i nemici forti e potenti, che li ridusse sotto la sua libera\nsignoria. Che si pu\u00f2 dire di questo, quando con un pugno di piccolo\nfiotto di cavalieri, per lo suo conforto dom\u00f2 e sottomise tutte le\nnazioni del mondo in un campo a Tessaglia? Ma tornando alle minori\ncose, Zenone filosofo vecchio, posto in croce miserabilmente a gran\ntormento, usando la forza della sua magnifica eloquenza, fece abbattere\nla sfrenata e gran potenza del tiranno siracusano. Dunque chi commuove\ni popoli chi apparecchia le grandi schiere, se non la eloquenza\nrisonante negli orecchi degli uditori? E per\u00f2 senza comparazione pare,\nche l\u2019eloquenza ordinata al bene pi\u00f9 giovi che l\u2019armi, e indotta al\nmale pi\u00f9 nuoce che altra cosa. E perocch\u00e8 il nostro trattato per debito\nci apparecchia di fare comincia mento all\u2019ottavo libro, uno lieve e\npiccolo esempio per lo fatto, ma assai strano e maraviglioso per lo\nmodo, prima ci s\u2019offera a raccontare.\nCAP. II.\n_Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come procedette il suo nome, e le\nsue prediche in Pavia._\nEra in questi tempi nato in Pavia un giovane figliuolo d\u2019un picciolo\nartefice che facea i bossoli, il quale nella sua giovinezza entr\u00f2 nella\nvia della penitenza, e abbandonato il secolo, traeva vita solitaria\nin alcuno romitorio nel deserto. \u00c8 vero, che per essere a ubbidienza\nprese l\u2019abito de\u2019 frati romitani, e chiamavasi frate Iacopo Bossolaro.\nE avendo costui gran fama di santit\u00e0 e di scienza, fu costretto dal\nsuo ministro di ritornare in Pavia, e di stare nella religione, e ivi\ntenea vita pi\u00f9 solitaria e di maggiore astinenza che gli altri del\nconvento. Avvenne, che venendo il tempo della quaresima, ed essendo\nconsuetudine di fare il primo mercoled\u00ec della quaresima nella sala del\nvescovo uno sermone al popolo, fu commesso a questo frate Iacopo, il\nquale il fece in tanto piacere del popolo, che fu costretto a predicare\ntutta la quaresima. E come fu piacere di Dio, questo religioso facea le\nsue prediche tanto piacere a ogni maniera di gente, che la fama e la\ndevozione cresceva maravigliosamente per modo, che molti circustanti\ndelle terre e delle castella traevano a udire le prediche di frate\nIacopo. Ed egli vedendo il concorso della gente, e la fede che gli era\ndata, cominci\u00f2 a detestare i vizi, e massimamente l\u2019usura, e l\u2019endiche,\ne le disoneste portature delle donne, e appresso cominci\u00f2 a dire molto\ncontro la disordinata signoria de\u2019 tiranni; e in poco tempo ridusse le\ndonne in genero a onesto abito e portamento, e gli uomini a rimanersi\ndell\u2019usure e dell\u2019endiche. E continovando le sue prediche contro alla\nsfrenata tirannia, e avendo, come addietro \u00e8 detto, per lo suo conforto\nfatto pigliare l\u2019arme al popolo a sconfiggere quelli delle bastite,\nper la qual cosa le sue parole aveano tanta efficacia, che i signori da\nBeccheria, ch\u2019erano allora signori di Pavia, cominciarono a ingrossire\ndelle parole ch\u2019egli usava in genero contro a tutti i tiranni. E allora\nerano signori messer Castellano e messer Milano. Costoro cercarono\nsegretamente di farlo morire per pi\u00f9 riprese, tanto che la cosa gli\nvenne palese, e\u2019 cittadini ne cominciarono ad avere guardia, e dovunque\nandava l\u2019accompagnavano, per modo che i signori nol poteano offendere,\ned egli per questo pi\u00f9 apertamente contro alle crudelt\u00e0 gi\u00e0 fatte per\ncostoro predicava, e incitava il popolo alla loro franchigia.\nCAP. III.\n_Come frate Iacopo fece tribuni di popolo nelle sue prediche in Pavia._\nIl valente frate, sentendo il popolo disposto a seguire il suo\nconsiglio, avendo alcuno consentimento dal marchese di Monferrato\nvicario dell\u2019imperadore in Pavia, raunato un d\u00ec il popolo alla sua\npredica, avendo molto detto contro alle scellerate cose, e\u2019 vizi\nche regnano nelle tirannie, e aperto l\u2019aguato che alla sua persona\npi\u00f9 volte era fatto per li tiranni da Beccheria per torgli la vita,\ndisse, che la salute di quel popolo era che si reggessono a comune,\ne sopra ci\u00f2 ordin\u00f2 molto bene le sue parole. E stando in sul pergamo,\nnomin\u00f2 venti buoni uomini di diverse contrade della citt\u00e0, e a catuno\ndisse, che volea ch\u2019avesse cento uomini al suo seguito; e de\u2019 detti\nventi fece quattro capitani di tutti. E com\u2019egli gli ebbe pronunziati\nnella predica, cos\u00ec il popolo li conferm\u00f2 con viva boce, ed eglino\naccettarono l\u2019uficio. Sentendo questo i signori, furono sopra modo\nturbati, e cercarono con forza d\u2019arme d\u2019uccidere il frate, ma il popolo\ngli ordin\u00f2 sessanta cittadini armati alla guardia; e per tanto que\u2019 da\nBeccheria, temendo pi\u00f9 la commozione del popolo che degli armati, non\nsi vollono mettere a berzaglio. In questi d\u00ec messer Castellano era col\nmarchese, e volendo per questa novit\u00e0 tornare a Pavia, non pot\u00e8 avere\nla licenza da lui. E questo manifesta assai, che \u2019l marchese fosse\nconsenziente a quello ch\u2019era fatto per lo Bossolaro.\nCAP. IV.\n_Come frate Iacopo cacci\u00f2 i signori da Beccheria di Pavia._\nDopo questi centurioni fatti in Pavia, del mese di settembre anno\ndetto, messer Milano, ch\u2019era in Pavia, con assentimento del fratello,\nvedendosi tolta la signoria, cercava segretamente di dare la citt\u00e0\na\u2019 signori di Milano. Frate Iacopo, che stava attento, sent\u00ec il\nfatto, e di presente raun\u00f2 il popolo alla sua predica, e in quella\ndisse molto contro il malvagio peccato del tradimento. Ed essendo\ngi\u00e0 di ci\u00f2 sospetti al popolo i signori, e chiariti per la predica\ndel Bossolaro, il detto frate comand\u00f2 d\u2019in sul pergamo a uno de\u2019\ncenturioni, ch\u2019andasse a messer Milano, e comandassegli, che di\npresente si partisse della citt\u00e0 e del contado di Pavia. Il signore\ntemendo il furore del popolo ubbid\u00ec, e spacci\u00f2 la citt\u00e0 della sua\npersona e di tutta sua famiglia in quel giorno, e andossene a loro\ncastella. Avvenne poco appresso, che essendo morta la moglie del\nmarchese, ed egli imbrigato nell\u2019esequio, messer Castellano prese suo\ntempo, e partissi senza licenza, e vennesene al fratello; e come furono\ninsieme, diedono le castella a\u2019 signori di Milano, e ricevettono quella\ngente d\u2019arme ch\u2019e\u2019 vollono, e rifeciono trattato co\u2019 loro amici della\ncitt\u00e0, pensando colla forza de\u2019 signori di Milano rientrare in Pavia;\nil trattato si scoperse, e tutto il rimanente di que\u2019 da Beccheria\nfurono cacciati della citt\u00e0, e furono presi cento cittadini degli\namici de\u2019 signori, e di loro quelli che pi\u00f9 furono trovati colpevoli ne\nfurono dodici decapitati, tra\u2019 quali furono cinque giudici e avvocati\nservidori de\u2019 signori, gli altri furono liberi a volont\u00e0 del popolo e\ndi frate Iacopo, e la terra riformata a popolo, e ribanditi tutti gli\nusciti guelfi, e nominatamente il conte Giovanni e \u2019l conte Filippo,\ne\u2019 loro figliuoli e discendenti, che quarantasei anni erano stati di\nfuori cacciati da\u2019 tiranni da Beccheria. E come che \u2019l reggimento\nfosse a popolo assai bene ordinato, niente si facea che montasse\nsenza il consiglio di frate Iacopo; e nondimeno il frate osservava\nonestamente la sua religione, e infino allora l\u2019avea trenta anni usata\ncon laudevole vita. Chi pu\u00f2 stimare il fine delle cose, e la variet\u00e0\ndelle vie della volubile fortuna? La signoria da Beccheria non potuta\nsottomettere dalla gran potenza de\u2019 signori di Milano, n\u00e8 da molte\nguerre sostenute, prese fine per le parole d\u2019un piccolo fraticello: ma\nche pi\u00f9? quella citt\u00e0 credendosi essere sciolta dalla servit\u00f9 de\u2019 suoi\ncittadini e tornata in libert\u00e0, poco appresso fu sottoposta a pi\u00f9 aspro\ngiogo di tirannia, come leggendo innanzi si potr\u00e0 trovare.\nCAP. V.\n_Della materia medesima._\nErano in questo tempo i signori di Milano intenti con tutto loro sforzo\ne studio sopra l\u2019assedio della citt\u00e0 di Mantova, e per\u00f2 il marchese di\nMonferrato and\u00f2 a Pavia con milledugento barbute e quattromila fanti, i\nquali improvviso a\u2019 signori di Milano cavalcarono il Milanese; e posono\nloro campo presso alle porte di Milano; e questo feciono avvisatamente,\nsapendo che gente d\u2019arme non era nella citt\u00e0, e acciocch\u00e8 quelli\ndi Pavia ch\u2019aveano perduto il vino, per l\u2019assedio e per le bastite\nch\u2019aveano avuto addosso, il ricoverassono sopra il contado di Milano,\ne cos\u00ec fu fatto; che stando quella gente a campo come detto \u00e8, frate\nIacopo Bossolaro in persona usc\u00ec di Pavia con tutta la moltitudine del\npopolo, uomini, e femmine, e fanciulli con tutto il carreggio della\ncitt\u00e0 e del contado, e con tutti i somieri e vasella da vendemmiare, e\nmisonsi nelle vigne de\u2019 Milanesi, e in un d\u00ec vendemmiarono e misono in\nPavia diecimila vegge di vino senza alcuno contasto, e catuno n\u2019and\u00f2\ncarico d\u2019uve; e questo avvenne, ch\u2019e\u2019 tiranni sentendosi poche genti\ntemettono di loro persone, e per\u00f2 non vollono uscire della citt\u00e0.\nIl marchese con la sua gente veduta fatta la vendemmia, e \u2019l popolo\nraccolto a salvamento, saviamente lev\u00f2 il campo, e messosi innanzi il\npopolo e la salmeria, del mese d\u2019ottobre del detto anno, sano e salvo\nsi torn\u00f2 in Pavia, con grande vergogna de\u2019 superbi tiranni.\nCAP. VI.\n_Come per pi\u00f9 riprese in diversi tempi fu messo fuoco nelle case della\nBadia di Firenze._\nAvvegnach\u00e8 vergogna sia mettere in nota quello che seguita, tuttavia\npu\u00f2 essere utile per l\u2019esempio il male che seguita della discordia\nde\u2019 religiosi. La Badia di Firenze avea undici monaci in questo tempo\nsenza abate, perocch\u00e8 l\u2019insaziabile avarizia de\u2019 prelati avea questo\nmonistero conferito alla mensa del cardinale che fu vescovo di Firenze,\nmesser Andrea da Todi; costui traeva il frutto, e\u2019 monaci rimanevano\nsenza pastore; e presono a fitto dal cardinale la rendita, che ne\nfece loro buono mercato, per fiorini mille d\u2019oro l\u2019anno, acciocch\u00e8 il\nmonastero si mantenesse a onore. I monaci erano uomini senza scienza\ne di lievi nazioni, e intendea catuno alla propria utilit\u00e0, e del\nmonistero non si curavano, e \u2019l nimico co\u2019 suoi beveraggi gl\u2019inebriava\nper modo, che tra loro era tanta invidia e tanta discordia, che n\u00e8\nd\u00ec n\u00e8 notte vi si potea posare. E come che s\u2019andasse, cominciando di\nquesto mese d\u2019ottobre, in sei mesi appresso quattro volte fu messo\nfuoco nelle case della Badia, e non si pot\u00e8 sapere certamente per cui,\nma da\u2019 monaci della casa per la loro dissensione si tenne per tutti\nche fatto fosse. Il primo d\u00ec d\u2019ottobre arse la sagrestia e le case del\ndormentorio infino alla volta della via del Garbo; e un altro ve ne fu\nmesso poco appresso, che avvedendosene tosto fu spento senza troppo\ndanno, e cos\u00ec un altro dopo quello. E la notte di nostra Donna di\nmarzo ne fu messo uno nella casa di costa al palagio, il quale l\u2019arse\ntutta, e avrebbe arse quelle di san Martino, che l\u2019erano congiunte, se\nnon fosse il gran soccorso, ma molto danneggi\u00f2 le case e\u2019 mercatanti\nlanaiuoli ch\u2019ebbono a sgombrare. Questa malizia bench\u00e8 movesse da\nsingulare persona, tutta si pu\u00f2 dire che procedesse dalla sopraddetta\navarizia de\u2019 maggiori prelati, che per empiere le loro disordinate\nmense levano i pastori alle chiese cattedrali, e per questo le gregge\nsi dispergono, e diventano pasto de\u2019 rapaci lupi.\nCAP. VII.\n_Come la terra di Romena si comper\u00f2 per lo comune di Firenze._\nEra lungo tempo stata questione tra \u2019l conte Bandino di monte Granelli\ne Pietro conte di Romena della terra e della rocca di Romena, e in\nquesti d\u00ec era per compromesso la questione in mano del conte Ruberto\nda Battifolle, il quale si dicea ch\u2019avea aggiudicata, o ch\u2019era per\naggiudicare Romena al conte Bandino contro alla volont\u00e0 del conte\nPiero; per la qual cosa Piero ricorse al comune di Firenze, e con\nmolta sollecitudine e grandi preghiere indusse i collegi, che \u2019l comune\ncomperasse la sua parte di Romena per fiorini tremilacinquecento d\u2019oro;\ne diliberato questo per li collegi, si mise al consiglio del popolo, e\nper due volte si combatt\u00e8 la detta proposta nel consiglio, e perocch\u00e8\nai popolo non piacea l\u2019impresa furono in discordia; in fine i priori\ne\u2019 collegi aoperarono tanto che la proposta si vinse, e fu diliberato\npe\u2019 consigli ch\u2019a Piero conte fossono dati tremilacinquecento fiorini\nd\u2019oro delle ragioni ch\u2019avea in Romena. Ed essendo la terra e la rocca\nnelle mani del conte Bandino, ed egli allora in bando del comune di\nFirenze, il qual bando falsamente gli diede un suo nemico da Calvoli\nquand\u2019era podest\u00e0 di Firenze, ed egli per isdegno, o per altro, non\ns\u2019era procacciato a farlo rivocare, e per questo il comune diliber\u00f2,\no per amore o per forza di volere avere la tenuta delle sue ragioni.\nSentendo Bandino conte l\u2019impresa determinata per lo comune di Firenze\nde\u2019 fatti di Romena, mand\u00f2 per sicurt\u00e0 di potere venire a\u2019 signori,\ne avutala, fece co\u2019 signori raunare i collegi, e in loro presenza\ndisse, come Romena era sua per chiara sentenza, e quella tenea e\npossedea; e sentendo che \u2019l comune avea l\u2019animo di volerla, niuno\nla potea meglio dare di lui, e in grande grazia si tenea di donarla\nal comune di Firenze, di cui si riputava figliuolo e servidore; e\nnon tanto Romena, ma tutte l\u2019altre sue terre volea dare liberamente\nal comune di Firenze, e per lo comune l\u2019avea tenute, e intendea di\ntenere sempre. Le profferte furono tanto libere e graziose, che di\npresente impetr\u00f2 grazia d\u2019essere ribandito, e messo in protezione del\ncomune, e d\u2019essere fatto suo cittadino. E non volendo il comune le sue\nragioni in dono, non pot\u00e8 essere recato a porvi alcuno pregio. Infine i\nsignori con discreto consiglio ordinarono, che al detto Bandino fossono\ndati contanti cinquemila fiorini d\u2019oro, de\u2019 quali e\u2019 si tenne molto\ncontento, e di presente fece liberamente la carta della vendita della\nterra di Romena, e de\u2019 fedeli e di tutta la giurisdizione ch\u2019avea in\nquella, come pochi d\u00ec innanzi avea fatto Piero conte della sua parte, e\na d\u00ec 23 d\u2019ottobre anno detto, per li consigli del comune fu ribandito,\ne fatto cittadino di Firenze, e a d\u00ec 28 del detto mese ebbe contanti\nfiorini cinquemila d\u2019oro, avendo il d\u00ec dinanzi fatta dare la tenuta\ndella terra e della rocca al comune di Firenze. E le carte della detta\ncompera di Romena si feciono per ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio\nnotaio. Da\u2019 detti conti il comune liber\u00f2 i fedeli e feceli contadini,\ne di\u00e8 loro l\u2019estimo e le gabelle come agli altri e la cittadinanza, e\nfeceli popolari; onde molto furono allegri e contenti, e ripararono i\ndifetti del castello.\nCAP. VIII.\n_Come la compagnia di Provenza si sparse per vernare._\nLa compagnia dell\u2019arciprete di Pelagorga, stata lungamente in Provenza,\nera cresciuta in pi\u00f9 di quattromila barbute. Il papa e\u2019 cardinali\naveano cerco con preghiere di farli partire del paese; e non avea\navuto luogo. Ma sapendo come la maggiore parte di quella gente era del\nreame di Francia, impetrarono lettere e comandamento da parte del re di\nFrancia, come si dovessono partire delle terre di Provenza ch\u2019erano del\nre Luigi, il qual\u2019era di suo lignaggio, e congiunto parente. Le lettere\ne \u2019l comandamento furono ubbidite come da prigione, e di presente si\nridussono in pi\u00f9 parti di Provenza per vernare; e cos\u00ec tribolarono\nil verno come la state tutta la provincia. E per questo i Provenzali\nmandarono al re loro signore, che li venisse a soccorrere con forte\nbraccio, altrimenti e\u2019 non potrebbono sostenere.\nCAP. IX.\n_Come la compagnia del conte di Lando fu condotta per i collegati di\nLombardia._\nL\u2019altra compagnia in Italia dimorando in sul terreno di Bologna,\nricettati da messer Giovanni da Oleggio ch\u2019allora era signore, e\nper sicurt\u00e0 di s\u00e8 s\u2019era fatto amico del conte di Lando e degli altri\ncaporali di quella; e com\u2019\u00e8 narrato poco addietro, i signori di Milano\naveano presa la Serraia di Mantova, e fortemente stretta la citt\u00e0\nd\u2019assedio, e quivi faceano ogni punga per vincerla. Gli allegati\nlombardi contro a loro cercavano la difesa, la quale non si potea fare\nsenza gran forza, che lungamente si potesse mantenere: e per\u00f2 diedono\nordine alla moneta che catuno dovesse pagare ogni mese, e fu stribuita\nper questo modo: che Bologna pagasse come detto \u00e8 fiorini dodicimila, e\n\u2019l marchese di Ferrara fiorini ottomila, e\u2019 signori di Mantova fiorini\ntremila, il comune di Pavia fiorini duemila, quelli di Novara duemila,\ni Genovesi coll\u2019aiuto segreto ch\u2019avea il doge loro da\u2019 Pisani fiorini\nquattromila; il signore di Verona allora si stava di mezzo e quello\ndi Padova; il marchese di Monferrato non ebbe a conferire moneta,\nperocch\u2019era capitano in Piemonte, e l\u00e0 facea guerra colla sua gente;\ne trovata la moneta, di presente soldarono la compagnia del conte di\nLando, e del mese d\u2019ottobre sopraddetto la feciono partire d\u2019in sul\nBolognese con pi\u00f9 di tremila barbute e con tutta l\u2019altra ciurma, e\nparte ne misono sul Mantovano, e parte ne mandarono in Vercellese,\naccozzati coll\u2019altra loro masnada. Quello che di ci\u00f2 segu\u00ec appresso al\nsuo tempo racconteremo.\nCAP. X.\n_Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana d\u2019aiuto._\nIl re Luigi, vedendo a mal partito il contado di Provenza, diliber\u00f2\ncol suo consiglio d\u2019andare in persona al primo tempo in Provenza con\ntutto suo sforzo e degli amici, per liberarla dalla compagnia, e per\u00f2\nrichiese tutti i suoi baroni del debito servigio, e ordin\u00f2 d\u2019avere\nmoneta e di fare alcuna armata; e del mese di novembre anno detto mand\u00f2\nper suoi ambasciadori a richiedere i Fiorentini d\u2019aiuto, e tutti gli\naltri comuni di Toscana. Il nostro comune diliber\u00f2 di darli l\u2019insegna\ndel comune con trecento buoni cavalieri in fino ch\u2019avesse cacciata la\ncompagnia di Provenza, gli altri comuni feciono la loro profferta pi\u00f9\nlieve, e chi se ne diliber\u00f2 con altra scusa.\nCAP. XI.\n_Come i Pisani feciono armata per rompere il porto di Talamone._\nAvvedendosi i Pisani ch\u2019e\u2019 Fiorentini per preghiere, n\u00e8 per promesse\nlarghe, n\u00e8 per minacce, n\u00e8 per armata ch\u2019avessono fatta in lega col\ndoge di Genova per impedire la mercatanzia che non andasse a Talamone,\nnon si moveano, e che pertinacemente ne portavano ogni sconcio e ogni\ngravezza, pensarono di volere vincere Talamone per forza, e ardere\nla terra e guastare il porto, e mandaronvi subitamente e per terra e\nper mare a fare quel servigio, avendo armate otto galee e uno legno\nalla guardia che mercatanzia non andasse a Talamone; ed essendo\napparecchiati in mare, s\u2019apparecchiarono di cavalieri e di masnadieri\ne d\u2019argomenti per combattere la terra, e di vittuaglia. I Fiorentini\nsentendo questo, avvisarono i Sanesi, e di presente mandarono per terra\nassai gente da cavallo e da pi\u00e8 e di molti balestrieri a Talamone,\nper potere difendere la terra per mare e dall\u2019oste per terra; i\nSanesi anche vi mandarono loro sforzo. I Pisani vi mandarono l\u2019otto\ngalee e un legno per mare, e mosso la cavalleria e \u2019l popolo pisano\nper terra, sentirono come il loro aguato era scoperto, e come gente\nd\u2019arme da Firenze e da Siena erano andati a Talamone per azzuffarsi\ncon loro, sicch\u00e8 per lo migliore si tornarono addietro; e le galee\nvedendo fornito il porto di cavalieri e di balestrieri, non ardirono\nd\u2019accostarsi alla terra, e stati alquanti d\u00ec sopra il porto, del mese\ndi novembre anno detto lasciarono a Gilio due galee, che ogni navilio\nche venisse a Talamone fosse menato a scaricare a Porto pisano. Per\nquesta cagione i Fiorentini pi\u00f9 accesi contro a\u2019 Pisani per li loro\noltraggi, ordinarono di fare armata in mare, per fare ricredenti i\nPisani della loro arroganza; onde seguitarono assai gran cose, come\nappresso nel suo tempo racconteremo.\nCAP. XII.\n_Come essendo l\u2019oste de\u2019 Visconti a Mantova, parte della compagnia si\nmise in Castro._\nEssendo l\u2019oste de\u2019 signori di Milano stretta a Mantova, e non movendosi\nper la venuta della compagnia, n\u00e8 per la guerra del Piemonte, i\ncollegati mandarono mille barbute e cinquecento masnadieri in sul\ncontado di Milano a un grosso casale che si chiama Castro, sedici\nmiglia di piano presso a Milano, ed entrativi dentro, lo trovarono bene\nfornito da vivere, e di l\u00e0 cavalcarono il paese sino presso a Milano,\nfacendo a\u2019 contadini gran danno, e a\u2019 signori maggior vergogna. L\u2019altra\nparte della compagnia s\u2019accost\u00f2 in Vercellese colla gente del marchese,\ne tolsono a\u2019 signori di Milano parecchi castella: e per questo modo,\nnon potendo levare l\u2019oste da Mantova, guereggiavano i tiranni dove\npotevano. I signori di Milano aontati da\u2019 cavalieri di Castro, ch\u2019erano\npochi, e in su gli occhi loro, di subito gli feciono assediare con\nintenzione che niuno ne campasse, ma d\u2019avergli a man salva, e di\nfargli tutti impendere per la gola, e per\u00f2 non li lasciavano partire.\nMa la cosa ebbe tutto altro fine, come nel suo tempo innanzi si potr\u00e0\ntrovare.\nCAP. XIII.\n_Come la Chiesa di Roma fe\u2019 gravezza a\u2019 cortigiani._\nAvvegnach\u00e8 lieve cosa sia per lo fatto, la disusata e strana materia\nci strigne a fare memoria, come il papa e\u2019 cardinali contro all\u2019usata\nfranchigia della corte di Roma, rompendo quella, per volere riparare\nle citt\u00e0 d\u2019Avignone, e fare guardare la terra per tema della compagnia\ndi Provenza, non volendo toccare i danari di camera, feciono imposta\na\u2019 mercatanti e agli artefici ben grave, e di presente l\u2019esazione.\nE misono la gabella al vino, e un\u2019altra pi\u00f9 grave di fiorini uno per\ntesta d\u2019uomo, e ordinarono gli esattori, e riscossonne parte, ma era\ns\u00ec incomportabile alla minuta gente, che poco and\u00f2 innanzi. L\u2019avarizia\nde\u2019 prelati, e la franchigia rotta a\u2019 cortigiani, fece di questo molto\nmaravigliare ovunque se ne seppe le novelle, e maggiormente, perch\u00e8 la\ncitt\u00e0 \u00e8 della Chiesa. La gabella del vino e altre gravezze rimasono in\npi\u00e8, in poco onore de\u2019 guidatori della citt\u00e0 di Roma\nCAP. XIV.\n_Cominciamento di guerra tra certi comuni in Toscana._\nEra stata, dopo la partita dell\u2019imperadore da Pisa, tutta Toscana in\ntranquillo stato, e alcuna volta in lega tutti e quattro i maggiori\ncomuni, e non si dimostrava alcuna apparenza di cagione di guerra.\nE\u2019 Fiorentini erano fermi di mantenere il porto a Talamone senza\ncominciare guerra, o mostrare che rotta fosse loro da\u2019 Pisani. I\nPerugini trovandosi in prosperit\u00e0, e forti di gente d\u2019armi, non\nostante ch\u2019avessono doppia pace col comune e col signore di Cortona,\nla prima fatta per proprio movimento del loro comune, innanzi a\nquella generale che si fece coll\u2019arcivescovo di Milano, e co\u2019 suoi\ncollegati e aderenti, alla quale prima richiesono il comune di Firenze,\nche entrasse loro mallevadore al comune e al signore di Cortona di\ndiecimila marche d\u2019oro, che manterrebbono la pace lealmente, e \u2019l\ncomune fece un sindaco a potere fare il sodamento e la promessa, e\ncos\u00ec fece; e\u2019 Perugini, istigati da Leggiere d\u2019Andreotto loro grande\ncittadino, il quale promettea di dare loro la terra per trattato\nch\u2019egli avea dentro, di subito del mese di dicembre anno detto,\ncon quattrocento cavalieri e con gran popolo vennero a Cortona, e\nguastaronla intorno, e poi si posono all\u2019Orsaia, e non si trov\u00f2 che\ntrattato vi fosse dentro. L\u2019impresa fu rea, e mossa da gran malizia\nper animo di setta, e non ebbe il fine che s\u2019aspettava per i Perugini,\nma fu cagione di gravi cose in Toscana, come seguendo nostro trattato\ndiviseremo.\nCAP. XV.\n_Di certe novit\u00e0 apparenti contro il soldano d\u2019Egitto._\nAspettandoci alquanto le novit\u00e0 de\u2019 cristiani, ci occorrono di quelle\nde\u2019 saracini; e per meglio intendere le presenti, ci conviene alquanto\ntrarre addietro la nostra materia. Quando mor\u00ec il Saladino, uomo\nvaloroso di virt\u00f9 e di prodezza, e molto temuto e ridottato signore,\ne accrebbe la sua signoria, quando venne a morte lasci\u00f2 quattordici\nfigliuoli maschi, e \u2019l maggiore fu fatto soldano; ma i suoi ammiragli\navendo provato la signoria del padre dura e ridottabile, volendosi\nmaliziosamente provvedere, s\u2019intesono insieme; e come il soldano non\nfaceva a loro senno, l\u2019avvilivano di parole nel cospetto del secondo\nfratello, e prometteano di farlo soldano se consentisse la morte sua;\ne tanto procedettono nella loro malizia, con inducere la vaghezza\ndella signoria ora all\u2019uno fratello e ora all\u2019altro, che in spazio\ndi venti anni gi\u00e0 otto soldani di quelli fratelli avean fatti morire\nl\u2019uno appresso l\u2019altro; e per questo gli ammiragli aveano accresciuto\nloro stato e loro baronie, e abbassato quello del soldano, per modo che\npoco era ubbidito; e nel 1357 de\u2019 quattordici figliuoli del Saladino\nve n\u2019erano rimasi due, l\u2019uno soldano male ubbidito. E per questo\nabbassamento della signoria in questi d\u00ec s\u2019era sommosso un signore de\u2019\nTartari, il quale si disse che s\u2019era convertito alla fede di Cristo per\ncerti frati minori, il quale s\u2019apparecchi\u00f2 con grande esercito di sua\ngente, e con molti cristiani giorgiani, per volere venire a racquistare\nla terra santa; e innanzi mand\u00f2 lettere al soldano comandandoli, che\ndovesse a\u2019 suo saracini fare sgombrare la terra santa. Il soldano\ne\u2019 suoi ammiragli di queste lettere si feciono beffe, e ordinarsi\ndov\u2019e\u2019 venisse di mettersi alla difesa. L\u2019impresa dilat\u00f2 la fama, ma\nil signore, o ch\u2019e\u2019 non fosse in perfetta fede, o in tanta potenza,\nraffreddato dell\u2019impresa non segu\u00ec suo viaggio.\nCAP. XVI.\n_Come il re di Navarra fu tratto di prigione._\nEssendo i trattati della pace e le triegue dal re d\u2019Inghilterra a\u2019\nFranceschi, non ostante ci\u00f2, messer Filippo di Navarra, mostrando\nd\u2019avere accolta gente da s\u00e8, e avea molti Inghilesi in sua compagnia,\nera entrato in Normandia, e facea l\u00e0 e in altre parti del reame pi\u00f9\naspra guerra che mai non aveano fatto gl\u2019Inghilesi, e molto tormentava\ni Franceschi, dicendo, ch\u2019a torto teneano il re suo fratello in\nprigione. E per questa tribolazione del paese, e perch\u00e8 il re avea\namici tra i tre stati che governavano il reame, i prelati, i baroni,\ne\u2019 borgesi ch\u2019erano al governo, feciono sopra ci\u00f2 loro consiglio, e\nmostrarono al popolo come messer Filippo si movea a ragione, perch\u00e8\nil re di Navarra riceveva torto: e in parlamento di gran concordia,\na d\u00ec 28 di novembre anno detto, il trassono di prigione: e in quello\nparlamento e\u2019 si scus\u00f2, e mostrossi innocente, e mostr\u00f2, come ci\u00f2\nche gli era stato fatto era stata operazione del cancelliere, ch\u2019oggi\nera cardinale; e ringrazi\u00f2 il popolo e i tre stati, e segu\u00ec d\u2019essere\nfedele, e fu fatto capitano di guerra.\nCAP. XVII.\n_Come i Perugini dall\u2019una parte e i Cortonesi dall\u2019altra mandarono per\naiuto a Firenze._\nIncontanente ch\u2019e\u2019 Perugini s\u2019avvidono che \u2019l trattato d\u2019avere Cortona\nera stato bugiardo, e pur l\u2019impresa era fatta, mandarono ambasciadori\na\u2019 Fiorentini significando, ch\u2019aveano trovati i Cortonesi in trattato\ndi furare certe loro terre contro a\u2019 patti della pace, e per\u00f2 erano\nvenuti sopra Cortona, e intendeano non partirsene d\u2019assedio, ch\u2019eglino\navrebbono la citt\u00e0 ai loro comandamenti. E molto sfacciatamente, e\ncon grande arroganza, sapendo che \u2019l nostro comune avea promessa e\nsicurata la pace per loro, e\u2019 domandarono aiuto di gente d\u2019arme a\nquello assedio. Dall\u2019altra parte in que\u2019 medesimi d\u00ec, con pi\u00f9 giustizia\ne ragione, erano a\u2019 signori gli ambasciadori de\u2019 Cortonesi e del loro\nsignore, i quali si lamentavano forte de\u2019 Perugini, che senza alcuna\ncagione di subito aveano loro rotta la pace, della quale il comune\ndi Firenze era mallevadore, e domandavano al comune che desse loro\nsolamente l\u2019insegna con cento cavalieri alla guardia della citt\u00e0,\nfacendo chiaro il comune ch\u2019e\u2019 Perugini non aveano ragione, e che\ntrattato per i Cortonesi contro a\u2019 Perugini, o contro alle loro terre,\nnon era pensato non che fatto; e di questo s\u2019offeriano a fare ogni\nchiarezza. Il comune di Firenze, che di natura e d\u2019antica consuetudine\n\u00e8 tardo alle cose, per avere a diliberare con molti consigli, in fine\nordin\u00f2 e mand\u00f2 suoi ambasciadori a Perugia, riprendendo il comune di\nquella impresa non giusta, e pregandoli per l\u2019onore loro medesimo, e\nappresso del comune di Firenze ch\u2019era obbligato, a loro stanza che se\nne dovessono partire; e di ci\u00f2 furono male ubbiditi.\nCAP. XVIII.\n_Come la gente de\u2019 signori di Milano furono sconfitti in Bresciana._\nEssendo tra\u2019 signori di Milano e\u2019 collegati di Lombardia contro a\nloro stretto trattato di concordia, avvenne che duemila barbute della\ncompagnia valicavano per lo Milanese. Messer Bernab\u00f2 Visconti sentendo\nquesto, e temendo d\u2019alcuna sua terra, di presente fece cavalcare messer\nGiovanni da Biseggio suo capitano con millecinquecento cavalieri, e\nappresso lo seguivano mille barbute per soccorso. Messer Giovanni,\nfranco e coraggioso capitano, si mise innanzi senza attendere gli\naltri mille cavalieri, e colla sua brigata s\u2019aggiunse co\u2019 nemici\nin sul Bresciano, e ivi si fed\u00ec tra loro aspramente. Quivi avea di\nbuoni cavalieri, che li riceverono allegramente, ove fu aspra e fiera\nbattaglia. In fine i cavalieri di messer Bernab\u00f2 furono sconfitti,\ne preso il capitano con venti conestabili, e bene quattrocento altri\ncavalieri, e lasciati alla fede, all\u2019usanza tedesca. Trovaronsi morti\nin sul campo tra dell\u2019una parte e dell\u2019altra trecento uomini, i pi\u00f9 de\u2019\nvinti; e questo fu del mese di dicembre anno detto.\nCAP. XIX.\n_Come l\u2019oste del re d\u2019Ungheria prese la citt\u00e0 di Giadra._\nNel settimo libro addietro \u00e8 narrato l\u2019assedio del re d\u2019Ungheria posto\na Giadra, il quale stato lungamente, del mese di dicembre anno detto,\ncoll\u2019aiuto d\u2019alcuno trattato d\u2019entro, si men\u00f2 una cava di fuori in\ncerta parte ov\u2019era l\u2019aiuto d\u2019entro, e in pochi d\u00ec furono fatte cadere\nquaranta braccia di muro; e atati da coloro con cui s\u2019intendeano\ndentro, ebbono l\u2019entrata della citt\u00e0, ed entrati gli Ungheri dentro,\nsenza gran contasto vinsono la terra, e tutta la gente de\u2019 Veneziani\nch\u2019erano alla guardia si raccolsono nel castello, ch\u2019era alla marina\nalquanto scostato dalla terra, fortissimo e ben fornito a ogni gran\ndifesa, e da potere avere soccorso di mare. Questa \u00e8 quella citt\u00e0 che\ntanta guerra ha fatto fare tra \u2019l re d\u2019Ungheria e\u2019 Veneziani, e alla\nquale il re d\u2019Ungheria in persona alcuna volta con centomila cavalieri\n\u00e8 stato all\u2019assedio, e partito se n\u2019\u00e8 con vergogna, e ora cos\u00ec vilmente\n\u00e8 stata vinta. Credo che l\u2019ambiziosa superbia de\u2019 Veneziani per gravi\ndiscipline sia umiliata nel cospetto di Dio, per la qual cosa si pu\u00f2\ncomprendere che Iddio per grazia gli traesse con lieve danno di gran\npericolo e di gravi spese; e bench\u2019elli avessono grande appetito di\npace, tenendo Giadra non la sapeano lasciare, ma ogni omaggio, ogni\ngran quantit\u00e0 di pecunia offeriano per quella; ma il magnanimo re volea\ninnanzi il suo onore, che la pecunia e l\u2019amist\u00e0 de\u2019 Veneziani. Come i\nVeneziani sentirono che la citt\u00e0 di Giadra era tolta loro sbigottirono\nforte, non ostante che tenessono il castello, ch\u2019era di gran fortezza,\ne da poterlo tenere e fornire per mare; ma consideravansi consumati\ndalle spese, e la potenza del re essere sopra le forze loro, e per\u00f2\nsubitamente gli mandarono ambasciadori per volere trattare della\npace con lui. Il re essendo cresciuto in vittoria sopra loro, per\nfarli pi\u00f9 accendere nell\u2019appetito della pace, a questa non li volle\nudire, mostrando animo grave contro al comune di Vinegia per le grandi\ningiurie ricevute da quello, e scrisse in Puglia all\u2019imperadore per\nvolere fare armare galee, e in Lombardia a\u2019 signori suoi amici perch\u00e8\ns\u2019apparecchiassono al suo servigio, ch\u2019egli intendea di venire ad\nassediare Trevigi, e far guerra per terra e per mare a\u2019 suoi nemici\nveneziani. Per questa risposta i Veneziani temettono pi\u00f9 forte, e\nconobbonsi disfatti dentro alle incomportabili gravezze, e di fuori\ndalla gran potenza del re. E per questo diliberarono tra loro ch\u2019ogni\naltra posa era accrescimento a\u2019 loro guai, salvo che la pace, e questa\nprocacciarono, come innanzi a loro tempo racconteremo.\nCAP. XX.\n_Come messer Bernab\u00f2 fece combattere Castro._\nCome poco innanzi narrammo, messer Bernab\u00f2 signore di Milano avea\nlungamente tenuti assediati nel castello di Castro in sul Milanese\nmille cavalieri, e cinquecento masnadieri di quelli della compagnia,\ncon speranza d\u2019averli per forza e di farli impiccare. E avendo fatto\nordinare sua gente alla battaglia, non essendo il castello forte, da\nogni parte il fece assalire con aspra e stretta battaglia; e avvegnach\u00e8\n\u2019l luogo fosse debole alla loro difesa, la necessit\u00e0 di difendere\ncatuno la vita, diede loro smisurata sollecitudine e forza alla difesa,\ne combatterono s\u00ec aspramente contro alla moltitudine de\u2019 loro nemici,\nche per forza gli ributtarono addietro della battaglia, e con danno\ndi molti morti e d\u2019assai magagnati si ritornarono addietro al campo\nloro, ch\u2019era intorno al casale. Avendo l\u2019altra parte della compagnia\nch\u2019era in Vercelli sentito il pericolo de\u2019 loro compagni, mandarono ad\navvisarli della giornata, che verrebbeno col loro sforzo per levarli\ndi l\u00e0, acciocch\u2019elli stessono apparecchiati. E incontanente, improvviso\nalla gente de\u2019 signori di Milano, del mese di dicembre anno detto, con\nduemila barbute bene in concio se ne vennero in sul contado di Milano\ndall\u2019una delle parti del casale: e trovando in concio i loro compagni\nch\u2019erano in Castro, con bella schiera fatta s\u2019uscirono del casale, e\naggiunsonsi co\u2019 loro compagni, per modo che la gente del tiranno non\nebbe ardire di muoversi contro a loro. E in questo modo senza niuno\nassalto si ridussono, con vergogna de\u2019 signori di Milano, sani e salvi\nin Vercellese.\nCAP. XXI.\n_Come si cominci\u00f2 a trattare pace da\u2019 collegati a\u2019 Visconti._\nDibattuta lungamente la guerra tra\u2019 signori di Milano e gli altri\nLombardi collegati, e le cose molto imbarrate da ogni parte, non\nostante che in molte cose la fortuna avesse prosperato gli allegati,\ne vergognata l\u2019altra parte, tant\u2019era la forza de\u2019 signori di Milano di\ndanari e di gente d\u2019arme, che solo sostenendo consumava gli allegati,\ne della perdita delle genti e delle terre piccole non si curavano,\ne continovo ogni mese aveano fornite e ricresciute le loro masnade,\nmostrando maggiore forza l\u2019un d\u00ec che l\u2019altro, tenendo l\u2019oste sopra\nMantova, e facendo cavalcare sopra i Lombardi, tormentandoli dopo le\nsconfitte ricevute pi\u00f9 che prima. Il signore di Mantova, toccandogli la\nguerra pi\u00f9 nel vivo, mand\u00f2 messer Feltrino da Gonzaga a\u2019 collegati per\nriprendere il trattato della pace co\u2019 signori di Milano, e fece dare\nsperanza a\u2019 signori di Milano di dar loro la citt\u00e0 di Reggio, e per\nquesto diedono udienza al trattato del mese di gennaio del detto anno.\nMa innanzi che \u2019l trattato avesse effetto, altre cose avvennono tra\nloro, le quali prima ci verranno a raccontare.\nCAP. XXII.\n_Come i Perugini puosono cinque battifolli a Cortona._\nTornando a\u2019 fatti di Cortona, trovando coloro ch\u2019allora reggevano\nil comune di Perugia, che l\u2019impresa non era stata ben fatta, e ch\u2019e\u2019\nFiorentini glie ne riprendeano, e molti altri loro buoni cittadini, per\nnon avere vergogna dell\u2019impresa, poich\u00e8 fatta l\u2019aveano, e il popolo\nminuto, che allora reggea la citt\u00e0, se ne mostr\u00f2 tanto infocato, che\nincontanente crebbono gente d\u2019arme da pi\u00e8 e da cavallo, per fornire\nil contradio di quello che erano pregati da\u2019 Fiorentini. E gi\u00e0 per\u00f2 i\nFiorentini per troppo amore che portavano a quel comune, e per vergogna\nche ricevessono di loro promessa non vollono tramettersi contro a\u2019\nPerugini per difesa de\u2019 Cortonesi, com\u2019e\u2019 poteano a loro vantaggio,\naltro che con parole, onde da\u2019 savi uomini furono assai biasimati.\nE\u2019 Perugini vedendo che \u2019l comune di Firenze non volea prendere la\nguardia di Cortona, come e\u2019 dovea e potea fare, presono pi\u00f9 baldanza,\ne rinforzarono l\u2019oste di molta gente, e chiusono la citt\u00e0 d\u2019assedio\ncon cinque battifolli, per modo che non vi si poteva entrare n\u00e8 uscire\nsenza grande pericolo; e questo fu all\u2019entrata del mese di gennaio del\ndetto anno. Gli assediati erano male forniti di gente forestiera alla\ndifesa, e a\u2019 cittadini convenia fare la guardia grande di d\u00ec e di notte\nche gli affliggea molto, e questo dava grande speranza a\u2019 Perugini\ndi venire a\u2019 loro intendimenti; e \u2019l signore ne stava in grande\ngelosia, temendo de\u2019 suoi cittadini, ma i cittadini per singolare odio\nche portavano a\u2019 Perugini, temendo di venire alla loro suggezione,\nrassicurarono il signore, e strinsonsi con lui, e ordinarono la guardia\nvolontaria e buona alla difesa della citt\u00e0, e cominciarono a trattare\nde\u2019 loro rimedi.\nCAP. XXIII.\n_Come i Trevigiani furono rotti dagli Ungheri._\nLavorandosi il terreno de\u2019 Trevigiani per gli Ungheri, come gi\u00e0 \u00e8\ndetto, trovandosi in Trevigi una franca masnada di cavalieri e di\nmasnadieri, avendo pensato di fare una grande e utile preda, ed essendo\ni lavoratori pe\u2019 campi sotto la guardia degli Ungheri operando la\nterra senza paura, non temendo de\u2019 Trevigiani, i cavalieri ch\u2019erano\nin Trevigi, con certi Veneziani e Trevigiani a cavallo, e con tutti\ni masnadieri a pi\u00e8, una mattina innanzi al d\u00ec uscirono della terra\ncinquecento cavalieri, e altrettanti masnadieri e gran popolo, e\ncavalcarono il paese, e raccolsono grandissima preda di bestiame grosso\ne minuto, e d\u2019uomini. Gli Ungheri sentirono il romore, e come gente\napparecchiata di loro cavalli e che non s\u2019hanno a vestire arme, di\ntutte le castella d\u2019attorno trassono a pochi e ad assai insieme, e\ncominciarono da ogni parte a impedire colle loro saette i nemici, e\nnon gli lasciavano cavalcare innanzi alla loro ritratta. E tenendoli\nper questo modo, l\u2019altra moltitudine degli Ungheri traeva e cresceva\nloro addosso sempre saettando, uccidendo e fedendo de\u2019 cavalli e\ndegli uomini; e perch\u00e8 contro a loro si movessono i cavalieri, e\u2019 si\nvoltavano, e fuggivano, e ritornavano prestamente. E non valendo a\u2019\nTrevigiani il combattere e \u2019l lanciare, che a mano a mano n\u2019aveano pi\u00f9\naddosso, convenne loro per forza abbandonare la preda, e intendere a\ncampare le persone; ma non lo poterono fare s\u00ec interamente, che de\u2019\nloro non rimanessono trecento tra morti e presi, a cavallo e a pi\u00e8. E\nd\u2019allora innanzi di Trevigi non usc\u00ec pi\u00f9 gente per vantaggio che fosse\nloro mostrato di fuori, e\u2019 Veneziani con pi\u00f9 appetito procacciavano\nl\u2019accordo della pace col re d\u2019Ungheria.\nCAP. XXIV.\n_Cominciamenti di nuovi scandali nella citt\u00e0 di Firenze._\nEra la citt\u00e0 di Firenze in questi tempi in grande tranquillit\u00e0 e pace\ndentro, e di fuori non avea nemici, e con tutti i comuni e signori\nd\u2019Italia era in amicizia, non avendo contro ad alcuno voluto pigliare\nparte, e con tutti quelli ch\u2019aveano guerra travagliatosi della pace,\ne la novit\u00e0 del porto di Talamone non inducea guerra. La citt\u00e0 dentro\nper l\u2019ordine de\u2019 divieti delle famiglie de\u2019 popolani, quando alcuno era\ntratto agli ufici de\u2019 collegi, aveva fatto venire il reggimento del\ncomune in molte genti d\u2019ogni ragione, e \u2019l pi\u00f9 in artefici minuti, e\nin singulari e nuovi cittadini, e a costoro quasi non toccava divieto\nperch\u00e8 non erano di consorteria, sicch\u00e8 frequentemente ritornavano agli\nufici, e\u2019 grandi e potenti cittadini delle gran famiglie vi tornavano\ndi rado. Ancora poca distinzione si faceva per uno comune buono stato\ndegli uomini: e chi era senza vergogna, a\u2019 tempi che s\u2019insaccavano per\nsquittino generale gli uomini all\u2019uficio del priorato, si provvedea\ndinanzi con gli amici, e colle preghiere, e con doni, e con spessi\nconviti; e per questo modo pi\u00f9 indegni e illiciti uomini si ritrovavano\nagli ufici, che virtuosi e degni. Nondimeno la cittadinanza era pi\u00f9\nunita al comune bene, e le sette aveano meno luogo, e i nuovi e piccoli\ncittadini negli ufici non aveano ardire di far male nella infanzia\nde\u2019 loro magistrati. Nondimeno in grande fallo e pericoloso correa\nla repubblica di non riparare a\u2019 manifesti falli che si commettevano\nnegli squittini, come detto \u00e8. Ma certi uomini grandi e popolari\navvedendosi dell\u2019errore del comune, con grave e sagace malizia, e a\nfine reo di divenire tirannelli, s\u2019avvisarono insieme, e quello che\nsi dovea, e potea racconciare con ordine di buona legge e onesta al\nfare degli squittini, convertirono sotto il titolo della parte guelfa,\ndicendo, ch\u2019e\u2019 ghibellini occupavano gli ufici, e che se i guelfi non\nriparassono a questo, poteano pensare di perdere tosto loro stato\ne la franchigia del comune, la cui franchigia mantenea la libert\u00e0\nin Italia. E di vero la parte guelfa \u00e8 fondamento e rocca ferma e\nstabile della libert\u00e0 d\u2019Italia, e contraria a tutte le tirannie, per\nmodo che se alcuno guelfo divien tiranno, convien per forza ch\u2019e\u2019\ndiventi ghibellino, e di ci\u00f2 spesso s\u2019\u00e8 veduta la sperienza; sicch\u00e8\ngrande beneficio del nostro comune \u00e8 a mantenere e accrescere la parte\nguelfa. Costoro, avendo conceputa la malizia, e conferita con certi\ndelle grandi famiglie, dicendo, che quello che intendeano fare sarebbe\nmateria al comune d\u2019abbreviare i divieti, presono conforto e favore\ndi venire alla loro intenzione. E succedendo all\u2019uficio del capitanato\ndella parte de\u2019 caporali che la coperta iniquit\u00e0 aveano conceputa, per\npotere con loro seguito avere a tutti i cittadini guelfi e ghibellini\nil bastone sopra capo, e potere le loro spezialit\u00e0 sotto il detto\nbastone in comune e in diviso adempiere; ed essendo allora per consueto\nordine due cavalieri de\u2019 grandi e due popolani capitani, raccozz\u00f2\nla fortuna certi cittadini grandi e popolari di pessima e iniqua\ncondizione, messer Guelfo Gherardini, messer Geri de\u2019 Pazzi, Tommaso\ndi Serontino Brancacci, Simone di ser Giovanni Siminetti, cittadini\ngrandi e popolari di pessima e iniqua condizione. I grandi astuti e\ncupidi d\u2019uficio, e d\u2019avere poveri, dispetti e detratti degli onori\ndel comune per non sapere usare la virt\u00f9 col senno; gli altri popolari\nerano conferenti a\u2019 grandi nelle predette cose, fuori che negli ufici\nusurpati pi\u00f9 per procaccio che per virt\u00f9. Costoro tutti in concordia\ntraendo non al bisogno, o al beneficio del comune o della parte, ma a\nquel fine che gi\u00e0 \u00e8 detto, ordinarono una petizione, che in sustanza\ncontenne, che quale cittadino o contadino di Firenze, ghibellino o non\nvero guelfo, avesse avuto per addietro, o avesse per innanzi alcuno\nuficio del comune di Firenze, potesse essere accusato palesemente e\noccultamente, non nominando eziandio l\u2019accusatore; e che approvandosi\nl\u2019accusa per sei testimoni di pubblica fama, che l\u2019accusato fesse\nghibellino o non vero guelfo, essendo i testimoni approvati per uomini\ndegni da potere portare testimonianza, per li capitani della parte,\ne per li consoli delle loro arti, dovesse l\u2019accusato e provato, com\u2019\u00e8\ndetto, essere condannato ad arbitrio della signoria ch\u2019avesse l\u2019accusa\ninnanzi, nella testa o in quantit\u00e0 di moneta, ch\u2019almeno fosse libbre\ncinquecento di fiorini piccioli, e rimosso da ogni uficio e onore del\ncomune; e ch\u2019e\u2019 testimoni non potessono essere riprovati di falso.\nE portata l\u2019iniqua petizione per li detti capitani a\u2019 signori e a\u2019\ncollegi, ed esaminata, parendo loro ch\u2019ella fosse iniqua e ingiusta,\nnon la vollono ammettere n\u00e8 diliberare tra loro. Per la qual cosa i\ncapitani gli abominavano contro alla parte, e di loro seguaci raunarono\npi\u00f9 di dugento cittadini scelti a loro modo, e con essi sotto il titolo\ndella difensione di parte guelfa, a cui niuno s\u2019opponeva, andarono\ncon grande baldanza a\u2019 priori e al consiglio, e dissono, ch\u2019e\u2019 non\nsi partirebbono di l\u00e0, che la petizione sarebbe diliberata, e cos\u00ec\nconvenne che si facesse; e vinta fu a d\u00ec 15 di gennaio anno detto.\nE avuta la petizione alla loro malvagia intenzione, di presente si\nracchiusono insieme nel palagio della parte, e per loro squittini\nfeciono capitani, e priori, e consiglieri di parte di loro seguito\nper molti anni, con assai pubblica, sfacciata, e disonesta spezialt\u00e0,\ne sotto falso nome di parte guelfa trovando modo di distruggere e\nd\u2019abbassare il giusto e santo nome di quella, ebbono podere di fare\nogni cosa secondo il loro disordinato appetito. Della qual cosa seguit\u00f2\nsubitamente grande inquietazione del tranquillo e buono stato del\ncomune, e tutti i cittadini disposti a volere fare i fatti loro, e\nnon concorrenti alla sconcia setta, stavano sospesi di loro stato e di\nloro onore: e comune turbazione ne cadde tra\u2019 cittadini, e appresso ne\nseguitarono sconce ingiurie e gravi pericoli alla nostra citt\u00e0, come\nleggendo innanzi pe\u2019 tempi si potr\u00e0 comprendere.\nCAP. XXV.\n_D\u2019un singolare accidente ch\u2019avvenne in questi paesi._\nEssendo dal cominciamento del verno continovato fino al gennaio un\u2019aria\nsottilissima, chiara e serena, e mantenuta senza ravvolgimento di\nnuvoli o di venti, oltre all\u2019usato natural modo, per sperienza del\nfatto si conobbe, che da questa aria venne un\u2019influenza, che poco\nmeno che tutti i corpi umani della citt\u00e0, e del contado e distretto\ndi Firenze, e delle circustanti vicinanze fece infreddare, e durare\nil freddo avvelenato ne\u2019 corpi assai pi\u00f9 lungamente che l\u2019usato modo.\nE per dieta o per altri argomenti ch\u2019e\u2019 medici facessono o sapessono\ntrovare, non poteano avacciare la liberagione, n\u00e8 da quello liberare le\nloro persone, e molti dopo la lunga malattia ne morivano; e vegnendo\nappresso la primavera, molti morirono di subitana morte. Dissesi per\ngli astrolaghi, che fu per influenza di costellazioni, altri per troppa\nsottigliezza d\u2019aria nel tempo della vernata.\nCAP. XXVI.\n_Come in Firenze nacque una fanciulla mostruosa._\nA d\u00ec 4 di febbraio anno detto nacque in Firenze al Poggio de\u2019 Magnoli\nuna fanciulla portata sette mesi nel ventre della madre, la quale avea\nsei dita in ciascuna mano e in catuno piede, e i piedi rivolti in su\nverso le gambe, senza naso, e senza il labbro di sopra, e con quattro\ndenti canini lunghi da ogni parte della bocca due, uno di sopra e uno\ndi sotto; il viso avea tutto piano, e gli occhi senza ciglia: e vivette\ndalla domenica a vespro al luned\u00ec vegnente alla detta ora, e pi\u00f9\nsarebbe vivuta se avesse potuto prendere il latte.\nCAP. XXVII.\n_Come i Sanesi si scopersono nemici de\u2019 Perugini._\nIl comune di Siena aspettando, e vedendo ch\u2019e\u2019 Fiorentini non\nrimoveano i Perugini della impresa di Cortona, avendo il signore di\nCortona singulare amist\u00e0 co\u2019 Sanesi, gli avea richiesti d\u2019aiuto; e\ni Sanesi gravandosi de\u2019 Perugini ch\u2019atavano contro a loro quelli di\nMontepulciano, furono contenti d\u2019avere cagione di atare i Cortonesi. E\nin prima cercarono per pi\u00f9 riprese di mettere masnadieri di furto nella\ncitt\u00e0, e per la sollecita e buona guardia de\u2019 Perugini non venne fatto,\nanzi ne furon presi e morti, ch\u2019aggiunse a\u2019 Sanesi maggiore sdegno. E\ntrovandosi gi\u00e0 scoperti da\u2019 Perugini per queste cavalcate, conobbono\nche in palese conveniva fare l\u2019impresa incominciata, se non ne volevano\nrimanere vituperati. Cercarono in prima avanzare, se fare il potessono,\ne tennero in prima due trattati, l\u2019uno in Chiusi, e l\u2019altro in\nSarteano; e accolta gente a cavallo e a pi\u00e8 cavalcarono prima a Chiusi,\ncredendovisi entrare, ma la guardia v\u2019era buona, sicch\u00e8 i loro amici\nnon ebbono ardire di muoversi, e con vergogna si tornarono addietro.\nAppresso cavalcarono a Sarteano, e anche con disonore, scoperti al\ntutto nemici de\u2019 Perugini, si tornarono in Siena.\nCAP. XXVIII.\n_Come i Sanesi misono cavalieri in Cortona alla guardia._\nFatto questo cominciamento per li Sanesi senza alcuno acquisto,\nintendendosi con gli assediati, sentirono da loro, come tra la bastita\ndella Pieve a quella dall\u2019Orsaia avea gran campo voto in mezzo, per lo\nquale avvisatamente si potea fare passare della gente; incontanente i\nSanesi elessono cento cavalieri ben montati, e cinquanta Ungheri con\nalquanti masnadieri scorti e destri, e con buona condotta li feciono\ncavalcare una notte per modo, che giunti la mattina per tempo al luogo\ntra le due bastite, senz\u2019essere scoperti, stretti insieme si misono a\npassare, e senza ricevere impedimento entrarono in Cortona, ricevuti\ndal signore e da tutti i cittadini a gran festa, come gente ch\u2019aveano\ngran bisogno d\u2019aiuto e di soccorso; e immantinente misono l\u2019insegna del\ncomune di Siena nel cospetto de\u2019 Perugini in sulla torre della porta\nmaestra, e appresso cominciarono a uscire fuori a loro posta, e dare\nnoia e danno a quelli del campo, e a ricevere e a mettere roba nella\ncitt\u00e0, di che eglino aveano bisogno, e massimamente strame e legne,\nche di vittuaglia erano assai bene abbondanti. Per questa novit\u00e0 i\nPerugini si vidono al tutto entrati in guerra co\u2019 Sanesi, e\u2019 Sanesi co\u2019\nPerugini, e per\u00f2 catuno si mise in provvisione; e\u2019 Sanesi con maggiore\nsollecitudine feciono provvisione d\u2019avere danari in comune; ed essendo\nuno Anichino di Bongardo Tedesco fatto capo d\u2019una nuova compagnia che\nsi levava, ed erano gi\u00e0 accolti insieme pi\u00f9 di milledugento barbute,\nmandaronlo a conducere con tutta sua cavalleria. Lasceremo alquanto al\npresente le novit\u00e0 di Toscana per dare parte a quelle di Francia, che\nprima ci offrono con non minore ammirazione di lieve materia sformato\navvenimento.\nCAP. XXIX.\n_La cagione che mosse i borgesi di Parigi a nuovo stato._\nEssendo in alcuna cospirazione segreta di trattato il proposto de\u2019\nmercatanti di Parigi col re di Navarra, favoreggiato occultamente dal\nre d\u2019Inghilterra, prese ardire, e \u2019l caso gli apparecchi\u00f2 la materia\nacconcia al suo proponimento. Uno borgese di Parigi vend\u00e8 al Delfino\ndi Vienna, primogenito del re di Francia, due suoi destrieri, e \u2019l\nDelfino comand\u00f2 a un suo tesoriere che \u2019l pagasse: il borgese and\u00f2\nmolte volte al tesoriere per farsi pagare; il tesoriere il menava per\nparole; e parendo essere al borgese disperato de\u2019 suoi danari, si turb\u00f2\ncol tesoriere, e dissegli, che s\u2019e\u2019 non pagasse, che \u2019l comperrebbe di\nsuo corpo: il tesoriere altiero e presuntuoso non si cur\u00f2 del pagamento\nn\u00e8 delle minacce del borgese. Avvenne, che valicando del mese di\nfebbraio anno detto il tesoriere per una ruga di Parigi, si scontr\u00f2 nel\nborgese, il quale gli attenne la promessa; e ucciselo; e fuggissi in\nfranchigia. La novella corse al Delfino e al suo consiglio; i quali di\npresente a forza il feciono trarre di franchigia; e impenderlo per la\ngola. Per questo il proposto di Parigi montato in furore per lo male\nreggimento del consiglio del Delfino, prese compagnia di certi borgesi\ndi suo seguito, e crebbegli ardimento del favore si sentiva in segreto\ndel re di Navarra, e che comunemente il Delfino e \u2019l suo consiglio\nerano odiati da tutta maniera di gente; e con meno di ottanta borgesi\narmati copertamente, in quel furore se n\u2019and\u00f2 al palagio reale ov\u2019era\nil Delfino e\u2019 suoi consiglieri; e innanzi vi giugnessono, trovarono\nnella via un avvocato ch\u2019era del consiglio del Delfino, e di presente\nl\u2019uccisono; e seguendo loro viaggio, giunsono al palagio; il portiere\nnon volea lasciare entrare altro che \u2019l proposto con pochi, ma entrato\ndentro il proposto con alcuni compagni, costrinsono i portieri, e\nmisono dentro gli altri compagni, e di brigata se n\u2019andarono dov\u2019era\nil Delfino con due de\u2019 suoi consiglieri, per cui pi\u00f9 si reggea e\ngovernava, e l\u2019uno era il conestabile di Chiaramonte, e l\u2019altro il\nconestabile di Campagna; il proposto nella presenza del Delfino li\nfece uccidere a ghiado. Il Delfino impaurito si gitt\u00f2 ginocchione\ninnanzi al proposto, pregandolo che nol facesse morire; il proposto non\nsostenne che egli stesse a basso, ma levollo su facendoli reverenza,\ne dicendo, come l\u2019aveano per loro signore, ma aveano in odio coloro\nche per loro malizia gli davano consigli; e acciocch\u00e8 non fosse offeso\nnel furore della gente gi\u00e0 commossa, li misono in capo un cappuccio di\nloro assisa, e menaronlo con loro in una parte di Parigi che si chiama\nGrieve, e ivi lo feciono giurare che di questo fatto non renderebbe\nloro per alcuno tempo mal merito, e che si reggerebbe per consiglio de\u2019\nborgesi; e fatta la promessa, e fermata col suo saramento, il rimisono\nnel suo primo stato. Divolgata questa cosa per tutta la citt\u00e0 di\nParigi, i borgesi lieti s\u2019allegrarono insieme in gran parte, sommovendo\nl\u2019uno l\u2019altro, e prestavano il saramento come s\u2019ordin\u00f2 per lo rettore,\na mantenere il loro novello stato e la loro usurpata franchigia.\nCAP. XXX.\n_Della pace del re d\u2019Ungheria a\u2019 Veneziani._\nAvendo i Veneziani consumato il tempo della matta foll\u00eda, la quale\na torto aveano sostenuta per molti anni contro al re d\u2019Ungheria con\nmolto loro danno, si disposono di comune consentimento che dal re si\nprocacciasse buona e fedele pace; e per poterla avere, liberamente il\ncomune si rimesse in lui, acconci di fare tutti i suoi comandamenti\ndelle terre d\u2019Istria, e di Schiavonia e di Dalmazia, che per loro\nsi possedeano, e che oltre a questo gli fosse offerto ogni ammenda\ndi danari e d\u2019altre cose ch\u2019alla sua signoria piacesse di volere da\u2019\nVeneziani; e fatti de\u2019 maggiori della loro citt\u00e0 solenni ambasciadori,\ncon pieno mandato alle predette cose li mandarono al re; il quale\nsentendo la liberalit\u00e0 di quel comune, graziosamente li ricevette; e\nudita l\u2019ambasciata, come magnanimo signore, disse, ch\u2019era contento\ndi riavere tutte le terre del suo reame, e che quelle si levassono\nal tutto del titolo del loro doge, sicch\u00e8 mai per innanzi n\u00e8 \u2019l doge\nn\u00e8 \u2019l comune se ne titolasse; e quando questo fosse fatto, intendea\nco\u2019 Veneziani avere buona pace. Ammenda di danari, disse, che non\nvolea, perocch\u2019e\u2019 non era cupido n\u00e8 bisognoso di pecunia, ma volea per\nammenda e per titolo d\u2019amicizia, che quando e\u2019 richiedesse il comune\ndi Vinegia, fosse tenuto di darli armate a sua volont\u00e0 ogni volta\nche le domandasse infino in ventiquattro galee alle spese del re. E\ncome egli divis\u00f2, di buona volont\u00e0 tutto fu accettato, e promesso di\nfare fedelmente per autorit\u00e0 degli ambasciadori, e ferma la pace;\ne incontanente feciono rendere il castello di Giadra, e tutte le\nterre che teneano in Schiavonia, e in Dalmazia e in Istria che al\nre s\u2019apparteneano, e dentro vi misono la gente del re d\u2019Ungheria, e\ndel titolo del doge le levarono tutte; e il re, del mese di febbraio\nanno detto, mand\u00f2 suoi ambasciadori, i quali restituirono al comune\ndi Vinegia Colligrano, e tutte le castella che gli Ungheri teneano\nin Trevigiana, e con grande allegrezza e festa de\u2019 Veneziani feciono\npubblicare e bandire la pace; e fu in patto, che tutti i gentili\nuomini di Trevigiana rimanessono in pace col comune di Vinegia, e\nliberi possessori delle loro tenute e castella. E fatto solenne onore\nagli ambasciadori del re, feciono per loro decreto in consiglio che\ndi niuna materia di guerra si dovesse ragionare, e che catuno si\ndirizzasse al navicare e a fare mercatanzia. Costoro straccati della\nguerra conobbono il beneficio della pace; il nostro comune infastidito\ndi troppo tranquillo stato, cerc\u00f2 materia di grande turbamento della\ncittadinanza, come appresso racconteremo.\nCAP. XXXI.\n_Come da prima in citt\u00e0 di Firenze furono accusati certi cittadini per\nghibellini._\nEssendo entrati nuovi capitani di parte guelfa, messer Simone\nde\u2019 Bardi, e messer Uguccione Buondelmonti, Migliore Guadagni, e\nMassaiozzo Raffacani, e de\u2019 quali non v\u2019era ma\u2019 ma\u2019 uno ch\u2019avesse\nstato in comune, e tutti erano animosi ad accendere e suscitare lo\nscandalo incominciato pe\u2019 loro precessori; e per\u00f2 furono in concordia\ndi cominciare l\u2019esecuzione dell\u2019iniqua legge, e accolsono al palagio\ndella parte certi eletti d\u2019industria, uomini affocati nella volont\u00e0\nd\u2019abbattere i cittadini de\u2019 loro ufici, e de\u2019 loro stati e onori per\ninvidia, sotto titolo di dichiararli ghibellini o non veri guelfi. E\nper adempire la sfrenata volont\u00e0, misono e nominarono per ghibellini\ncatuno cui e\u2019 voleano a\u2019 loro segreti squittini, e ivi furono nominati\ngrandi e popolari di molte case e famiglie delle maggiori, e migliori\ne pi\u00f9 stanti della citt\u00e0 di Firenze, antichi cittadini e amatori del\nloro comune e di parte guelfa: e recati al partito tra cos\u00ec discreto\ncollegio, chiunque aveva pi\u00f9 boci di essere ghibellino, o non vero\nguelfo, insaccavano in cedole, per trarli fuori a parte a parte, e\naccusarli e farli condannare, eziandio che di nazione e d\u2019operazione\nsi trovassono nella verit\u00e0 essere veri e diritti guelfi; e nel primo\nsquittino insaccarono da settanta cittadini di nome e di stato,\ncome detto \u00e8. Dopo questi levato il saggio dell\u2019accuse, dovevano\ninsaccare degli altri, perocch\u00e8 lungamente vi si penava a farli; e\nbollendo gi\u00e0 tutta la citt\u00e0 di questa perversa operazione, e parendo\na catuno buono cittadino male stare, si cominciarono a destare, e a\nrichiedere gli amici, e a pregare i capitani; e i capitani vedendo\nla commozione, cominciarono a tentare, e a reprimersi della loro\nopinione contro a\u2019 potenti, cui gi\u00e0 avevano insaccati per accusare.\nMa per dare cominciamento al fatto, elessono cinque cittadini, de\u2019\nquali pensarono avere minore resistenza; nondimeno accolsono prima\nalla parte d\u2019auzzetti di loro seguito pi\u00f9 di dugento uomini: e formata\nloro accusa di quattro, di cui si poteva alcuna cosa sospicciare\nne\u2019 libri della parte, bench\u00e8 certo non fosse, acciocch\u00e8 \u2019l loro\ncominciamento con alcuno verisimile atasse la corrotta intenzione, a\nd\u00ec otto di marzo andarono i capitani in persona colla compagnia de\u2019\nsopraddetti richiesti al potest\u00e0, e disonestamente, e fuori d\u2019ogni\nconsuetudine, accusarono per ghibellino Neri di Giuntino Alamanni, e\nMannetto Mazzetti, Giovanni di Lapaccio Girolami di porta santa Maria,\ne Giovanni Bianciardi cambiatore: catuno aveva avuti lievi ufici per lo\ntempo passato; ex abrutto gli feciono condannare, e certi altri feciono\nrinunziare all\u2019uficio, in che erano de\u2019 cinque della mercatanzia.\nA niuno pot\u00e8 valere alcuna scusa. E avendo i capitani cominciata in\nparte la loro esecuzione, cominciarono a essere temuti e ridottati\nda tutti i cittadini, e chi non si sentiva ben forte, dava opera con\npreghiere e con servigi, con doni e con danari di riparare alla sua\nfortuna, ch\u2019era nelle mani de\u2019 capitani della parte guelfa. E per\nseguire i detti capitani il loro prospero cominciamento, e sventurato\ne reo alla comunanza, a d\u00ec 5 d\u2019aprile anni 1358, avendo animo di fare\npi\u00f9 e maggiore fascio, ma ristretti dal mormorio del popolo, e della\ninfamia che gi\u00e0 correa di loro, si ristrinsono, e fedirono nel molle,\nlasciando degli squittinati, e facendo ad arbitrio, n\u2019accusarono\naltri otto; ci\u00f2 furono, Domenico di Lapo Bandini, Mazza Ramaglianti,\nCambio Nucci speziale, Giovanni Rizza, Piero di Lippo Bonagrazia,\nIacopo del Vigna, Christofano di Francesco Cosi, e Michele Lapi; e\ntutti gli feciono condannare, senz\u2019essere uditi a ragione, in libbre\ncinquecento per uno. E a d\u00ec 21 del detto mese, avendo fatto nuovo\nsquittino, e avvolti ne\u2019 loro sacelli grandissima quantit\u00e0 di buoni e\ndi cari cittadini, e di quelli delle maggiori case popolari di Firenze\ndi catuno quartiere, ch\u2019a nominarle non sarebbe onesto, ed essendo per\nrivelazione del loro segreto squittino gi\u00e0 noto a tutti, la citt\u00e0 tutta\nsi doleva, e grave infamia si spandea diversamente, non senza scandalo,\nche l\u2019uno biasimava, e l\u2019altro lodava la mala operazione, ma in genero\ntutti i buoni uomini guelfi biasimavano la legge sopra ci\u00f2 fatta, e\nla esecuzione che ne seguitava; e per questo abbassarono ancora la\nloro furia i capitani. Ma volendo pur fare male, anche rifedirono\nnel molle: e lasciandoli squittinati, ciascuno accus\u00f2 il suo cui e\u2019\nvolle: ed essendo senza colpa d\u2019aver preso uficio, e da potersi con\ngiustizia difendere, feciono condannare Niccol\u00f2 di Bartolo del Buono,\nSimone Bertini, Sandro de\u2019 Portinari, e Giovanni Mattei. Lasceremo\nora addietro alcune altre cose che prima occorsono che quello ch\u2019al\npresente seguita, per congiugnere a questa materia alcuna temperanza\ndi rimedio fatto per bene, che poi s\u2019us\u00f2 in male, com\u2019\u00e8 usanza, non del\ncomune, ma degl\u2019iniqui cittadini.\nCAP. XXXII.\n_Come a\u2019 capitani della parte furono aggiunti due compagnia_\nAl presente occorre a scrivere cosa incredibile e vera. Questa\nnuova seduzione dell\u2019iniqua legge fatta sotto il titolo della parte,\ngeneralmente spiacea a tutti i buoni e cari cittadini, veri e diritti\nguelfi, e pi\u00f9 la sconcia esecuzione che se ne facea, e tutti diceano,\nche a ci\u00f2 si mettesse consiglio e rimedio, ch\u2019e\u2019 cittadini non\nvivessono in tanta sospiccione di loro stato. Molti consigli se ne\nteneano, e niuno modo vi sapeano trovare, per non dirogare al nome\ndella parte; e coloro che entravano agli ufici de\u2019 collegi, e agli\naltri maggiori, ch\u2019erano pi\u00f9 sospetti, coloro erano quelli che pi\u00f9\nparlavano, e che pi\u00f9 si mostravano zelanti a mantenere la legge e la\nsua esecuzione insino che la pietra cadeva sopra loro. Ma vedendo il\ngenero de\u2019 cittadini essere caduti sprovvedutamente sotto il giogo\ndella malvagia legge, e non potendovi per via diretta riparare, e\nvedendo cos\u00ec i guelfi come i ghibellini, ma troppo pi\u00f9 i guelfi, che\nl\u2019onore e lo stato potea essere tolto a catuno, quando a tre uomini\ncapitani di parte paresse, e conoscendo che tutti i pi\u00f9 malivoli uomini\ndi Firenze erano poco dinanzi stati insaccati per capitani, priori e\nconsiglieri di parte senza alcuno divieto, per riparare in parte, ove\nnon si potea riparare in tutto, a tanto male, i priori ch\u2019erano allora,\ndi subito e segretamente ordinarono co\u2019 loro collegi una petizione,\ne fu di presente vinta in consiglio, che a\u2019 capitani di parte guelfa\ns\u2019aggiugnessono due popolani, e che niuna cosa si potesse diliberare\nper li capitani, se tre popolari non fossono in concordia; e dove i\ngrandi doveano essere cavalieri, s\u2019allarg\u00f2 ad ogni grande, acciocch\u00e8\nl\u2019uficio non continovasse in pochi grandi; e misono a tutti divieto un\nanno, e che gli squittini della parte si dovessono rifare di nuovo, e\nannullare tutti i fatti; e questa riformagione fu ferma per li consigli\na d\u00ec 24 d\u2019aprile 1358. E avvegnach\u00e8 questo non fosse opportuno rimedio,\nfu alcuno freno all\u2019ordinato male, e molti per questo intervallo ebbono\ntempo da potere rimediare a\u2019 fatti loro; nondimeno coloro ch\u2019aveano\nl\u2019animo e la mente sollicita a rimanere col bastone della parte, per\npotere premere gli altri cittadini, argomentarono a nuovi squittin\u00ec,\ne in questo e in altre cose feciono tanto, ch\u2019ogni uficio accresceva\nnuovo scandalo nella cittadinanza, come leggendo per li tempi si potr\u00e0\ntrovare.\nCAP. XXXIII.\n_Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere Cortona._\nTornando a\u2019 fatti di Cortona, i Sanesi ch\u2019aveano presa la difesa, e\nsoldata la compagnia d\u2019Anichino in Lombardia, e fattala valicare a\nSiena, e con alquanti loro soldati, a d\u00ec 18 del mese di marzo 1357,\nuscirono fuori con milleottocento barbute, e con gran popolo di soldo\ne del loro contado per andare a soccorrere Cortona, ch\u2019era al tutto\ncircondata e stretta da\u2019 battifolli de\u2019 Perugini; e andaronsene in\nsu quello di Montepulciano, e ivi stettono quattro d\u00ec. E in questo\ntempo i Perugini per recarsi pi\u00f9 al sicuro, sentendosi presso l\u2019oste\nde\u2019 Sanesi, arsono il battifolle da Camuccia; e quelli di Cortona,\nsentendosi presso il soccorso, e ch\u2019e\u2019 Perugini per tema aveano\narsa la bastita da Camuccia, presono ardire, e subitamente popolo e\ncavalieri uscirono di Cortona, e assalirono il battifolle ch\u2019era ad\nAlti sopra la citt\u00e0, e quello combatterono s\u00ec aspramente, che per forza\nil vinsono, e molti de\u2019 difenditori uccisono e presono, gli altri\nsi salvarono fuggendo al battifolle di Mezzacosta, e all\u2019Orsaia. In\nquesti medesimi d\u00ec messer Andrea Salimbeni, che guardava la rocca di\nCastiglioncello oltre al Noro, avea promesso di darla a\u2019 Perugini per\nfiorini tredicimila d\u2019oro, i Perugini vi cavalcarono, e per lo trattato\nentrarono nel castello; il traditore per paura de\u2019 consorti, o per\naltra provvisione de\u2019 Sanesi, non volle dare la rocca a\u2019 Perugini,\nonde poco appresso se ne partirono, e\u2019 Sanesi ne presono la guardia, e\ntrassonla di mano a messer Andrea.\nCAP. XXXIV.\n_Come si lev\u00f2 l\u2019oste da Cortona._\nI capitani dell\u2019oste de\u2019 Sanesi avendo fatto vista di valicare a\nCortona contro all\u2019oste de\u2019 Perugini per la via dall\u2019Olmo d\u2019Arezzo,\navendo innanzi segretamente provveduto loro cammino, subitamente si\nmisono per lo contado d\u2019Orvieto, e cavalcando sollecitamente, prima\nfurono al ponte Cavaliere in sulle Chiane di l\u00e0 dal Castello della\nPieve ed ebbonlo passato, ch\u2019e\u2019 Perugini se n\u2019avvedessono; ed entrati\nin su quello di Perugia, entrarono senza contasto in uno castelletto\nde\u2019 Perugini chiamato Piegaia; e nel borgo arsono alquante case, e\nvalicarono innanzi alle taverne di Bertuccio, e di l\u00e0 se ne vennono\na Panicale sopra il lago; e bench\u00e8 potessono fare assai danno per lo\npaese, se ne temperarono, per non accrescere materia di maggiore odio\nco\u2019 Perugini. Essendo l\u2019oste de\u2019 Sanesi appressata, senza mezzo delle\nChiane o di fiumari, e bene in concio per combattere, e\u2019 Perugini mal\nprovveduti da riceverli alla battaglia e alla loro difensione, presono\npartito di partirsi dall\u2019assedio di Cortona per lo meno reo; e in\nquella notte fortificarono il battifolle da Mezzacosta, e arrosonvi\ngente alla guardia, e tutti gli altri battifolli abbandonarono,\ne partironsi da campo popolo e cavalieri assai vergognosamente, e\nridussonsi in certe loro castella pi\u00f9 vicine. La gente de\u2019 Sanesi\nscesono la mattina in sul piano del lago, e colle schiere fatte se ne\nvennono all\u2019Orsaia, e non trovandovi i nemici, si posarono quivi il\nsabato santo a d\u00ec 30 di marzo 1358, e in Cortona misono quella gente\na cavallo e a pi\u00e8 che vollono con ogni altro fornimento compiutamente;\ne appresso il d\u00ec della Pasqua si tornarono all\u2019Olmo, e appresso se ne\nvennero a Torrita in su il loro terreno, sani e salvi senza alcuno\ncontasto. E per questo modo fu libera Cortona dall\u2019arroganza de\u2019\nPerugini per le mani de\u2019 Sanesi.\nCAP. XXXV.\n_Di novit\u00e0 di Perugia per detta cagione._\nVenuta la novella a Perugia come la loro oste con vergogna s\u2019era\nlevata, e Cortona s\u2019era fornita, il popolo si lev\u00f2 a romore e presono\nl\u2019arme, e averebbono morto Leggiere d\u2019Andreotto loro cittadino,\ne motore di questa guerra e capitano dell\u2019oste, perch\u2019egli avea\nabbandonato a\u2019 Sanesi il campo dall\u2019Orsaia, se non ch\u2019e\u2019 si part\u00ec,\ne cess\u00f2 il furore; e racquetato il bollore, egli, come molto pratico\ne astuto, fece mostrare a\u2019 rettori del comune, come per lo migliore\ns\u2019erano ridotti in pi\u00f9 salvo luogo; e andando di notte ad alcuni suoi\nconfidenti de\u2019 rettori, tanto adorn\u00f2 sue parole, che le sapea ben dire,\ne tanta suasione fece di larghe promesse da s\u00e8 e da\u2019 conestabili de\u2019\ncavalieri di far tosto la vendetta, e di recare onore al comune de\u2019\nloro nemici, che fu rimandato nell\u2019oste da capo con pi\u00f9 cavalieri,\ne con maggiore forza di masnadieri e d\u2019altro popolo. E per fornire\nquesto, atandoli lo sdegno gi\u00e0 conceputo de\u2019 Perugini contro a\u2019 Sanesi,\ncatuno si sforz\u00f2 a servire il comune di danari, e accolta gente d\u2019arme,\nchiamarono per capitano di guerra Smeduccio da Sanseverino, con grande\nanimo di volersi vendicare de\u2019 Sanesi. Lasceremo alquanto questa\nmateria de\u2019 due comuni, che catuno si provvede, e diremo dell\u2019altre\ncose che prima ci occorrono a raccontare.\nCAP. XXXVI.\n_Di una gran festa fe\u2019 bandire il re d\u2019Inghilterra._\nIl re Adoardo d\u2019Inghilterra avendo fatta concordia, e lasciato di\nprigione il re David di Scozia suo cognato, si pens\u00f2 di volere fare\npace col re di Francia, la quale avesse principale movimento dalla\nsua persona. E per fare questo, fece bandire in Francia, in Fiandra,\nin Brabante, in Irlanda, nella Magna, in Iscozia e altri reami, una\nsolenne festa di cavalieri della Tavola rotonda alla Sangiorgio\nd\u2019aprile del detto anno; facendo ogni maniera di gente sicura in\nsuo reame, e offerendo arme, cavalli, e arnesi a ogni cavaliere che\nalla festa venisse, e appresso le spese a chi fare non le potesse; e\nancora a tutta gente d\u2019arme per loro, e chi per loro servigi venisse,\nogni cosa che loro bisognasse per loro vita, e per far prove di loro\ncavallerie. Perch\u00e8 molta gente, udito il bando, si mise in assetto per\nesservi al tempo, chi per mostrare di sua virt\u00f9, chi per vedere.\nCAP. XXXVII.\n_Come l\u2019armata del comune di Firenze venne a Porto pisano._\nAddietro narrato avemo il malvagio movimento de\u2019 Pisani per levare\nla franchigia a\u2019 Fiorentini di loro mercatanzie, e come per la\ndetta cagione i Fiorentini del tutto partirono da Pisa, e gli altri\nmercatanti forestieri che con loro trafficavano, aveano fatto porto\ne Talamone; e come i Pisani per levare il detto porto, con favore\ndi messer Simone Boccanegra doge di Genova amico de\u2019 Pisani, perch\u00e8\nl\u2019aveano ricevuto e favoreggiato quando fu sposto doge, con otto galee\nimpedivano il mare, il perch\u00e8 mercatanzie n\u00e8 uscire n\u00e8 entrare poteano\nin Talamone. I Fiorentini di ci\u00f2 aontati pativano disagio e dannaggio,\npiuttosto che riconciliarsi co\u2019 Pisani, essendo di ci\u00f2 richiesti\ne per li Pisani e per lo detto doge di Genova a loro richiesta,\nofferendo ogni franchigia e ogni vantaggio ch\u2019e\u2019 Fiorentini volessono\ndomandare. Onde seguit\u00f2, che i Fiorentini pertinacemente seguitando, e\nperseverando nel loro proponimento, non avendo al gran costo rispetto\nma all\u2019onore del comune, segretamente feciono armare in Provenza dieci\ngalee, e quattro nel Regno, le quali dieci galee, a d\u00ec 18 del mese\ndi marzo detto anno, si mossono di Provenza cariche, e se ne vennono\nlevate l\u2019insegne del comune di Firenze in Porto pisano, e ivi stettono\nper alquanti giorni, facendo fare la grida sotto piccolo nolo, che chi\nvolesse mandare mercatanzie a Talamone in sulle galee del comune di\nFirenze le potesse sicuramente caricare, e \u2019l simile feciono in Foce;\ne d\u2019indi si partirono, e scaricarono a Talamone; onde molte barche\ne legni v\u2019apportarono con roba d\u2019ogni parte, vedendo il mare sicuro.\nLe quattro galee del Regno in questi medesimi d\u00ec vennono da Napoli, e\nincontrarono una galea e uno legno di Pisani cariche di mercatanzia\nch\u2019andavano a Corneto, e presonle, e fecionle scaricare a Talamone\nsenza fare loro altro danno; d\u2019indi se n\u2019andarono a Porto pisano per\nlo modo dell\u2019altre, e appresso in Provenza a caricare. Appresso di\nquesto i Fiorentini lungamente ritennero cinque galee provenzali, che\nstettono a guardia del mare il pi\u00f9 sopra Porto pisano, sicch\u00e8 ogni\nlegno e ogni barca liberamente caricava a Talamone. I Pisani avendo\nfatta la loro pruova, e rimasi beffati di loro pensiero, con loro usata\nastuzia mandarono il bando, che ogni uomo potesse liberamente navicare\na Talamone colle sue mercatanzie; n\u00e8 gi\u00e0 per questo i Fiorentini non\nlasciarono le loro galee della guardia. Avemo questa materia forse\npi\u00f9 stesa che non richieda al fatto del nostro trattato, ma la novit\u00e0\ndel fatto ci scusi; s\u00ec perch\u00e8 \u00e8 la prima armata che mai nostro comune\nfacesse in mare, e s\u00ec per mostrare il fermo proponimento del nostro\ncomune; il quale n\u00e8 la disordinata spesa, che in poco tempo pass\u00f2 i\nsessantamila fiorini, n\u00e8 danno, n\u00e8 sconcio di mercatanti, n\u00e8 le grandi\nprofferte de\u2019 Pisani e d\u2019altri per loro, muovere di sua perseveranza\npoterono. L\u2019animo del nostro comune si vide netto e intero per fare de\u2019\nloro errori ricredenti i Pisani, dimostrando, che senza loro e il loro\nporto i Fiorentini potevano fare; e appresso conobbono, che niuna altra\nguerra tanto danno e abbassamento poteva loro fare, quanto quella che\nsi cominciava a praticare: ancora perch\u00e8 sottilmente cercando, quanto\nallo stato de\u2019 detti due comuni, la materia ha pi\u00f9 dentro che non\nmostra di fuori, e per\u00f2 pensiamo d\u2019essere scusati se di ci\u00f2 avessimo\nsoperchio parlato.\nCAP. XXXVIII.\n_Come il popolo di Parigi cominci\u00f2 scandalo._\nIl governamento del reame di Francia, come \u00e8 detto addietro, era\nridotto a tre stati, cio\u00e8 prelati, baroni, e borgesi, i quali tenevano\nil consiglio, e diliberavano quello voleano che nel reame si facesse,\ne il Delfino vi consentiva. Durando il detto ordine, del mese di\nmarzo detto anno, avendo il proposto di Parigi con suoi confidenti\npresa baldanza dell\u2019abbacinato popolo per lo tagliamento fatto de\u2019\nconsiglieri del Delfino, avendo nel suo segreto il trattato col re di\nNavarra, si sforzava con astuzia mostrare a\u2019 borgesi di Parigi, che per\nquesti fatti s\u2019intendea pi\u00f9 a singulare profitto che a comune bene, e\nche la pace e l\u2019accordo del re d\u2019Inghilterra se ne dilungava, e che il\nre loro signore n\u2019era tradito. E sotto questo dimostramento col favore\ndel popolo ruppe quell\u2019ordine, e rec\u00f2 il governamento di Parigi alle\nmani de\u2019 borgesi, schiudendone prima i baroni, e poscia i prelati.\nE per esempio di costoro cos\u00ec feciono l\u2019altre ville di Piccardia, ed\naltre provincie del reame. E qui cominci\u00f2 l\u2019odio da\u2019 gentili uomini al\npopolo, che poi fece grande novit\u00e0 nel reame, come appresso si potr\u00e0\ntrovare. Il Delfino di ci\u00f2 mal contento, e non potendo riparare, si\npart\u00ec da Parigi, e andossene ad Orliense.\nCAP. XXXIX.\n_Come i Perugini tornarono a oste a Cortona._\nTornando alla nuova guerra de\u2019 Perugini e\u2019 Sanesi, ed essendo molto\nfaticato il comune di Firenze per suoi ambasciadori a Perugia per\nmettere accordo e pace tra loro, disponendosi i Sanesi liberamente\nalla volont\u00e0 del comune di Firenze, i Perugini per loro alterigia mai\nsi vollono dichinare ad alcuno accordo, parendo loro ch\u2019e\u2019 Sanesi gli\navessono troppo oltraggiati; non volendosi ricordare dell\u2019ingiuria\nloro fatta di Montepulciano, e d\u2019altre cose ond\u2019eglino aveano assai\nvillaneggiati i Sanesi, e per\u00f2 ne\u2019 loro consigli usarono atti e\nparole non belle contro gli ambasciadori del comune di Firenze, non\nlasciandogli dire, sufolando, e picchiando le panche quando faceano\nloro diceria; e nella citt\u00e0 i loro famigli udivano ontose e vituperose\nparole sovente dall\u2019indiscreto popolo minuto. Ma per l\u2019affezione\nch\u2019aveva il nostro comune a quello, e al mettere pace tra\u2019 suoi\nvicini, ogni cosa faceva dolcemente comportare. E stando ne\u2019 detti\nragionamenti male intesi, i Perugini accolsono gente d\u2019arme e tornarono\na Cortona, e fortificato ch\u2019ebbono e rinfrescato l\u2019assedio, a d\u00ec 8\nd\u2019aprile valicarono in su quello di Montepulciano con milleottocento\nbarbute e grande popolo, e posono loro campo a Greggiano. I Sanesi\ncon loro cavalleria si stavano in Torrita con milleseicento barbute,\ne masnadieri e popolo assai, e nella terra e nelle circustanze assai\nerano sicuri, se poca provvedenza e matta baldanza non li avesse\nsconci, come appresso diviseremo.\nCAP. XL.\n_Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia._\nParendo, come detto \u00e8, a\u2019 Perugini avere ricevuto vergogna e oltraggio\nda\u2019 Sanesi, per vendicare loro onta li mandarono a richiedere di\nbattaglia: e per avventura Anichino di Bongardo capitano de\u2019 Tedeschi\nfu il primo richiesto, il quale allora era nel borgo di Torrita. Esso\nvanaglorioso prosuntuosamente fe\u2019 tantosto sonare li stromenti, e con\ngran festa prese il guanto della battaglia di suo proprio, facendo doni\nal messaggio. Ma dopo il fatto s\u2019avvide che troppo avea fallato di non\navere di s\u00ec gran fatto preso consiglio co\u2019 cittadini di Siena, ch\u2019erano\nconducitori dell\u2019oste e suoi consiglieri, e per\u00f2 ritenne il messo,\ned entr\u00f2 nella terra dov\u2019erano i suoi compagni, e loro disse quello\nch\u2019avea fatto. Ai Sanesi molto dispiacque, conoscendo il pericolo;\ne per ricoprire il fallo del loro capitano, feciono aggiugnere alla\nrisposta, che il giorno fosse fra gli otto d\u00ec che seguivano. I Perugini\navendo questa risposta, e sapendo il modo che per lo capitano prima\nera stato tenuto, e appresso per lo consiglio, compresono chiaramente\nch\u2019elli non erano acconci a torre battaglia, onde diliberarono di\ntrarsi innanzi, e richiederli colle schiere fatte in vergogna di\nloro avversari: e ci\u00f2 facendo, senza prendere battaglia, pensavano\navere purgata loro vergogna, e tornarsene addietro; stimando, che con\nloro onore poi, mediante il comune di Firenze, si potesse venire a\nconcordia e a pace. Ma forse la superbia dell\u2019uno popolo, e l\u2019arroganza\ndell\u2019altro e presunzione, non avea merito d\u2019avere riposo; usc\u00ec\nl\u2019impresa ad altra fine che per loro non si stimava.\nCAP. XLI.\n_Come furono sconfitti i Sanesi da\u2019 Perugini._\nCome detto \u00e8, il seguente d\u00ec a di 10 del mese d\u2019aprile detto anno, i\nPerugini, come saviamente aveano diliberato e provveduto, si partirono\nda Greggiano, dirizzandosi con tre schiere fatte di loro verso Turrita,\ne strinsonsi infino a pi\u00e8 della terra nel piano, e cominciarono a\ntrombare e richiedere i nemici di battaglia. I Sanesi vedendo i loro\nnemici venire baldanzosi colle schiere fatte n\u2019ebbono sospetto, e per\nnon avere quella vergogna, presono consiglio d\u2019armarsi, e d\u2019uscire\nfuori del castello a loro vantaggio in luogo ch\u2019e\u2019 non potessono essere\nsforzati, e ivi starsi, e rendere suono per suono, e per parole parole\nsenza combattere, non pensando potere essere tratti a battaglia per la\nfortezza del luogo, e per le spalle della terra. Ma non sono nell\u2019uomo\nle vie sue, ma nella provvidenza di Dio, la quale sovente dispone\noltre agl\u2019ingegni e consigli degli uomini; e cos\u00ec avvenne a questi\ndue popoli, e a ciascuno fuori di sua opinione o pensiero. Perocch\u2019e\u2019\nSanesi fidandosi, come \u00e8 detto, della fortezza del luogo e delle spalle\ndella terra, uscirono fuori all\u2019inviluppata, e con poco ordine, e senza\nil loro capitano Anichino di Bongardo, il quale, o per sdegno preso\ndella folle accettagione da\u2019 Sanesi non esaudita, o per altra pazzia,\no malizia, co\u2019 suoi Tedeschi non prendea arme. Intanto da quaranta\ncavalieri scorridori di quelli de\u2019 Sanesi si misono di costa in su\nun collicello, ch\u2019era in mezzo tra l\u2019una e l\u2019altra oste, per vedere\ncon loro sicurt\u00e0 il reggimento de\u2019 nemici loro; e ci\u00f2 veduto per li\nPerugini, si mossono di loro schiera circa a cento cavalieri, e per\ntraverso giunsono sopra i detti scorridori de\u2019 Sanesi, e loro quasi\nimprovviso assalirono; perch\u00e8 non potendo sostenere il soperchio, si\nritrassono alla schiera. Gli Ungheri arditi e vogliosi gli seguitarono,\ne tanto avanti trascorsono, che a salvamento ritrarre non si poterono;\ne\u2019 Perugini non vedendo senza grande pericolo poterli soccorere, gli\navevano posti per abbandonati, ma il loro capitano disse: Facciamci\ninnanzi colle schiere, sicch\u00e8 s\u2019e\u2019 si vogliono raccogliere noi li\npossiamo pi\u00f9 da presso ricevere; e cos\u00ec seguette. I Sanesi vedendo\nmuovere le schiere verso loro, non avendo pensiere di combattere, e\ntemendo di non esservi recati per forza, non essendo con loro Anichino\ncolla sua gente, volsono le insegne, e tornaronsi in Torrita. I\nPerugini veggendo che sconciamente e per vilt\u00e0 si partivano, montarono\nin ardire, e misonsi innanzi; e non trovando contasto, in fino alle\nbarre del borgo di Torrita giunsono baldanzosi, e cominciarono con\ngrande romore ad assalire il borgo. Veggendo ci\u00f2 Anichino, colla sua\ngente disordinatamente si mise di fuori tra\u2019 nemici, e di presente fu\npreso col maliscalco dell\u2019oste e con cinquanta altri cavalieri, perch\u00e8\ndi tradimento mala boce li corse. Preso il capitano e la sua gente\nfuori del borgo, e rotta, i Perugini assalirono il borgo; e scesi molti\ncavalieri de\u2019 loro a piede, e trovando al riparo lieve contasto, per\nforza lo presono; e pi\u00f9 avanti passando messer Cagnuolo da Coreggio\nsoldato de\u2019 Perugini con sessanta cavalieri per entrare nel castello,\ni Sanesi uscirono per costa, e tutti a man salva li presono. Allora\nsi ritrassono i Perugini e rubarono e arsono il borgo, e tornaronsi\nco\u2019 prigioni, e colla preda e colla non pensata vittoria a Greggiano,\nportandone bandiere assai de\u2019 conestabili ch\u2019aveano trovate negli\nalberghi. Nella detta battaglia non ebbe oltre a cento uomini morti tra\ndall\u2019una parte e dall\u2019altra, ma assai cavalli morti e fediti, e pi\u00f9 di\nquelli de\u2019 Perugini. I Sanesi rotti vilissimamente, venendo la notte,\ndistribuirono i cavalieri alla guardia delle loro terre, e scrissono al\ncomune loro, che se di subito non s\u2019avesse gente nuova al riparo, che\nil loro contado sarebbe arso e guasto da\u2019 Perugini.\nCAP. XLII.\n_Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta._\nI Sanesi udita la mala novella gran dolore ne presono, s\u00ec per la\nvergogna, e s\u00ec perch\u00e8 credendosi avere pace co\u2019 novelli nemici loro,\nper l\u2019arroto oltraggiati, si vedevano nella guerra rifermi, e sentivano\nch\u2019e\u2019 Perugini per loro crescere vergogna erano per venire infino alle\nloro porte, e non vedeano ci\u00f2 potere vietare; che perch\u00e8 il comune di\nFirenze avesse d\u2019ogni parte suoi ambasciadori, misurato mezzo trovare\nnon vi poteano, per la disordinata superbia e dell\u2019uno e dell\u2019altro\ncomune, onde si disposono di fare danari per diversi modi, quanti pi\u00f9\nne potessono ragunare, e feciono ambasciadori a\u2019 signori di Milano, e\nmandarono alla compagnia ch\u2019era in Lombardia per conducerla contro a\u2019\nPerugini, e aspettando questo, si ritennono alla guardia delle loro\nterre murate, e sgombrarono il contado. I Fiorentini non poterono\nritenere i Perugini, ch\u2019e\u2019 non volessono per loro arroganza, sentendosi\nil favore della fortuna, ed essendo nel caldo della vittoria, andare\ninfino alle porte di Siena, come appresso racconteremo.\nCAP. XLIII.\n_Come i conti da Montedoglio presono e perderono il Borgo._\nSentendo i conti di Montedoglio, che la maggior parte degli uomini\ndel Borgo a Sansepolcro erano andati in aiuto de\u2019 Perugini, e che\nper tanto, la terra era rimasa sfornita di gente da guardia, avvisato\nloro tempo, nel quale si credettono agevolmente prendere la terra e\nrecarla alla loro signoria, a d\u00ec 5 del mese d\u2019aprile detto anno, dato\nordine d\u2019avere gente di soccorso alla loro impresa, cominciarono con\nnumero di seicento fanti, co\u2019 quali si misono nella terra, e la corsono\nsenza contasto, e in parte rubarono. I terrazzani spauriti per lo\nsubito assalto si ridussono nel cassero, e prestamente a\u2019 loro amici\ne vicini il fatto feciono assapere, domandando soccorso, e nell\u2019oste\nde\u2019 Perugini loro stato feciono sentire; onde i castellani v\u2019andarono\ndi presente per comune con tutta loro possa, ed ebbono l\u2019entrata per\nlo cassero. I conti conoscendosi impotenti a potere tenere la terra\ncontro a tanti e tali nemici gi\u00e0 venuti al soccorso, e a quello che\nsperavano che tosto dovesse potere venire, senza indugio di tempo, non\ns\u2019affidarono di fare lunga dimoranza nella terra, ma l\u2019abbandonarono\nil secondo d\u00ec che presa l\u2019aveano, portandosene quelle cose sottili che\npoterono, e ci\u00f2 non senza danno della codazza di loro gente, che ne fu\nmorta e presa.\nCAP. XLIV.\n_Come il re d\u2019Inghilterra and\u00f2 a vicitare il re di Francia, e\nannunziarli la pace._\nA d\u00ec 14 d\u2019aprile, essendo bandita la gran festa che il re d\u2019Inghilterra\ndovea fare alla Sangiorgio, il re mand\u00f2 innanzi a Guindifora, ov\u2019era\nprigione il re di Francia, e \u2019l figliuolo, e altri baroni di Francia,\nmesser Lionello suo figliuolo a dirli, che il re suo padre volea\nvenire a fare con lui colezione. Il re di Francia il ricevette a gran\nfesta, e tennelo la mattina con seco a desinare; appresso mangiare\nil re d\u2019Inghilterra fu l\u00e0, e il re di Francia gli si fece incontro,\ne ricevettonsi insieme con molta reverenza, e dopo molta contesa di\nmettere innanzi, e onorare l\u2019uno l\u2019altro, il re di Francia lo prese di\npari, e andarono a bere insieme con gran festa e allegrezza; di che\nuno ministriere festeggiando disse: Mala morte possa fare chi di voi\nsturba la pace: il re d\u2019Inghilterra rispose al motto, che gi\u00e0 per lui\nnon rimarrebbe, e che coll\u2019aiuto di Dio tra loro sarebbe buona pace; e\ninvit\u00f2 il re di Francia alla festa ch\u2019avea ordinata alla Sangiorgio,\ne il re di Francia accett\u00f2, e fece suo sforzo per potervi comparire\nmagnificamente come a lui s\u2019appartenea; dopo ci\u00f2 il re d\u2019Inghilterra\npreso il congio si torn\u00f2 al suo ostiere.\nCAP. XLV.\n_Come i Tarlati si feciono accomandati de\u2019 Perugini._\nMontata la pompa de\u2019 Perugini per la nuova vittoria, segretamente\nteneano trattato co\u2019 Tarlati d\u2019Arezzo, e ricevutigli in loro protezione\ne accomandigia con mala intenzione, pensando coll\u2019aiuto de\u2019 segreti\namici, e per furto e per ingegno rimetterli in Arezzo per averne la\nsignoria, senza scoprirsi contro a\u2019 Fiorentini, cadendo il bisogno\ndel borgo come \u00e8 detto, e richiesti furono i Tarlati da\u2019 Perugini,\ned elli s\u2019apparecchiarono prestamente con tutta loro forza d\u2019andare\na soccorrere la terra: non fu bisogno; perocch\u00e8 i castellani, come di\nsopra dicemmo, aveano fatto il servigio, e liberata la terra. Allora\nsi scoperse, e fu palese che i Perugini senza richiesta de\u2019 guelfi\ndi Toscana, o consiglio, s\u2019erano collegati co\u2019 Tarlati, e gli aveano\nricevuti loro accomandati, e promesso di rimetterli in Arezzo, onde\ni Fiorentini e gli Aretini forte se ne turbarono, e cominciossi a\nfare in Arezzo di d\u00ec e di notte buona e sollecita guardia coll\u2019aiuto\ne consiglio de\u2019 Fiorentini, sicch\u00e8 cortesemente fu rotta la speranza\na\u2019 Perugini e a\u2019 Tarlati di rivolgere lo stato d\u2019Arezzo. Nel quale\ntrattato non si trov\u00f2 messer Luzzi figliuolo naturale di messer Piero\nSaccone, il quale per sdegno ch\u2019avea co\u2019 suoi consorti s\u2019accost\u00f2 a\u2019\nSanesi, e non volle essere co\u2019 Perugini, e apertamente si mescol\u00f2 nella\nguerra contro a loro.\nCAP. XLVI.\n_D\u2019una folgore percosse il campanile de\u2019 frati predicatori di Firenze._\nNel detto anno, a d\u00ec 20 d\u2019aprile, nell\u2019ora quasi di mezza notte, il\ntempo ch\u2019era sereno si turb\u00f2 con disordinata e subita pioggia, e una\nfolgore percosse nella punta del campanile de\u2019 frati predicatori,\ndov\u2019era un agnolo di marmo di statura in altezza di quattro braccia\ncon grandi alie di ferro, il quale volgea sopra una grossa stanga\ndi ferro, mostrando col braccio steso il segno de\u2019 venti, la quale\nfigura in molte parti spezz\u00f2, e la stanga volta in arco volse con\nuna gran corteccia del campanile, e assai di lontano gitt\u00f2 le pietre,\nspargendole: e discesa nella maggiore cappella in pi\u00f9 parti la incese,\ne abbronz\u00f2 le figure, e il simile f\u00e8 nel dormentorio senza far danno a\npersona, vituperando le cose pompose. Stimossi per molti che ci\u00f2 non\nfosse senza singolare dimostramento d\u2019occulto giudicio, considerato\nche i frati del detto luogo disordinatamente passando l\u2019umilt\u00e0 della\nregola loro data da san Domenico, i loro chiostri e\u2019 dormentori sono\npomposi, vezzosamente intendendo alle delicatezze e piaceri temporali.\nE di ci\u00f2 accorgendosi il venerabile maestro Piero degli Strozzi del\ndetto ordine, uomo di santa vita, considerando che ne\u2019 suoi giorni tre\nvolte il detto caso era avvenuto, non volle che figura niuna pi\u00f9 si\nponesse nel detto luogo, ma arm\u00f2 la vetta del campanile contro la forza\ndelle folgori con reliquie sante. Continovando alla predetta materia,\nle simili cose ne\u2019 detti giorni occorsero infino al mese di luglio, che\nspesso cadde grandine sformata nel nostro contado, e nell\u2019altre parti\ndella Toscana e della Romagna con grandissimi danni di frutti, e di\nbestiame e d\u2019alquante persone: nel nostro contado cadde in grandezza di\ndue tanti d\u2019un uovo di gallina: altrove udimmo che cadde vie maggiore.\nCAP. XLVII.\n_Della pomposa festa che si f\u00e8 in Inghilterra in Londra._\nAvendo il valoroso Adoardo re d\u2019Inghilterra promessa pace al re di\nFrancia, come di sopra dicemmo, e ordinato alla Sangiorgio d\u2019aprile\nla solenne e vana festa de\u2019 cavalieri erranti alla citt\u00e0 di Londra,\ngrandissima quantit\u00e0 di baroni, e di cavalieri, e di nobili uomini\nd\u2019arme del reame s\u2019accolsono per essere alla festa. I baroni come\nmeglio poterono, ciascuno bene montato, e con nobili armadure e\nsopravveste, e insegne vaghe e maravigliose, e le donne vestite di\nricchi drappi, e ornate di ghirlande, fermagli e cinture di perle\ne d\u2019altre pietre preziose di gran valuta, ciascuna come meglio\npot\u00e8. Nella citt\u00e0 di Londra era per tutto apparecchiato a ricevere\ni forestieri onoratamente, ciascuno secondo il grado suo. Quivi\nrinnovellandosi l\u2019antiche favole della Tavola rotonda, furono fatti\nventiquattro cavalieri erranti, i quali seguendo i fallaci romanzi\nche della vecchia parlano, richiedeano, ed erano richiesti di giostra\ne battaglia per amore di donna. E intorno alla piazza erano levati\nincastellamenti di legname con panche da sedere, coperti di ricchi\ndrappi a oro, e forniti di dietro di ricche spalliere, dove il re e le\nreine e altre nobili dame stavano a vedere; e davanti al re veniano\ndame e cavalieri con finti e composti richiami di gravi oltraggi,\ne differenti l\u2019uno dall\u2019altro, domandando l\u2019ammenda del misfatto, o\nbattaglia, e il re discernea la giostra, e quale era vinto perdeva\nsua dama: le quali facevano alle loro giostre cavalcare, quasi come\npresente premio di colui che vincesse: le conquistate erano di presente\nmenate a corte, e assegnate alla reina come gaggio del vincitore: e\naltre molte cose simili a queste vane e pompose, e piene di tante\ninveccerie, che forse a Dio ne dispiacque. Le mense furono poste\nornatissime, vezzose e dilicate, con molte e varie vivande. Alle prime\nmense fu posto sopra tutte quella della reina vecchia d\u2019Inghilterra,\nappresso quella del re di Francia, alla quale cinque figliuoli del re\nd\u2019Inghilterra servirono in su grandi destrieri; e il re d\u2019Inghilterra\nmedesimo, ch\u2019era all\u2019altra tavola con quello di Scozia, alcuna volta\nsi lev\u00f2 dalla mensa, e and\u00f2 a vicitare quella del re di Francia.\nQuesta solennit\u00e0 di festa si copr\u00ec sotto il titolo della pace, e per\ntanto alcuna scusa ricevette della disordinata burbanza e vanit\u00e0.\nE nota lettore, che le parole del savio che dicono, gli estremi\ndell\u2019allegrezza sono occupati dal pianto, si verificarono nel re\nd\u2019Inghilterra, a cui la moria, che poco appresso seguette, tolse i\nfigliuoli con molto dolore e tristizia.\nCAP. XLVIII.\n_Come i Perugini cavalcarono i Sanesi fino alle porti di Siena._\nSmeduccio da Sanseverino della Marca, nuovo capitano di guerra de\u2019\nPerugini, come giunse nell\u2019oste, di presente con duemila cavalieri\ne con gran numero di gente da pi\u00e8 si dirizz\u00f2 verso Chianciano, e lo\ncombatterono, e arsone i borghi. Appresso entrarono in Valdorcia, e\narsono Bonconvento, e corsono infino al Bagno a Vignoni, facendo danni\nassai maggiori in vista che in fatto, ardendo di rado allora capanne\ne altre vili e disutili cose, e a d\u00ec 29 di aprile cavalcarono verso\nSiena, e passate le forche assai di presso a Siena fermarono il campo;\ne coll\u2019usate burbanze toscane alquanti cittadini di Perugia ivi si\nfeciono cavalieri, e\u2019 loro scorridori passarono infino a porta nuova:\nnella quale per matta baldanza entrarono due di loro, de\u2019 quali l\u2019uno\nvi fu morto, e l\u2019altro rimase prigione. Sopraggiugnendo la sera, co\u2019\nprigioni che presi aveano in numero di centocinquanta si ritrassono a\nIsola, e il seguente d\u00ec ripigliarono la via d\u2019Asciano, e si ritornarono\na Perugia: per la qual cavalcata lo sdegno oltre a modo a\u2019 Sanesi\ncrebbe, di che ne segu\u00ec quanto appresso diviseremo. \u00c8 vero, che come\nuso di guerra sovente dimostra, i Perugini non ebbono netta del tutto\nl\u2019avventurosa vittoria, perocch\u00e8 sentendo il signore di Cortona che\ntutto lo sforzo da cavallo e da pi\u00e8 era cavalcato a oltraggiare i\nSanesi, veggendosi libero il tempo da potere danneggiare i nemici, nol\nvolle perdere, e con dugento cavalieri mand\u00f2 il popolo di Cortona,\ne assai danno feciono intorno a Castiglionaretino e a Montecchio, e\narsono presso al lago la Valdecchio; e correndo infino all\u2019Orsaia,\npresono due de\u2019 cavalieri novelli de\u2019 Perugini, che per quella via poco\naccortamente si tornavano a casa, e a salvamento si tornarono a Cortona\ncon molta preda, e circa a dugento prigioni. La preda e il danno\nfu grande, perch\u00e8 avendo a vile i Cortonesi, con baldanzosa sicurt\u00e0\nsprovveduti furono sopraggiunti.\nCAP. XLIX.\n_Come il legato del papa ripuose l\u2019assedio a Forl\u00ec._\nL\u2019ultimo d\u00ec del detto mese d\u2019aprile, l\u2019abate di Clugn\u00ec legato del\npapa, avendo accolta molta gente d\u2019arme, fece bandire, che qualunque\ncittadino o forestiere volesse uscire di Forl\u00ec, sarebbe ricevuto\nbenignamente da lui e dalla sua gente, e perdonatogli l\u2019offesa di\nsanta Chiesa, e ricomunicato. Per la qual cosa molti per pi\u00f9 riprese\nse ne fuggirono al legato, e assai volte quelli che v\u2019erano messi alle\nguardie delle mura se ne collavano a terra, e fuggivansi la notte a\u2019\nnemici. Il legato vi si ripuose ad assedio con grandissimo popolo, e\ncon mille cavalieri al cominciamento. Il capitano e\u2019 suoi cittadini\npazzi di lui disperatamente, senza volere prendere accordo, attaccarsi\nalla pertinacia e alla durezza, disponendo di tenersi alle difese con\ngrandissimo loro affanno e disagio.\nCAP. L.\n_Come i Provenzali feciono compagnia per vendicarsi di quelli dal\nBalzo._\nEssendo molto assottigliata la compagnia di Provenza, i gentili\nuomini, ch\u2019aveano lungamente ricevuto danno ne\u2019 loro paesi, avendo\npreso sdegno sopra la casa del Balzo, e sopra quelli del Delfinato che\nl\u2019aveano mantenuta loro addosso, si raunarono insieme pi\u00f9 di ottocento\ncavalieri, e corsono sopra le terre di quelli del Balzo, e guastarono\ndi fuori, e nel Delfinato feciono alcuno danno. E se il re Luigi avesse\nvalicato di l\u00e0, com\u2019avea promesso loro, avrebbono fatte assai maggiori\ncose.\nCAP. LI.\n_Come si pubblic\u00f2 la pace de\u2019 due re._\nFinita la pomposa e vana festa del re d\u2019Inghilterra fatta a Londra,\ndella quale di sopra abbiamo fatta menzione, poco appresso, a d\u00ec 8 del\nmese di maggio, il re di Francia e quello d\u2019Inghilterra in pubblico\nparlamento feciono pace insieme, e abbracciaronsi e baciarono in\nbocca: e dissesi, che per buona concordia e buona pace il re di Francia\nlasciava al re d\u2019Inghilterra la contea di Aghemme, e la Normandia, e la\ncontea di Guinisi, con Galese e le terre che \u2019l re d\u2019Inghilterra avea\nacquistate, e che il re di Francia, in fra la festa di tutti i Santi\nmilletrecentosessantotto, dovea avere dati al re d\u2019Inghilterra seicento\nmigliaia di scudi vecchi, e il re Adoardo dovea con tutto suo sforzo\nriporre il re di Francia in signoria di suo reame. Onde ci\u00f2 seguendo\nper fornire l\u2019impresa, il re di Francia mand\u00f2 messer Giovanni conte\ndi Pittieri suo minore figliuolo, il quale era stato preso con lui in\nLinguadoca, a procacciare la moneta, con patto ch\u2019alla festa di santo\nDionigi dovesse tornare, e rimanere per stadico a Bologna sul mare,\ntanto che l\u2019altre promessioni e convegne fossono fornite.\nCAP. LII.\n_Come il legato del papa pose due bastite a Forl\u00ec._\nDi questo mese di maggio, vedendo il legato la durezza del capitano\ndi Forl\u00ec e del popolo di quella citt\u00e0, che per niuno modo si disviava\ndal volere del capitano di Forl\u00ec, acciocch\u2019e\u2019 s\u2019avvedessono, che senza\nabbandonare l\u2019assedio la state e \u2019l verno, il legato era fermo di\nvincerli per forza, pose tra Faenza e Forl\u00ec una grande e forte bastita,\nove mise quella gente a cavallo e a pi\u00e8 che bisognava, per tenere da\nquella parte stretta e assediata la citt\u00e0 di Forl\u00ec; e appresso ne pose\nun\u2019altra tra Forl\u00ec e Cesena al ponte a Ronco; e nondimeno il campo\nsuo con l\u2019altra oste pose presso alla citt\u00e0, e continovamente cercava\nd\u2019assalire la terra il d\u00ec e la notte. E di tutto questo non parea che\n\u2019l capitano e\u2019 Forlivesi si curassono niente, ma spesso il capitano\ncolla giovanaglia di Forl\u00ec usciva della terra, e assaliva il campo, e\nritornavasi contamente a salvamento.\nCAP. LIII.\n_Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo._\nLungamente era durato lo sdegno che il duca di Durazzo avea portato\ncontro al re Luigi, parendoli male essere trattato da lui; e per questo\nmodo guerra si nutric\u00f2 nel Regno per la compagnia, e poi per lo conte\nPaladino, e per gli altri baroni che teneano la parte del duca, di\nche il Regno era per tutto mal disposto, e\u2019 ladroni multiplicavano,\ne non v\u2019era paese n\u00e8 strada che sicura fosse. Avvenne, che morto il\nconte Paladino e \u2019l fratello, i baroni cercarono di fare la pace tra\u2019\nreali, e il gran siniscalco sopra tutti v\u2019adoper\u00f2 tanto, che gli rec\u00f2\na buona pace. E del mese di maggio 1358 con gran festa, con tutti i\nbaroni e gentili uomini di Napoli, desinarono insieme al vescovado,\ne cavalcarono per tutta la terra insieme. E incontanente s\u2019ordin\u00f2 e\nband\u00ec, che tutti i forestieri uomini d\u2019arme si dovessono partire del\nreame, e cominciossi a venire rassicurando il paese.\nCAP. LIV.\n_Come si part\u00ec la compagnia di Provenza._\nAbbiamo innanzi narrato, come il re Luigi era costretto d\u2019andare\nin Provenza per difenderla dalla compagnia che lungamente l\u2019avea\ntribolata, e avea richiesti i baroni d\u2019aiuto e i comuni di Toscana, e\ncatuno s\u2019apparecchiava di servirlo ove andasse la sua persona. Avvenne,\nche per le ribellioni che le comuni di Francia avevano fatte contro al\nDelfino duca di Normandia, primogenito del re di Francia, e contro agli\naltri baroni e gentili uomini del paese, i baroni col Delfino furono\ncostretti di fare gente d\u2019arme per la loro difesa, e per offendere le\ncomunanze. E perocch\u00e8 la compagnia era nutricata e creata al suo caldo\ne degli altri baroni, per averli presti al bisogno, e mantenerli alle\nspese de\u2019 Provenzali di qua dal Rodano; a questo bisogno chi mand\u00f2 per\nl\u2019una parte e chi per l\u2019altra: e cos\u00ec si part\u00ec di Provenza una parte\ndella detta compagnia. E il re Luigi per questa cagione, e perch\u00e8 mal\nvolentieri si partiva del Regno, sostenne l\u2019andata di Provenza.\nCAP. LV.\n_Come i signori di Milano posono l\u2019assedio a Pavia._\nI signori di Milano, per la grande entrata ch\u2019aveano di loro terre in\nque\u2019 tempi erano di gran podere, sicch\u00e8 perch\u00e8 alcuna volta perdessono\nloro gente d\u2019arme, di presente per la forza del danaro erano riforniti\ndi nuovo, e possenti a tornare in campo meglio che prima. E per\u00f2 non\nostante ch\u2019avessono l\u2019oste grande sopra Mantova, e fornissono contro al\nmarchese di Monferrato la guerra di Novara e di Vercelli, essendo la\ncompagnia del conte di Lando, come detto avemo, in aiuto a\u2019 Lombardi\ncollegati, feciono di nuovo grande oste, e andarono a porre l\u2019assedio\nalla citt\u00e0 di Pavia del mese di maggio, ove aveano pi\u00f9 di duemila\ncavalieri e pedoni, e popolo assai per questi assedi. E per mantenere\nle grandi spese consumavano le forze de\u2019 collegati, non ostante che\nspesso negli assalti la loro gente ricevessono danno e vergogna;\ne ci\u00f2 addiveniva, perch\u00e8 i loro soldati tedeschi aveano ricetto,\ne parte di loro cavalcatori nella compagnia, sicch\u00e8 contro a loro\nnon si combatteano lealmente, per non disfare la detta compagnia; e\navvedutisi i signori di Milano per pi\u00f9 volte di questo, e trovatisi con\ndiecimila cavalieri a loro soldo, e mille di quelli della compagnia gli\ncavalcavano presso a Milano, non ostante ch\u2019avessono vantaggio contro\na\u2019 loro avversari, per questa cagione cominciarono a dare gli orecchi\nal trattato della pace, la quale poi si forn\u00ec, come al suo tempo\nracconteremo.\nCAP. LVI.\n_Come i Perugini afforzarono l\u2019Orsaia._\nDi questo mese d\u2019agosto, i Perugini per potere con meno gente d\u2019arme\ne con minore spesa mantenere l\u2019assedio a Cortona, cominciarono ad\nafforzare di mura e di fossi l\u2019Orsaia per farvi una terra nuova, sicch\u00e8\nil verno come la state potessono tenere assediati i Cortonesi dal\nlato del piano. I Cortonesi per questo poco si curavano, perocch\u00e8 la\nmontagna era in loro bal\u00eda, e aveano gente a cavallo e a pi\u00e8 che spesso\nfaceano risentire i loro nemici.\nCAP. LVII.\n_Come si fece la pace da\u2019 signori di Milano a\u2019 collegati._\nQuasi per spazio di tre anni era continovata la guerra da\u2019 signori di\nMilano a\u2019 collegati Lombardi, nella quale erano i signori di Mantova,\ndi Ferrara, e di Bologna, e il marchese di Monferrato, Genova, e Pavia;\nnelle quali battaglie, ribellioni e presure d\u2019assai citt\u00e0 e castella\nerano fatte, com\u2019addietro abbiamo narrato, con vari avvenimenti di\nguerra e di fortuna e d\u2019una e d\u2019altra parte; e come che la possanza de\u2019\nsignori di Milano fosse grandissima, pure aveano perdute la maggior\nparte delle terre che tenere soleano nel Piemonte, e Novara, Como,\nPavia, e Genova, e Savona, e con la Riviera e di levante e di ponente,\ne molte altre castella in quelli paesi; ma tutto che queste terre\nfossono loro tolte, per loro entrata e potenza conduceano gente d\u2019arme,\ne nuove osti faceano, avendo pi\u00f9 forza l\u2019un d\u00ec che l\u2019altro, almeno\nin apparenza. Per le quali cose i collegati straccati dalle gravezze\ndelle spese incomportabili a loro, con gran pericolo e pena sosteneano\nla guerra, avendo nel segreto grande appetito di pace; dall\u2019altra\nparte i signori di Milano s\u2019erano trovati pi\u00f9 volte ingannati dalla\ngente d\u2019arme di lingua tedesca, che avendo essi forza di novemila in\ndiecimila cavalieri, mille o duemila barbute della compagnia per pi\u00f9\nriprese, come mostrato abbiamo, correano infino alle porte di Milano,\ne stavano a oste nel loro contado, e non trovavano Tedeschi che contro\na loro facessono resistenza, che tutti teneano parte nella compagnia,\ne i cassi da\u2019 soldi entravano in quella, e per questa cagione\ns\u2019aveano vedute rubellare molte terre; per la qual cosa anche eglino\ndesideravano concordia. Onde essendo mezzano e sollicitatore della pace\nmesser Feltrino da Gonzaga de\u2019 signori di Mantova, la pace si forn\u00ec,\ne palesossi per tutto all\u2019uscita del mese di maggio, gli anni 1358,\ncon certi patti e convegne che poco vennono a dire, come appresso si\ndimostr\u00f2 per lo fine.\nCAP. LVIII.\n_Come s\u2019abbatt\u00e8 i palazzi di quelli di Beccheria._\nEssendo cacciati da Pavia quelli della casa di Beccheria, come a\nverno addietro narrato, frate Iacopo Bossolaro fece sua predicazione,\nalla quale s\u2019adun\u00f2 tutto il popolo di Pavia uomini e donne; e con\nbelle e ornate parole mostr\u00f2, che non era bastevole avere cacciati di\nPavia i tiranni, se a loro non si togliesse la speranza del tornare,\nla quale loro durerebbe mentre che le loro case e\u2019 palagi fossono\nin pi\u00e8; e che per tanto a lui necessario parea d\u2019abbatterli, e fare\npiazza del sito dov\u2019erano. Fornita la predica, tutto il popolo si\nmosse, e volonterosamente corse ad abbattere le dette case e palagi:\ne in picciolo tempo non vi lasciarono pietra sopra pietra, che non\nportassono via; e il luogo recarono a piazza, secondo che il frate\npredicando avea consigliato. E fu ci\u00f2 cosa mirabile, che tutti, maschi\ne femmine, piccoli e grandi vi furono per maestri e manovali, e a modo\ndelle formiche ciascuno ne port\u00f2 via la parte sua.\nCAP. LIX.\n_Di molte paci e altre cose notevoli fatte._\nGli antichi Romani al tempo del popolo gentile aveano un tempio nella\ncitt\u00e0 consacrato a Giano, il quale nel loro errore faceano Iddio\ndell\u2019anno. E per tanto il primo mese dell\u2019anno a questo loro Iddio\nera consacrato, e da lui era denominato Gianuaro, che noi volgarmente\nappelliamo Gennaio. Questo tempio di Giano, quando stava aperto era\nsegno di guerra, e quando stava chiuso era segno di pace. Di che\ntornando alle favole antiche, e all\u2019usanze antiche della magnificenza\nromana, questo nostro anno dire si potrebbe quello della pace: perch\u00e8\nin esso fu fatta e fermata la pace dal re d\u2019Inghilterra al re di\nScozia, e lasciato fu di prigione il re David, che carcerato il tenea\nquello d\u2019Inghilterra. Ancora si f\u00e8 la concordia dal re di Spagna al\nre d\u2019Araona, e quella dal re d\u2019Inghilterra al re di Francia, il quale\nera suo prigione, bench\u00e8 per li patti rimanesse sospesa. E fecesi la\npace dal comune di Vinegia al re d\u2019Ungheria; e quella de\u2019 signori e\ntiranni di Lombardia, che di sopra avemo raccontata; e quella dal re\nLuigi al duca di Durazzo; e quella da\u2019 Perugini a\u2019 Sanesi. E pi\u00f9 ad\naumento di pace in questo anno fu abbondanza di tutti i frutti della\nterra. \u00c8 vero, che furono nel verno malattie di freddo, e nella state\nmolte febbri terzane, e semplici e doppie, sicch\u00e8 se gli uomini fer\npace delle loro guerre, non dimanco gli elementi per li peccati sconci\ndegli uomini loro fecero guerra. Nella quale fu da notare, che come\nl\u2019anno passato la Valdelsa, e il Chianti, e il Valdarno furono di molte\ninfermitadi gravate e morie, che cos\u00ec nel presente, che fu mirabile\ncosa. E perch\u00e8 per queste paci fossono liete molte provincie, il reame\ndi Francia in questi giorni ebbe grandi e gravi commozioni di popoli\ncontro a\u2019 gentili uomini, che molto guastarono il paese, e tre gran\ncompagnie di gente d\u2019arme settentrionali conturbarono forte Italia\ne la Provenza. Il perch\u00e8 appare, che universale pace non pu\u00f2 essere\nnel mondo, come fu al tempo che \u2019l figliuolo di Dio umana carne della\nVergine prese.\nCAP. LX.\n_Come la compagnia del conte di Lando venne in Romagna._\nIncontanente che la pace de\u2019 Lombardi fu fatta, la compagnia del conte\ndi Lando, ch\u2019era stata contro a\u2019 signori di Milano per condotta de\u2019\ncollegati, com\u2019addietro abbiamo narrato, si part\u00ec di quei paesi; e\nall\u2019uscita del mese di giugno, avendo per tutto il passo aperto, e\nla vittuaglia da\u2019 paesani, con licenza del signore di Bologna se ne\nvennono a Budrio in sul Bolognese; e ivi stettono alquanto di tempo\nprendendo loro rinfrescamento, dando di loro usati aguati e improvvisi\nassalti assai di tema a tutti i Toscani, e al legato del papa in\nRomagna, e cos\u00ec al Regno, aspettando in quel luogo civanza di condotta,\ne danari da chi con loro si volesse patteggiare e comporre.\nCAP. LXI.\n_Come il re Luigi riebbe il castello di Parma._\nNarreremo in questo capitolo cosa che non pare degna di memoria, n\u00e8\ncerto \u00e8, se non in, tanto per quanto per essa si pu\u00f2 dimostrare la\ndebolezza in que\u2019 giorni del famoso reame di Puglia. Certi ladroni e\nrubatori di strade nel detto regno in questi giorni faceano compagnia,\ne aveano preso per loro ridotto un castelletto tra Serni e Castello\nda mare che si chiama Parma: e ivi s\u2019erano adunati, e rubavano le\nstrade e\u2019 paesi che da loro non si volieno rimedire. E aveano gi\u00e0\ntanto fatto, che circa a centoventi di loro erano montati a cavallo,\ne armati a guisa di cavalieri, e spesso correano fino a Napoli, e per\nTerra di Lavoro; e maggiore guerra e danno faceano a\u2019 paesani, che\nquelli della gran compagnia quand\u2019erano nel Regno, perocch\u2019e\u2019 sapeano\ni passi e le vie del paese, e conoscevano i massari e\u2019 paesani da cui\nsi poteva trarre il danaro. E cos\u00ec teneano in mala ventura e angoscia\ntutto il paese, che niuno osava andare per cammini senza buona scorta.\nE per questa cagione il re fece gente d\u2019arme, e ristrinseli nel detto\ncastello, e assediolli: e in fine vedendo i detti ladroni che non\npoteano tenere il castello, l\u2019abbandonarono, e fuggirsi del paese, e\nil re riprese la terra, e la forn\u00ec di sua gente; perch\u00e8 alquanto ne\nmiglior\u00f2 la sicurt\u00e0 delle strade e de\u2019 cammini.\nCAP. LXII.\n_De\u2019 fatti di Siena della loro guerra._\nLi Sanesi avendo veduto non rotte le loro forze, n\u00e8 con ordine di\nbattaglia, essere cos\u00ec sventuratamente sconfitti e cavalcati da\u2019\nPerugini infino alle porti, essendo di natura sdegnosa e altiera e di\nvoglioso consiglio, di comune assentimento deliberarono di fare ogni\nloro sforzo e podere per qualunque modo potessono, per vendicare loro\nvergogna; non ostante che per lo comune di Firenze oltre all\u2019usato\namore consueto di faticarsi a pacificare loro vicini, ingelosito che\nper loro riotte non surgesse allettamento di signore forestiere, di\ncontinovo sollecitamente cercasse modo comportevole a sgravare il\nsoperchio dell\u2019onta fatta a\u2019 Sanesi, e a questo per forza d\u2019amist\u00e0\nde\u2019 reggenti e maggiori di Perugia avessono condotto ad assentire i\nPerugini, n\u00e8 modo n\u00e8 verso co\u2019 Sanesi trovare non pot\u00e8, i quali nel\nfurore di loro lieve animo, non guardando a stato di parte guelfa,\nn\u00e8 a\u2019 pericoli che seguire ne potesse alla libert\u00e0 de\u2019 comuni di\nToscana, malcontenti di ci\u00f2 che per l\u2019uno comune e per l\u2019altro si\nfacea, cercando sempre concordia tra loro senza favorare in segreto o\nin palese eziandio in parole nessuno di loro contro all\u2019altro, solenni\nambasciadori con pieno mandato e larghe promesse mandarono a\u2019 signori\ndi Milano per impetrare loro aiuto e favore; ma poco loro valse,\ntutto che in niente montasse per loro mal volere e pravo concetto,\nperocch\u00e8 per la pace tra detti signori e comuni di Toscana fatta, per\nnon romperla non se ne vollono travagliare. Il perch\u00e8 veggendosi i\nSanesi mancare la detta speranza, in sulla quale stavano ventosamente\na cavallo, cercarono convegna colla compagnia che di Lombardia era\nvenuta a Budrio, e si patteggiarono ch\u2019andasse al loro soldo per certa\nquantit\u00e0 di moneta: e nel patto inchiusono, che la compagnia un mese e\npi\u00f9 con altra loro gente dovesse stare in sul contado di Perugia; e per\nlo detto servigio diedono caparra e la ferma, all\u2019entrata del mese di\ngiugno 1358. Semoci un poco allargati in parlanza sopra questa materia,\nper fare ricordanza a coloro che per li tempi verranno al reggimento\ndel nostro comune, che stieno avvisati a\u2019 rimedi della straboccata e\nventosa volont\u00e0 de\u2019 Sanesi, i quali sovente per levit\u00e0 d\u2019animo hanno\ntentata la loro sovversione e degli altri comuni di Toscana, che\nvogliono e amano di vivere in libert\u00e0.\nCAP. LXIII.\n_Come i Pisani abbandonarono la gara di Talamone._\nI Pisani avendo provato e riprovato per molte riprese, che n\u00e8 per\nloro armate, n\u00e8 per impedimenti di mare, n\u00e8 per lega che tacitamente\navessono col doge di Genova, n\u00e8 per qualunque altri loro argomenti o\nsagacit\u00e0, usando larghe promesse di nuove franchigie e pi\u00f9 utile a\u2019\nFiorentini, non aveano potuto rimuovere il comune di Firenze dal suo\nfermo proponimento del non tornare a fare porto a Pisa, ma piuttosto\ncoll\u2019aizzamento gli aveano fatti indurare; e veggendo ch\u2019esso comune\ndi Firenze s\u2019era messo in armare galee, e cercare ventura di mare\ncontro a loro; colla usata astuzia, del mese di giugno detto anno, con\nsegreta deliberazione fatta tra loro mandarono la grida, che i Pisani\ne\u2019 loro distrettuali, e ogni altra maniera di gente liberamente potesse\nandare a Talamone co\u2019 suoi legni e mercatanzie, e di l\u00e0 recare e\nportare mercatanzia salvi e sicuri da tutta loro gente. E incontanente\ncominciarono a mandarvi della roba loro con fare porto a Talamone; e\nnondimeno i Fiorentini continovo le loro galee teneano alla guardia del\nmare.\nCAP. LXIV.\n_Come i Sanesi chiamarono capitano, e uscirono a oste._\nAvendo i Sanesi l\u2019animo infiammato contro al comune di Perugia,\nelessono per loro capitano di guerra il prefetto da Vico con gran\nbal\u00eca nella citt\u00e0 e di fuori sopra la gente d\u2019arme, il quale accett\u00f2:\nma non venendo presto come il furore de\u2019 Sanesi cercava; a d\u00ec 21 di\ngiugno uscirono fuori a oste sopra il Monte a Sansavino colla loro\ngente d\u2019arme, e con settecento barbute che avea Anichino di Bongardo\ncapitano della nuova compagnia, e ivi sforzandosi di vincere la terra,\nsenza frutto stettono aspettando il loro capitano e l\u2019altra gran\ncompagnia che aveano condotta in Lombardia. I Perugini temeano forte\nl\u2019avvenimento della compagnia, e acconciavansi bene a lasciare trovare\nmodo a\u2019 Fiorentini d\u2019avere la pace; nondimeno afforzavano l\u2019Orsaia per\npotersi tenere pi\u00f9 forti e provveduti alla loro difesa.\nCAP. LXV.\n_Come si fece certa arrota al palio di san Giovanni._\nDi questo mese i Fiorentini arrosono al palio di san Giovanni, ch\u2019era\ndi due finissimi velluti chermesi, con uno nastro d\u2019oro largo quattro\ndita coll\u2019arme del popolo e del comune, riccamente ricamate di seta\nd\u2019otto braccia di lunghezza, quanto le dette due pezze erano larghe, di\nvaio sgrigiato; cosa molto orrevole e bella alla nostra festa.\nCAP. LXVI.\n_Come il Delfino mand\u00f2 per lo proposto di Parigi._\nTornando a\u2019 fatti di Francia che occorsono in que\u2019 tempi, il Delfino\ndi Vienna, e \u2019l duca d\u2019Orleans, come addietro avemo fatta menzione,\nper disdegno, o forse per paura piuttosto, che pi\u00f9 verisimile parve,\ns\u2019era partito di Parigi, e l\u2019amministrazione e governo del tutto avea\nlasciato al proposto de\u2019 mercatanti e a\u2019 borgesi di Parigi; perch\u00e8\nessendo ripreso di codardia, si mosse, e appressossi alla citt\u00e0,\nstimando che il proposto li portasse reverenza, e come reale lo\nridottasse, e a lui mand\u00f2 a dire, che con trenta compagni li venisse\na parlare. Il proposto rispose di farlo; e di presente tutto il popolo\ncommosse, il quale in numero di trentamila o pi\u00f9 il seguirono per ire\nseco infino al luogo dove stava il Delfino. Il quale udendo in che\nforma venia, non lo attese, ma si part\u00ec in fretta, per non attendere la\npiena del popolo ignorante e mal consigliato, e tornossene ad Orliens.\nE ci\u00f2 fu all\u2019entrata di giugno.\nCAP. LXVII.\n_Di novit\u00e0 fatte per lo popolo di Parigi._\nI borgesi e \u2019l popolo minuto di Parigi vedendosi armati, che n\u2019erano\npoco usi, e che \u2019l Delfino non attendendo loro furia s\u2019era partito,\nmontarono in baldanza; e come suole avvenire, e per sperienza si vede,\nche i vili, che prendono ardire contro a chi fugge, vantandosi di loro\ncuore e ardire, col fumo della vittoria senza contasto si fermarono,\naspettando se loro fosse mosso niente. Il proposto con quelli che lui\nseguivano nel malvagio proponimento e consiglio, veggendo lo stolto\npopolo armato, e per levit\u00e0 d\u2019animo nimicato contro la casa reale,\npensarono con esso, avanti che gi\u00f9 ponessono l\u2019arme, a maggiori\nfatti procedere. E per tanto confortato il popolo, e inanimatolo a\nsperanza di migliore fortuna, quasi come gente furiosa e irata la\ncondussono spartamente come vedeano che richiedesse la faccenda, e ogni\nparte d\u2019essa sotto guida a\u2019 palagi e a\u2019 manieri de\u2019 gentili uomini\nch\u2019erano vicini a Parigi, i quali non prendendo guardia di loro, e\nnon avendo alcuno avviso di loro iniquo e reo proponimento, n\u00e8 del\nmovimento di chi li guidava, molti ne furono sorpresi. Il furioso\npopolo incrudelito, quanti ne giugnea tanti ne mettea al taglio delle\nspade, non perdonando a fanciulli o a donne; e a\u2019 micidi aggiugneano\nl\u2019arsioni, diroccando fortezze e manieri a costuma di fiere selvagge.\nE intra gli altri nobili e ricchi dificii guastarono il bello castello\ndi Montmorens\u00ec, e altre molte castella notabili. E con questa rabbiosa\nvittoria, con spargimento di cittadinesco sangue, si tornarono in\nParigi, avendosi fatti nemici i gentili uomini e i baroni del reame.\nCAP. LXVIII.\n_Come l\u2019altre ville seguirono di fare come Parigi._\nSentendosi per lo paese quanto inumanamente, e con quanta bestiale\nfierezza il popolo di Parigi s\u2019era portato contro a\u2019 baroni e a\u2019\ngentili uomini circustanti e vicini a Parigi, l\u2019altre buone ville\ndi Piccardia e di Francia, prendendo esempio dal popolo di Parigi,\ntantosto s\u2019adunarono in arme, e uscirono delle ville come se andassono\ncontro a\u2019 nemici, e ricercarono i gentili uomini e le famiglie loro\nper li manieri, e per le castella, e per le tenute dove si riduceano,\ne quanti ne poterono giugnere senza misericordia n\u2019uccisono, e i loro\nmanieri e castella dove poterono entrare disfeciono. E fu s\u00ec subita\ne improvvisa questa tempesta, che molti tra le loro mani ne perirono,\ndando boce e cagione, ch\u2019e\u2019 gentili uomini e i baroni erano traditori\ndel re loro signore; ma certo chi fu primo motore di tanto scellerato\nmale fu il reo e il traditore di suo signore e di tutto il reame, come\nappresso leggendo si potr\u00e0 trovare.\nCAP. LXIX.\n_Di novit\u00e0 di Forl\u00ec._\nBene che paia assai disonesto e fuori di ragione, che li prelati che\ndovrebbono essere correggitori de\u2019 difetti e peccati de\u2019 secolari\ns\u2019inviluppino e rivolgano in quelli, e massimamente in quelli errori\nmondani che pi\u00f9 paiono orribili e abominevoli, come sono tradimenti,\no se volemo pi\u00f9 onesto parlare, trattati, nondimeno per la corrotta\nusanza del malvagio tempo che corre, non pare si disdica a coloro che\nsono posti da santa Chiesa alla cura de\u2019 suoi beni temporali, tutto\nche cherici sieno, usare arte di tradigione. Per questa larga e non\ndannata licenza, l\u2019abate di Clugn\u00ec legato di papa in Romagna, avendo\nfatto tenere certo trattato con le guardie d\u2019alquante bertesche della\ncitt\u00e0 di Forl\u00ec, le quali gli doveano essere date, mand\u00f2 della sua gente\nuna notte intorno di seicento tra a pi\u00e8 e a cavallo, e presonle, ed\nentrarono nella terra; e se avessono avuto con loro pi\u00f9 forte braccio\nn\u2019erano signori. I cittadini, per l\u2019improvviso e subito assalto non\nsbigottiti, insieme col capitano francamente si fedirono tra loro\nch\u2019erano entrati, e per forza gli ripinsono di fuori, avendone morti\ne presi una parte di quelli che pi\u00f9 s\u2019erano messi innanzi; intra gli\naltri rimase preso il figliuolo del conte Bandino di Montegranelli; e\ngli altri si fuggirono senza avere caccia fuori della terra, e tornarsi\nal legato beffati.\nCAP. LXX.\n_Come il legato ebbe Meldola._\nUno de\u2019 terrazzani di Meldola capo di setta, essendo per pi\u00f9 tempo\nstato con certi suoi congiunti sostenuto dal capitano di Forl\u00ec per\nsua sicurt\u00e0 di quella terra, si coll\u00f2 dalle mura con suoi compagni di\nfurto, e fuggissi nel campo al legato, e ivi segretamente stando pi\u00f9\ngiorni s\u2019intese con altri suoi terrazzani. E a d\u00ec 2 di luglio detto\nanno, il legato ordinata sua gente sott\u2019ombra di combattere Meldola,\nsi strinse alla terra. Lo Meldolese di cui avemo parlato, senza arme\nusc\u00ec della schiera, e innanzi si mise verso la terra, e f\u00e8 certo segno\na quelli delle mura, sicch\u00e8 fu conosciuto; e sperando nell\u2019ordine e nel\nfavore di coloro che dentro avea temperati con belle e savie parole,\ned efficaci alla materia, disse a\u2019 suoi terrazzani, che non volessono\nessere morti e disfatti in contumacia di santa Chiesa, che domandava\ncon gran ragione la sua terra, e con beneficio, per servire al tiranno\nscomunicato, che contro a Dio e contro a ragione si tenea in ribellione\ndel legato e di santa Chiesa, il quale era stretto per modo, che\ntosto dovea e potea essere disfatto; loro assicurando che dalla gente\ndella Chiesa non riceverebbono offesa n\u00e8 danno alcuno. I Meldolesi\nalla Romagnuola voltanti, e affannati dalla lunga guerra, udendo\ncos\u00ec parlare il loro terrazzano, ed essendo sospinti da\u2019 consigli e\nconforti di quelli dentro che col detto loro terrazzano s\u2019intendeano,\ndi presente apersono le porte, e ricevettono liberamente con allegrezza\ne festa la gente del legato pacificamente. Li forestieri che v\u2019erano\nci\u00f2 vedendo, bellamente si ricolsono al cassero, e quelli del legato di\npresente s\u2019afforzarono nel castello, e assediarono la rocca dentro e di\nfuori, avendo dottanza che la compagnia ch\u2019allora era di presso non li\nvenisse a impedire; e strignendo forte con assedio, e ricercando spesso\ncon trabocchi e con altre battaglie quelli della rocca, a d\u00ec 25 del\ndetto mese s\u2019arrenderono salve le persone.\nCAP. LXXI.\n_Come i Fiorentini ordinarono il monte nuovo per avere danari._\nPer l\u2019armata del mare essendo consumata molta moneta dell\u2019usate\nrendite del comune, sopravvenendo le compagnie del conte di Lando\ne d\u2019Anichino di Bongardo, e apparecchiandosi molte altre novit\u00e0 in\nItalia, alle quali per conservare suo stato necessit\u00e0 era al nostro\ncomune di provvedere; e non potendosi ci\u00f2 fare senza danari, ed\nessendo l\u2019entrate del comune indebitate, e porre di nuovo gravezze\nsenza manifesta guerra incomportabile e pericoloso parea, massimamente\nper la nuova dissensione e sospetto nato tra\u2019 cittadini per le accuse\ne persecuzioni, che sotto il titolo della parte guelfa si facea de\u2019\nbuoni, e a\u2019 buoni antichi cittadini che si voleano vivere in pace,\nsotto il segno della detta pace onorando il comune, e non poteano.\nQuelli che reggevano il comune cercavano nuovo modo, provvedendo per\nlegge che chi spontaneamente prestasse al comune fosse scritto a suo\ncreditore nuovamente nell\u2019uno tre, cio\u00e8 in fiorini trecento prestandone\ncento di quello che veramente prestavano, dando al detto monte nuovo e\na\u2019 suoi creditori tutti i privilegi e immunit\u00e0 del monte vecchio. Per\nquesta via il comune senza altra gravezza ebbe al suo bisogno soccorso;\ne se bene si misura, non per carit\u00e0 o affezione ch\u2019avessono i cittadini\nalla sua repubblica, ma per la cupidigia del largo profitto; il quale\nfuori del buono e antico costume de\u2019 nostri maggiori molti n\u2019ha tirati\ndalla mercatanzia in su l\u2019usura, e s\u00ec ha ingrossate le coscienze, che\nle vedovelle poco si curano dell\u2019anime, pur che il monte risponda bene\nloro.\nCAP. LXXII.\n_Della gran compagnia._\nLa gran compagnia essendo nella Romagna a\u2019 confini del Bolognese, sotto\nla condotta del conte Broccardo e di messer Amerigo del Cavalletto, in\nnumero di tremilacinquecento cavalieri e grande quantit\u00e0 di pedoni,\nbaldanzosamente del mese di luglio mandarono a domandare il passo in\nToscana al nostro comune; il quale sorpreso dalla subita domanda,\nnon avvedendosi de\u2019 patti ch\u2019aveano con loro, intra\u2019 quali che non\ndovessono offendere n\u00e8 passare per lo nostro terreno fra certo tempo,\nil quale ancora durava, e temendo della ricolta, che la maggiore parte\nera in su l\u2019aia, di presente vi mandarono ambasciadore, concedendo\nche potessono passare a dieci bandiere insieme, togliendo derrata per\ndanaio. Li conducitori e caporali di quella insuperbiti per la temenza\nche parea mostrasse il comune, tacendo i patti, risposono, che non\nvoleano passare spartiti, n\u00e8 per lo luogo loro assegnato, ma per quello\npi\u00f9 loro piacesse. Non volendosi per lo comune a ci\u00f2 consentire, nel\nconsigliare che se ne f\u00e8 furono ricordate e ritrovate le convenienze\nil comune avea con loro, e furono creati ambasciadori ch\u2019andassono a\nloro, i quali furono; messer Manno Donati, messer Giovanni de\u2019 Medici,\nAmerigo di messer Giannozzo Cavalcanti, e Simone di Rinieri Peruzzi; i\nquali ebbono i punti di loro ambasciata, e portarono i patti giurati,\nsoscritti, e suggellati per li caporali e conducitori d\u2019essa compagnia;\ni quali mostrati loro, come \u00e8 usanza di gente d\u2019arme di s\u00ec fatta\nmaniera quando si sente podere, niente li pregiarono; e perseverando in\nloro sconce e disoneste domande, accennavano di passare a loro posta, e\ndonde loro bene paresse, a mal grado di chi il volesse vietare. Perch\u00e8\nci\u00f2 sentendo il comune, sollicitamente s\u2019apparecchiava alla difesa;\ne per chiudere loro i passi dell\u2019alpe a suo podere richiesto avea gli\nUbaldini, i conti Guidi e gli altri amici del comune ch\u2019aveano podere\nne\u2019 luoghi onde si temea che potessono passare, e con poco ordine\nper la fretta, e senza capitanare, mand\u00f2 la gente sua da cavallo e\nassai balestrieri nel Mugello e alla guardia de\u2019 passi. Essendo i\ndetti ambasciadori nel campo della compagnia, e segretamente rivocati\ndalla loro ambasciata, vi fu mandato di nuovo ambasciadore Filippo\nMachiavelli, a cui fu commesso in segreto, ch\u2019aoperasse co\u2019 caporali\nch\u2019e\u2019 non venissono per lo nostro contado, e che in ci\u00f2 spendesse da\ncinquemila in seimila fiorini: e avendosi da lui in risposta che ci\u00f2\nnon si potea fare, il comune raddoppiando la sollicitudine a sua difesa\nintendea.\nCAP. LXXIII.\n_Come il conte di Lando torn\u00f2 d\u2019Alamagna alla compagnia._\nIl famoso capo di ladroni conte di Lando era nella Magna passato,\ne portato n\u2019avea il tesoro ch\u2019avea guadagnato, ovvero rubato delle\nprede degl\u2019Italiani, e di l\u00e0 comperatone terre e castella, e riscosse\ndi quelle ch\u2019avea impegnate. Appresso era stato con l\u2019imperadore,\ne mostratogli come e\u2019 non era ubbidito da\u2019 comuni di Toscana, e che\ndove egli avesse titolo da lui, per forza di sua compagnia per tutto\nil farebbe senza suo costo ubbidire: mostrandoli come la Toscana\nera piena di soldati di lingua tedesca, che tutti, dove che fossono\na soldo, s\u2019intenderebbono con lui. E per tanto non temea trovare in\ncampo contasto; e dove con suo titolo entrasse in alcuna buona citt\u00e0\ndi Toscana, l\u2019altre domerebbe per modo, che di tutte il farebbe libero\nsignore. L\u2019imperadore, ch\u2019era cupido di natura, e astuto, conobbe il\npartito, e per volere a ci\u00f2 provvedere per modo indiretto e coperto,\nsicch\u00e8 se avesse luogo il consiglio del conte l\u2019esecuzione fosse\npronta, e se non, almeno colorata; essendo consueto di tenere suo\nvicario in Pisa, ne intitol\u00f2 suo vicario il predetto conte in palese,\nma in occulto si disse li di\u00e8 maggiore legazione. Costui giunto a\nBologna, sent\u00ec la condotta fatta della sua compagnia da\u2019 Sanesi contro\na\u2019 Perugini, la qual cosa molto andava a sua intenzione; e vedendo\nla discordia del passo col comune di Firenze, di presente cavalc\u00f2\nalla compagnia, e trov\u00f2 che gli ambasciadori del nostro comune erano\nrivocati; e volendosi ritornare a Firenze, egli li ritenne, e disse,\nch\u2019a niuno partito volea che la compagnia valicasse contro a volont\u00e0\ndel comune n\u00e8 per lo suo contado; e con gli ambasciadori insieme\ntrovarono questa via; che essendo la compagnia in Valdilamone dovesse\npassare da Marradi, e dappoi passare tra Castiglione e Biforco, e\nricidere da Belforte e Dicomano, e da indi a Vicorata, e poi a Isola,\ne da Isola a san Leolino, e quindi a Bibbiena; e i detti ambasciadori\npromisono, che \u2019l comune di Firenze per cinque di loro apparecchierebbe\npanatica, prendendo derrata per danaio, e in quelli luoghi donde\ndovea essere loro trapasso. Questa concordia fatta senza mandato a\u2019\nFiorentini non dispiacque, perch\u00e8 parea in parte conforme a\u2019 patti che\ni Fiorentini aveano con loro. E per tanto con sollicitudine procedea il\ncomune, che la vittuaglia fosse apparecchiata ne\u2019 luoghi ragionati per\nli quali doveano passare, e gi\u00e0 n\u2019era cominciata a mandare a Dicomano.\nGli ambasciadori erano rimasi nella compagnia come il conte avea voluto\nper pi\u00f9 sicurt\u00e0 di sua condotta, ma non per mandato ch\u2019avessono dal\nloro comune.\nCAP. LXXIV.\n_Come la compagnia fu rotta nell\u2019alpe._\nFermata per lo nostro comune la concordia colla compagnia, come \u00e8 di\nsopra narrato, la compagnia di presente si mosse con bello ordine\nde\u2019 suoi capitani, e a d\u00ec 24 del mese di luglio 1358 prese albergo\nnell\u2019alpe tra Castiglione e Biforco: e come \u00e8 d\u2019uso di gente di\ns\u00ec fatta maniera che male si pu\u00f2 temperare, che come il ferro alla\ncalamita non corra alla preda, passando i patti e convegne si toglieano\nla vittuaglia loro apparecchiata senza pagare, e se trovavano cose\nnon bene riposte n\u00e8 in luogo sicuro ne faceano danno, oltraggiando\ni paesani e di parole e di fatti. Perch\u00e8 dolendosi gli offesi di\nci\u00f2, ed essendo male uditi e peggio intesi, ne presono cruccio; e\nraccogliendosi insieme, nel mormorio alquanti di loro cominciarono\nragionamento e di vendetta e di ristoro di loro dannaggio, e senza\nperdere tempo, s\u2019intesono insieme quelli di Biforco fedeli de\u2019 conti da\nBattifolle, e quelli di Castiglione fedeli di quello d\u2019Alberghettino,\ne con loro s\u2019aggiunsono alquanti di quelli della Valdilamone, e\ndisposonsi a loro vantaggio a luogo e tempo nel trapasso d\u2019assalire la\ncompagnia, o parte d\u2019essa, e cercare loro ventura per rifarsi di loro\ndanni, e vendicarsi degli oltraggi che aveano ricevuti. Quella sera\nmedesima che questo per li villani si cercava ci\u00f2 fu detto al conte di\nLando, e avvisato che la seguente mattina gli s\u2019apparecchiava novit\u00e0:\npoco mostr\u00f2 averlo a calere, sapendo che poco numero essere potea, e di\ngente alpigiana, e male in arnese quella che il cercasse d\u2019offendere;\nnondimanco avanti al fare del giorno avacci\u00f2 sua cavalcata, e mise sua\ngente in cammino, e ne fece pi\u00f9 parti, nella prima f\u00e8 cavalcare messer\nAmerigo del Cavalletto, e con lui gli ambasciadori fiorentini, fuori\nd\u2019uno che ne tenne con seco, colla maggior parte di sua gente armata e\ndisarmata con tutta la salmeria.\nI conestabili con gente d\u2019arme avvantaggiata con loro arnese sottile\ne di valuta, in numero d\u2019ottocento a cavallo e cinquecento pedoni,\ncol conte Broccardo lasci\u00f2 alla retroguardia e riscossa. Il cammino\nch\u2019eglino aveano a fare, tutto che non fosse lungo, era aspro e\nmalagevole, perocch\u00e8 venendo da Biforco a Belforte presso alle due\nmiglia della valle, quinci e quindi fasciata dalle ripe e stretta nel\nfondo, do v\u2019era la via, la quale si leva dopo alquanto di piano repente\ned erta a maraviglia, inviluppata di pietre e di torcimenti, e tale\npasso \u00e8 detto alle Scalelle, che bene concorda il nome col fatto. Il\ndetto luogo pass\u00f2 liberamente messer Amerigo con tutta sua brigata,\nperch\u00e8 ancora non erano giunti i villani, i quali poco appresso vi\nvennono in numero d\u2019ottanta, o in quel torno, disponendosi partitamente\nne\u2019 luoghi dove pensarono a vantaggio e loro sicurt\u00e0 potere meglio\noffendere i loro nemici: e volendo uno de\u2019 maliscalchi della compagnia\ncon sua brigata il detto luogo passare, fu da\u2019 villani assalito, e con\nle pietre indietro ripinto. Il conte di Lando s\u2019avea tratto la barbuta\ndi testa, e mangiava a cavallo, e sentendo ci\u00f2 ch\u2019era cominciato,\nsubito si rimise la barbuta, e fece gridare arme; onde i villani,\nche come detto \u00e8, s\u2019erano riposti per le creste de\u2019 colli, e nelle\nripe e balzi che soprastavano le vie, sentendo il passo impedito, si\ncominciarono a mostrare per le ripe dintorno, e a voltare gran sassi,\ne a gittare con mano sopra la gente del conte ch\u2019erano nel basso del\nfossato, quasi come in prigione chiusi da altissime ripe. Il conte non\nspaventato n\u00e8 invilito per lo subito assalto, come uomo d\u2019alto cuore\ne maestro di guerre, di subito fece smontare da cavallo circa a cento\nUngheri, e li fece montare per le ripe per cacciare i villani dalle\nripe ov\u2019erano posti colle frecce e colle grida: ma poco li valse,\nperocch\u00e8 i villani ch\u2019erano ne\u2019 luoghi avvantaggiati e sicuri, e\nsoprastanti assai a quelli dove gli Ungheri in uosa, e gravi di loro\narmi e giubboni non poteano salire, colle pietre n\u2019uccisono alquanti,\ne gli altri cacciarono a valle. E stando il conte e\u2019 suoi nel romore\ne travaglio, colle difese che le sue genti poteano fare nel luogo\nstretto e malagevole, dove poco poteano mostrare loro virt\u00f9, una gran\npietra mossa nella sommit\u00e0 del monte da parecchi villani, scendendo\nrovinosamente percosse il conte Broccardo, e lui e \u2019l cavallo ne port\u00f2\nnel fossato, e uccise; e per simile modo molti e morti e magagnati\nne furono. Veggendo i villani che gi\u00e0 erano scesi alle spalle de\u2019\ncavalieri in luogo che li poteano fedire colle lance manesche, che\ni cavalieri per la morte di molti di loro erano inviliti, e per la\nstrettezza di loro da non si potere ordinare a difesa, n\u00e8 per niuno\nmodo abile atare, scesono con loro alle mani; e uno fedele del conte\nGuido con dodici compagni arditamente si dirizz\u00f2 al conte di Lando,\ne valentemente l\u2019assal\u00ec. Il conte colla spada f\u00e8 bella difesa: alla\nfine non potendo alle forze resistere, s\u2019arrend\u00e8 prigione, porgendo la\nspada per la punta; ed essendo ricevuto, come s\u2019ebbe tratta la barbuta,\nuno villano d\u2019una lancia il fed\u00ec nella testa, della quale ferita lungo\ntempo dopo stette in pericolo di morte. Arrenduto il conte di Lando,\ntutti i cavalieri smontarono da cavallo, e come il pi\u00f9 presto poterono,\nspogliate l\u2019armi per essere leggieri, si diedono alla fuga, e come\nciascuno meglio potea saliano per le ripe, e per li boschi e burrati\nfuggendo. Allora non solo gli uomini, ma le femmine ch\u2019erano corse al\nromore, e atare i loro mariti almeno con voltare delle pietre, gli\nspogliavano, e loro toglieano le cinture d\u2019argento, e\u2019 danari e gli\naltri arnesi: e avvegnach\u00e8 assai ne fuggissono per questo modo, molti\nmorti ne furono, e pure de\u2019 migliori, e assai presi, e cos\u00ec de\u2019 fanti\na pi\u00e8. In questo baratto si trovarono morti pi\u00f9 di trecento cavalieri\ne assai presi, e pi\u00f9 di mille cavalli e bene trecento ronzini, e molto\narnese sottile, e robe e danari vi perderono; e bench\u00e8 fossono usciti\ndel passo, errando molti presi ne furono nelle circostanze dagli altri\npaesani che non s\u2019erano trovati alla zuffa.\nCAP. LXXV.\n_Come il conte di Lando scamp\u00f2 di prigione._\nCome volle fortuna, che per li peccati de\u2019 popoli sovente favoreggia\ncoloro che a loro sono flagello di Dio, essendo il conte di Lando\npreso da uno fedele e uficiale del conte Guido, il detto valente uomo\nper acquistare maggior preda, essendo il conte fedito, come dicemmo,\nl\u2019accomand\u00f2 a due suoi compagni: il conte vedendosi nelle mani di due\nvillani, temendo forte che non lo menassono a Biforco, per l\u2019offese\ndi sua coscienza fatte la sera dinanzi a quelli della villa, disse a\ncoloro che \u2019l guardavano, di dare loro fiorini duemila d\u2019oro, ed elli\nlo menassono altrove ovunque a loro piacesse, e che se in questo il\nservissono, li farebbe ricchi uomini. I villani conoscendo che se il\nconte venisse alle mani del loro signore, che della preda e riscatto\ndel conte avrebbono piccola parte, si disposono a servire il conte; e\n\u2019l menarono alla donna di messer Giovanni d\u2019Alberghettino. La donna,\nnon essendo ivi il marito, il fece menare a Giovacchino di Maghinardo\ndegli Ubaldini suo fratello a Castelpagano. Ci\u00f2 sentendo il signore di\nBologna, ch\u2019era suo intimo amico e compare, di presente vi mand\u00f2 medici\ne guernimenti, e lo f\u00e8 medicare, e per sua operazione tanto fece, che\nliberamente li fu mandato a Bologna: il quale essendo bene provveduto\ne curato alla Tedesca, poco regolando sua vita, e massimamente non\nprendendo guardia del vino, come fu da Bologna partito cadde in grave\ninfermit\u00e0, nella quale pi\u00f9 volte fu a pericolo di morte, e liberato del\nmale rimase in assai povero stato.\nCAP. LXXVI.\n_Come l\u2019altra parte della compagnia si ridusse in Dicomano._\nEssendo rotta e sbarattata la retroguardia della compagnia, come\ndetto avemo, messer Amerigo del Cavalletto che guidava la parte\ndinanzi avendo ci\u00f2 inteso, ed essendo ne\u2019 prati verso Belforte, e\nsentendosi dintorno alcuno romore s\u00ec di coloro che fuggivano come di\ncoloro che li seguitavano, di subito prese grande sbigottimento: e\ncerto e\u2019 li bisognava, perocch\u00e8 \u2019l conte Guido e gli altri paesani\nconosceano che venuto era il tempo di potersi vendicare della\ncompagnia, e d\u2019arricchire della preda loro. Ma il peccato volle che\ngli ambasciadori del comune di Firenze si trovarono con loro, a\u2019\nquali, temendo di tradimento, si ristrinsono e messer Amerigo e\u2019 suoi\ncaporali con minacce di tor loro la vita, se a loro fosse faltata\nla promessa. Gli ambasciadori che si sentivano in lealt\u00e0, e sapeano\nche ci\u00f2 ch\u2019era fatto non era stato operazione del loro comune, gli\nassicurarono colle parole: e per non mostrarsi ne\u2019 fatti dissonanti\nalle parole, cominciarono a usare autorit\u00e0 che non era loro commessa,\ne ferono comandamento a\u2019 fedeli del conte Guido, e a molti altri\nch\u2019erano tratti a\u2019 passi, per parte del loro comune ch\u2019e\u2019 non dovessono\noffendere n\u00e8 danneggiare coloro cui aveano fidati il comune di Firenze,\na cui salvocondotto elli erano diputati, e ch\u2019e\u2019 si dovessono de\u2019\npassi levare: i quali tutti, contro a loro intenzione e volere, per\nreverenza del nostro comune si levarono dall\u2019impresa. Perch\u00e8 quelli\ndella compagnia ch\u2019erano vogliosamente avanti passati affrettarono di\ntornare alla schiera, e tutti insieme stretti avacciarono il cammino,\ne per le strette vie delle piagge in quel d\u00ec si ridussono in Dicomano,\ne ivi con botti e altro legname senza perdere tempo s\u2019abbarrarono il\nmeglio poterono: e conoscendo il pericolo dove erano ridotti, stavano\ntutti muti e smarriti alla speranza degli ambasciadori. E nel vero elli\naveano da temere per l\u2019avviso che loro subitamente fu fatto, che \u2019l\nnostro comune avea in quelli stretti passi pi\u00f9 di dodicimila pedoni,\nde\u2019 quali i quattromila erano balestrieri scelti tra gli altri, e circa\na quattrocento cavalieri, che tutto che temessono il nostro comune, pi\u00f9\nridottavano i villani dell\u2019alpe che li aveano assaggiati.\nCAP. LXXVII.\n_Come il comune di Firenze procedette ne\u2019 fatti della compagnia._\nI rettori del nostro comune avuta la novella della detta rotta, e\ndi coloro ch\u2019erano rinchiusi in Dicomano, e inteso come contro a\u2019\npatti i loro dinanzi aveano scorso infino a Vicchio, e le some del\npane ch\u2019erano a Dicomano aveano rubate, e tolti i muli, e fediti\nde\u2019 vetturali; avendo mescolatamente queste novelle senza altro\navviso de\u2019 loro ambasciadori, conoscendo che la materia richiedea\ntostano consiglio e partito, di presente feciono consigli di numero\ndi richiesti in gran quantit\u00e0, nel quale furono molti notabili e\nsavi cittadini, e consigliato sopra la materia, di grande concordia\ndiliberarono, che i passi si tenessono per modo ch\u2019e\u2019 non entrassono\nsul nostro contado, e che non si desse loro niuno fornimento, n\u00e8 si\nvietasse ad alcuno la loro offesa: e di presente si mand\u00f2 per tutto il\ncontado, che l\u00e0 si traesse d\u2019ogni parte per non lasciarli passare. Il\ncomandamento fu per li contadini subito adempiuto, perocch\u00e8 gran voglia\navea il popolo di levare di terra quella maladetta compagnia; ma bench\u00e8\ntraesse il contado di gran volont\u00e0, mancaronli per mala provvisione\ncapitani e conducitori, e nondimeno presono i passi, e stavano con\ngrande appetito di cominciare la zuffa. E se fatto si fosse, come fare\nsi potea e dovea, in Dicomano senza rimedio si spegnea il nome della\ncompagnia per lungo tempo in Italia.\nCAP. LXXVIII.\n_Il fine ch\u2019ebbe l\u2019impresa de\u2019 Fiorentini._\nSe necessit\u00e0 non fosse imposta, poich\u00e8 preso abbiamo la cura di\nscrivere, volentieri taceremmo per onore del nostro comune quello\nch\u2019al presente n\u2019occorre a narrare; ma considerato che per li\nsimili accidenti che nel futuro possono occorrere, quelli che per\nli tempi saranno a provvedere allo stato e onore del nostro comune\npossano prendere avviso, e riparare alle disordinate baldanze de\u2019\nsuoi cittadini, che passano talora e gli ordini e quello ch\u2019\u00e8 loro\nimposto per lo nostro comune, ci conduciamo a scrivere. Noi dicemmo\npoco appresso di sopra l\u2019utile e savia diliberazione che prese il\nnostro comune contro al resto della compagnia ch\u2019era in Dicomano, la\nquale ebbe vere e giuste cagioni, della quale erano uscite lettere\na\u2019 conti Guidi e agli altri circustanti a que\u2019 luoghi amici del\nnostro comune, e per lo contado molte n\u2019erano andate, e pi\u00f9 per segno\ndi nostro comune. Il podest\u00e0 era in que\u2019 paesi stato mandato uomo\nbolognese, e di s\u00ec poca virt\u00f9, che non pensiamo che meriti d\u2019essere\nqui nominato. Gli ambasciadori ch\u2019erano con messer Amerigo, di subito\nmandarono in Firenze l\u2019uno di loro per volere liberare la compagnia\ndi coscienza del nostro comune; il perch\u00e8 di nuovo e di maggiore\nnumero si fece consiglio di cittadini, nel quale l\u2019ambasciadore con\nbelle dimostrazioni s\u2019ingegn\u00f2 di ottenere che la compagnia fosse\nposta in luogo sicuro, non facendo ricordo che per gli ambasciadori\nfosse preso partito di cos\u00ec fare; nel detto consiglio si prese e ferm\u00f2\nquello ch\u2019era stato ne\u2019 primi. L\u2019ambasciadore era di tanta autorit\u00e0\ne podere, che a richiesta sua i priori ebbono tre altri consigli,\ncercando in essi il consentimento di quello ch\u2019egli e\u2019 compagni suoi\npresontuosamente aveano diliberato; in effetto in tutti si prese di\nconcordia quello che dinanzi negli altri era stato fermato; e ci\u00f2\nfatto, si cominci\u00f2 a dare ordine all\u2019offesa di coloro cui il comune\navea diliberato che fossono nimici, e ci\u00f2 fu pubblicato per tutto.\nLa compagnia era stretta in Dicomano in forma e per modo che tre d\u00ec\nvivere non vi poteano, e circondata era intorno in maniera, che se non\nvolassono, partire non si poteano. I colli sopra la Sieve erano presi\npe\u2019 balestrieri fiorentini, e fatte erano grandi tagliate a\u2019 passi dove\nl\u2019uscite erano pi\u00f9 larghe, ed erano bene guardate; e oltre al grande\nnumero de\u2019 pedoni ch\u2019erano nel paese mandati per lo comune, e che per\nvolont\u00e0 v\u2019erano tratti, v\u2019avea quattrocento cavalieri, de\u2019 quali era\ncapitano uno broccardo Tedesco antico conestabile del nostro comune,\nil quale conoscendo il pericolo dov\u2019era la compagnia, non servando\nsuo giuramento, con alcuno caporale and\u00f2 in Dicomano, e ristrettosi\ncon messer Amerigo e\u2019 suoi caporali presero insieme consiglio, il\nquale fu segreto, ma per effetti s\u2019intese, al quale si credette che\nparticipassono gli ambasciadori, per avere di loro concetto e promessa\nla scusa, di presente gravi minacce fur fatte agli ambasciadori, e\nintra l\u2019altre di torre loro vita se si trovassono di loro promessa\ngabbati; appresso delle quali fu detto, e offerto di largo, che voleano\nfare ci\u00f2 che volesse il comune, e per osservanza voleano dare stadichi;\nfu riputato malizioso e sagace consiglio. Gli ambasciadori udito questo\nsi strinsono insieme con fare vista d\u2019avere gran paura, e diliberarono\nquello, che come \u00e8 detto, altra volta aveano diliberato, ci\u00f2 fu di\ntrarli di Dicomano a salvamento, e di metterli a Vicchio in quello di\nFirenze, ch\u2019era proibito loro, e farli signori del piano di Mugello con\nabbondanza di vittuaglia. In questo comprendere si pu\u00f2 quanta baldanza\nera in que\u2019 tempi ne\u2019 cittadini dello stato, e quanta poca reverenza si\nportava per loro alla maest\u00e0 del comune; e meritevolmente, perocch\u00e8 n\u00e8\npremio delle virt\u00f9, n\u00e8 pena de\u2019 falli per lo comune si rendea in que\u2019\ngiorni, ma le spezialit\u00e0 e le sette de\u2019 cittadini faceano comportare\nogni grande ingiuria del comune con grande pazienza, la quale talora \u00e8\nvicina di crudelt\u00e0 per la remissione delle debite pene. Avendo preso\nquesto partito, come detto \u00e8, non degnarono di manifestarlo per lo\nloro compagno al comune, e il comune avea provveduto alla gente sua\ndi capitani, i quali sapendo l\u2019intenzione del comune, pi\u00f9 credettono\nagli ambasciadori ch\u2019al comune, e consentirono a\u2019 comandamenti che gli\nambasciadori feciono a\u2019 balestrieri e agli altri soldati del comune;\nebbono gli ambasciadori in sul vespero Broccardo Tedesco con tutti i\nsoldati a cavallo che volentieri feciono quel servigio, e ordinarli\nalla retroguardia, per tema de\u2019 fedeli de\u2019 conti che non si poteano\nraffrenare, e il passo ch\u2019era preso per li pedoni e balestrieri\nfiorentini feciono allargare, e rappianare le tagliate e le fosse, e\nabbattere tutte l\u2019altre insegne con una d\u2019un trombadore da Firenze\nposta in su un\u2019asta; e avendo fasciata dall\u2019una parte e dall\u2019altra\nquella compagnia de\u2019 balestrieri del comune di Firenze li condussono a\nVicchio, e feciono loro dare del pane che mandato era l\u00e0 per l\u2019oste de\u2019\nFiorentini. E avvenne, che non potendosi raffrenare i fedeli de\u2019 conti\ndalla mischia, che i balestrieri del comune di Firenze furono costretti\ndagli ambasciadori di saettarli. I cittadini, e i contadini di Firenze,\ne i balestrieri, che di grande animo erano tratti per combattere la\ncompagnia, udendo ch\u2019elli erano condotti in signoria del Mugello,\nperderono il vigore, e grande dolore n\u2019ebbono, pi\u00f9 che se fossono\nstati sconfitti, e ben conobbono che \u2019l comune era stato beffato, e\npubblicamente, e dentro e di fuori, appellavano gli ambasciadori per\npoco fedeli e diritti al loro comune.\nCAP. LXXIX.\n_Come la compagnia and\u00f2 in Romagna._\nSentito a Firenze che contro alla diliberazione del comune la compagnia\nsotto la condotta de\u2019 suoi cittadini s\u2019era partita da Dicomano e\nridottasi a Vicchio, e che era nella signoria del piano di Mugello,\nla citt\u00e0 per comune se ne dolse, e li rettori d\u2019essa non sapeano che\nfatto s\u2019avessono, n\u00e8 che fare s\u2019avessono; e la grande moltitudine\ndi gente a pi\u00e8 ch\u2019era sparta per li poggi del Mugello non essendo\ncapitanata, e non sapendo cui ubbidire n\u00e8 offendere, non si partia\ndalle poste. Quelli della compagnia, che sentivano quello ch\u2019era\ndiliberato a Firenze, avendo preso riposo per un giorno e una notte\nin Vicchio, veggendo i poggi intorno a loro carichi di fanti, e\nmassimamente di balestrieri, i quali per li vantaggi de\u2019 luoghi onde\naveano a passare pi\u00f9 ridottavano, temendo che crescendo la forza del\ncomune eziandio il piano loro non fosse impedito, la mattina raccolti\ninsieme da Vicchio scesono nel piano, avendo per loro conducitore\nritenuto messer Manno Donati, e come uomini usi nell\u2019arme, vedendo che\nla gente del comune, che loro era vicina, era volonterosa senza ordine\no capitano, lasciato nel piano addietro uno aguato di cento Ungheri,\ns\u2019arrestarono nel piano; e ci\u00f2 feciono non per guadagno che sperassono\ndi fare, ma perch\u00e8 vidono che i balestrieri aveano passata la Sieve, o\nper vedere, come folli, o per guadagnare, stimando, che se agramente\nne gastigassono alquanti, gli altri intimidirebbono e darebbono loro\nmeno affanno; e cos\u00ec venne loro fatto. Perocch\u00e8 caduti nell\u2019aguato,\ngli Ungheri gli assalirono da due parti, e non avendo i balestrieri\nsoccorso, di presente furono rotti e sbarattati; e come dicemmo non\nattendendo a\u2019 prigioni, ne uccisono pi\u00f9 di sessanta; e ci\u00f2 fatto,\ngli Ungheri si ritrassono alla massa de\u2019 loro, e senza niuno arresto\ntutti si diviarono al cammino per lo passo dello Stale sotto la guida\ndi Ghisello degli Ubaldini, e quel d\u00ec cavalcarono quarantadue miglia,\nfino ch\u2019e\u2019 giunsono in su quello d\u2019Imola dove erano sicuri, malcontenti\ne palesi nemici del nostro comune. La cagione di cos\u00ec lunga giornata\nfu perch\u00e8 Ghisello non volea s\u2019arrestassono nell\u2019alpe, per tema non\nfacessono danno a\u2019 suoi fedeli, mostrando, se s\u2019arrestassono, ch\u2019e\u2019\nsarebbono in gravi pericoli. E per tanto senza niuno indugio feciono\nil detto cammino; nel quale i masnadieri, per non rimanere addietro,\nlasciarono loro arme per l\u2019alpe per essere pi\u00f9 leggieri al cammino. Gli\nambasciadori, fornito il servigio, tornarono a Firenze, e di loro falli\npresono scusa a\u2019 governatori del comune con quelle belle ragioni che\nseppono meglio divisare; e conoscendo di quanta autorit\u00e0 erano coloro\nch\u2019erano a quel tempo all\u2019uficio de\u2019 signori, detto fu per alcuno de\u2019\ndetti ambasciadori: Non cercate pi\u00f9 questi fatti, ma dite che noi siamo\ni ben tornati.\nCAP. LXXX.\n_Come i signori di Francia vennono sopra Parigi in arme._\nTornando alle travaglie del reame di Francia, nell\u2019addietro narrammo il\nsubito e sfrenato movimento del popolo minuto, e de\u2019 borgesi di Parigi\ne d\u2019altre ville di Francia contro a\u2019 baroni e gentili uomini del paese,\nsotto il mal consiglio e condotta del proposto de\u2019 mercatanti e suoi\nseguaci; per la qual cosa il Delfino di Vienna mosso e sospinto da\u2019\ngentili uomini ch\u2019erano stati dall\u2019indiscreto popolo agramente offesi\ne malmenati, per repremere la sua trascotata e furiosa baldanza d\u2019ogni\nparte si raccolsono insieme, e all\u2019entrare del mese di luglio del detto\nanno vennono sopra Parigi in numero di cinquemila cavalieri, o in quel\ntorno, avendo per loro capo il sopraddetto Delfino, e accamparonsi a\nsant\u2019Antonio, presso a Parigi a due leghe; e ivi si dimoravano senza\nfare asprezza di guerra, perocch\u00e8 ben sapeano che la comune di Parigi\nera sommossa, e ingannata dal proposto e da\u2019 suoi seguaci per malvagio\ningegno. Ed essendo nel paese il re di Navarra, che celatamente\ns\u2019intendea col proposto e con certi suoi confidenti che guidavano il\npopolo, per mostrare di volere atare il popolo e\u2019 borgesi dalla forza\nde\u2019 baroni e gentili uomini ch\u2019erano venuti sopra loro, s\u2019accamp\u00f2 a san\nDionigi con millecinquecento cavalieri ch\u2019avea accolti di suo seguito,\ne che segretamente avea dal re d\u2019Inghilterra, e con assai sergenti e\narcieri inghilesi e guasconi; e stando quivi, dava ardire a coloro\nche con lui s\u2019intendeano in Parigi, dicendo di volere combattere a\npetizione del popolo di Parigi col Delfino, e per tutto corse la boce\nche la battaglia era ingaggiata, e datole il giorno.\nCAP. LXXXI.\n_Come il re di Spagna uccise molti de\u2019 suoi baroni._\nSecondo che vogliono i savi, il parlare e lo scrivere debbe essere\nconveniente alla materia di che si tratta, e da questo principio\nprocede l\u2019arte del dire ch\u2019\u00e8 chiamata rettorica, la quale giunta\nal nobile ingegno, meglio mostra e fa pi\u00f9 piacere quello di che\nsi ragiona; di questa scienza niente sapemo, come nostra scrittura\ndimostra; e per tanto del nostro scrivere rozzo, ma vero, non diletto,\nma frutto potranno prendere i belli parlatori. Questo per tanto n\u2019\u00e8\npiaciuto di dire, perch\u00e8 le bestiali crudelt\u00e0 remote da ogni umanit\u00e0\nle quali appresso scrivere dovemo, a bene dimostrarle meriterieno\nl\u2019eloquenza di Tullio, ma noi le metteremo in nota col nostro usato\nvolgare, fuggendo i vocaboli i quali per la prossimit\u00e0 della grammatica\ndalli volgari a cui scrivemo sono poco intesi. Il crudelissimo e\nbestiale re di Spagna, avendo contro al volere e consiglio de\u2019 suoi\nbaroni palesemente ritolta la sua concubina, o pi\u00f9 volgarmente dicendo,\nbagascia, e quella sopra modo disonestamente magnificando nel suo\nreame, trascorse in tanto disordinata e sconcia vita, che tutto l\u2019animo\nreale cambi\u00f2 in crudele tirannia. Il forsennato re, per torsi dinanzi i\nriprensori de\u2019 suoi modi sozzi e sfrenati, e coloro di cui potea temere\nche a tempo i suoi errori dovessono potere correggere, maliziatamente\ntrasse fuori boce ch\u2019e\u2019 si cercava contro a lui ribellione, e di Burgos\nin Ispagna e d\u2019altre sue terre, e sotto questo colore, come fiera\ncrucciato, di sua mano uccise due suoi fratelli bastardi e il zio\ndel re d\u2019Araona, a cui per certa convegna s\u2019appartenea la successione\ndel reame di Spagna; appresso intra lo spazio di due mesi, o in quel\ntorno, ancora di sua propria mano uccise venticinque de\u2019 suoi baroni,\ncon trovando cagioni, e prendendo ora dell\u2019uno ora dell\u2019altro infinte\ne simulate infamazioni. Mirabile certo e abominevole cosa, che un re\ncristiano di suoi baroni innocenti e fedeli senza giudicio di corte,\nalmeno colorato, facesse morire, e che di sua malvagia e rabbiosa\nsentenza egli fosse il manigoldo e vile esecutore. Queste iniquitadi\noccorsono del mese d\u2019agosto e di settembre detto anno.\nCAP. LXXXII.\n_Della detta materia di Spagna._\nIl movimento del perverso tiranno di Spagna, non degno d\u2019essere\nnominato re, ma bestia selvaggia, venne in questi d\u00ec in tanta furiosa\npazzia, che costrignea i baroni che gli erano rimasi e campati di\nsua crudelt\u00e0, e i comuni, a giurare fedelt\u00e0 e omaggio alla bagascia\nsua, essendo in addietro per tutti prestato il saramento alla reina\nvecchia madre del detto re; e facendo a ci\u00f2 richiedere quelli di\nSibilla, i cittadini, fatto sopra ci\u00f2 loro consiglio, elessono\ndodici uomini de\u2019 pi\u00f9 savi e discreti, i quali per parte del comune\nandassono al re, e con savie parole gli mostrassono, com\u2019elli erano\nper saramento d\u2019omaggio obbligati alla reina vecchia, e che non\npoteano il nuovo saramento fare se prima non fossono assoluti del\nvecchio; e che cercassono dal suo disonesto proponimento levare il re,\ncortesemente mostrandoli che quello volea n\u00e8 suo bene era n\u00e8 suo onore.\nI valenti uomini seguendo il mandato del loro comune furono al re, e\nreverentissimamente li sposono quello ch\u2019era loro imposto dal consiglio\ndel comune di Sibilia. Il re chetamente, e senza mostrare atto niuno\ndi turbazione, gli ud\u00ec, e quando ebbono detto modestissimamente quello\nche vollono, credendo per loro dolce e savio parlare avere ritratto il\nre dalla folle e sconcia dimanda, il re loro non fece altra risposta,\nse non che si tocc\u00f2 la barba, e disse: Per questa barba, che male cos\u00ec\navete parlato; e con tale breve e sospettosa risposta gli ambasciadori\nimpauriti si tornarono a Sibilia. Il re infellonito poco appresso\nn\u2019and\u00f2 a Sibilia, e in una notte andando alle case loro tutti i detti\nambasciadori senza niuna misericordia fece tagliare; n\u00e8 contento a\ntanto male, in pochi giorni circa a quaranta buoni cittadini fece\nuccidere nelle loro case. Io non mi posso tenere ch\u2019io non morda\ncon dente di perpetua infamia la memoria di quello iniquo tiranno, e\nch\u2019io non passi a vituperarlo la semplicit\u00e0 del mio usato stile dello\nscrivere. Io ho letto e riletto nelle antiche scritture quello che\nin esse si pone degli iniqui e scellerati pagani, massimamente de\u2019\nbarbari, e di simili cose ho trovate, ma che tanta ingiustizia, tanta\nempiet\u00e0 e crudelt\u00e0 fosse in alcuno re cristiano, non mi ricordo d\u2019avere\nletto giammai.\nCAP. LXXXIII.\n_Come la compagnia cavalc\u00f2 a Cervia._\nCome di sopra dicemmo, il resto della gran compagnia del conte di Lando\nsotto la condotta di messer Amerigo del Cavalletto s\u2019era ridotta in\nRomagna, e ad essa tutti quelli ch\u2019erano campati della rotta dell\u2019alpe\ns\u2019erano ricolti con assai gente sviata e atta a mal fare, che fuggendo\nl\u2019oneste fatiche cercavano di vivere di preda, e a richiesta del\ncapitano di Forl\u00ec cavalcarono su quello di Ravenna, e \u2019l sale che\ntrovarono alle saline di Cervia insaccato, come fosse per caricarsi,\ne non piccola quantit\u00e0, e simile di grano e bestiame, senza alcuno\ncontasto levarono e portarono in Forl\u00ec: perch\u00e8 si credette che fosse\nbaratto del signore di Ravenna per fornire la citt\u00e0 di Forl\u00ec, e non\ntanto per amore del capitano, quanto per tema di s\u00e8, stimando, che se\nil legato avesse Forl\u00ec la guerra si volgerebbe addosso a lui.\nCAP. LXXXIV.\n_Come il capitano di Forl\u00ec mise la compagnia in Forl\u00ec._\nIl capitano, come uomo disperato, e con poca fede e legge, non avendo\nriguardo a\u2019 suoi cittadini ch\u2019erano stati a ogni martiro per sostenere\nlo stato suo, segretamente si convenne co\u2019 caporali della compagnia\ndi dar loro venticinquemila fiorini e il ricetto in Forl\u00ec, ed elli\nimpromisono a lui di levare le bastite che gli erano intorno, e che per\nalcuno tempo starebbono in Romagna al servigio suo; di che seguit\u00f2,\nche all\u2019entrante d\u2019agosto e\u2019 li mise in Forl\u00ec senza assentimento de\u2019\nsuoi cittadini: i quali essendo stati rotti, come dicemmo, avendo\npatiti molti disagi, e per tanto essendo in gran bisogno di ricetto,\nper prendere riposo cominciarono a torre le case de\u2019 cittadini,\ne loro masserizie e arnesi, e accomunare e abitare familiarmente\ncon loro, e torsi delle cose da vivere oltre a bastanza, pigliando\ndimestichezze disoneste e spiacevoli colle famiglie de\u2019 cittadini,\nche per non uscire di loro case e masserizie dimoravano con loro. Il\nperch\u00e8 assai cittadini, a cui era pi\u00f9 caro l\u2019onore che la roba, si\npartirono di loro abituri, e ristrignensi in piccoli luoghi, lasciando\nin abbandono, per non contendere con gente bestiale, tutte loro cose.\nNel quale avviluppamento manifesto si vide gli errori degli erranti e\nservili popoli, che per matta stoltizia disordinato amore portano a\u2019\nloro signori e tiranni. Di ci\u00f2 il popolo molto si dolse, e nel segreto\nricordava con mormorio la gran fede male meritata che portata aveano\nal loro capitano, sofferendo il lungo assedio in contumacia di santa\nChiesa col perdimento di tutti i loro beni, con grandi disagi e affanni\ndi loro e di loro famiglie. Onde meritevolmente in loro fu verificato\nquel proverbio che dice, chi contro a Dio getta pietra, in capo li\nritorna.\nCAP. LXXXV.\n_D\u2019una nuova compagnia di Tedeschi._\nI Tedeschi di soldo che in que\u2019 tempi erano in Italia, vedendo e\nconoscendo che altra gente d\u2019arme che venisse a dire nulla, fuori di\nloro lingua, ne\u2019 paesi di qua da\u2019 monti non era, follemente pensarono\ndi farsene signori: e vedendo che la compagnia del conte di Lando\nera in parte mancata per la rotta da Biforco, di presente s\u2019intesono\ninsieme i Tedeschi ch\u2019erano al servigio de\u2019 Sanesi, e quelli ch\u2019erano\nal servigio de\u2019 Perugini, con quelli ch\u2019erano nella provincia della\nRomagna; perch\u00e8 compiuta la ferma che Anichino di Bongardo avea\nco\u2019 Sanesi, si ritrasse con sua gente in forma di compagnia, alla\nquale il conte Luffo con settecento barbute ch\u2019erano al soldo de\u2019\nPerugini, e pi\u00f9 altri conestabili tedeschi ch\u2019erano in loro vicinanza,\ns\u2019aggiunsono, sicch\u00e8 furono circa a duemila barbute; e assai gente da\npi\u00e8 atta a rubare trassono a loro, e andarsene su quello di Perugia,\ne co\u2019 Perugini si patteggiarono in atto di ricompera per fiorini\nquattromila, e con avere il passo da Fossato per andare nella Marca: e\nd\u2019indi passarono verso Fabriano, dove trovarono che i passi erano presi\ne guardati, onde si rivolsono per la Ravignana verso Fano, e in pochi\nd\u00ec, all\u2019uscita d\u2019agosto detto anno, s\u2019aggiunsono a Forl\u00ec coll\u2019altra\ncompagnia, e posonsi di fuori della terra, entrando e uscendo a loro\nposta della citt\u00e0, e avendo vittuaglia dal signore. E per non disfare\nil gentile uomo ch\u2019era assediato, mangiando quello di che vivere dovea\ninsieme colla compagnia ch\u2019era in Forl\u00ec, feciono cavalcate e da lunga\ne da presso, e ci\u00f2 che poteano predare metteano in Forl\u00ec, facendo\nvendemmiare innanzi tempo le vigne vicine a\u2019 loro saccomanni colle\nsacca, il perch\u00e8 assai vino e altra roba da vivere assai misono nella\ncitt\u00e0.\nCAP. LXXXVI.\n_Come si lev\u00f2 l\u2019oste da molte terre._\nPer la partita della gente d\u2019arme di Toscana i Sanesi ch\u2019erano a oste\nal Montesansavino se ne levarono e tornaronsi a Siena, e i Perugini\nche manteneano oste a Cortona anche se ne partirono; per la qual cosa\nin poco tempo quelli di Cortona con meno di cento cavalieri, e con\nalquanta gente da pi\u00e8, feciono pi\u00f9 cavalcate sul contado di Perugia,\ndilungandosi da Cortona le dieci e le dodici miglia, e trovando i\ncontadini per li campi alle loro faccende, e il bestiame non ridotto in\nluogo sicuro, feciono prede assai e di uomini e di bestiame grosso e\nminuto. Ed era a tanto condotto il comune di Perugia per straccamento\ndella guerra, che cos\u00ec pochi nemici cavalcavano ne\u2019 loro pi\u00f9 cari\nluoghi, e si tornavano colle prede a salvamento, quasi senza trovare\nalcuno contasto in niuna parte. Il d\u00ec che avvenne ultimamente, che\ncinquanta cavalieri e pochi pedoni corsono e girarono il lago dintorno,\ne colla preda senza niuno impedimento si tornarono a Cortona, che pare\ncosa incredibile a dire. Quinci si pu\u00f2 notare quanto sono da fuggire,\ne quanto sono pericolose le imprese de\u2019 comuni con soperchia voglia\nbaldanzosamente cominciate, perocch\u00e8 le pi\u00f9 volte hanno altri fini che\ngli orgogliosi popoli, e pronti alle imprese maggiori che non possono\nportare, non istimano. Per\u00f2 non si pu\u00f2 avere troppa temperanza per li\nsavi governatori de\u2019 comuni, n\u00e8 troppa cura a raffrenare gli appetiti\nde\u2019 popoli, a cui sovente dire si pu\u00f2: Signore, perdona loro, che\nnon sanno che si fanno. \u00c8 vero che al nostro comune spesso avviene\nil contrario, che o voglia il popolo o no, egli \u00e8 tirato, e per forza\nsospinto nelle grandi e pericolose imprese da coloro che le dovrebbono\nvietare. Corsa la piena della gente dell\u2019arme nella Romagna, il\nlegato fece fortificare e fornire le bastite ch\u2019avea intorno a Forl\u00ec\ndi vittuaglia e di gente, e partissi da campo, e tornossi coll\u2019oste\na Faenza, e a Cesena, e per le castella dintorno, per stare a vedere\nquello che la compagnia facesse: e tutte queste cose fur fatte del\nmese d\u2019agosto detto anno. E rinnovato fu il processo, e pubblicata\nla sentenza di santa Chiesa contro alla detta compagnia, come eretici\ne favoreggiatori dello scismatico capitano di Forl\u00ec, e che ogni uomo\nli potesse offendere, e contro a loro prendere la croce; ma tal fu la\nriuscita dell\u2019altro legato quando li ricomunic\u00f2, e loro f\u00e8 tributaria\nla Chiesa di Roma e\u2019 comuni di Toscana, come addietro dicemmo, che a\nvile s\u2019ebbe la sentenza e il processo, e sua esecuzione, eziandio da\ntutti gli amici e fedeli di santa Chiesa.\nCAP. LXXXVII.\n_Come si f\u00e8 accordo dal Delfino a quelli di Parigi._\nCome addietro facemmo menzione, il duca d\u2019Orliens, e il Delfino di\nVienna, e i gentili uomini aveano posto campo a Parigi, di che poco\nappresso seguente, che parendo a quelli d\u2019entro e a quelli di fuori\nstare in molti disagi e pericoli assai, avendo ciascuno desiderio\ndi concio, che per mezzani assai di lieve vi si trov\u00f2 accordo; ma\nper tanto non vollono i borgesi che il Delfino o sua gente d\u2019arme\nentrasse in Parigi, ma pacificamente e quelli d\u2019entro e quelli di fuori\npraticavano insieme: nel quale accordo per operazione del proposto e\nde\u2019 seguaci suoi s\u2019inchiuse il re di Navarra con tutta sua gente; sotto\nla quale fidanza, o per vedere la terra, o per loro rinfrescamento,\ncerti Inghilesi entrarono in Parigi, i quali come veduti furono da\ncerti borgesi, loro levato fu il grido addosso in vendetta di loro\nsignore ch\u2019era in Londra in prigione, e tanto procedette avanti la\ncosa, che in quel furore in diversi luoghi in Parigi, come furono per\navventura trovati, furono morti circa a cento Inghilesi. Ci\u00f2 sentito\nnel campo del re di Navarra, tutto si mosse verso Parigi con animo di\nprendere del misfatto vendetta; il perch\u00e8 il re a consiglio de\u2019 suoi\ncaporali mise un aguato, e con corridori fatti sottrarre i Parigini, e\naddirizzarli per tirarli nell\u2019aguato, i folli borgesi inbaldanziti per\nquelli disarmati che aveano uccisi dentro uscirono fuori, e correndo\nalla scapestrata e senza ordine niuno caddono nell\u2019aguato, ove ne fu\nmorti oltre a trecento. La cosa fu rappaciata dentro e di fuori per\noperazione del proposto, che avea l\u2019animo dirizzato a maggiori fatti,\ncome appresso diremo.\nCAP. LXXXVIII.\n_Di detta materia, e come fu morto il proposto._\nSeguendo suo iniquo e malvagio proponimento il proposto con certi suoi\nsegretari con cui s\u2019intendea, e che con lui teneano mano a tradire\nla corona, volendo trarre a fine il tradimento che lungo tempo avea\nmenato e fermo col re di Navarra, vedendo che \u2019l popolo di Parigi si\nvenia riconoscendo del fallo suo contro al Delfino e\u2019 baroni, e temendo\nche l\u2019indugio al suo maligno concetto non fosse dannoso, affrett\u00f2\nl\u2019esecuzione del trattato e la morte sua; perocch\u00e8 con certi borgesi\ndel seguito suo, senza diliberazione o consiglio degli altri borgesi,\nbene apparecchiati in arme usc\u00ec di Parigi, e andonne a una delle\nbastite la quale aveano bene guernita e d\u2019arme e di vittuaglia, e di\ngente per sicurt\u00e0 della terra, e quella in gran parte sforn\u00ec d\u2019armadura\natta a difesa, e tolse le chiavi a colui a cui era stata accomandata\ndi volere e consiglio di tutti i borgesi, e le diede a uno borgese di\nParigi sospetto assai, perch\u00e8 era stato tesoriere del re di Navarra;\ne come fece a questa bastita, cos\u00ec fece a tutte l\u2019altre. Veggendo\ngli altri borgesi questa affrettata novit\u00e0 che si faceva senza niuno\nloro consiglio, n\u00e8 cagione vedeano perch\u00e8 ci\u00f2 fare si dovesse, n\u00e8 che\npensiere a ci\u00f2 fare avesse il proposto, cominciarono ad ammirare e a\ninsospettire, ed in piccola ora col mormorio del popolo tanto crebbe il\nsospetto, che mandarono prestamente al Delfino, con cui novellamente\naveano preso l\u2019accordo, a sapere se ci\u00f2 fosse di suo assentimento e\nvolere; e avendo risposta del n\u00f2, tutto il popolo si lev\u00f2 a romore,\ngridando: Viva il Delfino, e muoiano i traditori; e in quella furia\ngiunsono il proposto, e tagliarono a pezzi con certi suoi confidenti\nch\u2019erano con lui, e nel detto furore corsono alle porte, e uccisono\ntutti coloro che \u2019l proposto v\u2019avea a guardare diputati, e alle bastite\nrinnovellarono e guardie e serrami.\nCAP. LXXXIX.\n_Come furono impesi que\u2019 borgesi a cui erano state accomandate le\nchiavi delle bastite._\nIl giorno dopo la morte del proposto, i borgesi di Parigi, riconosciuti\ndel fallo loro, di comune consiglio mandarono nel campo al Delfino,\nche li piacesse, poich\u00e8 morto era il traditore della corona co\u2019 seguaci\nsuoi, di volere dimenticare l\u2019offesa che ignorantemente era fatta loro,\ncome persone ingannate da coloro che falsamente li conducevano, e che\nin Parigi dovesse venire, e reggere e governare la citt\u00e0 e il popolo\ncome loro signore naturale, che presti e apparecchiati erano tutti a\nubbidire e fare i suoi comandamenti. Il Delfino avuto suo consiglio\nrispose molto benignamenente agli ambasciadori, dicendo, che bene\nconoscea onde era mosso l\u2019inganno del popolo, e che molto era contento\nche la comune di Parigi avea scoperti i loro traditori e della corona,\ne che per loro se n\u2019era presa vendetta, ma ancora non a pieno: e per\u00f2,\ninnanzi ch\u2019e\u2019 volesse entrare nella citt\u00e0, volea che del tesoriere del\nre di Navarra e del compagno, a cui erano state date le chiavi delle\nbastite, fosse fatta giustizia, e poi lietamente e con pieno amore de\u2019\nsuoi borgesi v\u2019entrerebbe. Tornati gli ambasciadori nella terra, furono\npresi il tesoriere e \u2019l compagno, e tranati per la terra, e impesi al\ncastelletto; e fatto ci\u00f2, il Delfino con tutta sua gente con grande\nfesta entrarono in Parigi, ricevuti da tutti i cittadini con singolare\nallegrezza.\nCAP. XC.\n_Come si scoperse il trattato tenea il re di Navarra._\nIl Delfino ordinato in Parigi generale parlamento, nel quale fece\ncon savie e ornate parole mostrare al popolo la buona voglia ch\u2019egli\ne\u2019 baroni e\u2019 gentili uomini aveano a\u2019 borgesi di Parigi, e in quello\nfece nuovo proposto di mercatanti come a lui piacque, uomo di cui bene\nsi potea fidare: e oltre a ci\u00f2, rendendo onore al popolo, fece dire,\nche quando volont\u00e0 de\u2019 borgesi fosse, e\u2019 sarebbe contento che sei\nborgesi, i quali e\u2019 fece nominare, fossono nella guardia e giudicio\ndel popolo, perocch\u2019e\u2019 sentiva ch\u2019erano stati segretari del proposto\ncui eglino aveano giudicato per traditore della corona. Come questo\nfu detto, senza arresto i detti sei borgesi furono presi, e venuti in\ngiudicio, senza alcuna molestia o tormento confessarono, che la notte\nche il giorno dinanzi era stato morto il proposto, il re di Navarra\ndovea prendere le bastite, ed entrare in Parigi con tutta sua forza,\ne coll\u2019aiuto del proposto e di suo seguito dovea correre Parigi; e che\nvenendo prestamente fatto e al re e al proposto loro intenzione, il re\nsi dovea fare coronare del reame di Francia per mano del vescovo di....\nil quale allora era in Parigi, e si part\u00ec di presente come vide morto\nil proposto; e che il detto re di Navarra dovea riconoscere il reame\ndi Francia da quello d\u2019Inghilterra e fargliene omaggio, e restituirgli\nla contea d\u2019Alighiero e altre terre, ed egli lo dovea atare a\nracquistare il reame con tutta sua forza; e che se ci\u00f2 venisse fatto,\ncom\u2019era ordinato, il re d\u2019Inghilterra dovea fare tagliare la testa al\nre Giovanni di Francia, cui egli avea in prigione, e che i Lombardi\ne\u2019 Giudei ch\u2019erano in Parigi doveano essere preda degli Inghilesi.\nFatta la detta confessione, senza arresto i detti sei borgesi furono\ngiustiziati; per li savi scoprire il processo fu poco senno tenuto,\nessendo il re di Francia e \u2019l figliuolo in prigione, perch\u00e8 essendone\nil re d\u2019Inghilterra infamato, si dovea potere muovere a cruccio, e mal\ntrattare il re e \u2019l figliuolo.\nCAP. XCI.\n_Come il re di Navarra guast\u00f2 intorno a Parigi._\nAvendo avuto il re di Navarra dal proposto come avea cambiate le\nguardie, e dato ordine presto alla esecuzione del trattato, non sapendo\nci\u00f2 ch\u2019era occorso al proposto, venne per prendere la prima bastita,\nla quale trovando fornita di gente nuova e bene in punto alla difesa,\ncomprese che \u2019l trattato fosse scoperto: perch\u00e8 mettendosi pi\u00f9 innanzi\nin sentore, intese come il proposto co\u2019 suoi consiglieri erano stati\nmorti dal popolo; perch\u00e8 vedendo in tutto suo pensiero annullato, d\u2019ira\ne di mal talento incrudelito nell\u2019animo suo, non ostante concordia\nn\u00e8 pace ch\u2019avesse co\u2019 borgesi, tent\u00f2 se per forza potesse vincere la\nbastita: e lavorando invano, partito da quella, scorse intorno a Parigi\nardendo, e guastando, e predando ci\u00f2 che pot\u00e8. E poich\u00e8 cos\u00ec ebbe\nfatto alquanti giorni, non trovando in campo contasto, se ne torn\u00f2 a\nMonleone grosso castello, posto presso a Parigi a... leghe, e ivi si\npose ad assedio. E come che \u2019l fatto s\u2019andasse, al detto re cresceva\ngente d\u2019arme da cavallo e da pi\u00e8, la quale si movea d\u2019Inghilterra non\nper manifesta operazione del re, ch\u2019era nel trattato della pace, ma i\ncavalieri si mostravano muovere da loro e per loro volont\u00e0, come andare\nin compagnia. Ed essendo per li cardinali mezzani della pace detto al\nre che questo non era ben fatto, e che li piacesse mettervi rimedio,\nscusossi, dicendo, che ci\u00f2 molto gli dispiaceva, ma che quella era\ngente disperata e di mala condizione, cui egli per suoi comandamenti\nnon potea n\u00e8 correggere n\u00e8 arrestare. E con questa gente il re di\nNavarra cavalcava per tutto, e ardeva, e predava, e conduceva male\nil reame di Francia, non ostante l\u2019ordine della pace preso; nel quale\ns\u2019adatt\u00f2 il proverbio che dice, tra la pace e la triegua, guai a chi la\nlieva.\nCAP. XCII.\n_Come il marchese non volle dare Asti a\u2019 Visconti._\nEssendo per l\u2019imperadore, per li patti della pace tra\u2019 collegati e\ni signori di Milano, dichiarato che Pavia rimanesse a popolo e in\nlibert\u00e0, e che Asti fosse renduto a\u2019 signori di Milano, i signori di\nMilano della dichiarazione non contenti pertinacemente domandavano\nPavia, e non che loro fosse ci\u00f2 conceduto pe\u2019 collegati, ma il marchese\ndi Monferrato, che tenea Asti, nol volea rendere loro. Cos\u00ec ciascuna\ndelle parti della pace fatta rimanevano malcontenti; e cominciarsi i\ncollegati a temersi de\u2019 signori di Milano, e quelli di Milano feciono\nloro sforzo, e mandarono a oste nel Piemonte contro ad Asti e all\u2019altre\nterre che \u2019l marchese tenea in Piemonte, e ordinarono di riporre le\nbastite a Pavia, e ci\u00f2 in piccolo tempo fornirono. Il marchese rimasto\npovero e di danari e d\u2019aiuto per li Lombardi, che non si ardivano a\nscoprire per la pace fatta contro a\u2019 signori di Milano, francamente\ns\u2019apparecchiava alla difesa e alla guerra come meglio potea.\nCAP. XCIII.\n_Come la compagnia assal\u00ec Faenza._\nLasciando i fatti di Francia e di Lombardia e tornando ai pi\u00f9 vicini,\nla compagnia, ch\u2019era in Romagna tra Forl\u00ec e Faenza, sentendo male\nfornita di gente d\u2019arme la citt\u00e0 di Faenza, la quale si tenea per\nla Chiesa, dove non era che uno capitano con meno di cento uomini\nda cavallo, si strinsono alla terra, ed entrarono in uno dei borghi.\nIl detto capitano allora era di fuori, e volendo tornare dentro, fu\nabbattuto e ferito, e de\u2019 suoi compagni assai magagnati. Per ventura\nerano in quel punto in Faenza trecento cavalieri del comune di Firenze\nall\u2019ubbidienza d\u2019uno cavaliere fiorentino, il quale vedendo il subito\ne improvviso assalto prestamente si mise alla difesa colla brigata\nsua, e riscosse il capitano, e i nemici fuori del borgo sospinse con\nloro assai danno, e ricoverato il capitano e l\u2019onore della Chiesa si\ntorn\u00f2 in Faenza. Per lo detto assalimento baldanzoso e non provveduto\nsi temette che non fosse nella terra trattato, ma se v\u2019era, non si\ntrov\u00f2. E ci\u00f2 fu del mese d\u2019agosto del detto anno. Appresso a pochi\nd\u00ec la compagnia de\u2019 Tedeschi della bassa Magna sotto il capitanato\nd\u2019Anichino di Bongardo s\u2019accost\u00f2 con quella ch\u2019era in Romagna, e molti\naltri Tedeschi che spontaneamente si partivano da\u2019 soldi degli Italiani\ns\u2019aggiunsono con loro, e come ebbono fatta una massa, vedendosi\nforti cominciarono a gridare a Firenze, tenendosi per fermo e per\nlo consiglio e da tutti che da\u2019 Fiorentini fossono stati traditi, e\nnell\u2019alpe sconfitti. Di questa adunata e di sua mala parlanza gran\nsospetto si prese a Firenze, perch\u00e8 si prese argomento di guardare i\npassi, come appresso diremo.\nCAP. XCIV.\n_Come i Fiorentini mandarono a Bologna per la quistione dello Stale._\nTemendosi per lo nostro comune che la compagnia per lo passo dello\nStale, che assai era largo e aperto, non li venisse addosso, in certa\nparte di quello luogo avea fatto fare e tagliare i palizzati, i quali\nerano abbandonati, perocch\u00e8 per li patti fatti colla compagnia doveano\npassare da Biforco, come addietro dicemmo. E vedendo il comune che\nla compagnia partita da Vicchio di quindi era passata in Romagna,\ne considerando che quello era il pi\u00f9 agevole passo che potesse fare\ngente d\u2019arme che da quella parte venisse in offesa di nostro paese,\nprese ragionamento di farvi fortezza. Sentendo ci\u00f2 gli Ubaldini e i\nconti da Mangona, a cui a tempo la fortezza potea essere nociva, di\npresente furono al signore di Bologna, e gli diedono a intendere che\nquello luogo era del comune di Bologna; perch\u00e8 per la mala informazione\nturbato scrisse al nostro comune assai altieramente. Di che il nostro\ncomune f\u00e8 ritrovare l\u2019antiche ragioni che \u2019l monistero di Settimo ha\nnello Stale e ne\u2019 luoghi circostanti, colle quali per ambasciadori\ne difendere delle dette ragioni mand\u00f2 a Bologna messer Francesco\ndi messer Bico degli Albergotti d\u2019Arezzo cittadino di Firenze,\neccellentissimo e famoso dottore in ragione civile, il quale allora\nleggeva in Firenze. Questi circa lo spazio d\u2019un mese stette a disputare\nco\u2019 dottori bolognesi sopra la materia, e in fine in presenza del detto\nsignore di Bologna fu determinato, che \u2019l nostro comune aveva ragione,\ntutto che gran punga fosse fatta per li detti Ubaldini e\u2019 conti in\ncontrario. E a fede di ci\u00f2, il signore scrisse appieno al nostro\ncomune, e le lettere e cautela furono registrate del mese di settembre\nCAP. XCV.\n_Qui si fa menzione delle ragioni che \u2019l monistero di Settimo ha nello\nStale._\nE\u2019 n\u2019\u00e8 di piacere, poich\u00e8 nel precedente capitolo detto avemo dei modi\ntenuti per gli Ubaldini e\u2019 conti di Mangona intorno alla quistione\ndello Stale, di fare in sostanza alcuna memoria delle ragioni che la\nbadia di Settimo ha nel detto Stale, pi\u00f9 per reverenza della buona e\nfedele antichit\u00e0 che per vaghezza di scrivere. Trovato fu nel monistero\ndi Settimo una carta rogata negli anni dell\u2019incarnazione del nostro\nSignore 1040 a d\u00ec 13 di dicembre, nel quale si celebra la festa della\ngraziosa santa Lucia, e nell\u2019anno secondo dell\u2019imperio d\u2019Arrigo, del\ncui tenore in parte togliemo questo. Guglielmo conte, figliuolo di\nmesser Lottieri conte e di madonna Adalagia contessa, diede per rimedio\ndell\u2019anima sua e de\u2019 suoi genitori, alla Chiesa e al monistero di san\nSalvadore, nel luogo che si dice Gallano, ove si dice lo Spedale, con\nogni ragione, e aggiacenza, e pertinenza sua, e qualunque e quanto a\nquel luogo s\u2019appartiene, in perpetuo a noi Ugo, e agli Abati che per li\ntempi saranno; e appresso quello che concede confina cos\u00ec. Da oriente,\ndal Nespolo infino al Pero lupo, e infino alla Stradicciuola, e siccome\ncorre la detta Stradicciuola infino alla collina; da mezzogiorno\ndalla detta collina infino a Ferimibaldi, e da Ferimibaldi infino a\nFeumicarboni, e da Feumicarboni infino a Collina de\u2019 monti propio....\ne infino a Fontegrosna, e siccome trae il vado d\u2019Astronico. Dalla\nparte d\u2019occidente, dal guado Astronico infino a Montetoroni, e infino\na Ronco di Palestra, ritorna fino al Nespolo di Briga. E sono tutte le\npredette terre e cose, e tutti i piani, e alpi, e le loro pertinenze,\nsecondo che si dice nella detta carta, infra \u2019l contado di Bologna e\ndi Firenze. Nel 1292, a d\u00ec 19 di dicembre, il popolo di santo Iacopo a\nMontale e di san Martino di Castro per sentenza di lodo poterono usare\ni detti beni quattordici anni, dando la decima di tutto il frutto e\ncerto censo al detto monistero. E perch\u00e8 semo entrati in ragionamenti\ndi confini, diremo de\u2019 confini tra il nostro comune e quello di\nBologna, per bene e pace dell\u2019uno e dell\u2019altro comune, i quali furono\nterminati per messer Alderighi da Siena arbitro in tra i detti comuni,\ne furono questi. Il Mulinello a pi\u00e8 di Pietramala \u00e8 del nostro comune,\ne Baragazzo, e il Poggio del fuoco, e delle valli, e mezzo Montebene, e\nSassocorvaro, e il prato di Baragazzo.\nCAP. XCVI.\n_Come la compagnia della Rosa di Provenza si spart\u00ec e disfecesi._\nIn questi d\u00ec, sentendosi le novit\u00e0 di Francia che narrate sono, e\ncome il paese s\u2019apparecchiava a nuova guerra per l\u2019operazioni del\nre di Navarra, la compagnia, che lungamente era stata in Provenza, e\navevanvi assai terre acquistate, vedendo che poco avanzavano stando\nquivi, ed essendo parte di loro richiesti dal Delfino, sperandosi pi\u00f9\navanzare nelle guerre di Francia che nella povert\u00e0 di Provenza, premono\nper partito di partirsi, e trattarono co\u2019 paesani d\u2019andare, e di\nrendere le terre e le castella che aveano prese; e venuti a concordia,\nebbono ventimila fiorini d\u2019oro, e catuno se n\u2019and\u00f2 dove li piacque, e\nlasciarono il paese di Provenza, ove erano stati predando i paesani e\naffliggendo pi\u00f9 di diciassette mesi continui in guastamento del paese.\nCAP. XCVII.\n_Come s\u2019afforz\u00f2 e guard\u00f2 i passi dell\u2019alpe perch\u00e8 la compagnia non\npassasse._\nPoich\u00e8 fu terminata la quistione dello Stale, sentendo il nostro\ncomune che la compagnia s\u2019apparecchiava a quello luogo, avendo posto\ncampo tra Bologna e Imola, e temendo non prendesse indi suo vantaggio\nin Toscana, senza perdere tempo vi mand\u00f2 provveditori e maestri per\nafforzare s\u00ec quel passo, che togliesse speranza alla compagnia, e a\nqualunque altra gente volesse offendere il comune, di quindi passare.\nE perch\u00e8 a sicurt\u00e0 i maestri e\u2019 paesani potessono intorno a ci\u00f2\nlavorare, vi mand\u00f2 il comune balestrieri assai e altra gente d\u2019arme\nquale pens\u00f2 alla difesa essere bastevole, con fare comandamento a\ntutti i paesani e vicini a quello luogo che vi dovessono essere e\ncolle persone e colle bestie loro ad atare, tanto che \u2019l luogo fosse\nabbastanza afforzato, i quali vi mandarono volentieri per tema di non\nessere sorpresi incautamente dalla compagnia, che da quelli dell\u2019alpe\nsi tenea offesa, e avea appetito di vendicarsi. L\u2019opera fu di volont\u00e0\naffrettata perch\u00e8 il pericolo era vicino, e in piccolo tempo fu tutto\nfornito, cominciando dalla vetta de\u2019 colli e passando per lo tramezzo\ndelle valli, li fossi e li steccati, colle torri di legname e bertesche\nspesse a guisa di mura di terra, con tre belle e forti bastite in su i\npoggi per dare favore a quelli che difendessono i palizzati, e perch\u00e8,\nse caso di rotta avvenisse, si potessono ricogliere a salvamento.\nLa chiusa per lungo fu intorno di passi ottomila, stendendosi insino\npresso a Montevivagni. Quelli della compagnia, che s\u2019erano alloggiati\nin su quello d\u2019Imola, pi\u00f9 volte tentarono e per diverse parti passare\nin sul nostro contado, ma sentendo ch\u2019e\u2019 passi dell\u2019alpe erano bene\nguardati (che pi\u00f9 di dodicimila pedoni, la maggiore parte balestrieri,\ntalora fu che si trovarono allo Stale, senza quelli ch\u2019erano all\u2019altre\nposte) mutarono proponimento, e rivolsonsi indietro nella Romagna,\ne massimamente sentendo venuto in Firenze messer Pandolfo di messer\nMalatesta da Rimini per capitano di guerra, non lasciando per\u00f2 le\nminacce contro al nostro comune.\nCAP. XCVIII.\n_Come l\u2019imperatore fece il duca d\u2019Osteric re de\u2019 Lombardi._\nCarlo imperadore de\u2019 Romani, essendo nel detto anno 1358 del mese di\nsettembre morto il duca vecchio d\u2019Osteric, il giovane duca ch\u2019era\nrimaso signore si fece a parente, e gli di\u00e8 una sua figliuola per\nmoglie; e lui volendo aggrandire, vedendo che la forza del genero\ngiunta alla sua era grandissima, e per l\u2019avviso del conte di Lando\ne degli altri caporali di lingua tedesca avea sentito, come le parti\nd\u2019Italia, massimamente Romagna e Toscana, erano male disposte, e atte\na potere venire sotto signore, si pens\u00f2 ci\u00f2 potere di lieve seguire\ncon titolo di signore naturale, perocch\u00e8 il nome del tiranno a\u2019 liberi\npopoli, massimamente di Toscana, era terribile, e non potea essere\naccetto, e per tanto il detto duca fece e pronunzi\u00f2 re de\u2019 Lombardi. Il\nduca, come giovane, e vago di crescere suo nome e signoria, accett\u00f2 il\ntitolo del reame: ci\u00f2 sentito in Italia, non fu senza gran temenza; il\nperch\u00e8 tantosto i signori e\u2019 comuni s\u2019intesono insieme, dando ordine\na leghe e a tutto ci\u00f2 che pensarono essere necessario e bastevole a\nimpugnare l\u2019impresa del nuovo signore.\nCAP. XCIX.\n_De\u2019 processi della compagnia in questi giorni._\nNoi dicemmo addietro come il capitano di Forl\u00ec per patto promise\nquindicimila fiorini alla compagnia, e la cagione perch\u00e8, onde venendo\nil tempo che pagare li dovea, e non avendo il di che, eziandio\naffannando di presta i suoi cittadini, diede a\u2019 caporali contanti\nfiorini duemila: ed essendo suoi prigioni il figliuolo del conte\nBandino da Montegranelli, e due figliuoli del conte Lamberto della\ncasa de\u2019 Malatesti detto il conticino da Ghiaggiuolo, i quali erano\nstati presi nella guerra del cardinale di Spagna, loro assegn\u00f2 alla\ndetta compagnia in parte di pagamento per fiorini diecimila. Currado\nconte di Lando, sentendo l\u2019impotenza del gentiluomo, coll\u2019animo suo\ndiritto e libero dove avesse avuto di che sadisfare, cortesemente li\nfece accettare, attendendosi dell\u2019avanzo alla fede e promessa del\ncapitano; e per non stare in bargagno, avendo il conte bisogno di\ndanari, assent\u00ec il riscatto de\u2019 detti prigioni per quattromila fiorini:\ne ci\u00f2 fatto, con tutta sua brigata prese cammino, e si strinse verso\nquello d\u2019Imola e di Faenza, cercando preda per vivere. E nei detti\npaesi ha una valle grassa e abbondante d\u2019ogni cosa da vivere che detta\n\u00e8 Limodiccio, la quale \u00e8 circondata di poggi altissimi e aspri, e con\nassai stretti cammini all\u2019entrare e all\u2019uscire per grandi montate e\nscese: i villani di quel paese s\u2019erano ridotti alle guardie de\u2019 poggi\nov\u2019erano l\u2019entrate, non sperando che per lo grande disavvantaggio\ndi chi venisse di sotto gente d\u2019arme gli andasse ad assalire, poco\navendo considerazione, che la fame fa cercare per lo cibo ogni\nluogo segreto, e assalire eziandio le impossibili cose. Quelli della\ncompagnia assalirono le montagne con franchezza d\u2019animo, facendo in\nfatti d\u2019arme maraviglie; il perch\u00e8 i villani impauriti e inviliti\nlasciarono i passi, e diersi alla fuga, onde la valle tutta venne in\npotest\u00e0 de\u2019 nemici, dove trovarono assai roba da vivere. E a loro fu\nbene bisogno di cos\u00ec trovare, per ristorare i disagi e la fame patita\na Forl\u00ec: ed ivi adagiato e loro e loro bestie, vi dimorarono fino a d\u00ec\n16 del mese di ottobre. E mentre che stavano a Limodiccio; pi\u00f9 volte\ncercarono di passare in sul Fiorentino, ma ci\u00f2 fu in vano; perocch\u00e8\ntrovavano onde speravano passare s\u00ec forniti e ordinati al riparo, che\nnon s\u2019assicurarono di mettersi a partito. E andarono a Modigliana, e\nassaggiarono il castello con battaglia, e niente poterono acquistare.\nAll\u2019uscita del mese cavalcarono a Massa, che \u00e8 del vescovo d\u2019Imola,\ne come suole avvenire de\u2019 beni de\u2019 cherici, che non contendono se\nnon a pelare, essendo il luogo male provveduto di guardia la presono,\ndove trovarono assai roba da vivere e arnese da preda. Alla rocca non\nfeciono assalto, perocch\u00e8 essendo nella guardia del signore d\u2019Imola\nera bene guarnita e apparecchiata a difesa. I mascalzoni per la troppa\nroba vi trovarono vennono tra loro a discordia nel pigliare della roba,\ne per non venire a peggio tra loro misono fuoco nella terra, e arse\ntutta colla maggiore parte di ci\u00f2 che v\u2019era dentro, perch\u00e8 convenne che\nla brigata si partisse e accampasse di fuori; e quivi soggiornarono\nalquanto verso i confini di Bologna: e non avendo la vittuaglia che\na loro bisognava, il signore di Bologna ne dava loro, e sostenneli\nquivi tutto il mese di novembre. Ci\u00f2 disse che fece, perch\u00e8 il legato\nCardinale di Spagna era in cammino per passare in Romagna a ripigliare\nla guerra, e non sapea l\u2019intenzione sua, sicch\u00e8 per gelosia di suo\nstato era contento d\u2019avere la compagnia di presso.\nCAP. C.\n_Come il re del Garbo fu morto._\nBuevem re del Garbo, il quale volgarmente \u00e8 detto il reame della\nBellamarina e di Tremusi, avendo lungo tempo con ardire e con senno\nsostenuto l\u2019onore di sua corona, e avendosi sottoposto, come nel primo\nlibro narrammo, gli altri re de\u2019 barbari che gli erano vicini, cio\u00e8\nquello di Costantina e quello di Buggea i quali tenea in prigione,\ncadde in malattia da tosto guarire; ma la rabbia e la cupidigia del\nsignoreggiare accese gli animi de\u2019 figliuoli, che per nobilt\u00e0 doveano a\nlui a tempo succedere, e s\u00ec lo strangolarono. E morto lui, il maggiore\ndi loro d\u2019et\u00e0 di sedici anni nominato Bugale prese la signoria, e\nfessi coronare, ma non con volont\u00e0 e amore di tutti i baroni. Per la\nqual cosa alquanti di loro, e non de\u2019 minori, s\u2019accostarono all\u2019altro\nfratello ch\u2019era di meno giorni, cio\u00e8 d\u2019et\u00e0 di dieci anni, il quale era\noltre a quello che tale et\u00e0 richiedea e intendente e astuto; e il suo\nnome era Bestiezti, e a lui dissono: Quando il padre tuo fu fatto re,\nper potere regnare senza sospetto de\u2019 suoi fratelli, a venticinque fece\ntagliare la testa, e cos\u00ec pensa che tuo fratello far\u00e0 a te: e per\u00f2, se\nvogli seguire nostro consiglio, noi ti faremo re colla nostra potenza,\nse tu ci prometti di fare morire lui. La cagione di questo fu, ch\u2019e\u2019\ndicea che i baroni non guidavano bene i fatti del reame. Il giovane per\nvenire alla corona con tutto il suo consiglio a ci\u00f2 s\u2019accord\u00f2. Perch\u00e8\nessendo ancora il re giovane debole nella signoria nuova, e poco da\ns\u00e8 accorto e meno avvisato, fu da\u2019 baroni preso per comandamento del\nfratello, e come patricida saettato, sicch\u00e8 in piccolo tempo spacci\u00f2\nil regno acquistato col micidio del padre, e s\u00e8 di vita. Gli altri\nfratelli vedendo questo crudele principio fuggirono in Sibilia, e \u2019l\nminore fatto re, colla sua forza rimase nelle mani de\u2019 baroni, perocch\u00e8\nnon era in tempo da potere n\u00e8 da sapere governare il reame. Con questa\nmalizia fu il maggiore fratello abbattuto, onde molti de\u2019 baroni avendo\nil re fanciullo a vile, occuparono assai delle giurisdizioni del reame.\nDi questo seguette, che uno antico barone e di grande seguito di fuori\ndi Fessa si fece fare re alla setta sua, e cominci\u00f2 a guerreggiare\nil giovane re. Sentendo Suscialim fratello del re Buevem morto, come\ndicemmo di sopra, il quale era fuggito in Sibilia, questa divisione\nde\u2019 baroni, richiese il re Pietro di Sibilia d\u2019aiuto, il quale li\nfece armare due galee e valic\u00f2 a Setta, e l\u00e0 fu ricevuto come re; e\navendo aiuto da\u2019 paesani se n\u2019and\u00f2 a Fessa, ove il giovane re era con\npoco aiuto e consiglio; e per\u00f2 giunto a Fessa fu ricevuto come re; e\ndisposto il fratello, e messo in prigione, e accolte maggiori forze\nand\u00f2 contro al barone che s\u2019era fatto re, il quale brevemente fece\nmorire, ed egli rimase libero signore del reame della Bellamarina: e\nquesto avvenne nel detto anno 1358. \u00c8 vero che quando mor\u00ec il gran re\nBuevem, che i re che avea in prigione furono lasciati, e ripresonsi i\nloro reami di Buggea e di Costantina: e il reame di Tremusi si rubell\u00f2,\ne tornossi allo stocco de\u2019 re usati.\nCAP. CI.\n_Come i cardinali ch\u2019erano in Inghilterra si tornarono a corte._\nEssendo il cardinale di Pelagorga e quello di Roma messer Iacopo\nCapocci in Inghilterra, per seguire l\u2019accordo de\u2019 due re della pace\nordinata con titolo di santa Chiesa, e \u2019l cardinale il quale fu\ncancelliere del re di Francia, il quale stava di l\u00e0 in proprio servigio\ndel detto re, avvedendosi l\u2019uno d\u00ec dopo l\u2019altro che l\u2019operazioni del re\nd\u2019Inghilterra erano a impedire, che la moneta che si dovea pagare per\nlo re di Francia, e li stadichi che si doveano dare non si fornissono;\ne vedendo che il detto re mantenea in arme e in preda, e in grave\nintrigamento de\u2019 paesi di Francia, il re di Navarra, e che di continovo\nli aggiugnea forza de\u2019 suoi Inghilesi, per modo che i baroni colle\ncomunanze di Francia non aveano destro d\u2019accogliere la moneta n\u00e8 di\nmandare li stadichi; e avendo di ci\u00f2 per pi\u00f9 riprese richiesto il re\nd\u2019Inghilterra che vi mettesse ammenda, ed egli risposto loro, che nol\npotea fare; temendo che sotto l\u2019ombra del dimoro non s\u2019apparecchiasse\nloro pi\u00f9 vergogna che onore, se ne partirono: e per la loro partita\nsenza frutto feciono manifesto, che piuttosto guerra che pace dovesse\nseguitare; come poi n\u2019addivenne, secondo che a suo tempo racconteremo.\nE questo fu del mese d\u2019ottobre del detto anno.\nCAP. CII.\n_Della pace da Sanesi a\u2019 Perugini._\nEssendo dibattuti i Perugini e\u2019 Sanesi nella loro guerra novella,\ncome per noi addietro \u00e8 fatta memoria, essendo continovo il comune\ndi Firenze in sollicitudine di mettere tra loro pace co\u2019 suoi\nambasciadori, e inframettendosi anche il legato di Romagna di questa\nmateria, all\u2019ultimo l\u2019uno comune e l\u2019altro, avendo ciascuno voglia\nd\u2019uscire di guerra e di spesa pi\u00f9 onestamente che potesse, si rimisono\nnegli ambasciadori del legato e de\u2019 Fiorentini, i quali diligentemente\npraticarono con catuna parte, per vedere se modo convenevole si potesse\ntrovare; e trovando che \u2019l dibattito era di potersi con alcuno mezzo\nterminare; vollono che da catuno comune venissono sindacati, e la\nfermezza de\u2019 Perugini di quello, che per loro s\u2019avesse a ordinare\ndi Montepulciano, e da\u2019 Sanesi di Cortona: e avuti i sindacati e le\ncautele che domandarono, diedono la sentenza, e tennonla segreta, e\nfeciono a catuno comune pubblicare la pace, e sicurare le strade e\u2019\ncammini, e feciono pubblicazione in catuna citt\u00e0, e in Firenze fu\ncelebrata solennemente d\u00ec ultimo del mese d\u2019ottobre del detto anno:\ndappoi si manifest\u00f2 la sentenza, e fu in questo modo. Che tra i detti\ncomuni dovesse essere ferma, e buona e perpetua pace, e che i Perugini\ndovessono lasciare libera la terra di Montepulciano a\u2019 suoi terrazzani,\ne dovessono patere mettere in Cortona da indi a quattro anni di tempo\nin tempo podest\u00e0, e dove i Cortonesi non lo volessono, dovessono\ndare il salario al detto podest\u00e0, il quale era di lire quattrocento\nl\u2019anno, e dovessono i detti Cortonesi ogni anno de\u2019 detti quattro anni\ndare a\u2019 Perugini un palio di seta e che i Sanesi infra cinque anni\nnon potessono mettere podest\u00e0 in Montepulciano, ma lasciare la terra\nlibera, e da cinque anni in l\u00e0 vi dovessono mettere podest\u00e0, ed avere\nil censo usato. Quando dopo la pace predetta ne fu fatta pubblicazione,\ne l\u2019uno e l\u2019altro comune se ne mostr\u00f2 in grande turbazione, e ciascuno\nmand\u00f2 solenne ambasciata a Firenze per fare rivocare la detta sentenza.\nIl comune di Firenze sentendo, che nel praticare della cosa gli\nambasciadori de\u2019 detti comuni erano stati quasi in concordia di questo,\ne che di nuovo non vi s\u2019era fatto fuori che \u2019l termine e \u2019l modo delle\nsignorie, riprendendo onestamente i detti comuni in persona de\u2019 loro\nambasciadori, rispose, che intendea che si osservasse la pace; ma per\u00f2\nnon rimasono in vista contenti i detti comuni, bench\u00e8 novit\u00e0 di guerra\nnon movessono insieme.\nCAP. CIII.\n_Come il cardinale torn\u00f2 in Italia._\nIo non posso fare ch\u2019io non ripeta talora in alcuna parte le cose\ngi\u00e0 dette, non per crescere scrittura (perocch\u00e8 le cose notabili che\noccorrono continovamente tanto abbondano, che assai di spazio prendono\nnel libro) ma per giugnere insieme e le vecchie e le nuove cagioni, che\nne\u2019 principii non conosciute, o conosciute e non debitamente curate,\no che peggio diremo, per grazia o potenza de\u2019 cittadini con infiniti\ncolori trapassate, hanno danni incredibili e pericoli gravissimi pi\u00f9\nvolte giattato, e ridotta nostra citt\u00e0 in temenza di non perdere\nsua libert\u00e0. E tutto che lo scrivere aperto in s\u00ec fatte materie,\nmassimamente per lo pugnere cui tocca, dalli pochi intendenti paia\nch\u2019abbia in s\u00e8 materia di cruccio e malevolenza, che nel vero appo li\nsavi no; ma pure cos\u00ec fare si dee da qualunque per beneficio di sua\ncitt\u00e0, e forse dell\u2019altre prende la cura di scrivere; perocch\u00e8 tacere\nil male, e solo il bene mettere in nota, toglie fede alla scrittura,\ne fa l\u2019opera di meno piacere e profitto, e se sottilmente si guarda,\nforse \u00e8 dannoso, perocch\u00e8 li rei sentendo occultare le loro opere pi\u00f9\nbaldanzosamente procedono al male, e di s\u00e8 fanno specchio a coloro\nche devono venire a invitarli per l\u2019impunit\u00e0 del segreto peccato\nalle pessime cose, d\u2019onde tema d\u2019infama li suole talora ritrarre, e\nil comune, per non essere avvisato delle malizie passate, con meno\ncautela e meno consiglio procede in quelle che li sono apparecchiate\ndinuovo. Questo parlare a molti forse parr\u00e0 di soperchio in questo\nluogo, ma se si recheranno alla mente, per li ricordi che sono fatti e\nnelle vecchie e nelle nuove scritture, i modi per li nostri cittadini\nper l\u2019addietro alcuna volta tenuti, troveranno, che chi per ottenere\nbeneficii ecclesiastici, chi per essere tesoriere e capitano nelle\nterre della Chiesa di Roma, non solo hanno consigliato che sia dato\naiuto e favore non dico alla Chiesa di Dio, che si dee sempre fare, ma\nai forestieri, che sotto nome di duchi, conti, e capitani, o legati di\npapa, o altri titoli onesti nel nome ma tiranneschi nel fatto, della\npovert\u00e0 di Provenza sono passati a signoreggiare i nobili e famosi\npaesi d\u2019Italia, ma hanno sforzato o in uno o in altro modo e sospinto\nil nostro comune disonestissimamente a ci\u00f2 fare. Il di che \u00e8 pi\u00f9\nvolte seguito, che essendo il mondano e temporale stato della Chiesa\ndi Roma colla forza del nostro comune in Italia ingrandito e montato\nin sommo grado di signoria, i governatori d\u2019essa insuperbiti, posto\ngi\u00f9 ogni religione e ogni vergogna, come ingrati e sconoscenti de\u2019\nbeneficii ricevuti, a leggi e costumi di malvagi tiranni, hanno cerco\ncon trattati e tradimenti per occulte e coperte vie, infino a venire in\npalese a volerci sottomettere a loro signoria, e torre nostra libert\u00e0;\nil perch\u00e8 \u00e8 stato di necessit\u00e0 al nostro comune, per difendere suo\nstato e giustizia, spendere milioni di fiorini, e che \u00e8 stato peggio,\noperarsi contro alla Chiesa di Roma, che ne di\u00e8 il segno di parte,\nsicch\u00e8 si pu\u00f2 dire quasi contro a s\u00e8 stesso; e quanto che cos\u00ec suoni\nil grido, il vero \u00e8 stato, che non contro a Chiesa, ma contro a malvagi\npastori e mondani; e certo questo non \u00e8 stato in pensiere a quelli che\nhanno fatto procaccio delle prefende e d\u2019altre cose, che dicemmo di\nsopra. Or seguendo nostro trattato, conoscendosi per lo papa e per lo\ncollegio de\u2019 suoi cardinali, i quali aveano rivocato da sua legazione\nil legato di Spagna e posto in suo luogo l\u2019abate di Clugn\u00ec, che esso\nabate era uomo molle, e poco pratico e sperto, e s\u00ec nell\u2019arme e s\u00ec\nnelle baratte che richeggiono gli stati e le signorie temporali, e\nche per tanto era poco ridottato e meno ubbidito, parendo loro che suo\nsemplice governo poco atto fosse ad acquisto, e pericoloso a sostenere\nle terre che la Chiesa avea racquistate nella Marca e nella Romagna,\ndiliberarono di rimandare il cardinale di Spagna in Italia con pi\u00f9\npieno e largo mandato che per lo addietro, e cos\u00ec seguette; il quale,\ntutto che fosse sagacissimo e astuto signore, non senza consiglio de\u2019\nnostri cittadini, di quella natura della quale avemo di sopra parlato,\nf\u00e8 la via per Firenze, dove fu a costuma di papa pomposamente ricevuto\ncon processione, e palio di drappo ad oro sopra capo, addestrato da\u2019\ncavalieri, e con altre ceremonie usate in simili casi per lo nostro\ncomune, che piuttosto in atto d\u2019arme che d\u2019uficio chericile era\nmandato; li donarono due grandi destrieri, l\u2019uno tutto di ricca e reale\narmadura coverto, e tanti altri doni, che passarono i milledugento\nfiorini d\u2019oro. Giunto a Firenze, scavalc\u00f2 a casa gli Alberti; e\nsentendosi in Firenze che \u2019l paese ov\u2019era destinato avea gran bisogno\ndi lui, per tutto si credette che giunto prendesse viaggio, ma\ncoll\u2019usato consiglio de\u2019 nostri cittadini rimase a Firenze per spazio\nd\u2019un mese, segretamente cercando l\u2019accordo della compagnia, e lega col\nnostro comune, nella quale offerea il signore di Bologna, e tutto facea\na suo vantaggio, e a mal fine e dannaggio di nostro comune; la qual\ncosa conosciuta ruppe il ragionamento, e il legato ci\u00f2 molto ebbe a\nmale, e si mostr\u00f2 di partire malcontento dal nostro comune, avendo al\nservigio di santa Chiesa del continovo dai cinquecento a\u2019 settecento\ncavalieri di quelli del comune di Firenze.\nCAP. CIV.\n_Come messer Gilio di Spagna parlament\u00f2 col signore di Bologna._\nPartito il legato di Firenze, a d\u00ec 26 di dicembre detto anno, cavalc\u00f2\ndalla Scarperia, e poi travers\u00f2 per l\u2019alpe, per non appressarsi a\nBologna, acciocch\u00e8 \u2019l signore di Bologna non prendesse gelosia, e\nand\u00f2 a Castelsanpiero; e ivi il signore di Bologna messer Giovanni\nda Oleggio gli si fece incontro bene accompagnato di gente d\u2019arme, e\nricevettelo onorevolmente in Castelsanpiero. E ivi essendo amendue,\npochi giorni appresso feciono parlamento, ove furono ambasciadori\ndel marchese di Ferrara, e della gran compagnia, e d\u2019altri signori e\ncomuni, nella quale in effetto n\u00e8 de\u2019 fatti della compagnia, n\u00e8 del\nsignore di Forl\u00ec niuna concordia pigliare si pot\u00e8. Il conte di Lando\nvenuto in Forl\u00ec per trovarsi di presso al legato s\u2019arrest\u00f2 ivi, e cos\u00ec\nniente fatto si partirono; il legato si torn\u00f2 a Imola, e gli altri alle\nluogora loro.\nCAP. CV.\n_Come la compagnia si condusse per la Romagna._\nDel mese di novembre sopraddetto la compagnia si part\u00ec dalla Massa\ne andonne a Savignano, dove per difetto di vittuaglia stette poco,\ne pass\u00f2 in quello d\u2019Arimini, ove consumato in breve tempo quello che\naccogliere poterono, per forza di fame pi\u00f9 giorni strettamente patita,\ncome arrabbiati combatterono il castello di Sogliano, nel quale era\nassai roba da vivere, e quello vinsono, e uccisono senza misericordia\nniuna centoventitr\u00e8 abitanti. E per la vittoria di quello sormontati\nin orgoglio combatterono il Poggio de\u2019 Borghi, e vinsonlo, e uccisono\ncentocinquantacinque uomini. Veggendo vinto le fortezze maggiori e pi\u00f9\natte a difesa, per paura le castellette vicine tutte s\u2019abbandonarono,\nnelle quali senza contrasto entrarono i nemici, ci\u00f2 furono Raggiano,\nStrigaro, Montecongiuzzo, Compiano, e Montemeleto, e pi\u00f9 altre\nterre poste in fortissimi luoghi in sulla stinca della montagna, ove\ntrovarono grande abbondanza di tutta la roba da vivere. E per\u00f2 quivi\ns\u2019arrestarono lungamente, tenendo in continovo sospetto il comune di\nFirenze, che temeano non scendessono l\u2019alpe dalla Faggiuola al Borgo a\nSansepolcro, e per quella di Bagno, e per questa temenza il comune di\nFirenze vi pose quello riparo che si pot\u00e8 e di gente e d\u2019amici.\nCAP. CVI.\n_Dello stato della Cicilia._\nSe bene si cercheranno le nostre scritture, e metterassi incontro tra\nle ree e buone fortune, troppo avanzeranno le sinistre le felici e\navventurose, che appena si trover\u00e0 non dir\u00f2 uno mese dall\u2019anno, ma uno\nd\u00ec solo, che tra\u2019 cristiani, in qualche parte della terra che per loro\nsi possiede, qualche pessima cosa e degna di nota surta non sia. Noi\navemo per pi\u00f9 riprese poco addietro parlato delle travaglie de\u2019 nostri\npaesi e parte di quelle de\u2019 Franceschi, e se intra esse fosse stato\npunto di tempo quieto o tranquillo; quello medesimo \u00e8 stato negli altri\npaesi pericoloso e turbato, perocch\u00e8 ne\u2019 detti tempi sono mescolate\nle volture della Cicilia, la quale quasi del tutto divisa, e piena di\nscandali e di riotte, in continove guerre sboglientate, l\u2019una parte\ne l\u2019altra perseguitata con quello poco di gente che loro era rimasa,\ncon guerra sanguinente e mortale, quelli di Messina si sono fatti\ncapo di parte, e cos\u00ec hanno fatto quelli di Catania, senza redenzione\noffendendo l\u2019uno l\u2019altro, perch\u00e8 n\u2019\u00e8 seguito gran danno di persone con\npiccolo vantaggio, e senza notabile acquisto o d\u2019una o d\u2019altra parte.\nCAP. CVII.\n_Del male stato del reame di Francia._\nIl paese di Francia dopo la morte del proposto de\u2019 mercatanti, e de\u2019\nsuoi compagni e seguaci, non prese alcuna fermezza di buono stato,\nma per contrario si ritrov\u00f2 in grande confusione, che il Delfino\nnon era amato n\u00e8 ubbidito come signore n\u00e8 dal popolo n\u00e8 da\u2019 baroni,\ne non ostante che lo tenessono per loro capo, poco era grazioso nel\ncospetto de\u2019 grandi e de\u2019 piccoli; e oltre a ci\u00f2 per li trattati gi\u00e0\nscoperti stava in sospetto e paura, e per questa cagione poco potea\nprovvedere, e meno atare il paese da\u2019 suoi nemici. D\u2019altra parte il re\ndi Navarra si mantenea di fuori correndo e predando intorno a Parigi e\naltre ville circustanti senza trovare contasto fuori che delle mura, e\ncontinovamente sua gente cresceva d\u2019Inghilesi, e s\u00ec di gente paesana\npronta e disposta a mal fare; e per questo si scorse il paese, che\nfuori di Parigi e d\u2019altre citt\u00e0 e fortezze di Francia non si potea\nandare, che gli uomini non fossono presi. Il Delfino, come detto \u00e8 di\nsopra, non potendo a tanto male porre rimedio, e temendo di tradimento,\nil quale poco appresso si scoperse, stava a riguardo, e aspettava si\nmutasse fortuna.\nCAP. CVIII.\n_Di mortalit\u00e0 d\u2019Alamagna e Brabante._\nEssendo ancora il braccio di Dio disteso sopra i peccatori non corretti\nn\u00e8 ammendati per li suoi terribili giudicii a tutto il mondo palesi,\ne per gastigarli e riducerli a migliore vita, nel detto anno nel\ntempo dell\u2019autunno ricominci\u00f2 coll\u2019usata pestilenza dell\u2019anguinaia\na flagellare il ponente, e molto grav\u00f2 in Borsella, che del mese\nd\u2019ottobre e di novembre vi morirono pi\u00f9 di millecinquecento borgesi,\nsenza le femmine e\u2019 fanciulli, che furono assai. Ad Anversa, e a\nLovano, e nell\u2019altre ville di Brabante il simile f\u00e8. Non tocc\u00f2 la\nFiandra, poich\u00e8 altra volta non era molto stata gravata, e per\u00f2\nBrabante pi\u00f9 ne sent\u00ec; e per simile modo avvenne nella Magna a Basola,\ne in altre citt\u00e0 e castella infino a Boemia e Praga, le quali dalla\nprima mortalit\u00e0 non erano state gravate. In questi tempi fu ne\u2019 nostri\npaesi in Valdelsa, e in Valdarno, di sotto, e nel Chianti, quasi come\nl\u2019anno dinanzi passato, generali infermit\u00e0 di terzane, e di quartane,\ne altre febbri di lunga malattia, delle quali pochi morivano. Di ci\u00f2\nsi maravigliarono le genti di Valdelsa e di Chianti, perch\u00e8 sono in\nbuone arie e purificate, perch\u00e8 due anni l\u2019uno appresso l\u2019altro fossono\nmaculati di simili infermitadi, non conoscendo alcuna singulare cagione\ndi quello accidente.\nCAP. CIX.\n_Di giustizia fatta in Parigi._\nE\u2019 non \u00e8 da maravigliare della crudelt\u00e0 de\u2019 tiranni, a cui li savi\ne valorosi cittadini sempre furono paurosi e sospetti, s\u2019e\u2019 si\ndilettano nello spargimento del sangue innocente, per mantenere colla\nspaventevole rigidezza della infinta giustizia in sicurt\u00e0 la gelosia\ndel loro stato violento, e per tanto sospetti, e poco accetti a\u2019\nsudditi, e sottoposti a molti aguati e ruine. Ma di certo \u00e8 da prendere\nsingulare ammirazione, quando questo iniquo animo cade nel sangue\nreale per lo titolo della naturale signoria, la quale suole essere\nmansueta e benigna, e con umanit\u00e0, eziandio offesa, trattare i sudditi\nsuoi. Questo diciamo, perch\u00e8 del mese di novembre detto anno, essendo\nil Delfino di Vienna nella citt\u00e0 di Parigi, per sospetto d\u2019alcuno\ntrattato, del quale chiara verit\u00e0 non si potea sapere, fece pigliare\nil conte di Stampo parente del re di Navarra, e \u2019l conte di Ross\u00ec,\ne ventisette borgesi di Parigi, dicendo, che trattavano contro a lui\ncol re di Navarra. Per questi borgesi l\u2019universit\u00e0 di Parigi turbata e\ncommossa, mandarono il proposto de\u2019 mercatanti con altri de\u2019 maggiori\nborgesi al Delfino per riaverli, con dire che non erano in colpa. Il\nDelfino rispose, che dove non fossono in colpa, non bisognava loro di\ntemere, e che sopra ci\u00f2 procederebbe temperatamente infino ch\u2019avesse la\nverit\u00e0 del fatto. E per questo savio modo racquetato il primo bollore\ndel popolo, poco appresso, dicendo che li trovava colpevoli, tutti i\ndetti borgesi f\u00e8 decapitare; i conti riserb\u00f2 in prigione. Di ci\u00f2 la\ncomunanza fu mal contenta, e mormorava, ma per paura catuno, non avendo\ncapo a loro modo, soffersono il nuovo gastigamento del vecchio peccato,\ncomportandolo senza altra novit\u00e0, pi\u00f9 per servile pazienza che per\nonorare o piacere al loro signore.\nCAP. CX.\n_De\u2019 dificii fatti a sant\u2019Antonio di Firenze._\nIo non so s\u2019egli \u00e8 da lodare o da biasimare il prelato che spende negli\nedificii magnifichi il danaio che trae del beneficio a lui conceduto,\nperocch\u00e8, secondo che dicono gli antichi decreti de\u2019 santi padri,\nil prelato dee fare delle rendite sue tre parti; l\u2019una dee spendere\nnelle sue bisogne, l\u2019altra dee distribuire a\u2019 poveri, e dell\u2019altra\ndee racconciare la Chiesa, quanto si richiede a onest\u00e0 di religione\nfuori di pompa mondana: ma considerato che tutti coloro che prendono\nfrutti de\u2019 beni della Chiesa delicatamente ne vivono, e quello che\nloro avanza ai loro congiunti dispensano, e poco si curano perch\u00e8\nrovinino le Chiese, o perch\u00e8 i poveri di Dio si muoiano di fame, assai\n\u00e8 da considerare intorno a quello che qui \u00e8 nel principio proposto. E\ncerto, se vento di fama mondano non levasse in alto alquanti che hanno\nne\u2019 beneficii loro rilevatamente edificato, pi\u00f9 sono da lodare che da\nbiasimare, secondo il corso della Chiesa terrena lussuriosa e avara,\nal cui esempio assai disonesto e dannoso i secolari, che sono ghiotti\nde\u2019 beni terreni, vivendo trascorrono in grandi e disordinati peccati.\nQuesto tanto sia detto non per correzione, che non la vogliono udire, e\nnostro uficio non \u00e8 predicare, ma per argomento alla materia che segue.\nMesser frate Giovanni Guidotti comandatore nella nostra provincia\nnell\u2019ordine di sant\u2019Antonio, nato nella citt\u00e0 di Pistoia non di\nlegnaggio gentile ma di meno che comune, uomo secondo suo stato d\u2019animo\ngrande e liberale, avendo de\u2019 suoi beneficii accolta moneta assai, la\nquale secondo l\u2019uso corrotto, del quale avemo parlato di sopra, poteane\nne\u2019 suoi prossimani convertire, la spese negli edificii magnifichi\ne nobili, i quali in questo anno f\u00e8 cominciare al luogo dell\u2019ordine\nsuo posto presso alla porta a Faenza, ne\u2019 quali convert\u00ec gran danaio.\nAvemone fatta memoria in rimprovero dell\u2019avarizia di molti prelati, i\nquali spogliano le Chiese che ne\u2019 paesi loro e ne\u2019 forestieri a loro\nsono concedute, non curando n\u00e8 l\u2019ira di Dio n\u00e8 l\u2019infamia del mondo.\nLIBRO NONO\nCAPITOLO PRIMO.\n_Il Prologo._\nVolendo seguire il costume dello scrivere per noi cominciato, dovemo\nalcuno prologo fare al nono libro di nostra opera; e perch\u00e8 di cose\noccorse in questi tempi niente degno di notabile fama ci si apparecchia\nd\u2019onde torre principio atto a proemio, ci trarremo alquanto addietro a\nmateria che assai maravigliosa ci pare: e per meglio dare a intendere\nquello che ci va per la mente, mescoleremo delle strane vecchie con le\nnuove. Trovasi nell\u2019antiche ricordanze, e massimamente nelle romane,\nche per cupidigia di temporale signoria, sott\u2019ombra d\u2019acquisto d\u2019onore\nmondano e di fama, i re, li principi, li tiranni, e, che meno pare\ncredibile, i popoli liberi, sotto il governo de\u2019 consoli, senatori, e\ntribuni, e altri rettori al tempo delli falsi iddei e mendaci, senza\nniuna giusta cagione, con grandi apparecchiamenti di legioni armate\nassalivano li reami, le provincie, e le cittadi che si voleano posare e\nvivere in libert\u00e0 sotto loro leggi e costumi, prendendo e distruggendo\ncon ferro e con fuoco chi loro s\u2019opponea, e per forza recavano tutti\nin servaggio. Ancora si trova che molte salvatiche e barbare nazioni,\no per essere di soperchio ne\u2019 luoghi di loro origine multiplicati, o\nper fuggire i loro luoghi poveri e bretti paesi, o per essere di quelli\nviolentemente cacciati (come occorse al buono Enea Troiano, e a molti\naltri nobili e potenti signori) con loro donne e famiglie passarono in\npaesi forestieri, per acquistare sito dove si potessono alloggiare; e\nper ci\u00f2 potere conseguire, cose grandi e pericolose in fatti d\u2019arme,\nalte e rilevate feciono, come ne manifestano l\u2019antiche scritture, e\nmassimamente quelle de\u2019 Gotti e de\u2019 Longobardi. Queste cose inique e\nscellerate, tuttoch\u00e8 n\u2019avessono alquante scusa di presa di necessit\u00e0,\nla quale a niuna legge pare sottoposta, hanno alquanto di colorata\ngiustizia; nondimeno da\u2019 savi gentili assai \u00e8 biasimata e ripresa: e\ncerto a noi cristiani pare, che la giustizia di Dio debitamente per\nl\u2019abominevole peccato della idolatria..... Ma chi difender\u00e0 il tempo\ndella grazia? cio\u00e8 il tempo cristiano; sozzamente maculato dalle\norribili persecuzioni da\u2019 micidii di.... predatori, e distruggitori,\nche gi\u00e0 anni quarantasei, o in quel torno, sotto piacevoli nomi di\ncompagnie in diverse parti della cristianit\u00e0, sotto loro capitani e\nconducitori raunati, hanno tribolato e afflitto, ed usurpato e guasto\ni reami, le provincie, citt\u00e0 e ville, rubando, ardendo, e uccidendo\nsenza niuna misericordia ogni maniera di gente. Chi creder\u00e0 che tanti\nsignori nobili e gentili uomini, tanta buona gente d\u2019arme si sia\naccozzata co\u2019 ribaldi, e ladroni, e vile gente, pronta e disposta\nallo spargimento del sangue umano, e a fare ogni male che pensare\nsi possa per scellerata persona? Certo egli \u00e8 cosa inenarrabile,\ne incredibile a pensare, che questa malvagia gente rinnovandosi di\ntempo in tempo sotto nuovo governo, e sotto diversi e varii titoli di\ncompagnie, senza trovare contrasto o resistenza abbia corsi i paesi\ncristiani, e fatto ricomperare i signori e\u2019 comuni, avendo ognuno per\ndi grato a nemico, sostenendo e per fame e per freddo e per altre\ncagioni tormenti, martirii e affanni da loro fede a chi ne facesse\nmemoria di questa pistolenza. Alquanti savi uomini vogliono dire, che\nil movimento del cielo, e la congiunzione di certe pianete ne sieno\nstate cagione. Altri, a cui noi assentiamo come a pi\u00f9 veritieri,\naffermano ci\u00f2 avvenire per giusto giudicio di Dio, il quale dice: Io\nfar\u00f2 la vendetta de\u2019 nemici miei co\u2019 nemici miei; e l\u2019empio regner\u00e0\nper li peccati de\u2019 popoli. Le cagioni dell\u2019ira di Dio, come pubbliche e\nmanifeste le tacemo, e se pure ne volessimo dire, basti sotto il fascio\ndi poche parole di dire cotanto, che secondo il pensiere di molti\ndiscreti mai non fu il mondo peggiore, ne pi\u00f9 contaminato d\u2019ogni vizio,\ne maggiormente di quelli che pi\u00f9 sono odiosi e dispiacevoli a Dio.\nPotrebbesi dire il mondo crudele, senza niuna carit\u00e0 o amore; e chi\nvolesse questo testo chiosare, a suo modo e piacere lo si chiosi, che\ndire non potr\u00e0 tanto male che assai peggio non sia.\nCAP. II.\n_Come la compagnia si part\u00ec da Sogliano e ricevettene danno._\nTornando a\u2019 processi della compagnia e a\u2019 suoi andamenti, avendo vinto\nper battaglia il castello di Sogliano, e alquante altre castellette\ndella montagna, come addietro dicemmo, essendosi in quello alloggiati,\nper vernare o per sentore di nuova civanza, o perch\u00e8 loro paresse\nstare oziosi non facendo qualche male, o per rigoglio, com\u2019erano\nusati, tutta la roba che per lo paese poterono raccogliere raunarono,\ne arsono l\u2019altre castella delle quali dubitavano che non offendessono\nSogliano; e volendo mostrare una singulare confidanza de\u2019 terrazzani\ndi Sogliano, loro raccomandarono tutta la detta roba, e pi\u00f9 di cento\ndi loro compagni ch\u2019erano malati, e de\u2019 buoni e valenti che fossono\nnella brigata, facendo buone e larghe promesse a quelli di Sogliano,\ncome se fare volessono quello luogo loro camera o ridotto, e fare\ncerto chi dentro vi fosse; e ci\u00f2 fatto presono viaggio, e si passarono\nsopra Rimini assai presso alla terra, e\u2019 paesani d\u2019intorno, ch\u2019erano\ndalla compagnia stati rubati, e arsi e distrutti, e i loro congiunti\ne amici o morti o guasti delle persone, e per\u00f2, come sentirono che la\ncompagnia s\u2019era allungata, prestamente e per forza si ritornarono in\nSogliano tutti, e quanti vi trovarono di quelli della compagnia, s\u00ec\nde\u2019 malati come di quelli che li servivano, senza niuna misericordia\ngli tagliarono e uccisono, e ci\u00f2 che trovarono nel castello rubarono\ne portarono via, lasciando in abbandono le mura; e questo occorse del\nmese di gennaio del detto anno. La compagnia essendo stata alquanti\ngiorni sopra Forl\u00ec in molti disagi, s\u00ec per le nevi ch\u2019erano grandi, e\ns\u00ec perch\u00e8 trovarono nel paese poca roba a tanta brigata, si partirono\ndi quindi, e appressaronsi a Forl\u00ec, e in Forl\u00ec dal popolo per\ncomandamento del capitano ebbono ricetto, e rinfrescamento di pane e di\nquello, che dentro v\u2019era riposto. Questo facea il capitano, perch\u00e8 ogni\naltra speranza di difesa dal legato, fuori che di questa compagnia,\ndel tutto gli era mancata; di che pi\u00f9 curando di suo stato, che s\u00e8\no ch\u2019e\u2019 suoi sottoposti e servidori, con loro mescol\u00f2 molte fiate la\nscellerata compagnia, con danno e con vergogna e disagio grande de\u2019\nsuoi cittadini.\nCAP. III.\n_Come il comune di Firenze diede bal\u00eda a\u2019 cittadini contro alla\ncompagnia._\nVedendo il comune di Firenze che la mala brigata della compagnia\nsempre crescea, e che il verno passava, e appressavasi il principio\ndella primavera, sicch\u00e8 il tempo s\u2019adattava alla guerra; e sentendo\nche il conte di Lando, come persona offesa, forte si dolea del nostro\ncomune, e che esso e la compagnia per assentimento comune forte ne\nminacciavano, e che mai campo non si mutava che tutti non gridassono a\nFirenze, a Firenze; e volendosi provvedere sicch\u00e8 al tempo si trovasse\nsufficiente e in punto di potere rispondere alla potenza e al mal\nvolere della detta compagnia, ed essendo perci\u00f2 necessario di trovar\nmodo come abbondanza di pecunia venisse in comune senza gravezza e\noffesa de\u2019 cittadini, a d\u00ec 12 di gennaio gli anni 1358, provvidono\nper gli opportuni consigli che si facesse il quarto monte, ci\u00f2 fu una\nprestanza generale di fiorini settantamila d\u2019oro alle borse possenti,\ne chi prestasse per s\u00e8 o per altrui, fosse scritto nel detto monte a\ncreditore del comune nell\u2019uno tre, e avesse di provvisione il danaio\nper lira il mese, che venia a ragione di cinque per cento degli\nscritti, e de\u2019 prestati a ragione di quindici per centinaio, con le\nimmunitadi e privilegi degli altri monti; e perch\u00e8 la cosa avesse\nesecuzione prestamente, feciono sedici uficiali, quattro per quartiere,\ncon larga e piena bal\u00eda a potere accattare quanta moneta paresse loro;\ni quali uficiali senza perdere tempo di subito composono settantamila\nfiorini d\u2019oro, e poco appresso ne posono cinquantamila fiorini d\u2019oro,\ni quali tutti si ricolsono in piccolo tempo e interamente, e i risidui\nper tutto il mese di dicembre 1359, con tanta pace e buono volere, che\na niuna persona non fu n\u00e8 guastagli casa, n\u00e8 eziandio mandatoli messo,\nl\u2019uno per l\u2019altro pagava prendendo vantaggio, e il comune rispondea del\ndono e interesso fedelmente a\u2019 tempi ordinati.\nCAP. IV.\n_Come procedette la compagnia in Romagna._\nPoich\u00e8 preso ebbe la compagnia per alquanti giorni rinfrescamento in\nForl\u00ec, per non consumare il gentile uomo, che era a stretti bisogni, e\nloro dava ricetto, non ostante il tempo fosse per le nevi e freddure a\ngente d\u2019arme malagevole, si part\u00ec, e misesi sulla marina sopra Pesero\ne Fano, stendendosi fino alle coste di Montefeltro; e loro convenia\ncos\u00ec fare, perch\u00e8 la gente era molta, e per lo disagio delle nevi\nnon poteano stare insieme, e sufficiente vittuaglia per loro e per\nla brigata loro non poteano avere, e per lo piccolo luogo non poteano\ntrovare bene loro agio ancora da quelli di Montefeltro pagando derrata\nper danaio, e il freddo pugnente e nevi sopra nevi loro facea portare\ngrande penitenza de\u2019 loro misfatti. Molti uomini d\u2019arme, mai pi\u00f9\nde\u2019 saccardi, per lo brusco tempo, e per lo disagio e mala vita, non\nprovveduti si morirono; e grande parte de\u2019 loro cavalli si guastarono\nper difetto di strame, e per lo mangiare del grano, ch\u2019altra biada non\naveano che dare loro; e perch\u00e8 a loro li convenia tenere al sereno, e\nal ghiaccio e alla neve senza coverta; ben s\u2019atavano quanto poteano con\ngran fuochi d\u2019ogni legname, sicch\u00e8 si poteano dire mezzi sconfitti dal\ntempo. Questo loro pessimo stato li fece fallire, che non ostante che\nda Montefeltro fossono di vittuaglia per li loro danari sovvenuti, per\ninganno entrarono in Montedifabri, ove alquanto di roba trovarono che\nun poco rend\u00e8 li spiriti loro, ma non potendo pi\u00f9 nel luogo durare, si\ntraslatarono intra Iesi e Sinigaglia, e in quel luogo ebbono trattato\nd\u2019acconciarsi al soldo col duca d\u2019Osteric, che, come addietro dicemmo,\nera stato titolato dall\u2019imperadore re de\u2019 Lombardi, ma non ebbe luogo,\nperch\u00e8 domandavano soldo impossibile alla borsa del duca. Ma per dare\na intendere se fu la verit\u00e0 se \u2019l verno fu freddissimo e aspro, in\nBologna tanto alz\u00f2 la neve, che comunemente giunse all\u2019altezza di\nbraccia dieci, onde per ricordanza in piazza si fece una grande volta\nsotto la neve, nella quale si fece convito e festa per certi giovani\nricchi, per ricordanza della grande neve. Passando di luogo in luogo la\ndetta compagnia con angoscia e con fatica, in su l\u2019uscita di febbraio,\ntirando verso Fabriano, s\u2019arrest\u00f2 alla Roccacontratta, facendo\nsecondo il loro uso, ma non trovando quivi vittuaglia che a loro fosse\nbastevole, eziandio per piccolo tempo, presono il passo della terra a\nSantagnolo, il quale avvisatamente fu loro conceduto, perch\u00e8 avessono\ncagione di pi\u00f9 tosto uscire del paese. E stando la compagnia in queste\ntravaglie, il cardinale di Spagna legato del papa senza assento del\nnostro comune, continovo con la detta compagnia cercava convegna, e\n\u2019l nostro comune si provvedea e ordinava alla difesa, poco curando\nminacce, e con balestrieri e fanti intendeano alla guardia de\u2019 passi,\nguardando i valichi e i luoghi che di Romagna poteano dar loro via a\nvenire sul nostro terreno.\nCAP. V.\n_Di novit\u00e0 state tra\u2019 signori di Cortona._\nLa signoria di Cortona, la quale lungo tempo \u00e8 durata nella famiglia\ndi quelli da Casale, per successione era venuta in due fratelli\ncarnali, de\u2019 quali l\u2019uno avea nome Bartolommeo, e per senno e per et\u00e0\nera il maggiore, in lui cantava il titolo della signoria, tutto che\nle rendite rispondessono egualmente a lui e al fratello che avea nome\nIacopo, il quale avea per moglie la figliuola di messer Francesco\nCastracani di Lucca; la quale essendo di questa vita passata, Iacopo,\ncome uomo di vita dileggiata e disonesta, si tolse per moglie una\nfemmina mondana, la quale s\u2019avea tenuta due anni innanzi la morte\ndella donna sua fuori de\u2019 loro casamenti, e ci\u00f2 fatto procedette pi\u00f9\noltre, e volea la femmina vituperosamente ne\u2019 palagi abitare con la\ndonna di Bartolommeo, ch\u2019era di gentile legnaggio, e d\u2019animo grande e\ndi vita onesta e signorile, la quale in niuno modo il volle patire;\nonde intra\u2019 fratelli nacque riotta, e della riotta col favore e\nconsiglio de\u2019 loro amici fu concordia, nella quale di comune assento\ndierono in guardia la rocca a uno che tutto era famiglio di Iacopo, e\na Bartolommeo era confidente amico, con patto che per loro la dovesse\ntenere comunemente, e guardarla, e non darla all\u2019uno senza l\u2019altro.\nSegue, che a d\u00ec 8 di febbraio 1358, che vedendosi Iacopo per difetto\ndi gotte impotente della persona, e per tanto dal fratello trattato\nnon bene, e poco avutolo a capitale, tolse il figliuolo piccolo di\nBartolommeo, e lui men\u00f2 alla rocca con due suoi figliuoli e trenta\ncittadini di suo intendimento colla signoria. Giunto alla porta, con\ningannevoli e composte industrie condusse il castellano a farlo aprire,\ned entr\u00f2 dentro colla brigata, e pinse fuori il castellano, e come\nfece follemente l\u2019impresa, cos\u00ec con poca provvedenza male la condusse,\nnon avendo di fuori ordinato donde li venisse il soccorso. Sentendo il\nsignore quello che \u2019l fratello avea fatto, come savio e coraggioso,\ncol favore de\u2019 suoi cittadini subito fece prendere il torrione che\ndava entrata alla rocca, e di fuori a campo si mise, fortificando di\nfossi e palancati il luogo che non poteano essere forzati; onde Iacopo,\nche s\u2019era rinchiuso in prigione, mancandoli per la mala provvedenza\nla roba da vivere, all\u2019uscita di febbraio cerc\u00f2 patti col fratello,\nil quale glie le fece volentieri, per levarsi da dosso i sospetti di\nfuori e dai pericoli che in simili casi possono occorrere; li patti\nfurono, ch\u2019e\u2019 potesse abitare ne\u2019 palagi che allora erano comuni, e\navere certe provvisioni, e che i suoi seguaci e compagni fossono salvi\ndelle persone, e in grazia di Bartolommeo; e in effetto gli fu ogni\ncosa promesso, ed egli rend\u00e8 la rocca, e fu messo ne\u2019 palagi, ma bene\nguardato, e tutta sua famiglia li fu levata; ma poi appresso a due d\u00ec,\nquelli che con lui erano entrati nel cassero furono morti dal figliuolo\ndel signore, onde gli altri per lo migliore si cessarono; sicch\u00e8\nBartolommeo si rimase libero del tutto signore. Iacopo vedendosi mal\ntrattare, furtivamente si part\u00ec e andossene a Siena, dove non avendo\ndal fratello alcuna provvisione, traeva sua vita assai miseramente.\nCAP. VI.\n_Dello inganno fatto per lo legato al comune di Firenze della\ncompagnia._\nNoi avemo per molte riprese fatta memoria nelle nostre scritture de\u2019\nnotabili vizii de\u2019 nostri cittadini, i quali vizii da avarizia per\ncupidigia di loro private ricchezze, e l\u2019utile e l\u2019onore del comune\nniente hanno in calere, non sotto speranza che per loro riconoscenza\nammenda ne segua, tanto \u00e8 l\u2019usanza corrotta trascorsa e cresciuta\nper la baldanza de\u2019 passati cittadini, che sempre straboccatamente\n\u00e8 cresciuta per non essere de\u2019 suoi falli corretta, ma perch\u00e8 li\ndiritti e fedeli cittadini che si ritrovano agli ufici li tengano\na freno, se non colle parole almeno colle fave, non seguendo loro\ndissoluti consigli, vogliosi e non liberi, e alla repubblica dannosi.\nE certo la materia di che dovemo al presente fare nota \u00e8 evidente,\ne buono esempio sopra quelli che verranno poi, se fia con buono zelo\nfedelmente ricolta. Il legato di Spagna, bench\u00e8 di grande animo fosse,\ne uomo baldanzoso e di grandi imprese, era savio e discreto, come nel\nprecedente libro dicemmo; ed essendo venuto a Firenze, coll\u2019industria\ne consiglio de\u2019 nostri cittadini ch\u2019erano a sua provvisione, pi\u00f9\nvolte tent\u00f2 con sagaci e be\u2019 modi, che \u2019l nostro comune prendesse\naccordo con la compagnia, non tanto per affezione ch\u2019avesse all\u2019onore\ne bene del nostro comune, quanto per levarsi da dosso la forza loro\nco\u2019 danari del nostro comune. E cerco e ricerco, trovato il nostro\ncomune fermo e costante in volere piuttosto spendere in sua difesa\nogni gran quantit\u00e0 di danari, che ricomperarsi qualunque piccola cosa\ndalla compagnia, per levare via il preso costume di s\u00ec fatta gente,\nche le citt\u00e0 libere di Toscana e i possenti tiranni aveano recati\nsotto palese tributo, vituperio e vergogna de\u2019 signori naturali,\ne della antica fama degl\u2019Italiani, e massimamente del nome romano;\nseguendo il consiglio di cui avemo ragionato, all\u2019uscita del mese di\nfebbraio del detto anno, e per s\u00e8 e per lo nostro comune, come avemmo\nmandato, ferm\u00f2 concordia colla compagnia, la quale in effetto fu in\nquesta forma: che a loro darebbe fiorini quarantacinquemila d\u2019oro\nper la Chiesa di Roma, il comune di Firenze fiorini ottantamila, ed\neglino infra quattro anni seguenti non dovessono offendere la Chiesa\nn\u00e8 sue terre, n\u00e8 \u2019l detto comune di Firenze, n\u00e8 suo distretto e\ncontado; e soggiunse nel patto, che se infra cinque d\u00ec il comune di\nFirenze, ricevuta la lettera da lui, non accettasse liberamente la\ndetta concordia, che \u2019l detto legato fosse tenuto loro dare fiorini\ndiecimila. E questo mercato procedette da sagace consiglio; perch\u00e8\nli fu dato a intendere, che per la tema che \u2019l comune avea della\ncompagnia, veggendosi dell\u2019impresa abbandonare dal legato, e avendo\npoco rispetto e a consigliare e a provvedere per lo favore de\u2019 grandi\ncittadini, che per diversi rispetti, come detto avemo, accostavano\nil legato, che farebbono sua intenzione, aggiugnendo, che il nostro\ncomune per reverenza di santa Chiesa, e di lui, di cosa fatta non gli\nfarebbe vergogna, ma tutto avvenne altrimenti. Il legato per due fatti\npropri signific\u00f2 la detta concordia; la quale intesa in molti consigli\nde\u2019 cittadini, quanto che fosse per alquanti confortata e lodata, in\ngenerale comunemente dispiacque, e fu in singolare abominazione, e\ncoralmente, per quelli ch\u2019amavano lo stato e l\u2019onore del comune, perch\u00e8\nparea che \u2019l legato volesse guidare il nostro comune e prendere sua\ntutela, e pi\u00f9 sottilmente pensando, ombra di tacita signoria; onde il\npopolo apertamente parlava in vergogna del legato, e di comune volere\nsi prese, che la detta convegna non si accettasse; e risposto fu al\nlegato, che questa, n\u00e8 altra concordia con la compagnia il nostro\ncomune non volea, mostrando l\u2019animo grande in poco prezzare il nimico:\ne per non mostrare cruccio n\u00e8 sdegno, e per rimuovere il legato dal\nproprio nemico (non buono e male consiglio) di presente crearono\nsolenne ambasciata, e la mandarono al legato, e condussonlo a tanto,\nch\u2019e\u2019 promise di non fare accordo, e di nimicare a suo podere la\ncompagnia, avendo il braccio del nostro comune. Ci\u00f2 nonostante operava\no per malizia o per senno; e a d\u00ec 21 del mese di marzo si convenne con\nla compagnia per fiorini cinquantamila, i quali promise di pagare anzi\nche si partissono delle terre della Chiesa. E aspettando la compagnia\nprima la concordia, e appresso la detta prebenda, quasi come se avesse\na fare la sua vendemmia, s\u00ec s\u2019allargava per lo paese studiosamente\npredando e facendo ogni male, e per quattro riprese combatterono un\ncastello in su quello di Fermo, e non lo poterono avere; il perch\u00e8 il\nlegato s\u2019affrett\u00f2 di pagare. La compagnia vedendosi fuori del verno, e\nrincalzata de\u2019 danari ricevuti dal cardinale, e nella speranza d\u2019avere\nda\u2019 comuni di Toscana, stava baldanzosa, e a giornate fortemente\ncresceva s\u00ec di gente a cavallo e di gente tedesca che cassare si\nfaceva, e s\u00ec di gente a pi\u00e8, che per rubare di volont\u00e0 si mettea in\nbrigata; e come per gli effetti di questa compagnia si vide, gente\ndi s\u00ec fatta ragione poco si cura di fare vendetta di sua brigata, e\nmolto meno di purgare sua vergogna pure ch\u2019abbi danari, e chi \u00e8 morto\ns\u2019abbi il danno, e poi \u00e8 la sua morte vendetta; il perch\u00e8 seguendo loro\ncostume, credendo con le grida spaventare il comune di Firenze e farlo\nricomperare, a ogni pi\u00e8 sospinto con istrida e romore minacciavano il\nnostro comune.\nCAP. VII.\n_Il male segu\u00ec per l\u2019accordo fatto dal legato con la compagnia._\nSentendo il comune di Firenze per la relazione de\u2019 suoi ambasciadori\nche il legato avea fermo per s\u00e8 l\u2019accordo con la compagnia, e\nabbandonato nell\u2019impresa grande e pericolosa il nostro comune, forte\nsi dolse, recandosi dinanzi dagli occhi gli onori fatti a\u2019 prelati\nch\u2019erano passati di qua, e massimamente a costui, e i danari ch\u2019avea\nspeso per difendere la Chiesa di Roma in aggrandire suo stato in\nItalia, nel cui servigio avea per pi\u00f9 anni quasi del continovo tenuti\nda quattrocento in cinquecento cavalieri, e da settecento in ottocento\nbalestrieri, senza il grande aiuto de\u2019 suoi singulari cittadini, e\ndistrettuali, e contadini, i quali in meno di sei settimane di perdono,\ncome s\u2019elli combattessono con gl\u2019infedeli, e in commessa del papa avea\ntratti altrui di borsa fiorini centomila. E quanto che questi servigi\nperduti conturbassono assai il nostro comune, quello che non si potea\nsmaltire era, che \u2019l comune avea offerta tutta sua possa al legato\na disfare la compagnia e cacciarla de\u2019 terreni della Chiesa, ed egli\nl\u2019avea accettata, e battendo la compagnia sotto questa profferta, avea\nfatto mercato, e venduto loro la parte del nostro comune. Aggiugnesi\na questa novella non buona, ch\u2019e\u2019 Pisani, e\u2019 Sanesi e\u2019 Perugini per\nloro segreti ambasciadori cercavano accordo con la compagnia, e per\nci\u00f2 sturbare tenea il comune suoi cittadini a confortare i detti comuni\nall\u2019unit\u00e0 e alla difesa, mostrando che la resistenza era la salute de\u2019\ncomuni di Toscana che voleano vivere in libert\u00e0 e in pace; perocch\u00e8\nlevata la speranza del riscatto, quella gente perversa, che solo per\ningordigia di ci\u00f2 si ragunava a mal fare, non sarebbono s\u00ec pronti a\nfarsi cassare per fare compagnia; le risposte erano fratellevoli e\nbuone, e gli effetti in occulto del tutto contrari, come si manifest\u00f2\nper lo fine.\nCAP. VIII.\n_Di molte fosse feciono i signori di Lombardia per difesa de\u2019 loro\nterreni._\nVeggendo i signori di Milano li scorrimenti delle compagnie, e che \u2019l\npaese d\u2019Italia spesso affannato di guerre era, e non era per quotare,\nper pi\u00f9 sicurt\u00e0 e fortezza de\u2019 paesi che teneano sotto loro signoria,\ncon studio e diligenza feciono fare fossi ampi e profondi, uno in sul\nBresciano, il quale si stendea infino al lago di Garda, e un altro\nnel Cremonese, e uno ne ferono fare in altro paese, i quali, tutto\nche l\u2019opera fosse grande e maravigliosa, per lo terreno dolce furono\nin breve tempo forniti. E quanto che dalle cagioni di sopra fossono\nindotti, pi\u00f9 gl\u2019indusse il sospetto che aveano preso del duca d\u2019Osteric\nnovellamente titolato re de\u2019 Lombardi, dubitando che se scendesse con\nla forza degli Alamanni, trovando i piani liberi e spediti e senza\nriparo, loro offesa non fosse pi\u00f9 presta e maggiore; e di ci\u00f2 loro\naveano fatta l\u2019esperienza la compagnia, che pi\u00f9 volte per quelli luoghi\naperti gli aveano assaliti improvviso, e assai danneggiati. E il simile\nfece il signore di Bologna in questi giorni, facendo fare una spaziosa\ne profonda fossa per simigliante temenza. E i Sanesi feciono fare una\nvia e un ponte sopra le Chiane per avere libero il cammino d\u2019andare\na loro posta a Cortona. E...... per li signori di Milano, essendo\ncontrario al signore di Bologna, per avere al bisogno il passo e \u2019l\nforaggio di Lombardia, feciono fare via alzata in sulle valli con fossi\nd\u2019ogni parte, del cui cavo era levata la via; e dove furono trovate le\nvalli profonde vi si f\u00e8 ponticelli, la quale stese per lungo cammino\ntanto che la congiunse col Po, la qual via per lo sito del luogo non\npotea essere impedita.\nCAP. IX.\n_Come il re d\u2019Inghilterra dissimulando la pace cercava la guerra co\u2019\nFranceschi._\nPoich\u00e8 detto avemo, secondo che \u2019l corso del tempo richiede, delle\nfortune e travaglie de\u2019 nostri paesi, diremo alquanto delle straniere;\ne cominciando a quelle di Francia, all\u2019entrata di febbraio 1358, il re\nd\u2019Inghilterra, quasi come tocco di cuore si mosse, e and\u00f2 dov\u2019era il\nre di Francia, e a lui disse onestissimamente s\u2019egli attendea la pace;\nil re di Francia onestissimamente rispose di s\u00ec, e che la desiderava.\nIl re d\u2019Inghilterra procedendo pi\u00f9 oltre disse al re di Francia,\nch\u2019egli era in sua potest\u00e0, quando facesse quelle cose che dovea fare.\nIl re rispose, ch\u2019era pronto e disposto, ma il che non sapea. Allora\nil re d\u2019Inghilterra per convegna di buona pace chiese in sua domanda\nla contea di Bologna sul mare; e che il re pacificamente li lasciasse\npossedere la Guascogna, e certa parte della contea d\u2019Anghiem, e la\nNormandia, senza farne omaggio niuno; e che il conte di Monforte delle\nterre che tiene in Brettagna ne facesse omaggio al re d\u2019Inghilterra,\ne togliesse la figliuola per moglie; e di quello che tiene nel detto\npaese messer Carlo di Brois duca di Brettagna ne facesse omaggio al re\nGiovanni di Francia, com\u2019era usato, e che per ammenda desse fra certi\ntermini cinquecento migliaia di marchi di sterlini, che montavano\ndue milioni e mezzo di fiorini. Il re di Francia, ch\u2019era prigione,\nconsentiva a ogni cosa per sua diliberanza, ma troppo era di lungi il\npotere dal volere, e ci\u00f2 bene conosceva il re d\u2019Inghilterra, ma con\nusata astuzia inghilese, essendo certo nell\u2019animo suo che quello ch\u2019e\u2019\ndomandava fare non si potea, per potere calunniare il re di Francia di\nrottura di pace e di fede, e per potere la sua non diritta intenzione\nantipensata adempiere, dovendo secondo i ragionamenti avuti tra loro\npassare in Francia, sotto colore di pi\u00f9 presta e spedita esecuzione\ndella pace, fece fare gride per tutte sue terre, che sotto la pena\ndel cuore niuno Inghilese con arme passasse nel reame di Francia,\npromettendo di fare tornare tutta sua gente d\u2019arme che fosse nel reame\ndi Francia. E per mostrare della detta pace singulare allegrezza, i\nfigliuoli del re feciono bandire in Londra una giostra, dove molti\nsignori e gentili uomini dell\u2019isola a loro richiesta s\u2019appresentarono,\ncon molta allegrezza e festa di tutto il reame, seguendo per questa\ncagione il contrario nel reame di Francia, come pi\u00f9 innanzi del nostro\ntrattato faremo menzione.\nCAP. X.\n_ Come il re di Navarra tribolava Francia._\nGli effetti della infinta e non vera pace tra i sopraddetti due re\nsi cominciarono a scoprire del mese di marzo seguente, perocch\u00e8 il\nre di Navarra, ch\u2019era creatura del re d\u2019Inghilterra, colla forza\ndegl\u2019Inghilesi entr\u00f2 una notte di furto in Alsurro, e non potendo\nvincere la rocca, ch\u2019era forte e bene guarnita alla difesa, f\u00e8 la\nterra rubare, e mettere al taglio delle spade grandissimo numero di\ncittadini e paesani che quivi erano ridotti, e secondo che troviamo per\nvero, oltre a seimila vi furono morti. Fu riputata crudelissima cosa e\ndisusata, perocch\u00e8 simile cosa pi\u00f9 occorsa non era nella lunga triegua\ne pertinacia della detta guerra. Partito il detto re di Navarra con\nsua gente d\u2019Alsurro, se n\u2019andarono al Tu, e stesonsi infino in Tor\u00ec,\ne ivi combatterono e presono uno forte castello ove trovarono molta\nroba; e predato le cose sottili, fornirono il castello, e lasciaronvi\nsofficiente difesa, cercando dove potessono fare danno. E oltre a\nqueste inique operazioni del re d\u2019Inghilterra, e\u2019 si copria sotto lo\nscudo del re di Navarra, la cui forza tutta era d\u2019Inghilesi: e pertanto\nsi potea dire pessima cosa, che era radice di tradimento, perocch\u00e8 i\npaesani allegrandosi per lo grido della pace novella non attendeano\nalla guardia come erano usati, e pertanto ricevettono danno in molti\nluoghi grandissimo; onde essendo improvvisi fidati, cos\u00ec malmenati,\ne senza capo o consiglio, si diruppono quasi tutti a mal fare;\nverificando l\u2019antico proverbio che dice, tra pace e tregua guai a chi\nla lieva.\nCAP. XI.\n_Del male stato di Cicilia in questi tempi._\nLe discordie continovate per lungo tempo tra\u2019 Ciciliani aveano l\u2019isola\nridotta in somma impotenza e miseria, e in stato s\u00ec fievole, che poco\ndegno pare di memoria per le sue opere inferme e di poco valore, pur\nseguendo quelle, tali quali furono racconteremo. In questo anno 1358\ndel mese di febbraio, uno bastardo della casa di Chiaramonte, detto\nper nome Manfredi, uomo assai valoroso e ardito, se n\u2019and\u00f2 a Messina,\ne sagacemente cerc\u00f2 se avesse potuto riducere i Messinesi al volere\ndel duca, figliuolo che fu del re di Cicilia, a cui erano avversi e\ncontrari tutti quelli di Chiaramonte, e per sua parlanza avea tanto\noperato, che i principali parziali de\u2019 Messinesi inchinavano e davano\norecchie. Ma messer Niccol\u00f2 di Cesare, il quale per lo re Luigi avea la\nmaggioranza e lo stato, s\u00ec s\u2019oppose, e non volle assentire, mostrando,\nche se quella citt\u00e0 perdesse l\u2019aiuto e lo foraggio della vittuaglia\nche traeva di Calabria era in pericolo di fame, e di venire per tanto\nin desolazione e in miseria. Quelli di Chiaramonte veggendo i crolli\nche aveano per sostenere la parte del re Luigi, e che da lui non era\nfavore bastevole a mantenere loro stato, ripresono e ridussono a loro\nlega la Stella di Palermo, e molte altre fortezze e tenute, le quali\naveano lasciate nella guardia del re Luigi, il quale per non potere\nresistere alla spesa non le potea guardare; e forte temeano che non\nle riprendessono i Catalani. E nondimeno mandarono il detto Manfredi a\nNapoli al re Luigi significando lo stato loro e del paese, e pregandolo\nche mandasse loro gente d\u2019arme sofficiente a resistere alla potenza\ndel duca e dei Catalani, la quale tutto che piccola fosse, pure era\nmaggiore che la loro, e da sormontare in breve tempo se non trovasse\ncontasto, che continovamente crescea, s\u00ec perch\u00e8 li paesani volentieri\ntornavano alla grazia del signore naturale, e s\u00ec perch\u00e8 d\u2019Araona\nli venia soccorso. Sentendo ci\u00f2 il re Luigi, e non potendosi come\ndesiderava, per l\u2019impossibilit\u00e0 fare prestamente quello che domandavano\ni suoi parziali, s\u2019aiut\u00f2 colle grandi e larghe impromesse, promettendo\nd\u2019andarvi in persona senza lungo indugio di tempo. E di presente f\u00e8\nsua ambasciata, e mand\u00f2 a richiedere d\u2019aiuto il comune di Firenze, e\ngli altri comuni di Toscana per la sua andata in Cicilia. E per dare a\u2019\nsuoi amici e servidori speranza, mand\u00f2 innanzi da s\u00e8 il conte da Riano\ncon trecento cavalieri e con pedoni nell\u2019isola, e oper\u00f2 s\u00ec che messer\nNiccol\u00f2 di Cesaro per la detta cagione venne per suo ambasciadore in\nToscana; e come ne segu\u00ec di questa materia a suo tempo racconteremo.\nCAP. XII.\n_Del male stato di Puglia per ladroni._\nCome detto avemo nel capitolo di sopra, il re Luigi promise di passare\nalla difesa e acquisto della Cicilia, e non era sufficiente, come\nappresso diremo, a purgare e a difendere suo reame delle continove\ningiurie e ruberie de\u2019 ladroni che correvano il Regno con disordinata\nbaldanza. E ci\u00f2 addivenne, perch\u00e8 in questi d\u00ec i baroni non erano\nin pace e in concordia col re, e massimamente i reali, e il re aveva\npiccola entrata, e per\u00f2 tenea poca gente d\u2019arme a gastigare col ferro\ne col capestro il gran numero de\u2019 ladroni sparti quasi per tutto\nil reame, e caldeggiati da\u2019 detti reali e baroni per odio del re. E\npertanto in pi\u00f9 parti del Regno si cominciarono a fare raunanze di\ngente malandrina disposta a rubare, e feceano loro capitano, e rompeano\nle strade, e correano per lo paese ora in una ora in un\u2019altra parte,\nforte conturbando i forestieri e\u2019 paesani con rapine, e violenze, e\nomicidii, fra i quali uno friere dello Spedale per trattato rubell\u00f2\nAlfi, e fecelo spilonca e ricetto di questi ladroni: e altri ladroni\nin Nieboli feciono il simigliante: e alcuna altra brigata di questa\npessima gente ferono capo in Valle beneventana, e altri di loro ginea\naltrove in diverse contrade, tenendo i paesi affannati, perch\u00e8 andare\nnon si potea sicuro in niuna parte del Regno, se non con sicurt\u00e0 de\u2019\nbaroni del paese, i quali nel vero a loro davano ricetto per essere\ntemuti da\u2019 paesani. Di tanti mali giustizia fare non si potea; ma i\nladroni mancando la preda, e crescendo l\u2019ira de\u2019 paesani, e la paura\nde\u2019 loro malificii, partendosi molti da compagnia, i caporali rimaneano\ncon minore seguito, e meno poteano fare nocimento.\nCAP. XIII.\n_Della morte di messer Bernardino da Polenta signore di Ravenna._\nEssendo stato lungo tempo malato messer Bernardino da Polenta tiranno\ne signore di Ravenna e di Cervia, a d\u00ec 13 di marzo 1358 lasci\u00f2\ninsieme la signoria e la vita. Costui fu dissoluto e mondano, e di\nsfrenata lussuria; crudele e aspro signore, e nimico di tutti coloro\nche montassono in virt\u00f9 e in ricchezza, e tutti gli antichi legnaggi\ndell\u2019antica citt\u00e0 e nobile di Ravenna spense e distrusse, non meno\nper cupidigia d\u2019usurpare i loro beni, che per tema che per alcuno\ntempo non li fossono avversi; il perch\u00e8 in Ravenna al suo tempo altro\nche artefici minuti e villani non si vedeano. Costui talora come\ncensuario rispondea alla Chiesa di Roma, mostrandosi divoto e amico,\nma copertamente l\u2019era contrario, favoreggiando i rubelli della Chiesa\nin Romagna e nella Marca. E avendo ne\u2019 d\u00ec suoi la fortuna benigna,\ndi masserizia, di grano, e di bestiame, e di sale, e delle colte de\u2019\ncittadini e de\u2019 contadini disordinatamente gravati f\u00e8 grande tesoro; e\nquanto ch\u2019all\u2019anima poco fruttasse, pure nell\u2019estremo f\u00e8 testamento,\nnel quale istitu\u00ec sua reda messer Guido suo figliuolo, e s\u00ec della\nsignoria come dell\u2019avere; il quale, morto il padre, con la forza degli\namici e della gente dell\u2019arme al popolo si f\u00e8 confermare per quella\npoca di giurisdizione che la Chiesa dice d\u2019avere in Ravenna, e con\nprovvedere al legato anche fortific\u00f2 la detta confermazione. Costui\nmosso da benignit\u00e0 d\u2019animo, e da buono e savio consiglio, tutti gli\nantichi e buoni cittadini che dispersi per lo mondo aveano fuggita\nla crudelt\u00e0 e l\u2019ira del padre richiam\u00f2 e ridusse in Ravenna, e cacci\u00f2\nvia tutti i malvagi e iniqui sergenti del padre; che fu cosa notabile\nassai, e atto non di tiranno, ma di giusto signore naturale.\nCAP. XIV.\n_Operazioni della mor\u00eda._\nIn quest\u2019anno l\u2019usata mor\u00eda dell\u2019anguinaia, la quale nell\u2019autunno\npassato avea nel Brabante e nelle circustanti parti del Reno fatti\ngran danni, nel verno si dilat\u00f2, e comprese e pass\u00f2 nel Friuli facendo\nl\u2019uficio suo per infino al marzo, e parte della Schiavonia, ma non\ntroppo agramente; perocch\u00e8 enfiando sotto il ditello e l\u2019anguinaia, chi\npassava il settimo giorno era sicuro; vero \u00e8 che in sette d\u00ec assai ne\nmorivano. Ancora non pigliava le citt\u00e0 e le ville comunemente, ma al\nmodo della gragnuola l\u2019una lasciava stare e l\u2019altra prendea; e durando\ndove cominciava dalle venti alle ventidue settimane, molta gente d\u2019ogni\ngenerazione trasse a fine.\nCAP. XV.\n_Di certa novit\u00e0 ch\u2019ebbe in Perugia in questi tempi._\nChi vorr\u00e0 con animo riposato recare alla mente quello che scritto si\ntrova degli stati mondani dal tempo di Nembrotte primo tiranno infino\nne\u2019 giorni presenti, vedr\u00e0 manifesto, che mai niuno tempo fu tanto\npacifico n\u00e8 tanto durato tranquillo che ne\u2019 reami, e nelle citt\u00e0, e\n(che \u00e8 pi\u00f9 da maravigliare) nelle piccole e povere ville, non sieno\nstati di quelli che hanno cerco e a tutti i sentimenti del corpo e\ndell\u2019animo di soprastare agli altri, e di farsi maggiori e governatori,\nusurpando le pubbliche e le private ricchezze; e senza recare esempi\na prova di ci\u00f2, che sono infiniti, e notori e manifesti, cercate le\nnote volgarmente hanno fatto quelli di nostra famiglia intorno alle\ncose che sono occorse ne\u2019 tempi da farne memoria, trover\u00e0 che non\ndi Roma citt\u00e0 in Italia, ma in tutto il mondo mai non fu in tanto\nriposo che per tutto non sentisse affanno di questa materia; onde li\nsavi, che ricordano delle cose antiche, veggendo questi casi tutto\ngiorno addivenire, non si dogliono n\u00e8 si maravigliano, ma i semplici\ne idioti, che solo tengono gli occhi alle cose che sono loro davanti,\nsi turbano e rammaricano, e mormorando stoltamente favellano, e non\nsapendo vedere n\u00e8 dare riparo potendo si contristano. Essendo dunque\nquesta vita comune, molte pi\u00f9 e cos\u00ec ne sono state maculate l\u2019altre\ncitt\u00e0 di Toscana, come la nostra. E in questi tempi ne fece sperienza\nla citt\u00e0 di Perugia, che essendo il popolo suo villanamente barattato\nper Leggieri d\u2019Andreotto e per gli altri grandi cittadini appellati\nRaspanti, che con lui s\u2019intendeano ne\u2019 fatti dell\u2019impresa della\ncitt\u00e0 di Cortona e della guerra de\u2019 Sanesi ch\u2019era seguita, quelli\nche voleano vivere mezzano e popolare senza fare danno o vergogna\nal suo comune ebbono tanto di podere, che feciono in Perugia venire\nper sindaco di comune messer Geri della casa de\u2019 Pazzi di Firenze,\ncavaliere sagace e di grande cuore, voglioso e vago di novit\u00e0 come pi\u00f9\nvolte mostr\u00f2 per l\u2019opere sue. L\u2019uficio fu con gran podest\u00e0 e bal\u00eda,\nin ritrovare chi avesse male preso della pecunia del comune e\u2019 beni,\ne punire agramente cui trovasse colpevole; il valente cavaliere,\ncome giunse informato appieno per solenne investigagione di quelli\nche ne\u2019 detti casi aveano errato, non prese gli uccellini, ma form\u00f2\nfrancamente suo processo contro al detto Leggieri, e altri maggiorenti\ndi quelli dello stato, ad animo di farne giustizia, senza tenere in\ncollo il processo. Gl\u2019inquisiti non s\u2019osavano rappresentare veggendo\nl\u2019uficiale coraggioso e disposto a punire, per tema di non essere\nposti al tormento, e condannati personalmente e vituperosamente per\nbarattieri e rubatori del loro comune: e colla forza de\u2019 Raspanti, che\nli favoreggiavano, procuravano il d\u00ec e la notte come potessono impedire\nl\u2019uficiale in forma ch\u2019e\u2019 non potesse procedere. I gentili uomini\ncon tutto il seguito loro riscaldavano e francheggiavano il sindaco\nperch\u00e8 condannasse, stimando che se ci\u00f2 fosse avvenuto rimaneano senza\ndubbio i maggiori, e volgeano lo stato. Onde avveggendosi di ci\u00f2 i\npopolari, eziandio quelli ch\u2019aveano cominciato la mena, si dierono\na cercare de\u2019 rimedi, e trovarono uno statuto, che essendo eletto\nper ambasciadore di comune, qualunque fosse e qualunque uficiale\ninquisito, mentre che durasse il tempo dell\u2019ambasciata si sospendea il\nprocesso; onde operarono co\u2019 signori, che gl\u2019inquisiti fossono eletti\nper ambasciadori, e cos\u00ec seguette; perch\u00e8 convenne che i processi\ncominciati fossono sospesi. Il perch\u00e8 il valente cavaliere, veggendo\nche gli erano presi i dadi, e ch\u2019e\u2019 non potea fare niente di suo\nintendimento, lasci\u00f2 l\u2019uficio, e tornossi a Firenze. Il suo successore\ntrovati i processi pendenti assolse i detti grandi cittadini, e per\nmostrare di fare uficio condann\u00f2 i minori e gl\u2019impotenti, onde a\nfurore di popolo anzi ch\u2019e\u2019 finisse l\u2019uficio fu messo in prigione e\nvituperosamente condannato forn\u00ec i giorni suoi in prigione.\nCAP. XVI.\n_Di sconfitta ebbono i Turchi da\u2019 frieri._\nAvendo i Turchi presa sopra i Greci disordinata e troppa baldanza,\nne\u2019 detti tempi armarono ventinove legni, e valicarono nella Romania\nbassa, e non trovando in pelago chi rispondesse loro si misono per\nla fiumara molto fra terra predando il paese, e pigliando a costuma\ndi pecore, e avendo accolti pi\u00f9 di milledugento prigioni e altra roba\nassai, e ridotta tutta alla riva del fiume per caricare i navili; il\nmaestro dello spedale che per sue spie avea della detta armata sentito,\ne fatto armare quattro galee e uno legno, e messovi quanti e\u2019 pot\u00e8 de\u2019\nmigliori e pi\u00f9 franchi de\u2019 suoi frieri, e altra buona gente d\u2019arme, e\nnobilmente fornita e apparecchiata a battaglia, le f\u00e8 senza perdere\ntempo dirizzare in Romania; li quali trovando come i Turchi avendo\ni Greci a vile s\u2019erano messi per la fiumana, presono subitamente la\nbocca del fiume, e a lento passo tennono loro dietro; e non avendo\nrispetto perch\u00e8 i Turchi molti pi\u00f9 fossono a numero, li soprappresono\nquando intendeano a caricarei navili, e fidandosi nel nome di Cristo\ne nell\u2019aiuto suo scesono in terra, e arditamente presono la battaglia\ncon loro, la quale dur\u00f2 lungamente; e non ostante che i Turchi fossono\nmale ordinati, erano tanti, e vedeansi in luogo che non poteano fuggire\nse non si facessono fare la via colle spade, per\u00f2 grande resistenza\nfeciono e aspra zuffa: alla fine furono rotti e sbarattati, e la\nmaggiore parte di loro morti e magagnati. Quelli che rimasono nella\nsconfitta furono tutti presi, e i loro legni e navili, che niuno non\nne camp\u00f2. I frieri liberata la preda e\u2019 prigioni che i Turchi aveano\npresi, e con piena vittoria, si ritornarono salvi a Rodi.\nCAP. XVII.\n_Di novit\u00e0 state in Provenza contro a quelli del Balzo._\nI gentili uomini della Provenza che si chiamavano villanamente\noltraggiati da\u2019 signori e dalla casa del Balzo, i quali aveano\ntenuto e condotto gran tempo sopra loro la compagnia, desiderosi\ndi vendicare gli oltraggi e\u2019 danni loro fatti, del mese di marzo\ns\u2019adunarono insieme con quella gente d\u2019arme che pi\u00f9 presto poterono\naccogliere senza fare segno di cui volessono offendere, e di furto\npresono l\u2019Aguglia, nobilissima e bella fortezza di quelli del Balzo,\ne presa, senza arresto la gittarono in terra infino ne\u2019 fondamenti. E\nci\u00f2 fatto, intendeano a tutto loro potere di seguire alla distruzione\ndella casa del Balzo, se non che il papa e\u2019 cardinali, veggendo che\nquella guerra tuttoch\u00e8 fosse tra private persone e non generale,\nn\u00e8 con offesa altrui che di loro, per lo sturbo che di ci\u00f2 seguiva\nalla corte di Roma vi s\u2019interpose perch\u00e8 non procedesse pi\u00f9 oltre, e\nfeciono racquetare i Provenzali, e por gi\u00f9 l\u2019arme. In questi giorni\ni Borgognoni e\u2019 Provenzali che erano nel reame di Francia stavano in\npessima disposizione, perocch\u00e8 chi volea mal fare non era punito, e di\ntali si trovavano assai, e aveano grande seguito; onde per la detta\ncagione i cammini d\u2019ogni parte erano rotti, e\u2019 mercatanti e l\u2019altra\ngente rubati, ed erano s\u00ec stretti i cammini da questa mala gente,\nche appena i corrieri, che andavano e venivano a Avignone, dalle loro\nmani poteano scampare; il perch\u00e8 la corte stava in molto disagio, e ad\naltro non s\u2019intendea che a trarre a fine le nuove mura d\u2019Avignone: e\nper ci\u00f2 fornire, il papa e\u2019 cardinali aveano fatta l\u2019imposta a tutti\ni cittadini e cortigiani, la quale era certa tassa in nome di capo\ncenso, e per casa, e per famiglie e botteghe, le quali si ricoglievano\nogni mese una volta, o pi\u00f9 o meno, tre d\u00ec come il bisogno occorreva.\nE per seguire i fatti de\u2019 corrieri, giugnendo insieme il caso che\nviene, il cardinale di Pelagorga e quello di Bologna, i quali erano\nstati in Francia e in Inghilterra a trattare la pace intra\u2019 due re,\ncome addietro facemmo menzione, tornando a corte, sentendosi, furono\nassaliti da gente d\u2019arme, e nell\u2019assalto furono morti dodici de\u2019\nfamigli loro, intra\u2019 quali v\u2019ebbe sei cavalieri, e per\u00f2 fuggirono senza\narrestarsi per spazio di quattro miglia, e\u2019 buoni cavalli e gli sproni\nli camparono che non furono presi, e ridussonsi in Celano, non sapendo\nchi li cacciava. Bene si sparse la voce che i Franceschi si teneano\nmal contenti di loro per li trattati menati per loro in poco favore\ndel loro re e signore; ma ci\u00f2 non fu vero, ma piuttosto operazione di\nrubatori, che stimarono essere ricchi se gli avessono potuti pigliare,\nche atto di vendetta per sdegno ch\u2019avessono preso i Franceschi.\nCAP. XVIII.\n_Il consiglio si tenne in Francia sopra le domande degl\u2019Inghilesi._\nEssendo divulgata la non vera pace tra li due re d\u2019Inghilterra e di\nFrancia per vera, il duca d\u2019Orliens, e il Delfino di Vienna figliuolo\ndel re di Francia and\u00f2 a Mompelieri dove si f\u00e8 grande ragunanza de\u2019\nbaroni di Francia, e con loro furono i due cardinali ch\u2019erano stati\naltra volta al trattare della pace; quivi si fece parlamento per tutti,\nnel quale chiaramente per tutti si tenne e conobbe, che quello che\ndomandava il re d\u2019Inghilterra non era possibile, perch\u00e8 non vedeano\nche si potesse per modo alcuno inducere i Franceschi al consentimento,\ntant\u2019era la domanda ontosa e altiera, e a grande animo de\u2019 Franceschi,\nper la vituperosa e sdegnosa cosa, onde senza prendere accordo si part\u00ec\nil parlamento. Il Delfino cavalc\u00f2 ad Orliens con intenzione, che se\n\u2019l padre passasse in Francia col re d\u2019Inghilterra, com\u2019era ordinato,\nli prestasse il consentimento della corona per difesa del reame, e\nper tenere ci\u00f2 che si potea; giunto in Orliens, mand\u00f2 due baroni al\nre d\u2019Inghilterra a cercare accordo con lui, e fatto per sue lettere ed\nambasciate, a tutte le citt\u00e0 e buone ville di Francia manifest\u00f2 quello\nche chiedea il re d\u2019Inghilterra in vergogna e abbassamento della corona\ne nome de\u2019 Franceschi, e confort\u00f2 li comuni che stessono attenti e\nprovveduti, e che si studiassono a fare buona guardia.\nCAP. XIX.\n_Come il re di Spagna e quello d\u2019Araona s\u2019affrontarono e non\ncombatterono._\nSeguendo le discordie e tribolazioni de\u2019 cristiani, che a giornate\nper li loro peccati rovesciano i due re, quello d\u2019Araona e quello\ndi Spagna intra gli altri di nome cristiano, e grandi e famosi,\ns\u2019erano ingaggiati di battaglia, e all\u2019entrata del mese d\u2019aprile 1359\nciascheduno di loro provveduto e avveduto, fatto tutto suo sforzo per\nessere alla battaglia, comparirono alla fine de\u2019 loro reami assai di\npresso ciascheduno; quello di Spagna, che si noma quello di Castella,\nvenne con settemila cavalieri tra di sua raunata e di gente barbara,\ni quali si chiamavano Mori, e con popolo assai; quello d\u2019Araona venne\ncon cinquemila cavalieri catalani e con grande quantit\u00e0 di popolo\na pi\u00e8, armati di lance e di dardi maneschi, i quali sono da loro\nchiamati mugaveri, e l\u2019una e l\u2019altra gente con le persone de\u2019 loro re\ns\u2019avvicinarono insieme per ordinarsi a battaglia: e non pertanto che\nil re d\u2019Araona fosse con meno cavalieri che quello di Castella, molta\nsicurt\u00e0 e baldanza prendea nella fede de\u2019 suoi baroni, ma pi\u00f9 in Dio,\nperch\u00e8 avea seco giusta cagione, e ci\u00f2 li dava speranza di vincere;\nma quello di Spagna, tutto che si sentisse la forza maggiore, non si\nfidava della fortuna della battaglia, per la coscienza di sua vita\nscellerata e crudele, perocch\u00e8 tornandoli a memoria che l\u2019anno dinanzi\navea di sua mano morti venticinque de\u2019 suoi baroni, come addietro\ncontammo, invil\u00ec, temendo ch\u2019e\u2019 baroni che gli erano rimasi non li\ntenessero fede, e stornava con modi sagaci la zuffa; il perch\u00e8 segu\u00ec,\nche stati pi\u00f9 giorni affrontati senza muovere assalto, o aizzare l\u2019uno\nl\u2019altro, quasi come se avessono fatta convegna, si partirono del campo,\ne tornaronsi indietro ciascuno alla sua frontiera. Di ci\u00f2 fu lodato\nil re d\u2019Araona, che tutto che conoscesse che per la discordia de\u2019\nsuoi nemici la vittoria fosse nelle sue mani, non volle mettere tanti\ncristiani a farli uccidere insieme.\nCAP. XX.\n_Come il comune di Firenze si provvide contro alla compagnia._\nBene che \u2019l nostro comune di Firenze sollicitamente e con molta\nprovvedenza infra \u2019l tempo che la compagnia badava in Romagna\naspettando il tributo dal cardinale si fosse messo in assetto e alla\ndifesa, a all\u2019offesa de\u2019 suoi nemici, sentendo che \u2019l sabato santo a d\u00ec\n20 d\u2019aprile la pecunia promessa alla compagnia era pagata, raddoppi\u00f2 la\nsollecitudine, facendo gente quanta ne trovava assoldare, e affrettando\nl\u2019aiuto dell\u2019amistadi, e riferm\u00f2 per capitano di guerra messer Pandolfo\nde\u2019 Malatesti, e a d\u00ec 29 d\u2019aprile 1359 fece la mostra della gente\nsua, la quale fu da duemila barbute, e da cinquecento Ungheri, e da\nduemilacinquecento balestrieri eletti tra gli altri e armati tutti a\ncorazzine; e avendo in punto questa brigata, messer Bernab\u00f2 signore di\nMilano, il quale da questa Compagnia pi\u00f9 volte era stato oltraggiato e\nl\u2019avea in odio, offerse aiuto di mille barbute e di mille masnadieri\nal nostro comune, e il comune l\u2019accett\u00f2 perocch\u00e8 in quel tempo vivea\nin fede e in buona pace col detto signore; fatto l\u2019accetto, il detto\nsignore senza niuno intervallo di tempo ne cominci\u00f2 a fare soldare in\nToscana. E mentre si facea queste cose, messer Francesco da Carrara\nsignore di Padova mand\u00f2 in aiuto a\u2019 Fiorentini dugento cavalieri, e\ni marchesi da Este signori di Ferrara mandarono trecento cavalieri; e\nfu cosa mirabile, che i tiranni che per natura sogliono essere nemici\ne oppressatori de\u2019 popoli che vogliono vivere in libert\u00e0, il perch\u00e8\nle ragioni sono manifeste, si mettessono ad atare il nostro comune\nfedelmente, che sopra tutti gli altri d\u2019Italia sempre s\u2019\u00e8 opposto\na\u2019 tiranni e disfattine molti, e i popoli di Toscana che sono vivuti\nlungamente a libert\u00e0 cercassono il contrario quasi di assenso comune,\nbene che non apertamente, come appresso diremo. E cominciandoci a\u2019\npi\u00f9 antichi e intimi amici del nostro comune, e che mai da lui non\nfurono offesi, ma sempre atati e difesi e esaltati ne\u2019 loro onori,\ncio\u00e8 da\u2019 Perugini, contro al volere del comune di Firenze, e per suo\nabbassamento e desolazione, secondo loro credenza e speranza, presono\naccordo colla compagnia per cinque anni, dando loro di censo ogni anno\nfiorini quattromila d\u2019oro, e a tutta l\u2019oste in dono tre d\u00ec vittuaglia,\ne da indi innanzi derrata per danaio, e il passo libero per lo loro\ncontado e distretto a ogni tempo ch\u2019e\u2019 volessono passare, promettendo\nche non darebbono contro a loro aiuto a\u2019 Fiorentini; la quale\ncoralmente punse il nostro comune, e molto l\u2019ebbe a grave. Vedendo\ni Sanesi e\u2019 Pisani ch\u2019e\u2019 Perugini, che sempre erano stati un animo e\nun corpo co\u2019 Fiorentini, aveano preso l\u2019accordo nella forma ch\u2019avemo\ndetto di sopra, feciono il simigliante, e pi\u00f9 i Pisani, come antichi e\nperfidi nemici del nostro comune, foraggio, e passo, e segreta promessa\ndi dare loro aiuto della gente dell\u2019arme loro; la qual cosa sagacemente\nfeciono poi, come leggendo nostra opera al suo tempo si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XXI.\n_D\u2019una folgore che cadde in sulla chiesa maggiore di Siena._\nTutto che i miracoli che noi veggiamo di poco ci muovano a lasciare i\npeccati e tornare a penitenza, pure li dovemo scrivere a terrore de\u2019\nmortali. In questi d\u00ec della Pasqua della resurrezione di Cristo, a d\u00ec\n21 d\u2019aprile in sull\u2019ora della terza, essendo il tempo turbato e largo\ndella piova, una folgore percosse l\u2019agnolo ch\u2019era nel colmo della\nchiesa del vescovado di Siena, e portollo via, e non lo fracass\u00f2, e\nscese nella cappella, e arse i paramenti e il tavolato dell\u2019altare\nmaggiore; e avendo il prete consegrato il corpo di Cristo, non essendo\nancora comunicato, cadde in terra tramortito, e cinque preti ch\u2019erano\nd\u2019intorno al servigio dell\u2019altare percosse e ricise, e l\u2019ostia e la\ncroce dell\u2019altare non si pot\u00e8 mai ritrovare.\nCAP. XXII.\n_Di una battaglia tra due baroni del re di Rascia._\nIl re di Rascia il quale era sotto il tributo del re d\u2019Ungheria\ncessava di fare l\u2019omaggio, e ribellavasi al re; il perch\u00e8 venuto\nin indegnazione della corona, e avendo il re d\u2019Ungheria contro a\nlui conceputo e proposto nell\u2019animo suo di farlo conoscente, duro\ne malagevole li parea di passare la Danoia, per mantenere la gente\nnel reame di Rascia, non avendo nel paese terra alcuna che li desse\nricetto. E stando in questi pensieri, come suole apparecchiare la\nfortuna talora i non pensati acconci e\u2019 rimedi, due baroni del reame di\nRascia per loro gare e male venture riottavano insieme; il re s\u2019era pi\u00f9\nvolte travagliato di recarli a concordia, e nella fine in questi giorni\navuto l\u2019uno e l\u2019altro, e cercando di porli in pace, e non li potendo\nrecare, crucciato, come poco discreto, disse: Andate nella mal\u2019ora, e\nl\u2019uno faccia all\u2019altro il peggio che pu\u00f2; la parola detta sopr\u2019ira fu\nricevuta per espressa licenza; onde partendosi amendue pieni d\u2019odio e\ndi mal volere infiammati, quello di loro con alquanto meno podere avea\nle sue terre in sulla riviera della Danoia, l\u2019altro ch\u2019era di maggiore\npossanza accolta gente d\u2019arme lo cavalc\u00f2, ardendo e guastando il suo\npaese, e infine al suo abboccamento lo sconfisse; n\u00e8 a ci\u00f2 contento,\ncercava sollicitamente di distruggerlo e trarlo a fine, e per ci\u00f2\nfare lo cavalcava spesso, facendo ogni male. Vedendo il detto barone\nch\u2019e\u2019 non potea resistere, e nel suo re non avea speranza che levasse\ndall\u2019impresa l\u2019avversario suo, lasci\u00f2 il meglio che pot\u00e8 le sue terre\nfornite a difesa, e segretamente valic\u00f2 la Danoia, e ridussesi a uno\nde\u2019 baroni d\u2019Ungheria che l\u2019aiutasse, promettendoli di farsi cristiano;\nil barone del re d\u2019Ungheria li di\u00e8 quella quantit\u00e0 d\u2019Ungheri che li\nchiese, e \u2019l barone a parte a parte occultamente li mise nelle sue\nterre, e fece mettere la fama di volere fare di sua gente tutto suo\nsforzo per vendicare sua onta e dannaggio. Il suo nemico che poco il\npregiava, per la vittoria avuta di lui era molto montato in baldanza,\nvenne da capo con tutto suo sforzo in sulle terre del detto barone,\ne non avendo l\u2019avviso degli Ungheri ch\u2019erano venuti in aiuto de\u2019 suoi\nnemici, e mescolato tra loro, con animosa battaglia durissima, per la\nvirt\u00f9 degli Ungheri fu sconfitto, e rimase morto in sul campo. E bene\ncadde nella sentenza dell\u2019antico proverbio che dice, chi \u00e8 povero di\nspie \u00e8 ricco di vituperio, e fece fede che non si vuole avere tanto a\nvile il nemico che non creda che offendere lo possa. Di questa tenzone\nnon curata ne\u2019 principii, come si dovea, e lasciata passare in malattia\nda non rimediare, nacque, che avuto il passo da questo barone il re\nd\u2019Ungheria con grande esercito pass\u00f2 la Danoia, come a suo luogo e\ntempo diviseremo.\nCAP. XXIII.\n_Come sotto nome di falsa pace il re di Navarra tribol\u00f2 Francia._\nIn questo medesimo tempo il sollecito re di Navarra, avendo in\napparenza ridotti gl\u2019Inghilesi in forma di compagnia, per non mostrare\ndi volere fare contro alla volont\u00e0 del re d\u2019Inghilterra, e contro alla\nfalsa pace che per lui era bandita, cominci\u00f2 a cavalcare in Berr\u00ec, e\ntribolare quel paese con aspra e mortale guerra, stendendosi infino\nin Campagna, rubando le ville e\u2019 cammini, e ardendo chi non si voleva\nrimedire. I legati del papa, ch\u2019aveano preso cura della concordia\ntra\u2019 due re, vedendo quello che il re di Navarra aveva fatto col\nbraccio degl\u2019Inghilesi, ne scrissono al re d\u2019Inghilterra, pregandolo\nche per bene della pace senza pi\u00f9 aizzare i Franceschi li piacesse\nporvi rimedio; e massimamente perch\u00e8 il fatto pareva contro al suo\ncomandamento, e non atto di pace com\u2019era ita la grida. Il re rispose,\nche di ci\u00f2 li pesava, e che non vedea come a quella mala gente, e del\ntutto disposta a mal fare, potesse rimediare n\u00e8 mettervi riparo, che\nvolentieri per suo onore il farebbe. Stando le cose di Francia mal\ndisposte in questi baratti, nel mese d\u2019aprile 1359, nella citt\u00e0 di\nDigiono in Borgogna, una parte del popolo minuto vago di preda si lev\u00f2\na romore, e corsono a furore alle case de\u2019 maggiori e de\u2019 pi\u00f9 ricchi\ncittadini della terra, e rubaronli, e chi non fugg\u00ec loro dinanzi in\nquella tempesta fu morto. Il duca di Borgogna sentendo questa novit\u00e0, e\ntemendo di ribellione, mand\u00f2 l\u00e0 di sua gente d\u2019arme, e de\u2019 malfattori\nne fece assai bandeggiare, e presine nel numero di centoventi, per\nvendetta del misfatto gli fece appendere per la gola.\nCAP. XXIV.\n_Novit\u00e0 state a Montepulciano._\nTornando alle italiane tempeste, messer Niccol\u00f2 della casa di quelli\ndel Pecora di Montepulciano, il quale era stato egli e\u2019 suoi altra\nvolta signori di quella terra, essendo stato lungo tempo di fuori, e\nassai onorato dal comune di Perugia, il quale avendolo fatto cavaliere\ngli aveano donato una tenuta del comune, la quale era in sulle\nChiane presso assai a Montepulciano, la quale si chiamava Valliano,\nluogo forte, e ubertuoso d\u2019ogni cosa, e traevanne loro vita assai\nonorevolmente. Sentendo il cavaliere l\u2019animo de\u2019 suoi terrazzani mal\ncontenti, e atti a fare novit\u00e0 per sdegno di male reggimento, e che\nmala volont\u00e0 era in tra \u2019l comune di Siena e quello di Perugia, il\nperch\u00e8 lo stato de\u2019 Montepulcianesi vagillava, ed era senza riposo, si\nmise segretamente a cercare per mezzo degli amici co\u2019 suoi terrazzani\ndi volere tornare in Montepulciano. E trovando la materia disposta\nall\u2019intendimento suo, accolse segretamente brigata, e di maggio 1359,\nsenza fare novit\u00e0 alcuna, s\u2019entr\u00f2 nella terra, e da\u2019 terrazzani fu\nricevuto lietamente, dicendo esso, che non temesse nessuno, perocch\u00e8\nliberamente e di buon cuore aveano perdonato a qualunque offeso gli\navesse, e ch\u2019elli intendeano tutti tenere e trattare per fratelli.\nE avendo ricordo che la riotta ch\u2019era stata tra lui e messer Iacopo\nsuo consorto era stata la cagione principale perch\u00e8 avea perduta\nla signoria della terra, avendo provato che \u00e8 il perdere lo stato\ncon andare all\u2019altrui mercede, mand\u00f2 prestamente per lui, e feglisi\nincontro assai di spazio fuori della terra, e lo domand\u00f2, s\u2019egli\nintendea a perdonare liberamente a qualunque offeso l\u2019avesse, e con lui\nessere unito al beneficio e stato comune della terra loro, che quando\nl\u2019animo suo intendesse al contrario, che amendue prendessono altro\nviaggio, e lasciassono in pace la terra al governo de\u2019 suoi terrazzani;\ne avendo detto, messer Iacopo disse, che \u2019l suo animo era buono, e che\nliberamente a tutti avea perdonato, e promesso che mai non ne farebbe\nvendetta, si presono per mano, e con festa grande e buona volont\u00e0 di\nquelli della terra entrarono nel castello, e furono fatti signori, e\ncon molta concordia si dirizzarono a ben fare, e a mantenere amist\u00e0 co\u2019\nPerugini, e a onorare i Sanesi.\nCAP. XXV.\n_Di fanciulli mostruosi che nacquero in Firenze e nel contado._\nDel mese d\u2019aprile in questo anno, in Firenze e nel contado nacquero\nparecchi fanciulli contraffatti, mostruosi, e spaventevoli in vista,\nalcuno in figura di becco, e le braccia e il petto come membra\nfemminili, e libere, e compiute; altri nacquero in altre forme\nmirabili, e assai differenti dall\u2019umana natura. E appresso nell\u2019autunno\nseguente segu\u00ec, che molte donne libere del partorire dopo pi\u00f9 giorni\nmorirono. E questo accidente si pens\u00f2 per li savi che procedesse dal\ncielo, in breve tempo non avesse fornito suo grande sfogamento: e\nprendevano le donne tanta gran paura venendo all\u2019atto del parto, che\nmolte se ne morivano; e se \u2019l cielo di questo e de\u2019 parti strani f\u00e8\nsegno, ristor\u00f2 ne\u2019 leoni, che tre maschi ne nascerono la vigilia di\nsanto Zanobi.\nCAP. XXVI.\n_Come la compagnia pass\u00f2 in Toscana, e cerc\u00f2 concordia con i\nFiorentini._\nPoich\u00e8 la gran compagnia del conte di Lando, afflitta e consumata la\nRomagna e la Marca, aveano dal legato ricevuta la paga e la promessa\nche detta avemo da\u2019 comuni di Toscana, superba e baldanzosa si mosse, e\nsotto la guida de\u2019 cittadini che dati l\u2019erano a condotta dal comune di\nPerugia pass\u00f2 per lo distretto di Perugia, cio\u00e8 per quello della Citt\u00e0\ndi Castello e del Borgo a Sansepolcro, che allora erano a\u2019 comandamenti\ne al seguo del comune di Perugia, e tutto che ne\u2019 patti avessono\npromesso non fare danno, le rapaci mani non si poteano contenere che\nnon predassono, e offendessono chi le facesse contesa; e ci\u00f2 non pass\u00f2\nsenza querele de\u2019 paesani, poco intese da\u2019 loro signori Perugini.\nLoro passata ne\u2019 detti luoghi fu nel detto anno 1359 entrando il mese\ndi maggio; e nel detto stallo e trapasso, credendo ogni gente d\u2019arme\narricchire in sul nostro contado della preda e ricetto, e di quello\nche insieme pensavano fare rimedire il comune di Firenze, abbandonato\nnell\u2019impresa, come detto avemo, dal legato e da\u2019 comuni di Toscana,\nche per invidia e mal talento prendevano speranza che molto abbassasse\nnostro comune, tanto crebbe e multiplic\u00f2 la detta compagnia s\u00ec di gente\ncassa dal legato, e da\u2019 Perugini, e da\u2019 Sanesi, e da altri comuni, che\npassava il numero di cinquemila cavalieri, e di mille Ungheri, e di\npi\u00f9 di duemila masnadieri di gente senza arme fornite, ch\u2019erano assai\npi\u00f9 di dodicimila bocche senza le bestie. Il perch\u00e8 avveniva, che\ndovunque s\u2019alloggiavano, eziandio per pochi d\u00ec, secondo i loro patti\ne convegne tutto consumavano e guastavano in forma, che a\u2019 paesani\ntoglieano la fatica di fare la ricolta. Quando i conducitori della\ncompagnia e i loro capitani si vidono in luogo che poteano per aperto\ncammino, venire in sul contado di Firenze, con sottile modo e con molta\nsagacit\u00e0 e astuzia feciono da molte parti muovere amici del comune\ndi Firenze, e alcuno scrivere, e alcuni venire infino a Firenze a\ncercare convegna, offerendo ogni concordia, lega e patto che sapessono\no volessono domandare il comune. Stando in queste mene, e di continovo\nfortificandosi il comune, in processo di tempo arrivarono a Firenze\nambasciadori del marchese di Monferrato, i quali erano stati nella\ncompagnia per conducerla al soldo suo e de\u2019 suoi collegati, i quali\ndomandavano cortesemente al nostro comune per parte di loro signore\nsolo il titolo della concordia senza pagare danari, e il passo sicuro\nper lo distretto del comune di Firenze, pi\u00f9 offerendo per ammenda\ndare al comune nostro fiorini dodicimila d\u2019oro: e oltre a costoro per\nsimigliante cagione vennono segretamente certi cittadini di Perugia.\nIl comune che per suo onore avea presa la tira, nel proposito suo\nstette fermo e costante, e non intralasciava per ragionamenti che non\nintendesse continovamente alla difesa, cercando di mettersi a prova\ndi spegnere la compagnia in Italia. E certo fu mirabile cosa, che\n\u2019l nostro comune si volesse mettere a partito e a fortuna con gente\ncon cui non potea guadagnare altro che fama e onore; ma cos\u00ec era per\nquella volta disposto, e tanto pertinace al servigio, che minacce, n\u00e8\nofferta di larga e onorata concordia, n\u00e8 altro qual\u2019altro vantaggio\nlo pot\u00e8 ritrarre della pertinacia del suo proponimento; essendo tutto\ndi combattuto da molti grandi e potenti suoi cittadini, i quali o che\nconoscessono il pericolo, o che temessono di loro possessioni, o perch\u00e8\nfossono d\u2019animo vile, apertamente ne\u2019 pubblichi e aperti consigli\naoperavano e consigliavano che si prendesse l\u2019accordo; ma il desiderio\ndi vivere in libert\u00e0 vinse l\u2019appetito de\u2019 cittadini, che consigliavano\ne voleano per maggioranza che \u2019l comune facesse a loro modo, e la paura\ndella compagnia, e ogni stimolo degli amici che si provarono di ci\u00f2.\nQuesto addivenne per l\u2019unit\u00e0 de\u2019 cittadini mercatanti, e artefici, e di\nmezzano stato, che tutti concorsono in uno volere all\u2019onore e bene del\ncomune.\nCAP. XXVII.\n_Come la compagnia s\u2019appress\u00f2 a Firenze._\nMentre che questi ragionamenti si bargagnavano e menavano per lunga, la\nforza del comune di Firenze continovo cresceva s\u00ec per gente di soldo\ne s\u00ec per amist\u00e0, perocch\u00e8 in questo venne del Regno mandato dal re\nLuigi il conte di Nola della casa degli Orsini con trecento cavalieri;\ne sentendo il conte di Lando sua venuta essendo a Bettona, con mille\nbarbute a loro cavalc\u00f2 incontro, credendolisi avere a man salva; ma\nci\u00f2 sentendo per sue spie il conte di Nola, il quale era molto loro\npresso, come gente del re per lo capitano furono ricevuti in Spoleto:\nla qual cosa a\u2019 Perugini fu tanto grave, che al capitano predetto di\nSpoleto, che era loro cittadino, cercarono di fargli tagliare la testa;\ne per mandare ci\u00f2 ad esecuzione, mandarono il loro conservadore che\ncercasse di farlo; ma li Spoletani, che si contentavano d\u2019avere fatto\nservigio al re nella persona della gente sua, nol vollono patire, e\nnon lasciarono entrare il conservadore in Spoleto; per questa cagione\nfurono vicini a ribellarsi al comune di Perugia. Il conte di Lando\nstando alla bada pi\u00f9 d\u00ec di prendere questa gente, vedendo tornare in\nfummo il suo proponimento, per non perdere pi\u00f9 tempo si ritorn\u00f2 alla\nsua compagnia, e il conte di Nola preso il suo tempo a salvamento se ne\nvenne a Firenze. Anche avvenne, che fu bella cosa, che dodici cavalieri\nnapoletani tra di Capovana e di Nido, facendo loro caporale un messer\nFrancesco Galeotto, s\u00ec per servire nostro comune, e s\u00ec per fare prova\ndi loro persone sentendo che con la compagnia si deliberava di prendere\nbattaglia, con altrettanti scudieri a loro compagnia in numero in\ntutto di cinquanta barbute, nobilmente montati, e con ricche e reali\ntransegne e armadure, alle loro spese vennono a Firenze, e tornarono\nin casa de\u2019 cittadini, veduti lietamente e onorati da tutti, standosi\ndimesticamente co\u2019 cittadini per la terra in pace e in sollazzo,\naspettando che si facesse battaglia, e stettono tanto che si part\u00ec la\ncompagnia: il comune veggendo la cortesia e l\u2019amore ch\u2019aveano mostrato,\ngli onor\u00f2 di doni cavallereschi, cera e confetti. La compagnia essendo\nstata oltre al tempo promesso in sul contado di Perugia, e loro fatto\ngran danno e disagio, si dirizzarono a Todi, dove stettono sei d\u00ec,\ndanneggiando e vivendo di preda, e\u2019 Todini ricomperarono il guasto\nquelli danari che poterono fare; onde per patto di loro terreno si\npart\u00ec la compagnia, e a d\u00ec 25 di giugno fu a Bonconvento e al Bagno a\nVignoni, ricevuta con apparecchio di vittuaglia da\u2019 Sanesi, e a guida\ndi loro cittadini.\nCAP. XXVIII.\n_Come il comune di Firenze di\u00e8 l\u2019insegne, e mand\u00f2 a campo la sua gente._\nI Fiorentini essendo pieni di buona speranza s\u00ec per lo loro capitano,\nche a que\u2019 tempi era riputato grande maestro di guerra e uomo di grande\ncuore, e s\u00ec per li molti gentili uomini pratichi in arme ch\u2019erano\nmandati per capitani della gente ch\u2019era venuta nell\u2019aiuto del comune,\ne s\u00ec per gli altri paesani e forestieri ch\u2019erano sentiti, e atti non\nche a seguitare ma a conducere e a governare ogni grand\u2019oste, i quali\nerano tutti di buono volere, e desiderosi di prendere battaglia e per\nloro fama e onore, e per servire e accattare la grazia del comune di\nFirenze, e per spegnere quella mala brigata, e l\u2019usanza del criare\nspesso compagnia per ingordigia di fare ricomperare signori e comuni;\nappresso si vedea il comune fornito di bella gente e bene armata\ne non di ribaldaglia; il perch\u00e8 sabato a d\u00ec 29 di giugno, il d\u00ec di\nsan Piero, coll\u2019usato modo e stile di nostro comune, con allegrezza\ne festa si dierono l\u2019insegne, e \u2019l capitano ricevuta la reale di\nmano del gonfaloniere di giustizia, l\u2019accomand\u00f2 a messer Niccol\u00f2 de\u2019\nTolomei da Siena, il quale era allora al soldo del comune di Firenze,\nuomo fedele e di grande animo; e ci\u00f2 fu fatto cautamente, prima per\nlevare invidia tra\u2019 cittadini, appresso perch\u00e8 fu pensato che tale\nuomo dovesse essere pi\u00f9 ubbidiente e riverente al capitano che se\nfosse stato cittadino, ancora per onorare la casa de\u2019 Tolomei, che\nsempre era stata in fede e in divozione del comune di Firenze pi\u00f9\nch\u2019altra casa di citt\u00e0 di Toscana; la qual cosa per quella volta fu\npoco a grado a\u2019 Sanesi. L\u2019insegna de\u2019 feditori fu data a messer Orlando\nTedesco antico soldato del nostro comune, fedele e provato in tutte\nmaniere; e cos\u00ec si f\u00e8, per mostrare la fede che\u2019 l nostro comune avea\nne\u2019 Tedeschi, e animarli a ben fare, che non ostante che la zuffa\nsi dovesse principalmente pigliare co\u2019 Tedeschi, volle fare palese\nil comune, che quelli di quella lingua erano leali, e che ciascuno\ndi loro si dovea e potea fidare. Data l\u2019insegna e piena libert\u00e0 al\ncapitano di combattere e di non combattere per l\u2019esaltazione e onore\ndel comune di Firenze, senza darli consiglieri o tutori cittadini che\n\u2019l potessono variare o impedire, cosa rade volte usata per lo comune,\nma utilmente fatta, e nella detta impresa lodata, si part\u00ec di Firenze\ncon l\u2019esercito che allora avea apparecchiato nostro comune, che fu in\nquesto numero: duemila barbute eletti e duemila masnadieri contadini\ndi bello apparecchio, cinquecento Ungheri di soldo, milledugento\nbarbute eletti e quattrocento cavalieri gi\u00e0 venuti di quelli di messer\nBernab\u00f2, dugento di quelli del Marchese di Ferrara, dugento di quelli\ndel signore di Padova, trecento di quelli del re Luigi, trecento\nche n\u2019avea mandati il legato non volontariamente, ma per virt\u00f9 de\u2019\npatti della pace, i quali era tenuto a osservare al nostro comune,\ncinquanta barbute di cavalieri napoletani, messer Lupo da Parma con\ntrenta barbute, ottanta barbute degli Aretini e con fanti da pi\u00e8\ngente eletta e pulita, dugento fanti del conte Ruberto, e da Pistoia\nmesser Ricciardo Cancellieri con dodici a cavallo per s\u00e8 proprio e\ntrecento fanti del suo comune, d\u2019altra amist\u00e0 e vicinanza oltre a\nfanti trecento, sicch\u00e8 questa prima mossa furono circa a quattromila\ncavalieri e altrettanti pedoni, e il d\u00ec se n\u2019andarono e posonsi a campo\nin sulla Pesa e nelle contrade d\u2019intorno, per ordinarsi e accogliere\nl\u2019altra gente che si attendea de\u2019 soldati di messer Bernab\u00f2.\nCAP. XXIX.\n_Come la compagnia gir\u00f2 il nostro contado, e la nostra a petto._\nEssendo la compagnia stata pi\u00f9 giorni al Bagno e a Bonconvento andonne\na Isola, e avuto quivi da\u2019 Sanesi la vittuaglia in abbondanza per\nportarne con seco, a d\u00ec 20 di giugno mossono campo a piccoli passi\ngirando per non venire su quello di Firenze, e lasciandosi Siena\nalle reni feciono la via da Pratolino, e ivi dimorarono due d\u00ec di\nluglio, avendo la condotta e la panatica da\u2019 Pisani s\u00ec se n\u2019andarono\na Ripamaraccia, e l\u2019oste de\u2019 Fiorentini si lev\u00f2 di Pesa e valic\u00f2\nCastelfiorentino, e a d\u00ec 5 di luglio mut\u00f2 campo, e fermossi alla\ntorre a Sanromano, comprendendo infino alle Celle sotto Montetopoli,\nper attendere quivi la compagnia sotto verace e bello ordine e buona\nguardia, stando sempre avvisati; la compagnia da Rimamortoia se\nne venne a Ponte di Sacco; e\u2019 Pisani popolo e cavalieri con numero\nd\u2019ottocento barbute o in quel torno, sotto colore di guardia, ma nel\nvero per dare alla compagnia caldo e favore, e in caso di zuffa aiuto\ne soccorso, si misono al Fosso arnonico, e venuta che fu la compagnia,\nla condussono al Pontadera, e come la vidono accampata, si ritornarono\nad altre frontiere vicine a quel luogo; e se \u2019l fatto fosse seguito\nalle minacce della compagnia si trov\u00f2 vicina all\u2019oste de\u2019 Fiorentini\na due miglia, sicch\u00e8 se voluto avessono fare d\u2019arme l\u2019aveano in bal\u00eda;\nma veggendo il conte di Lando e gli altri caporali ch\u2019erano con lui che\nl\u2019oste de\u2019 Fiorentini si conduceva saviamente, e con ordine e maestria\nd\u2019arme, e che di buona voglia arditamente contro a loro si metteano,\nnon conoscendo nel luogo vantaggio, ma piuttosto il contrario, per\nmigliore consiglio dopo a cinque d\u00ec che a fronte a fronte erano stati\nco\u2019 nostri senza fare niuna mostra o atto di guerra, a d\u00ec 10 di luglio\nsi part\u00ec bene la met\u00e0 la mattina per tempo, e in sul mezzogiorno giunse\na Sanpiero in Campo nel Lucchese, e accampossi quivi; il capitano\nde\u2019 Fiorentini loro mand\u00f2 alle coste messer Ricciardo Cancellieri con\ncinquecento uomini da cavallo per tenerli corti e stretti in cammino,\ne lasciato al passo di Sanromano bastevole guardia, a d\u00ec 21 di luglio\nmosse l\u2019oste, e s\u2019accamp\u00f2 alla Pieve a Nievole molto presso a\u2019 nemici,\nin luogo, che tra l\u2019uno oste e l\u2019altro era il campo piano e aperto per\nfare d\u2019arme chi avesse voluto.\nCAP. XXX.\n_Come la compagnia mand\u00f2 il guanto della battaglia al nostro capitano,\ne la risposta fatta._\nCurrado conte di Lando capitano e guida della compagnia, con gli altri\ncaporali e conducitori, avendo da\u2019 Pisani ferma promessa e dalla gente\nloro, ch\u2019erano in numero di ottocento barbute e di duemila pedoni, la\nquale teneano in punto a Montechiaro sotto colore e nome di guardia,\nmischiandosi continovo con quella della compagnia, della quale cosa\ni Fiorentini n\u2019erano crucciosi e male contenti, tutto che in vista\naccettassono le scuse de\u2019 Pisani, e que\u2019 della compagnia ne prendessono\ncaldo e baldanza credendo spaventare col detto appoggio, a d\u00ec 12 del\nmese di luglio in persona loro trombetti mandarono con grande gazzarra\ntrombando nel campo de\u2019 Fiorentini con una frasca spinosa, sopra\nla quale era un guanto sanguinoso e in pi\u00f9 parti tagliato con una\nlettera che chiedea battaglia, dicendo, che se accettassono l\u2019invito\ntogliessono il guanto sanguinoso di su la frasca pugnente; il capitano\ncon molta festa e letizia di tutta l\u2019oste prese il guanto ridendo; e\nricordandosi che in Lombardia nel luogo detto la frasca era stata a\nsconfiggere il conte di Lando, con volto temperato e savio consiglio\nrispose in questa forma: Il campo \u00e8 piano, libero e aperto in tra loro\ne noi, e pronti siamo e apparecchiati a nostro podere a difendere ed\nesaltare il campo in nome e onore del comune di Firenze e la giustizia\nsua, e per niuna altra cagione qui siamo venuti, se non per mostrare\ncon la spada in mano che i nemici del comune di Firenze hanno il torto,\ne muovonsi male senza niuna cagione di giustizia o ragione di guerra;\ne per tanto speriamo in Dio, e prendiamo fidanza e certezza d\u2019avere\nvittoria di loro: e a chi manda il guanto direte, che tosto vedr\u00e0\nse l\u2019intenzione sua risponder\u00e0 alla fiera e aspra domanda: e fatta\nquesta risposta, e onorati i trombetti di bere e di doni, il capitano\nfece sonare li stromenti per vedere il cambio de\u2019 suoi; e tutto che\ndubbioso sia l\u2019avvenimento della battaglia, e che vittoria stia nelle\nmani di Dio, e diela a cui e\u2019 vuole, grande sicurt\u00e0 e fidanza prendeva\nnostra gente, che in que\u2019 giorni era fortificata di trecento soldati\ndi cavallo nuovamente fatti per lo nostro comune, e della venuta di\nmesser Ambrogiuolo figliuolo naturale di messer Bernab\u00f2 che in que\u2019\npochi d\u00ec venne con cinquecento cavalieri e con mille masnadieri, il\nquale giunto, a grande onore ricevuto da\u2019 Fiorentini, e donatoli uno\nnobile destriere, di presente cavalc\u00f2 nell\u2019oste e con molti cittadini,\ni quali stimando che si facesse battaglia si misono in arme e andarono\nall\u2019oste. E infra l\u2019altre cose che occorsono in questa faccenda fu,\nche messer Biordo e \u2019l Farinata della casa degli Ubertini essendo in\nbando per ribelli del comune di Firenze, s\u2019offersono in suo aiuto e\nonore, ed essendo graziosamente accettati, vennono con trenta a cavallo\nnobilmente montati e bene in arnese, e veduti volentieri e lodati da\ntutti cavalcarono al campo, d\u2019onde per tornare in grazia del nostro\ncomune tanto si fatic\u00f2 messer Biordo, ch\u2019era grande maestro di guerra,\nche ne prese infermit\u00e0, e tornato a Firenze ne mor\u00ec, e per lo nostro\ncomune fu di sepoltura maravigliosamente onorato come a suo tempo\ndiremo. E stando dopo la detta richiesta a petto l\u2019un oste all\u2019altro\nsenza fare in arme atto nessuno, una notte di furto si partirono della\ncompagnia trecento cavalieri con alquanti masnadieri, e cavalcarono\nverso Castelfranco, e ritraendosi senza, preda, si riscontrarono con\ntre cittadini di Firenze e altri Empolesi i quali alla mercatantesca\ntornavano da Fisa, i quali presono, e feciono ricomperare, e da indi\ninnanzi pi\u00f9 non s\u2019attentarono di cavalcare in sul nostro contado e\ndistretto. Stando le due osti vicine, parendo al conte di Lando, e\nagli altri caporali e a tutta la compagnia avere poco onore della\ninvitata di giostra, a d\u00ec 16 del mese di luglio con le schiere fatte\nsi misono innanzi verso l\u2019oste de\u2019 Fiorentini: il capitano saviamente\nconsigliato, fatto della gente del nostro comune una massa, con\nmaestria e bell\u2019ordine di gente d\u2019arme in tutte sue parti bene divisa\ne capitanata com\u2019era mestiere, si dirizzarono verso i nemici, i quali\nveggendoli venire, si fermarono in un luogo che si chiama il Campo alle\nMosche, il quale era cinto di burrati e aspre ripe, dove senza grande\ndisavvantaggio di chi volesse offendere non poteano essere assaliti; i\nnostri gli aspettarono al piano, allettandoli alla battaglia il luogo\nil quale era comune; ma i grandi minacciatori, e di poco cuore, se\nnon contro a chi fugge, non s\u2019attentarono di scendere al piano, e co\u2019\npalaiuoli e marraiuoli che assai n\u2019aveano da\u2019 Pisani non intesono a\nspianare il campo, ma ad afforzarsi con barre e steccati in quel luogo,\ne ivi alloggiatisi, e arso il campo ond\u2019erano partiti, il capitano de\u2019\nFiorentini si ferm\u00f2 coll\u2019oste dov\u2019era arso il Campo, a meno d\u2019un miglio\ndi piano presso a\u2019 nemici, e quivi afforzossi per non essere improvviso\nassalito, e spesse fiate con gli Ungheri insino alle barre facea\nassalire i nemici, ma nulla era, che tutti o parte di loro si volessono\nmettere a zuffa; il perch\u00e8 faceano pensare che ci\u00f2 facessono per\nmaestria di guerra per cogliere i nostri a partito preso e a vantaggio\nloro; ma il savio capitano col buono consiglio sempre stava a riguardo\ne provveduto in forma, che con inganno non li facessono vergogna. I\nSanesi veggendo che contro la loro opinione e pensiero i Fiorentini\nprosperavano, per ricoprire il fallo loro ne feciono un\u2019altro maggiore,\nperocch\u00e8 per loro ambasciadori si mandarono a scusare al nostro comune,\ne offerendo aiuto trecento barbute; la scusa fu benignamente ricevuta,\ne accettata la promessa, la quale feciono, che si convert\u00ec in fumo,\nperch\u00e8 non si facea n\u00e8 procedea di diritto e buon cuore.\nCAP. XXXI.\n_Come la compagnia vituperosamente si part\u00ec del Campo delle Mosche, e\nfuggissi._\nVedendo i conducitori della compagnia che l\u2019oste de\u2019 Fiorentini era\nloro appressata con molta allegrezza sotto il savio governo del buono\ncapitano, e di molti altri valenti uomini d\u2019arme famosi, e sofficienti\nad essere ciascuno per s\u00e8 capitano, e di tali v\u2019erano ch\u2019erano stati,\ne che la gente del comune di Firenze era fresca e bene armata, e la\nloro stanca, e la maggiore parte fiebole e male in arnese; e veggendo\nche al continovo a\u2019 nemici forza cresceva, e temendo di non essere\nsoppresi nel luogo dov\u2019erano, e che i passi non fossono loro impediti;\ne sentendo, ch\u2019e\u2019 Fiorentini di ci\u00f2 procacciavano, e presa esecuzione\naveano mandati balestrieri e pedoni nelle montagne verso Lucca; e\nconoscendo che a loro convenia vivere di ratto spargendosi, e cercando\nda lunga la preda, o che essendo tenuti stretti a loro convenia o\narrendersi o morire di fame; ed essendo stati a gravare i Pisani venti\nd\u00ec pi\u00f9 che non era in patto con loro, soprastando quivi senza venire a\nbattaglia temeano di soffratta di vittuaglia, aspettando il soperchio\ndi non rincrescere ad altrui, e diffidandosi di vincere i Fiorentini\nper istracca, e tutto ch\u2019avessono domandata battaglia la schifavano, e\nper tema di non esservi recati per forza s\u2019erano afforzati con fossi\ne steccati, la vilia di santo Iacopo a d\u00ec 23 di luglio, di notte,\ninnanzi l\u2019apparita del giorno, misono nel loro campo fuoco, e in\nfretta sconciamente si partirono, quasi come in fuga, non aspettando\nl\u2019uno l\u2019altro, valicando il colle delle Donne in su quello di Lucca,\nch\u2019era loro presso; sicch\u00e8 prima furono in su quello di Lucca infra sei\nmiglia, che l\u2019oste de\u2019 Fiorentini li potessono impedire. E ci\u00f2 avvenne,\nperch\u00e8 il nostro comune avea imposto al capitano che si guardasse\ndi non rompere la pace a\u2019 Pisani cavalcando in su quello di Pisa o\ndi Lucca, che la teneano allora, e per la detta cagione il capitano\nnon si mise a seguirli. E certo e\u2019 si port\u00f2 valentemente in tenere a\nordine e bene in punto cos\u00ec grande oste, e farsi temere e ubbidire alla\ngente che gli era commessa, e alla forestiera che serviva per amore,\nprocedendo con savia condotta, e buona e sollecita guardia, per modo\nche in pochi giorni ricise il pensiero dell\u2019offesa de\u2019 nemici, e a loro\ntolse ogni speranza che \u2019l conte di Lando avea e gli altri caporali di\nfare quel male che aveano promesso di fare al nostro comune. Questa\nutile impresa e degna di fama fece assai manifesto, e fece conoscere\npienamente a tutti i comuni di Toscana e d\u2019Italia, e a\u2019 signori, che\ngente di compagnia, quantunque fosse in numero grande, e terribile\nper sua operazione scellerata e crudele, si potea vincere e annullare,\nperocch\u00e8 la sperienza occorse, che tale gente somigliante furono per\nnatura vile e codarda cacciare dietro a chi fugge, e dinanzi si dilegua\na chi mostra i denti. Noi vedemo, che il ladro sorpreso nel fallo\ninvilisce, e lasciasi prendere a qualunque persona; e cos\u00ec addivenne\ndi questa mala brigata, che solo per rubare si riducea in compagnia. E\nper non dimenticare il resto, quello di che giudichiamo degno di nota\nintorno a questa materia, pensiamo che fosse operazione di Dio, che\nin quel d\u00ec ch\u2019elli erano stati sconfitti a pi\u00e8 delle Scalee nell\u2019alpe,\nin quel medesimo d\u00ec rivolto l\u2019anno e finito, essendo nel piano largo e\naperto, si fuggirono del campo alle Mosche. Basti d\u2019avere tanto detto,\ne faremo punto qui alle nostre fortune, per seguire delle straniere\nquante n\u2019avvenne ne\u2019 tramezzamenti di questi tempi, secondo che siamo\nusati di fare.\nCAP. XXXII.\n_Come il re d\u2019Ungheria pass\u00f2 nel reame di Rascia._\nPoco addietro di sopra scrivemmo i casi occorsi nel reame di Rascia,\ne come il re di Rascia s\u2019era partito dall\u2019omaggio del re d\u2019Ungheria,\ned erasi fatto rubello; e seguendo la detta materia, tenendo il re di\nRascia parte della Schiavonia appartenere a dominio al re d\u2019Ungheria,\ncessava fare il debito servigio, onde il re d\u2019Ungheria n\u2019era forte\nindegnato. Il perch\u00e8 trovato che il passo della Danoia gli era sicuro,\ne ricetto di sua gente apparecchiato per lo barone del re di Rascia,\nche colla forza e aiuto degli Ungheri avea vinto e sconfitto il suo\navversario, e fattosi uomo del re d\u2019Ungheria, del mese di maggio 1359,\nil re d\u2019Ungheria con pi\u00f9 de\u2019 suoi baroni passarono la Rascia con grande\nquantit\u00e0 d\u2019arcieri a cavallo e d\u2019altra gente d\u2019arme, colla quale si\npartirono dalla riva della Danoia, e passando per piani corsono infino\nalle grandi montagne di Rascia, e quivi trovarono nel piano molto di\nlungi dalle coste de\u2019 monti gran gente del re di Rascia, quivi ragunata\nper difesa del regno. Gli Ungheri vogliosamente s\u2019abboccarono con\nloro, e dopo lunga battaglia li ruppono, onde in fuga abbandonarono il\npiano, e ridussonsi alla montagna. E avendo la gente del re d\u2019Ungheria\nfatto questo principio, il re in persona valic\u00f2 la Danoia con grande\nesercito, e accozzato con l\u2019altra sua oste, e seguendo la fortuna, si\nmise contra quella gente vile, e combattendo vinse gli aspri passi per\nforza, sicch\u00e8 in breve tempo tutta la grande montagna fu tutta in sua\nbal\u00eca. Veggendosi il re prosperare, diliber\u00f2 di valicare in persona la\nmontagna, ma i baroni suoi non glie l\u2019assentirono, perch\u00e8 non parve\nloro che per questo la persona del re si mettesse a questa ventura,\nma molti de\u2019 baroni e molta di sua gente valic\u00f2 per combattersi\ncol re de\u2019 Servi, che cos\u00ec \u00e8 titolato il re di Rascia; il quale in\ncampo non os\u00f2 comparire, ma con tutta sua gente si ridusse, secondo\nloro costume, alle fortezze delle boscaglie, ove non poteano essere\nimpediti, senza smisurato disavvantaggio di chi ne fosse messo alla\npunga. Gli Ungheri senza trovare contradizione o resistenza alcuna\npiccola o grande cavalcarono infra \u2019l reame pi\u00f9 d\u2019otto giornate per\nli piani aperti, non trovando niente che potessono predare, perch\u00e8\ntutto era ridotto alle selve; alquanti cavalieri ungheri si misono\nil campo in una boscaglia, ed essendo assaliti d\u2019alquanti villani,\ncredendo avere trovato il grosso de\u2019 nemici, assai di loro si ferono\ncavalieri, stimando di venire a battaglia, i quali appellati furono poi\nper diligione e scherno i cavalieri della Ciriegia, perocch\u00e8 essendo\nabbattuti nel bosco a\u2019 ciriegi, ne mangiavano quando da\u2019 detti villani\nfurono assaliti. Il re d\u2019Ungheria, veggendo sua stanza senza profitto,\nnon avendo trovato contasto, con tutta sua oste si ritorn\u00f2 in Ungheria.\nCAP. XXXIII.\n_Come messer Feltrino da Gonzaga tolse Reggio a\u2019 fratelli._\nMesser Guido da Gonzaga signore di Mantova, quando ferm\u00f2 la pace tra\u2019\nsignori di Milano e la lega di Lombardia, segretamente promise a messer\nBernab\u00f2, che per li suoi danari gli darebbe la citt\u00e0 di Reggio. Questo\nsegreto venne agli orecchi di messer Feltrino suo fratello innanzi che\nla detta promessa avesse effetto. Messer Feltrino prese suo tempo, e\nsenza saputa di messer Guido entr\u00f2 in Reggio, e con aiuto di gente e\nd\u2019amici rubell\u00f2 la citt\u00e0. Messer Guido credendo ricoverare la citt\u00e0 per\nforza, del mese di maggio del detto anno ricolse grande gente d\u2019arme,\ne impetr\u00f2 ed ebbe aiuto da\u2019 signori di Milano: e stando in Mantova, e\nordinandosi per porre l\u2019assedio, sent\u00ec che \u2019l signore di Bologna e \u2019l\nmarchese di Ferrara aveano alla difesa fornita la terra, onde si rimase\ndell\u2019impresa, la quale faceva malvolentieri, per non appressarsi troppo\nla forza de\u2019 signori di Milano.\nCAP. XXXIV.\n_Come il vescovo di Trievi sconfisse gl\u2019Inghilesi._\nIl vescovo di Trievi veggendo il reame di Francia in tanta rivoluzione\ne traverse, e che necessario era a\u2019 cherici per difesa di loro\nfranchigia prendere l\u2019arme, come uomo valoroso, ricolse gente d\u2019arme e\nd\u2019amist\u00e0 e di soldo, e abboccossi per avventura in un assalto con certi\nInghilesi, ch\u2019erano guidati per gente del re di Navarra, e combatt\u00e8\ncon loro e sconfisseli, i quali erano intorno di millecinquecento, de\u2019\nquali assai ne furono morti. In questo medesimo giorno il Delfino di\nVienna si mise ad assedio a Monlione, il quale era venuto alle mani\ndegl\u2019Inghilesi, per racquistarlo, e forte lo strinse, perch\u00e8 essendo il\ncastello presso a dieci leghe a Parigi, gli parea gran vergogna fosse\ndella corona e grande abbassamento che fosse in podest\u00e0 de\u2019 nemici, e\n\u2019l luogo era molto presso a Parigi, e forte offendea. Durante l\u2019assedio\navea il Delfino a suo soldo certi baroni alamanni, e non avendo di che\npagarli, loro diede in gaggio due buoni castelli del reame. Puossi\nconsiderare in quanta soffratta e debolezza era in questi giorni il\nreame di Francia, che si stim\u00f2 per li savi se non fosse stato, com\u2019era,\nantico e corale l\u2019odio per lunghe riotte aveano avute i Franceschi e\ngl\u2019Inghilesi, in dispetto innaturale convertito, il quale facea a\u2019\nFranceschi sostenere ogni affanno e ogni tormento, per certo il re\nd\u2019Inghilterra era sovrano della guerra.\nCAP. XXXV.\n_Come fu soccorsa Pavia, e levatone l\u2019oste de\u2019 Visconti._\nL\u2019oste di messer Galeazzo signore di Milano lungamente era stato sopra\nPavia con certe bastite, forte tenendo stretta la terra; il marchese\ndi Monferrato preso suo tempo, con la pi\u00f9 gente pot\u00e8 ragunare s\u2019entr\u00f2\ncautamente in Pavia, e avuto per sue spie del reggimento dell\u2019oste,\ne del poco ordine e guardie di quelli delle bastie, subitamente e\naspramente li assal\u00ec improvviso, e li ruppe e sbaratt\u00f2, e liber\u00f2\ndall\u2019assedio, e men\u00f2 in Pavia pi\u00f9 di dugentocinquanta cavalieri e molti\nprigioni, e fornimento e arnese; e ci\u00f2 fatto, si torn\u00f2 alle terre sue.\nMesser Galeazzo per la sua gran potenza poco pregiando quella rottura\nriforn\u00ec subitamente le frontiere di Pavia di gente d\u2019arme assai pi\u00f9\nche di prima, facendo tutto d\u00ec cavalcare in sulle porti di Pavia di\ngente d\u2019arme assai pi\u00f9 che di prima, sicch\u00e8 senza tenervi bastia forte\ngli affliggea, e tenevagli s\u00ec stretti, che non s\u2019ardivano d\u2019uscir\nfuori persona, e di loro frutti non poteano avere bene. E del seguente\nmese di luglio il detto messer Galeazzo fece un\u2019altra grande oste, e\nmandolla nel Monferrato addosso al marchese.\nCAP. XXXVI.\n_Come il capitano di Forl\u00ec s\u2019arrend\u00e8 al legato._\nAvendo perduto il capitano di Forl\u00ec il caldo della compagnia, ed\nessendo per la lunga guerra molto battuto, e vedendo che pi\u00f9 non potea\nsostenere, e che poco era in grazia e in amore de\u2019 suoi cittadini\nper la messa che fatta avea della compagnia in Forl\u00ec, essendo tra il\nlegato e lui per mezzani lungo trattato d\u2019accordo, prese partito di\narrendersi liberamente alla discrezione e misericordia del legato,\ncon alcuna promessa d\u2019essere bene trattato e del modo, che a d\u00ec 4 di\nluglio 1359, il legato in persona, avendo prima messa la gente sua e\nprese le fortezze, entr\u00f2 in Forl\u00ec con grande festa e solennit\u00e0 e di\nsua gente e de\u2019 cittadini di Forl\u00ec. Nella quale entrata Albertaccio\nda\u2019 Ricasoli cittadino di Firenze, il quale al continovo era stato\nal consiglio segreto del cardinale, e delle sue guerre in gran parte\nconducitore e maestro, in sull\u2019entrare del palagio fatto fu cavaliere.\nE ci\u00f2 fatto, il legato ordinato la guardia della citt\u00e0 e lasciatovi\nsuo vicario se n\u2019and\u00f2 a Faenza, e ivi in piuvico parlamento, essendo\ndinanzi da lui messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano\ndi Forl\u00ec, riconobbe e confess\u00f2 tutti i suoi falli ed errori che\ncommessi avea contro la Chiesa di Roma e suoi pastori, i quali letti\nli furono nella faccia in presenza del popolo, domandando umilmente\nperdono e misericordia dalla Chiesa di Roma. Il legato fatto ci\u00f2, e in\nlungo e bello sermone gravando in parole l\u2019ingiurie e la pertinacia\ndella resia, e le pene nelle quali era incorso il capitano, privollo\nd\u2019ogni dignit\u00e0 e onore, e per penitenza gl\u2019impose, ch\u2019elli vicitasse\ncerte chiese di Faenza in certa forma; e ci\u00f2 fatto, il legato cavalc\u00f2\na Imola, ove venne il signore di Bologna sotto la cui confidanza il\ncapitano s\u2019era arrenduto; e stati a parlamento insieme pi\u00f9 giorni,\na d\u00ec 17 di luglio, il cardinale ricomunic\u00f2 nella mensa messer\nFrancesco degli Ordelaffi, e nominatamente tutti i suoi aderenti\ne quelli che l\u2019aveano favoreggiato, e ristituillo nell\u2019onore della\ncavalleria, e perdonogli tutte l\u2019offese per lui fatte alla Chiesa di\nRoma, e annull\u00f2 ogni processo per lui fatto di resia contro a lui, e\nridusselo nella grazia sua, e dichiar\u00f2 che dieci anni fosse signore\ndi Forlimpopoli e di Castrocaro, potendo stare in ciascuno de\u2019 detti\nluoghi famigliarmente, e rimanendo le rocche in guardia d\u2019amici comuni,\ne liberamente li ristitu\u00ec la moglie, e\u2019 figliuoli, e tutti quelli\nche tenea in prigione degli amici e seguaci del capitano; e cos\u00ec\nebbe fine la lunga e pertinace guerra e ribellione del capitano di\nForl\u00ec; e per la detta cagione la Romagna rimase in pace, e liberamente\nall\u2019ubbidienza della Chiesa di Roma.\nCAP. XXXVII.\n_Di una compagnia creata d\u2019Inghilesi in Francia._\nVolendo il re d\u2019Inghilterra mostrare osservazione di pace secondo\nl\u2019ordine, infintamente in suo titolo o nome niuna guerra fatta nel\nreame di Francia, ma i molti Inghilesi ch\u2019erano nel reame seguendo\nil segreto ordine dato per lui ora con uno ora con altro caporale\ns\u2019accostavano che li guidasse a guerreggiare e sconciare il reame di\nFrancia; in questi tempi della state uno sartore inghilese il quale\navea nome Gianni della Guglia, essendo nella guerra dimostrato prode\nuomo con gran cuore in fatti d\u2019arme cominci\u00f2 a fare brigata di saccardi\ne assai Inghilesi che si dilettavano di mal fare, e che attendeano a\nvivere di rapine, e cercando e rubando ora una villa ora un\u2019altra nel\npaese crebbe in tanto sua brigata, che da tutti i paesani era ridottato\nforte; e per questo senza i casali non murati cominciarono tutti a\npatteggiarsi con lui, e li davano pannaggio e danari, ed egli li faceva\nsicuri; e per questo modo mont\u00f2 tanto sua nomea che catuno si facea suo\naccomandato, onde in pochi mesi fece gran tesoro. Essendo moltiplicato\ndi gente e d\u2019avere, cominci\u00f2 a passare di paese in paese, e s\u00ec andando\nvenne insino al Pau, e ivi prese laici, e\u2019 cherici rub\u00f2, e\u2019 laici\nlasci\u00f2 andare; onde la corte di Roma ne mostr\u00f2 gran paura, e pensava\na farsi forte per resistere a quella brigata. Costui nell\u2019avvenimento\ndel Pau de\u2019 signori d\u2019Inghilterra lasci\u00f2 il capitanato e la gente, e\nridussesi all\u2019ubbidienza del re, e de\u2019 danari ch\u2019avea accolti ne f\u00e8\nbuona parte a\u2019 reali; e cos\u00ec andavano in que\u2019 tempi i fatti di Francia.\nCAP. XXXVIII.\n_D\u2019una zuffa che fu tra gli artefici di Bruggia._\nNoi avemo detto pi\u00f9 volte, che \u2019l mondo per lo suo peccato non sa\nn\u00e8 pu\u00f2 stare in riposo, e le sue travaglie, le quali scrivemo, ne\nfanno la fede, che si pu\u00f2 dire veramente l\u2019opera nostra il libro\ndella tribolazione, e nuove. In questi d\u00ec a d\u00ec 17 di luglio, avendo\nil conte di Fiandra ragunata la comune di Bruggia per alcuna sentenza\nche dare dovea per danno d\u2019alcuno sopra certo misfatto, uno calzolaio\nprosuntuosamente si lev\u00f2 a dire nella ragunanza contro alla volont\u00e0\ndel conte, il perch\u00e8 due degli altri minuti mestieri parlando lo\nributtarono, e dissono contro a lui. Il calzolaio trasse fuori la\nspada, e disse, che chi \u2019l volesse seguire con sua arme n\u2019andasse\nalla piazza di Bruggia, il perch\u00e8 molti de\u2019 mestieri il seguirono; e\nragunati in sul mercato con loro arme e transegne stavano in punto,\ne attenti per rispondere a chi gli volesse di quel luogo cacciare.\nAltri mestieri, che non erano contenti che costoro pigliassono nella\nvilla maggioranza, de\u2019 quali si feciono capo folloni e tesserandoli,\ns\u2019andarono ad armare, e in breve spazio di tempo in gran numero\nsi ragunarono in sul mercato, e di subito senz\u2019altro consiglio in\nfiotto si dirizzarono a coloro ch\u2019erano schierati in sulla piazza, e\npercossonli, e rupponli, e nell\u2019assalto n\u2019uccisono cinquantasette,\ne molti ne magagnarono di fedite. E ci\u00f2 fatto, co\u2019 loro avversari\ndi presente feciono la concordia, e di loro feciono tre capi, uno\ntesserandolo, e uno carpentiere, e uno calzolaio, e in questi tre fu\nriposto e commesso il fascio e tutto il pondo di loro governamento\ne reggimento; e al conte non feciono violenza alcuna, n\u00e8 niuno mal\nsembiante. E racchet\u00f2 la furia e il bollore del popolo in un batter\nd\u2019occhio, questi tre mandarono la grida, che catuno andasse a fare\nsuo mestiero, e ponesse gi\u00f9 l\u2019arme, e cos\u00ec fu fatto. Che a pensare,\ned \u00e8 incredibile cosa e maravigliosa, che il tumulto di tanto popolo\ncon cotante offensioni e tempeste s\u2019acquetasse cos\u00ec lievemente, senza\nricordo delle ingiurie sanguinose mescolate della pace, ci\u00f2 si pu\u00f2\ndire, che in un punto fu la pace, e l\u2019aspra e crudele guerra.\nCAP. XXXIX.\n_Come l\u2019imperadore de\u2019 Tartari fu morto._\nIn questo tempo il figliuolo di Giannisbec imperadore de\u2019 Tartari,\nch\u2019abitava intorno alla marina del Mare oceano detto volgarmente il\nMare maggiore, avendo pochi anni tenuto l\u2019imperio, e in quello piccolo\ntempo fatto morire per diversi modi quasi tutti quelli ch\u2019erano di suo\nlignaggio, o per paura che non li togliessono la signoria, o per altro\nanimo imperversato e tirannesco, ultimamente caduto in lieve malattia,\naffrettato fu di morire d\u2019aprile 1359. E quanto che sua vita fosse\ncon molta guardia e cautela, difendere non si seppe da morte violente,\ntanto era per sua iniquit\u00e0 mal voluto: e pur venne l\u2019imperio dove con\nsollecitudine s\u2019era sforzato che non pervenisse, a uno di sua gesta.\nCAP. XL.\n_Di novit\u00e0 de\u2019 Turchi in Romania._\nNel medesimo tempo di sopra Ottoman Megi, il maggiore signore de\u2019\nTurchi, avendo riavuto il figliuolo il quale, come dicemmo, era stato\npreso da\u2019 Greci, col detto suo figliuolo insieme con esercito grande\ndi Turchi avea lungo tempo assediata Dommettica, nobile e bella citt\u00e0\nposta in Romania, la quale non essendo soccorsa dall\u2019imperadore di\nCostantinopoli n\u00e8 dagli altri, e non potendosi pi\u00f9 tenere, s\u2019arrend\u00e8, e\nvenne in potest\u00e0 de\u2019 Turchi. E avendola Ottoman di sua gente di guardia\nfornita, con grandissima gente di Turchi si dirizz\u00f2 a Costantinopoli,\ncon speranza di prendere la terra, o per assedio, o per battaglia; e\ngiunti, fermarono loro campo presso alla citt\u00e0, correndo spesso per\ntutti i paesi dintorno, e facendo a\u2019 Greci grandissimo danno. E ivi\nstati lungamente senza fare acquisto di cosa che venisse a dire niente,\nveggendo che poco potea adoprare, se ne torn\u00f2 in Turchia.\nCAP. XLI.\n_Come il Delfino di Vienna fece pace col re di Navarra._\nQuanto che la pace fatta tra\u2019 due re d\u2019Inghilterra e di Francia in\nsostanza fosse nonnulla, nondimanco per non potere per onest\u00e0 offendere\npalesemente forte era allentata la guerra, e molti Inghilesi s\u2019erano\ntornati nell\u2019isola con quello ch\u2019aveano potuto avanzare del n\u00f2 e del\ns\u00ec. Al re di Navarra pochi Inghilesi erano rimasi, onde non potendo\ntanto male fare quanto per l\u2019addietro era usato, questa tiepidezza\ndi tempo diede materia a quei baroni di cercare pace tra \u2019l re e \u2019l\nDelfino, la quale per le dette cagioni assai tosto segu\u00ec. E accozzati\nil re e \u2019l Delfino, per buona e ferma pace si baciarono in bocca, e\nil re promise di stare in fede della corona di Francia, e d\u2019atare il\nDelfino a suo potere contro all\u2019oppressione degl\u2019Inghilesi. Questa pace\nmolto fu cara, e di gran contentamento a\u2019 Franceschi, perocch\u00e8 la loro\ndivisione era stata materia del guasto di Francia. Ma come che \u2019l fatto\nsi fosse, la pace i pi\u00f9 pensarono che fosse con inganno e a mal fine\nper la viziata fede del re di Navarra, e corrotta per l\u2019usanza delle\nscellerate cose in che egli era trascorso, immaginando che non meno\npotesse nuocere sotto fidanza di pace, che fatto s\u2019avesse nella guerra\npalese. E cos\u00ec ne seguette, come apparve poco appresso per segni aperti\ne manifesti.\nCAP. XLII.\n_Come l\u2019oste de\u2019 Fiorentini torn\u00f2 a Firenze e la compagnia ne and\u00f2\nnella Riviera._\nFuggita la compagnia del campo delle Mosche dov\u2019erano stati appetto\ndell\u2019oste de\u2019 Fiorentini per speranza venti giorni, com\u2019\u00e8 addietro\nnarrato, ed essendo al ponte a San Quirico in sul fiume del Serchio,\nmolti se ne partirono, e chi prese suo viaggio, e chi in uno e chi in\naltro paese; e la maggiore fortezza di loro, ch\u2019era col conte di Lando,\ne con Anichino di Bongardo, quasi tutta di lingua tedesca, prese il\nsoldo dal marchese di Monferrato: e ricevuto per loro condotta in parte\ndi paga ventottomila fiorini d\u2019oro, tutto loro arnese grosso con gran\nparte di loro gente misono in arme. E conducendoli sempre i Pisani, e\navuto licenza dal doge e da\u2019 Genovesi, e dato loro stadichi di non far\ndanno per la Riviera, donde loro convenia passare, e di torre derrata\nper danaio, se n\u2019andarono in sulla Magra; e s\u2019affilarono uomo innanzi\na uomo, e misonsi in cammino per li stretti e malagevoli passi, che\nalla via loro non era altra rimasa. N\u00e8 per ricordo si trova, che dal\ntempo d\u2019Annibale in qua gente d\u2019arme numero grande per que\u2019 luoghi\npassasse, perch\u00e8 sono vie malagevoli alle capre. E bene verifica la\nsentenza di Valerio Massimo, il quale dice, che la nicist\u00e0 dell\u2019umana\nfiebolezza \u00e8 sodo legame, la quale in questa forma \u00e8 rivolta in verbo\nfrancesco. Necessit\u00e0 fa vecchia trottare. In questo cammino senza niuna\noffesa, solo che di male vivere, misono tempo assai. La compagnia,\ncome detto avemo, preso suo viaggio, l\u2019oste del comune di Firenze\nstette ferma in sul campo infino al gioved\u00ec a d\u00ec primo d\u2019agosto 1359;\na quel d\u00ec con grande festa levarono il campo molto ordinatamente, e\npassarono da Serravalle, e alloggiaronsi la sera alla Bertesca tra i\nconfini di Firenze e di Pistoia, stendendosi fino a Prato; il venerd\u00ec\nmattina a d\u00ec 2 d\u2019agosto di quindi si tornarono a Firenze. I Fiorentini\nper onorare il capitano li mandarono incontro alla porta due grandi\ndestrieri coverti di scarlatto, e un ricco palio d\u2019oro levato in asti\ncon grandi drappelloni pendenti alla reale, sotto il quale vollono\nch\u2019egli entrasse nella terra a guida di cavalieri, e gentili uomini e\npopolari, ma il valente capitano prese e accett\u00f2 cortesemente con savie\nparole i cavalli, ch\u2019erano doni cavallereschi, e ricus\u00f2 di venire sotto\nil palio; e fulli a maggiore onore riputato. E per rendere al comune\nl\u2019insegne, con la gente ordinata come l\u2019avea a campo tenuta, nella\nprima frontiera mise i balestrieri e gente a pi\u00e8, e appresso la camera\ndel comune, poi gli Ungheri, appresso i cavalieri, e in fine mise il\npalio innanzi per onore del comune alla sua persona, e senza niuna\npompa in mezzo del conte di Nola e del figliuolo di messer Bernab\u00f2,\ne\u2019 venne per la citt\u00e0 al palagio de\u2019 signori priori, e ivi con grande\nallegrezza rassegn\u00f2 il bastone e l\u2019insegne a\u2019 signori priori, le quali\naccomandate gli aveano, e da indi a pochi giorni fatto a grande numero\ndi cittadini un nobile e solenne convito se ne torn\u00f2 in Romagna.\nCAP. XLIII.\n_Della morte e sepoltura di messer Biordo degli Ubertini._\nMesser Biordo degli Ubertini fu cavaliere gentilesco e di bella\nmaniera, costumato e d\u2019onesta vita, savio e pro\u2019 della persona, e\nornato d\u2019ogni virt\u00f9, e per tanto in singolare grazia dell\u2019imperadore,\ne molto amato dal legato di Spagna e da molti altri signori. Costui e\u2019\nsuoi consorti in questi tempi forte s\u2019inimicavano co\u2019 Tarlati d\u2019Arezzo,\ne molto erano da loro soperchiati; onde egli avendo provato che \u2019l\ncaldo e il favore de\u2019 detti signori era troppo di lontano di passaggio\ne di poco profitto, sopra tutto desiderava d\u2019essere confidente e\nservidore del comune di Firenze, la cui amicizia vedea ch\u2019era stabile e\ndiritta, e che gratificava il servigio; perch\u00e8, come addietro dicemmo,\nper essere egli e\u2019 suoi in bando e ribelli del comune di Firenze,\nofferse il servigio di s\u00e8 e de\u2019 suoi contro la compagnia, e accettato\nvenne nell\u2019oste, dove per mostrare quello ch\u2019egli era s\u2019affatic\u00f2 sopra\nmodo, che da tutti fu ricevuto da grande sentimento in opera d\u2019arme,\ntornato col capitano a Firenze, subito cadde in malattia. Il comune\navendo prima avuto a grado sua liberalit\u00e0, e appresso l\u2019opere sue, di\npresente lo ribandirono co\u2019 consorti suoi, e per mostrare verso lui\ntenerezza, con molti medici alle spese del comune lo feciono medicare;\nma come a Dio piacque, potendo pi\u00f9 l\u2019infermit\u00e0 che le medicine, la\nmattina a d\u00ec 16 d\u2019agosto divotamente rend\u00e8 l\u2019anima a Dio. Il corpo\nsi serb\u00f2 sino nel d\u00ec seguente, per attendere il vescovo d\u2019Arezzo suo\nconsorto e gli altri di casa sua; ed essendo venuti, per lo comune\nfurono fatte l\u2019esequie della sua sepoltura riccamente, e alla chiesa\nde\u2019 frati minori ove si ripose, che tutte le cappelle, e \u2019l coro, e\nsopra una gran capanna fu fornita di cera e con molti doppieri, e sopra\nla bara un drappo a oro con drappelloni pendenti coll\u2019arme del popolo e\ndel comune, e di parte guelfa e degli Ubertini, e con vaio di sopra con\nsei cavalli a bandiere di sue armi, e uno pennone di quello del popolo\ne uno di parte guelfa, con molti fanti e donzelli vestiti a nero. Fu\ncosa notabile e bella in segno di gratitudine del nostro comune, il\nquale volentieri onora chi onora lui, dimettendo le vecchie ingiurie\nper lo nuovo bene, e non avendo a parte rispetto, ma alle operazioni\nfedeli e devote. Alle dette esequie fu il detto vescovo, e \u2019l Farinata\ne tutti gli altri consorti vestiti a nero, e\u2019 signori priori, e\u2019\ncollegi, e\u2019 capitani della parte, e gli altri rettori e uficiali del\ncomune, e tutti i cherici e buoni cittadini, e \u2019l chericato tutto e\u2019\nreligiosi di Firenze. Mor\u00ec in casa i Portinari; e la bara si pose in\nsul crocicchio di Porta san Piero dalla loggia de\u2019 Pazzi, dove posta\nla mattina, tanto vi stette, che \u2019l vescovo venne: e intorno alla\nbara erano fanti vestiti di nero, e cavalli e bandiere, l\u2019uno appresso\nl\u2019altro, parte per la via, che viene al palagio della podest\u00e0, e parte\nper quella che va a santa Reparata; fu cosa ricca e piatosa, e tutto\nil popolo piccoli e grandi trassono a vedere. Abbianne fatta pi\u00f9 lunga\nscrittura che non si richiede, perch\u00e8 ne parea fallire, se onorandolo\ntanto il nostro comune noi non l\u2019avessimo con la penna onorato, e\nperch\u00e8 pensiamo, che sia esempio a molti a tramettersi a ben fare,\nveggendo essere il bene operare premiato a coloro che \u2019l meritano.\nCAP. XLIV.\n_Come i Perugini mandarono ambasciata a Siena, e abominando i\nFiorentini._\nL\u2019arbitrata sentenza data sopra la pace tra il comune di Perugia\ne quello di Siena, tutto che fosse comune utile e buona, all\u2019uno e\nall\u2019altro comune forte dispiacea, come addietro abbiamo narrato, e\nciascheduno con sua ambasciata che piacesse al nostro comune per suo\nonore e grazia loro annullare; e ci\u00f2 fare non volse, perch\u00e8 quasi\nniente derivava da\u2019 ragionamenti fatti con gli ambasciadori de\u2019 detti\ncomuni, se non ch\u2019alquanto nel tempo e nel modo, onde la pace si\nrimase con le strade bandite, ma con gli animi pregni e pieni d\u2019odio\ne di stizza, e vollonsi dirompere se l\u2019impossibilit\u00e0 non gli avesse\ntenuti, perocch\u00e8 tanto aveano speso, che premendo loro borse niente\nvi si potea trovare se non vento e rezzo. I Perugini pregni d\u2019animo,\nalterosi e superbi, senza avere di loro possa riguardo, per mostrare\nsdegno d\u2019animo contro a\u2019 Fiorentini, crearono otto ambasciadori di\nloro cittadini pi\u00f9 nominati e pi\u00f9 cari, e vestironli di scarlatto, e\naccompagnaronli di giovanaglia vestiti d\u2019assisa dimezzata di scarlatto\ne di nero, e con molta pompa li mandarono a Siena, dove furono ricevuti\ncon festa rilevatamente all\u2019usanza sanese, recandosi in grande gloria\nquesta mandata; e qui ritta in parlamento, cortesemente infamando il\ncomune di Firenze, nella proposta dissono; l\u2019uomo nimico nel campo del\ngrano soprassemina la zizzania, cio\u00e8 il loglio; e recando il processo\ndel parlare a questa sentenza, copertamente la ridussono e rivolsono\ncontro al nostro comune, conchiudendo ch\u2019e\u2019 s\u2019erano ravveduti, e a loro\nveniano come a cari fratelli, per fermare e mantenere con gli animi\nbuoni, e magni e liberali, perpetua e liberale e buona pace, posta\ngi\u00f9 ogni onta e dispetto, e ogni cruccio nel quale a stigazione altrui\nfidandosi poco avvedutamente erano incorsi; e infine uditi volentieri,\npresono co\u2019 Sanesi di nuovo fermezza di pace. I Fiorentini molto si\nrallegrarono della pace per sospicione che li tenea sospesi di rottura\nper lo poco contentamento che l\u2019uno comune e l\u2019altro dimostrava in\nparole di quella ch\u2019era fatta, come fu detto di sopra; vero \u00e8 che molto\npunsono le villane e disoneste parole de\u2019 Perugini, e molto furono\nnotate e scritte ne\u2019 cuori de\u2019 cittadini. Tutto poi che i Perugini\ns\u2019ingegnassono di scusare loro baldanzosa e poco consigliata diceria\ne proposta, per la detta cagione poco appresso seguette, che avendo i\nPerugini fatta ragunata di gente, per fama si sparse che tentavano in\nArezzo coll\u2019appoggio degli amici di messer Gino da Castiglione. Onde\nper questo sospetto, a d\u00ec 12 d\u2019agosto, il comune di Firenze vi mand\u00f2\nquattrocento cavalieri, e assai de\u2019 suoi balestrieri: poi si trov\u00f2\nche nel vero i Perugini intendeano altrove, ma pure per l\u2019odio che\nnovellamente aveano in parole dimostrato, crebbe eziandio per questa\nnon vera novella.\nCAP. XLV.\n_Come il comune di Firenze mand\u00f2 aiuto di mille barbute a messer\nBernab\u00f2 contro alla compagnia._\nAvendo la compagnia preso viaggio per la Riviera di Genova sotto titolo\ndi soldo contro a\u2019 signori di Milano, i Fiorentini il cui animo era a\nperseguitarla, e perseguire a loro podere il pericoloso nimico nome di\ncompagnia in Italia, e avendo rispetto a questo volere, ma molto pi\u00f9 al\nservigio ricevuto da messer Bernab\u00f2 contro a essa compagnia; di tutta\nsua gente sceltane il fiore, e in numero di mille barbute, prestamente\ne senza resta, a d\u00ec 18 d\u2019agosto la fece cavalcare verso Milano sotto\nla insegna del comune di Firenze, a guida di loro cavalieri popolari,\ni quali ricevuti graziosamente in Milano, cavalcarono nell\u2019oste. Elli\nfurono vincitori, come al suo tempo diviseremo, non tanto per lo numero\nloro, n\u00e8 per la forza loro, quanto per la fama del favore del nostro\ncomune, che grande era a quell\u2019ora, per la vilt\u00e0 presa per la compagnia\ndella gente del comune e de\u2019 Fiorentini per lo ributtamento che fatto\nn\u2019aveano.\nCAP. XLVI.\n_Come il castello di Troco fu incorporato per la corona di Puglia._\nCarlo Art\u00f9, com\u2019\u00e8 scritto addietro, fu incolpato della morte del re\nAndreasso, e per la detta cagione condannato per traditore della\ncorona, e i suoi beni pubblicati, e incorporati alla camera della\nreina, tra\u2019 quali era il castello di Troco; il quale dappoi era stato\nprivilegiato al prenze di Taranto, e lui l\u2019avea conceduto a messer\nLionardo di Troco di Capovana: e avendolo lungo tempo tenuto, in\nquesto il conte di Santagata figliuolo del detto Carlo lo f\u00e8 furare\na\u2019 masnadieri, i quali nel segreto il teneano per lui; onde aontato di\nci\u00f2 il prenze accolse circa a mille uomini a cavallo, e misesi a oste\na Santagata, e gran tempo vi stette, e non potendo avere la terra del\ndetto conte contro alla volont\u00e0 del re Luigi, infine se ne part\u00ec con\npoco frutto; e bene ch\u2019avesse animo ad altri processi, e li cominciasse\na seguire, e\u2019 ci giova, di lasciarli, come cose lievi, e tornare alle\ncose pi\u00f9 notabili de\u2019 nostri paesi.\nCAP. XLVII.\n_Come il comune di Firenze assedi\u00f2 Bibbiena._\nI Tarlati d\u2019Arezzo, per che cagione il facessono, mai non aveano\nvoluto ratificare, come aderenti de\u2019 signori di Milano, alla pace\nfatta a Serezzana intra\u2019 detti signori e comuni di Toscana, e stavansi\nmaliziosamente intra due, attenendosi alle fortezze loro, che n\u2019aveano\nmolte in que\u2019 tempi, e guerreggiando agli Ubertini, senza mostrarsi\nin atto veruno contro al nostro comune; e intra l\u2019altre terre, Marco\ndi messer Piero Saccone possedea liberamente la terra di Bibbiena,\nla quale di ragione era del vescovo d\u2019Arezzo, colla quale ne\u2019 tempi\npassati molta guerra avea fatta a\u2019 Fiorentini. Ora tornando a nostro\ntrattato, come avanti dicemmo, gli Ubertini, nemici di quelli da\nPietramala, col senno e buono aoperare erano tornati nella grazia e\namore del nostro comune, ed essendo messer Buoso degli Ubertini vescovo\nd\u2019Arezzo venuto a Firenze per la cagione che di sopra dicemmo, si\nristrinse co\u2019 governatori del nostro comune segretamente animandoli\nall\u2019impresa di Bibbiena, conferendo di dare le sue ragioni al comune\ndi Firenze. Il suo ragionamento fu accettato; e aggiunta l\u2019intenzione\nbuona del vescovo all\u2019operazione di messer Biordo, il comune per\ngareggiare la famiglia degli Ubertini, e mostrare che veramente\ngli avesse in amore, a d\u00ec 23 d\u2019agosto per riformagione riband\u00ec gli\nUbertini; e per confermare la memoria delle fedeli operazioni di messer\nBiordo, domenica mattina a d\u00ec 25 d\u2019agosto f\u00e8 cavaliere di popolo Azzo\nsuo fratello, con onorarlo di corredi e di doni cavallereschi; e di\npresente lo feciono cavalcare a Bibbiena con gente d\u2019arme a cavallo\ne a pi\u00e8, e a d\u00ec 26 del detto mese con la detta gente prese il poggio\nal Monistero a lato a Bibbiena, e il borgo che si chiama Lotrina, e\nivi s\u2019afforzarono vicini alla terra al trarre del balestro. Era nella\nterra Marco e messer Leale fratello naturale di messer Piero Sacconi,\nattempato e savio, i quali per alcuno sentore di trattato aveano\nmandati di fuori della terra tutti coloro di cui sospettavano, e nel\nsubito e non pensato caso si fornirono prestamente di loro confidenti e\ndi molti masnadieri, il perch\u00e8 convenia, ch\u2019avendo la rocca e la forza\ni terrazzani stessono a posa e ubbidienti loro, e pensando che la cosa\naverebbe lungo trattato, s\u2019ordinarono e afforzarono a fare resistenza\ne franca difesa, sperando nella lunghezza del tempo avere soccorso.\nIl comune di Firenze multiplicava a giornate l\u2019assedio, e in servigio\ndel comune v\u2019and\u00f2 il conte Ruberto con molti suoi fedeli in persona,\ne di presente pose suo campo, e simile feciono gli altri. E cos\u00ec in\npochi d\u00ec la terra fu cerchiata d\u2019assedio, e gli Ubertini in tutte loro\nrocche e castella vicine a Bibbiena misono gente del comune di Firenze,\ne per pi\u00f9 fortezza e sicurt\u00e0 di quelli ch\u2019erano al campo. La guerra\nsi cominci\u00f2 aspra e ontosa secondo il grado suo, e que\u2019 d\u2019entro per\nmostrare franchezza aveano poco a pregio il comune di Firenze, uscivano\nspesso fuori a badaluccare, e a d\u00ec 30 d\u2019agosto in una zuffa stretta fu\nmorto il conte Deo da Porciano, che v\u2019era in servigio de\u2019 Fiorentini.\nCAP. XLVIII.\n_Come il comune comper\u00f2 Soci._\nMarco di Galeotto, come vide assediata Bibbiena, e avendovi presso Soci\na due miglia, con sano consiglio abbandon\u00f2 la speranza de\u2019 Perugini che\nl\u2019aveano per loro accomandato, e avuto licenza, perch\u00e8 era in bando,\nse ne venne a Firenze a\u2019 signori; e ragunati i collegi, e richiestili,\nliberamente si rimise nelle mani del comune con dire, che de\u2019 fatti\ndel castello Sanniccol\u00f2 e di Soci, e di ci\u00f2 ch\u2019egli avea nel mondo,\ned eziandio della persona ne facessono loro volont\u00e0: il comune per\nquesta sua liberalit\u00e0 e profferta spontaneamente e di buono volere,\ne non ostante ch\u2019e\u2019 terrazzani di Soci si volessono dare al comune,\ne ci\u00f2 era fattevole senza contasto per forza che appresso al castello\navea il comune, tanto leg\u00f2 l\u2019animo de\u2019 cittadini, per natura benigni\na perdonare, che \u2019l comune si dispose a sopra comperare, per mostrare\namore e giustizia; e perch\u00e8 il valente uomo si mostrasse contento,\ne sopra ci\u00f2 provveduto discretamente, ad\u00ec 26 d\u2019ottobre 1359 per li\nconsigli ribandirono Marco, e dierongli contanti fiorini seimila\nd\u2019oro; e f\u00e8 carta di vendita di Soci e di tutte le terre che in que\u2019\nluoghi avea, e le ragioni ch\u2019avea in castello Sanniccol\u00f2 concedette al\nnostro comune, e delle carte ne fu rogatore ser Piero di ser Grifo da\nPratovecchio notaio delle riformagioni e altri notai, e cos\u00ec pervenne\nSoci a contado del comune di Firenze. Come per tema non giusta Marco di\nGaleotto si mise a venire a Firenze, e fece quello ch\u2019avemo detto di\nsopra, e cos\u00ec vennono i conti da Montedoglio volendosi accomandare al\ncomune, i quali non li vollono ricevere se prima non facessono guerra\na\u2019 Tarlati, e non volendo ci\u00f2 fare, si partirono con poca grazia del\nnostro comune.\nCAP. XLIX.\n_Come il vescovo d\u2019Arezzo diede le sue ragioni che avea in Bibbiena al\ncomune di Firenze._\nMesser Buoso degli Ubertini vescovo d\u2019Arezzo, non potendo sotto\naltro titolo che d\u2019allogagione a fitto, a d\u00ec 7 di settembre 1359\nallog\u00f2 al comune di Firenze per certo fitto annuale, facendo le carte\ndell\u2019allogagione di sette anni in sette anni, e facendone molte, le\nquali insieme sono gran novero d\u2019anni, e confess\u00f2 il fitto per tutto\nil detto tempo, e larg\u00ec al comune ogni ragione e giurisdizione e\nsignoria che \u2019l vescovado d\u2019Arezzo avea nella terra e distretto di\nBibbiena, e le carte ne fece il detto ser Piero di ser Grifo; e con\nquesta cautela fu giustificata l\u2019impresa del nostro comune. Questa\nconcessione fatta per lo vescovo fu approvata e confermata per lo\ncomune d\u2019Arezzo, il quale per fortificare le ragioni del nostro comune\nogni ragione ch\u2019appartenea per qualunque ragione avea in Bibbiena gli\ndiede liberamente. A queste giuste ragioni s\u2019aggiugnea l\u2019animo e buono\nvolere de\u2019 terrazzani di Bibbiena, che volentieri fuggivano la tirannia\ndi quelli da Pietramala: ci\u00f2 cominciarono a mostrare quelli ch\u2019erano\ncacciati di fuori, ch\u2019erano nel campo de\u2019 Fiorentini guerreggiando i\nTarlati, e di poi lo mostrarono quelli ch\u2019erano dentro quando si vidono\nil tempo di poterlo fare, come seguendo nostro trattato racconteremo.\nCAP. L.\n_Seguita la sequela della compagnia._\nSeguendo i principii fatti per lo comune in mandare gente a messer\nBernab\u00f2 contro alla compagnia, il signore di Bologna, ch\u2019allora era\nin pace con lui, li mand\u00f2 cinquecento cavalieri, e quello di Padova, e\nquello di Mantova, e quello di Ferrara ancora li mandarono della gente\nloro; essendo il marchese di Monferrato fatto forte con la compagnia,\nusc\u00ec fuori a campo con molta baldanza, ma di subito i signori di Milano\ncon loro oste li furono appetto, sicch\u00e8 li convenia stare a riguardo, e\nper tenerlo a freno i detti signori posono l\u2019oste a Pavia, e strinsonla\nforte. Il marchese avendo alla fronte il bello e grande esercito de\u2019\ndetti signori, non si potea volgere indietro a dare soccorso a Pavia\nper non avere i nemici alla coda, e stando le due osti affrontati, non\nebbono tra loro cosa notevole, se non d\u2019uno abboccamento di cinquecento\ncavalieri di que\u2019 della compagnia, che per avventura s\u2019abboccarono con\naltrettanti di quelli del comune di Firenze, intra\u2019 quali per onta\ne per gara e per grande spazio fu dura e aspra battaglia, e infine\ni cavalieri de\u2019 Fiorentini sconfissono quelli della compagnia. Nella\nquale rotta furono presi tre caporali de\u2019 maggiorenti della compagnia\ncon pi\u00f9 di dugento cavalieri, e assai ve ne furono morti e magagnati;\ne ci\u00f2 avvenne d\u2019ottobre del detto anno. Nell\u2019assedio della citt\u00e0 di\nPavia occorse un altro caso pi\u00f9 spiacevole per lo fine suo; che essendo\npreso da quelli da Pavia uno Milanese d\u2019assai orrevole luogo, fuori\nd\u2019ordine di buona guerra fu impiccato; e venuta la novella a messer\nBernab\u00f2, e infocato d\u2019ira, comand\u00f2 a messer Picchino nobile cavaliere,\ne di grande stato e autorit\u00e0 in Milano, che quattordici prigioni di\nPavia ch\u2019erano nell\u2019oste li facesse impiccare, infra\u2019 quali ve n\u2019era\nuno di buona fama, e di gentile luogo, e d\u2019assai pregio, non degno di\nquella morte, per lo quale molti Milanesi ch\u2019erano nell\u2019oste pregarono\nmesser Picchino che cercasse suo scampo. Il quale mosso da piet\u00e0 e\ndalle giuste preghiere di tali cittadini mand\u00f2 a messer Bernab\u00f2 di\ntali cittadini, e della sua umilit\u00e0 ferventemente preg\u00f2 il signore\nche per loro grazia e amore dovesse perdonare la vita a quello nobile\nuomo; il signore per queste preghiere invelenito e aspramente turbato\ncomand\u00f2 a messer Picchino che colle sue mani il dovesse impiccare;\nil gentile uomo stepidito, e impaurito di tale comandamento, e\nnon meno di lui tutti i suoi amici e parenti, e molti buoni e cari\ncittadini, cercarono stantemente con sommessione e preghiera, che \u2019l\nnobile e gentile cavaliere, cui il signore avea fatto tanto d\u2019onore,\ndi s\u00ec vile e vituperoso servigio non fosse contaminato; il signore\nindurato alle preghiere, perseverando nella pertinacie sua, aggiunse\nal vecchio comandamento, che se nol facesse, primieramente farebbe\nimpiccare lui. Il gentile cavaliere vedendo l\u2019animo feroce del tiranno,\nche se non facesse quello che gli era comandato che li convenia\nvituperosamente morire, stretto da necessit\u00e0, confuso e attristito,\nsi spogli\u00f2 i vestimenti e di tutti i segni di cavalleria, e rimaso\nin camicia, vestito di sacco con vile cappelluccio, e a maraviglia di\ndispetto, and\u00f2 a mettere a esecuzione il comandamento del tiranno, con\nproponimento di non usare pi\u00f9 onore di cavalleria, poich\u00e8 era sforzato\nd\u2019essere manigoldo; che assai diede per l\u2019atto a intendere quanto fosse\nda prezzare il beneficio della libert\u00e0, da\u2019 Lombardi non conosciuta.\nCAP. LI.\n_De\u2019 fatti di Sicilia e del seguire l\u2019ammonire in Firenze._\nPer sperienza di natura vedemo, che l\u2019uomo appetisce di vari cibi, e\nche di tale variet\u00e0 lo stomaco piglia conforto, e fa digestione; e cos\u00ec\nquando l\u2019orecchie con fatica pure d\u2019un medesimo modo udire desidera\nintramesse d\u2019altro parlare. Noi seguendo quello che natura per suo\nricriamento acchiede in quello luogo, accozzeremo molte novelle occorse\nin molti luoghi e in uno tempo diversi, n\u00e8 del tutto degni di nota, n\u00e8\nda essere posti a oblio, e farenne una nuova vivanda in queste parti.\nPer lo poco polso, e per la poca forza e vigore ch\u2019aveano le parti che\ngovernavano l\u2019isola di Cicilia, loro guerre erano inferme e tediose;\nil duca e\u2019 Catalani col seguito loro aveano assai poca potenza, e\nla parte del re Luigi molto minore; e le lievi guerre e continove\nstraccavano e consumavano l\u2019isola, e n\u00e8 l\u2019una parte n\u00e8 l\u2019altra poteano\nsue imprese fornire, e pure si guastavano insieme con fame e confusione\nde\u2019 paesani, che a giornate correano in miseria. Il duca avea alquanto\npi\u00f9 seguito, e que\u2019 di Chiaramonte speranza nell\u2019aiuto del re Luigi,\nche promettea loro assai, e poco facea; onde i gentili uomini non\ntanto per amore del re, quanto per sostenere s\u00e8 medesimi, e loro fama\ne grandigia, intendeano alla guardia di Palermo, e d\u2019alcuno castello\nche il duca tenea debolmente assediato col braccio de\u2019 Catalani, tra\nche gli assediatori erano fieboli e di poca possanza, e gli assediati\npoveri d\u2019aiuto, niuna notevole cosa era stata a oste di quelle terre; e\nlieve era agli assediati a schernire i nemici, e fargli da oste levare,\nperch\u00e8 oggi si poneano, e \u2019l d\u00ec seguente se ne levavano, e parea la\ncosa quasi nel fine suo, per impotenza dell\u2019una parte e dell\u2019altra.\nMa quello che segue, tutto paia da\u2019 principii suoi da poco curare e di\npiccola stificanza, pi\u00f9 nel segreto del petto che non mostra in fronte,\nse Dio per sua piet\u00e0 non provvede, chi sottilmente mira, pu\u00f2 generare\ndivisione e scandalo nella nostra citt\u00e0. In questi giorni, colle febbri\nlente continove dell\u2019isola di Cicilia, le nostre, civili mali, ne\u2019 loro\nprincipii non curate, si perseguia l\u2019ammonire chi prendesse o volesse\nprendere uficio, e non fosse vero guelfo, o alla casa della parte\nconfidente. E certo in s\u00e8 la legge era buona, come addietro dicemmo,\nma era male praticata, e recata a fare vendetta, e altre poco oneste\nmercatanzie, perch\u00e8 forte la cosa spiacea agli antichi e veri guelfi,\ne agli amatori di quella parte, e della pace e tranquillit\u00e0 del nostro\ncomune. E scorto era per tutto, che \u2019l mal uso della riformagione\ntenea sospesi, e in tremore e in paura pi\u00f9 i guelfi ch\u2019e\u2019 ghibellini,\ne sospettando di non ricevere senza colpa vergogna. A queste due\ntravaglie aggiugneremo una novit\u00e0 d\u2019altre maniere. I Romani, che gi\u00e0\nfurono del mondo signori, e che diedono le leggi e\u2019 costumi a tutti,\nerano stati gran tempo senza ordine o forza di stato popolare, onde\nloro contado e distretto si potea dire una spelonca di ladroni, e gente\ndisposta a mal fare. Il perch\u00e8 volendosi regolare, e recarsi a migliore\ndisposizione, avendo rispetto al reggimento de\u2019 Fiorentini, feciono\nde\u2019 loro cittadini popolari alquanti rettori con certa podest\u00e0 e bal\u00eda\nassomiglianti a\u2019 nostri priori, tutto che molto minore, e feciono capo\ndi rioni sotto il titolo di banderesi: ivi rispondeano a ogni loro\nvolont\u00e0 duemilacinquecento cittadini giovani eletti e bene armati,\ni quali al bisogno uscivano fuori della citt\u00e0 bene armati a fare\nl\u2019esecuzione della giustizia contro a\u2019 malfattori. Avvenne in questi\ngiorni, che conturbando con ruberie il paese uno Gaetano fratello\ndel conte di Fondi, fu preso, e senza niuna redenzione fu impiccato,\ncon molti suoi compagni che furono presi con lui di nome e di lieva.\nIl perch\u00e8 da queste e da altre esecuzioni fatte contro a\u2019 paesani e\u2019\ncittadini che ricettavano i malfattori, oggi il paese di Roma \u00e8 assai\nlibero e sicuro a ogni maniera di gente.\nCAP. LII.\n_Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto stretta._\nLa punga che \u2019l comune faceva per avere Bibbiena era grande, e la\nresistenza de\u2019 Tarlati molto maggiore, e faceano forte maravigliare\ni governatori del nostro comune, veggendo la durezza e la pertinacie\nloro, non aspettando soccorso di luogo che venisse a dire nulla; e come\nche la cosa s\u2019andasse, non fu senza infamia del capitano del popolo\nch\u2019era de\u2019 marchesi da Ferrara, il quale era stato mandato per capitano\ndi tutta l\u2019oste, il quale vilmente e lentamente in tutte cose si\nportava, e d\u2019alcuni cittadini che gli erano stati dati per consiglio.\nOnde il comune prese oneste cagioni e\u2019 rivocarono il capitano e \u2019l suo\nconsiglio, e in suo luogo mandarono il potest\u00e0 con altri cittadini,\nil quale fu messer Ciappo da Narni, uomo d\u2019arme valoroso, e sentito\nassai. Il quale avendo da Firenze molti maestri di legname e di\ncave, prestamente fece cignere la terra di fossi e di steccati, e\nimbertescando i luoghi dov\u2019era bisogno, e in pi\u00f9 parti, e alla rocca\ne alla terra f\u00e8 dirizzare cave, e simile faceano que\u2019 d\u2019entro per\nriscontrare. Appresso vi dirizzarono due dificii che gittavano gran\npietre, e di d\u00ec e di notte secondo uso di guerra li molestavano,\nsenza dare loro riposo. Que\u2019 d\u2019entro per rompere e impedire i mangani\ndirizzarono manganelle, colle quali assai danno facevano. N\u00e8 contento\nil capitano alla detta sollicitudine, cominci\u00f2 a cavare l\u2019altre torri\nde\u2019 Tarlati per tenerle strette, e in esse cercava trattati, ne\u2019\nquali fu preso Corone, e Giunchereto, e Frassineto per battaglia, e\nall\u2019uscita di settembre presono Faeto castelletto ch\u2019era di messer\nLeale, nel quale trovarono assai roba, e predato il paese, si tornarono\nal campo. E perch\u00e8 le castella prese erano del contado d\u2019Arezzo, il\ncomune liberamente le rend\u00e8 agli Aretini, i quali molto le ebbono a\ngrado, e tutto che nostro comune perseguitasse quelli da Pietramala a\nsuo potere, gli Aretini seguendo il grido non stavano oziosi, facendo\ndal lato loro, quanto poteano e sapeano di guerra. E nel detto tempo\nin sul giogo ripresono un loro castello che \u2019l conte Riccardo dal Bagno\nlungo tempo avea loro occupato; e perseguendo l\u2019assedio, nell\u2019entrante\nd\u2019ottobre furono tratti a fine e forniti tre battifolli intra\u2019 campi\nerano posti, onde la terra fu per modo circondata d\u2019assedio ch\u2019entrare\nn\u00e8 uscire non potea persona. Lasceremo assediata Bibbiena, e a suo\ntempo diremo come fu presa, e diremo alquanto delle cose straniere, che\nin questi tempi avvennono da fare menzione.\nCAP. LIII.\n_Come il re d\u2019Inghilterra pass\u00f2 in Francia con smisurata forza._\nPoich\u00e8 al re d\u2019Inghilterra fu manifesto, che la pace che fatta avea col\nre di Francia da\u2019 Franceschi non era accettata, e che il re di Navarra\navea fatta pace col Delfino di Vienna, la quale si stimava per li\ndiscreti essere proceduta d\u2019assento e ordine di esso re d\u2019Inghilterra,\nsotto speranza, che essendo il re di Navarra ne\u2019 consigli de\u2019\nFranceschi e creduto da loro, pi\u00f9 dentro potesse a tempo preso di\nmale operare in sovversione della casa di Francia, che di fuori\ncolla guerra, perocch\u00e8 come il savio dice, che niuna pestilenza \u00e8 al\nnocimento pi\u00f9 efficace che il domestico e famigliare nemico, aggravando\nalle cagioni della guerra, con dare il carico di non volere la pace a\u2019\nsuoi avversari, fece suo sforzo di suoi Inghilesi e di gente soldata\nmaggiore che mai per l\u2019addietro, e mand\u00f2 in prima il duca di Lancastro\ncon centoventitr\u00e8 navi, nelle quali furono millecinquecento cavalieri\ne ventimila arcieri, all\u2019entrata d\u2019ottobre 1359, e posto in terra la\ngente, si mise infra il reame di Francia verso Parigi, e col navilio\npredetto tornato nell\u2019isola, aggiunte molte altre navi, all\u2019uscita del\nmese il re Adoardo col prenze di Gaules e con gli altri suoi figliuoli,\ncon esercito innumerabile di suoi Inghilesi a pi\u00e8, quasi tutti arcieri,\nanche pass\u00f2 a Calese. E secondo ch\u2019avemmo per vero, il numero di sua\ngente pass\u00f2 centomila. La detta mossa contro al tempo di guerra fa\nmanifesto, che molto empito e smisurato volere movea il re Adoardo, e\nfermezza nell\u2019animo suo ch\u2019era grande e smisurato d\u2019ottenere quello che\nlungo tempo avea desiderato, perch\u00e8 principi\u00f2 nell\u2019entrata del verno,\nche suole dare triegua e riposo alle guerre. E perch\u00e8 il tempo allora\nera dirotto alle piove, e il paese di Francia \u00e8 pieno di riviere, molti\nstimarono che ci\u00f2 facesse, per dimostrare a\u2019 nemici quello che della\nguerra potesse seguire nella primavera e nella state, cominciando in\nsul brusco per spiacevole tempo, e per infiebolire gli animi loro s\u00ec\ncon la possa smisurata, e s\u00ec con dare speranza di molta e tediosa\nlunghezza di guerra. Come procedette questa trionfale e terribile\nimpresa, seguendo a suo tempo diremo.\nCAP. LIV.\n_La poca fede del conte di Lando._\nNon \u00e8 da lasciare in silenzio, oltre all\u2019altre infamie, quello che\ndella corrotta fede che in que\u2019 giorni mosse il conte di Lando al\nmarchese di Monferrato, il quale con molto spendio e fatica gli avea\ntratti di Toscana lui e sua compagnia, ove si potea dire veramente\nperduta, e fatti conducere a salvamento per la Riviera di Genova, e\npoi pel Piemonte nel piano di Lombardia, con patti giurati di tenerli\nfede infino a guerra finita contro a\u2019 signori di Milano, con certo\nsoldo limitato da potersi passare con avanzo, il traditore, rotta\nogni leanza e promessa al marchese predetto, del mese d\u2019ottobre con\nmillecinquecento barbute prese segretamente il soldo di messer Bernab\u00f2,\ne usc\u00ec dell\u2019oste del marchese, e se n\u2019and\u00f2 in quello de\u2019 nemici con\nl\u2019insegne levate, rimanendo Anichino e gli altri caporali col resto\ndella compagnia al marchese; i quali molto biasimarono il fallo\nenorme del conte, pubblicamente appellandolo traditore; ma poco tempo\nappresso, tirati dal suono della moneta de\u2019 signori di Milano, feciono\nil simigliante, e tutti abbandonarono il marchese, verificando il\nverso del poeta: Nulla fides, pietas que viris qui castra sequntur; che\nrecato in volgare viene a dire: Niuna fede n\u00e8 niuna piet\u00e0 \u00e8 in quelli\nuomini che seguitano gli eserciti d\u2019arme, cio\u00e8 a dire in gualdana a\npredare, e a fare male. I signori di Milano dopo la venuta del conte\nfortissimamente strinsono la citt\u00e0 di Pavia, togliendo a que\u2019 d\u2019entro\nogni speranza di soccorso, perocch\u00e8 vedendo il marchese i modi tenuti\nper lo conte di Lando, ed origliando i cercamenti che i Tedeschi\nche gli erano rimasi faceano, non osava e non si confidava mettere a\nbersaglio per soccorrere la terra.\nCAP. LV.\n_Come Pavia s\u2019arrend\u00e8 a messer Galeazzo._\nGli affannati e tribolati cittadini di Pavia e disperati d\u2019ogni\nsoccorso, e spezialmente di quello del marchese, cui vedeano da\u2019\nTedeschi gabbato e tradito, e altro capo non aveano che frate Iacopo\ndel Bossolaro, col suo consiglio cercarono d\u2019arrendersi a patti a\nmesser Galeazzo il quale liberamente gli accett\u00f2 con tutti que\u2019 patti\ne convenienze che \u2019l detto frate Iacopo seppe divisare: e fermo tutto\ne\u2019 ricevettono dentro messer Galeazzo con la sua gente del mese di\nnovembre del detto anno; il quale entrato dentro con buona cera,\nsi contenne senza fare novit\u00e0, mostrandosi benigno e piacevole a\u2019\ncittadini e a frate Iacopo, e fecelo di suo consiglio, mostrandoli\nfede e amore, e avendolo quasi come santo e in grande reverenza; e con\nquesta pratica e infinta sagacit\u00e0 ordin\u00f2 con lui assai di quello che\nvolle senza turbare i cittadini; e avendo recato in sua bal\u00eda tutte le\nfortezze della terra e di fuori si torn\u00f2 a Milano, mostrando a frate\nIacopo affezione singulare, e lo men\u00f2 seco, e come l\u2019ebbe in Milano il\nfece prendere, e mettere in perpetua carcere, e condannato il mand\u00f2 a\nVercelli al luogo de\u2019 frati dell\u2019ordine suo, e ordinatoli quivi una\nforte e bella prigione, con poco lume e assai disagio, ponendo fine\nalle tempeste secolari che con la lingua sua ornata di ben parlare\navea commesse. E ci\u00f2 fatto, tenea all\u2019opera pi\u00f9 di seimila persone, e\nfece cominciare in Pavia una fortezza sotto nome di Cittadella, nella\nquale si ricogliesse tutta sua gente d\u2019arme senza niuno cittadino;\ne ci\u00f2 non fu senza lagrime e singhiozzi de\u2019 cittadini, siccome di\nprima cominciarono a vedere il principio dello spiacevole giogo della\ntirannia, e s\u00ec per lo guasto delle case loro che si conteneano nel\nluogo, ove s\u2019edificava lo specchio della miseria loro, dove portavano\ngran danno e disagio; e per nominare quello che suole addivenire a\nchi cade in mala fortuna, frate Iacopo era infamato degli omicidi,\nche non furono pochi, i quali erano proceduti delle prediche sue,\ne de\u2019 cacciamenti di molti cari e antichi cittadini di Pavia sotto\nmaestrevole colore di battere e affrenare i tiranni; ma quello che\npi\u00f9 parea suo nome d\u2019orrore nel cospetto di tutti erano le rovine de\u2019\nnobili edifici di que\u2019 da Beccheria e d\u2019altri notabili cittadini che\nli seguivano, mostrando che l\u2019abbattere il nido agli uomini rei era\nmeritorio, quasi come se peccassono le case, che \u00e8 stolta cosa, tutto\nche per mala osservanza tutto giorno s\u2019insegna queste cose, parea che\nl\u2019accusassono di crudelt\u00e0; e quello costringono d\u2019avarizia, perocch\u00e8\nsotto titolo di cattolica ubbidienza aveano fatto statuti, che chi non\nfosse la mattina alla messa e la sera al vespero pagasse certa quantit\u00e0\ndi danari; e avendo sopra ci\u00f2 fatte le spie, cui trovassono in fallo il\nminacciavano d\u2019accusare, e sotto questa tema li facevano ricomperare.\nE certo chi volesse stare nel servigio di Dio e nelle battaglie di\nvita riligiosa, e mescolandosi nelle cose del secolo e ne\u2019 viluppi\n\u00e8 spesso ingannato da colui che si trasfigura in vasello di luce per\ningannare quelli col principio della santa operazione, favoreggiando\ncol grido del popolo il santo l\u2019indusse a vanagloria e in crudelt\u00e0, e,\ncome dovemo stimare, Iddio con le pene della croce lo ridusse alla vita\nd\u2019onde s\u2019era per lusinghe del mondo partito.\nCAP. LVI.\n_Come i signori di Milano sfidarono il signore di Bologna._\nCome la sete dell\u2019avaro per acquisto d\u2019oro non si pu\u00f2 saziare, cos\u00ec la\nrabbia del tiranno non si pu\u00f2 ammorzare per acquisto di signoria; per\ndivorare tiene la gola aperta, e quanto pi\u00f9 ha cui possa distruggere\ne consumare, pi\u00f9 ne desidera. Questo per tanto dicemo, perch\u00e8 in\nquesti d\u00ec, avendo i signori di Milano con la forza della moneta e\ncol tradimento del conte di Lando e d\u2019Anichino vinto e vergognato il\nmarchese di Monferrato, e aggiunta per forza alla loro signoria la\nnobile e antica citt\u00e0 di Pavia, ringraziando con lettere il comune\ndi Firenze del bello e buono servigio della sua gente ricevuto, di\npresente la rimand\u00f2; e cresciuto loro l\u2019animo per lo felice riuscimento\ndella citt\u00e0 di Pavia, entrarono in pensiero e in sollicitudine di\nrivolere o per amore o per forza la citt\u00e0 di Bologna, non ostante\nche da messer Giovanni da Oleggio loro consorto che allora la tenea\navessono avuto aiuto alla loro guerra seicento barbute, le quali\nritennono ad arte e con ingegno al soldo loro, pensando d\u2019avere\nmercato nel subito loro movimento del signore di Bologna, trovandosi\nignudo e sfornito di gente d\u2019arme a difesa; e con trovare rottura\ndi pace, scrissono al comune di Firenze che non si maravigliasse,\nperch\u00e8 s\u00ec subito assalissono con la forza loro il signore di Bologna,\nda cui erano stati traditi, e che a loro avea rotta la pace senza\nniuna giusta cagione; e nella lettera scritta di questa materia al\ncomune era intramessa la copia di quella che mandarono al signore di\nBologna, sfidandolo e appellandolo per traditore, la quale lettera fu\nappresentata al signore di Bologna come l\u2019oste de\u2019 signori di Milano\ngiunse nel terreno di Bologna.\nCAP. LVII.\n_Come messer Bernab\u00f2 mand\u00f2 l\u2019oste sua sopra Bologna._\nSeguendo la materia del precedente capitolo, all\u2019entrata di dicembre\ndel detto anno, messer Bernab\u00f2 fece capitano della gente che mand\u00f2\nnel Bolognese il marchese Francesco da Esti, il quale essendo cacciato\ndi Ferrara era ridotto a messer Bernab\u00f2, ed era suo provvisionato, e\nsenza niuno arresto con tremila cavalieri, e millecinquecento Ungheri,\ne quattromila pedoni e mille balestrieri lo fece cavalcare in su\nquello di Bologna, avendo il passo dal signore di Ferrara, allora in\namicizia e compare di messer Bernab\u00f2, e oltre al passo, vittuaglia e\naiuto; e come usc\u00ec del Modenese si pose a campo intorno al castello di\nCrevalcuore, e ci\u00f2 fu infra dieci d\u00ec infra \u2019l mese di dicembre, e ivi\nstette pi\u00f9 giorni; sollecitato con parecchie battaglie il castello,\nnon avendo soccorso dal signore di Bologna, a d\u00ec 20 del detto mese\ns\u2019arrend\u00e8 a promissione di messer Giovanni de\u2019 Peppoli, il quale era\nnell\u2019oste al servigio di messer Bernab\u00f2; e ricevuto il castello e le\nguardie del capitano dell\u2019oste, essendo il castello abbondevole di\nvittuaglia, assai n\u2019allarg\u00f2 l\u2019oste. Avuto Crevalcuore, le villate\nch\u2019erano d\u2019intorno da lunga e da presso per non essere predati\nubbidirono il capitano, facendo il mercato sotto il caldo e baldanza\ndi questo ricetto. Bene che la vernata fosse spiacevole e aspra per\nle molte piove, quelli dell\u2019oste ogni d\u00ec cavalcavano insino presso a\nBologna, levando prede e prigioni, e tribolando il paese; il signore\ndi Bologna, ch\u2019era savio e d\u2019animo grande, non falt\u00f2 di cuore per\nla non pensata e subita guerra, e veggendosi per l\u2019astuzia di messer\nBernab\u00f2 che gli avea levati i soldati, come dicemmo di sopra, povero di\ngente d\u2019arme e d\u2019aiuto, senza indugio trasse delle terre di fuori que\u2019\nterrazzani che si sent\u00ec ch\u2019erano sospetti, e le riforn\u00ec di soldati,\nperch\u00e8 i terrazzani non avessono podere d\u2019arrendersi s\u00ec prestamente\ncome fatto aveano quelli di Crevalcuore; e attendea con sollicitudine\nallo sgombro, e ad apparecchiare la citt\u00e0 a difesa, e a fare buona\nguardia. Il cardinale di Spagna li mand\u00f2 di soccorso quattrocento\nbarbute che li vennono a gran bisogno. Lo detto signore conoscendo\nla sua impotenza, e non essere sufficiente a potere rispondere a\nquella de\u2019 signori di Milano, nondimeno cerc\u00f2 sottilmente con segreto\ntrattato, offerendo di fare alto e basso quanto fosse piacere del\ncomune di Firenze, di torlo in suo aiuto, ma la fede promessa per la\npace vinse ogni vantaggio che potessono avere.\nCAP. LVIII.\n_Come fu maestrato da prima in Firenze in teologia._\nPoco \u00e8 da pregiare per onest\u00e0 di fama che uno sia con le usate\nsolennitadi, ne\u2019 luoghi dove sono li studi generali delle scienze\nprivilegiate dalla autorit\u00e0 del santo padre e dell\u2019imperio di Roma,\npubblicamente scolaio maestrato; ma essendo questo atto primo e nuovo,\ne pi\u00f9 non veduto nelle citt\u00e0 che hanno di nuovo privilegi di ci\u00f2 potere\nfare, bello pare e scusabile d\u2019alcuni farne memoria, non per nome\ndell\u2019uomo, che per avventura non merita d\u2019essere posto in ricordo di\ncoloro che verranno, ma per accrescimento di tali cittadi, ove tale\natto da prima \u00e8 celebrato. In questi giorni per virt\u00f9 de\u2019 privilegi\nalla nostra citt\u00e0 conceduti per lo nostro papa Clemente sesto, infra\nl\u2019altre cose contenne di potere maestrare in teologia, a d\u00ec 9 di\ndicembre nella chiesa di santa Reparata pubblicamente e solennemente\nfu maestrato in divinit\u00e0, e prese i segni di maestro in teologia frate\nFrancesco di Biancozzo de\u2019 Nerli dell\u2019ordine de\u2019 frati romitani; e\nil comune mostrandosi grato del beneficio ricevuto di potere questo\nfare, per lungo spazio di tempo fece sonare a parlamento sotto titolo\ndi Dio lodiamo tutte le campane del comune, e\u2019 signori priori co\u2019 loro\ncollegi, e con tutti gli uficiali del comune, con numero grandissimo\ndi cittadini furono presenti al detto atto di maestramento, che fu cosa\nnotabile e bella.\nCAP. LIX.\n_Come fu morto il signore di Verona dal fratello._\nMesser Cane della gesta di quelli della Scala signori di Verona,\nper morbidezze di nuova fortuna era divenuto dissoluto e crudele,\ne per tanto in odio de\u2019 suoi cittadini grande, senza amore de\u2019 suoi\ncortigiani, eziandio de\u2019 suoi consorti e parenti; essendo per andare\nin questi tempi nella Magna a\u2019 marchesi di Brandimborgo, ch\u2019erano\nsuoi cognati, e avendo i suoi fratelli carnali, messer Cane Signore\ne Polo Albuino, secondo il testamento di messer Mastino erano con lui\nconsorti nella signoria, e non prendendo di niuno di loro confidanza,\nma piuttosto sospetto, segretamente f\u00e8 giurare i soldati nelle mani\nd\u2019un suo figliuolo bastardo. Come questo sentirono i fratelli forte\nl\u2019ebbono a male, e presonne sdegno: messer Cane Signore ne fece parlare\ndicendo al gran Cane, che tanta sconfidanza non dovea mostrare ne\u2019\nfratelli: le parole, quanto che assai fossono amorevoli, furono gravi\ne sospettose al tiranno, e con parole di minacce spavent\u00f2 e impaur\u00ec il\nfratello, tutto che per avventura non fosse nell\u2019animo suo quanto le\nminacce dicevano. Il giovane pens\u00f2 che assai era lieve al fratello a\nfare quanto dicea in parole, perch\u00e8 conoscea che molta crudelt\u00e0 regnava\nnell\u2019animo suo, e che per tanto poco al signore arebbe riguardato;\nonde un sabato, a d\u00ec 14 di dicembre detto anno, essendo cavalcato Gran\nCane per la terra con piccola compagnia, e Cane Signore accompagnato\ndi due scudieri di cui tutto si confidava se n\u2019and\u00f2 alla stalla del\nsignore, e tolse tre corsieri i pi\u00f9 eletti e i migliori vi trov\u00f2, e\nmontativi tutti e tre a cavallo, con l\u2019armi celate si mosse per la\nterra a piccoli passi cercando del gran Cane, e come lo scontrarono, il\ngran Cane disse al fratello, ch\u2019e\u2019 non facea bene a cavalcare i suoi\ncorsieri, e Cane Signore rispose; Voi fate bene s\u00ec che voi non volete\nch\u2019io cavalchi niuno buono cavallo: e tratto fuori uno stocco ch\u2019avea\na lato accortamente gli si ficc\u00f2 addosso, e con esso il pass\u00f2 dall\u2019un\nlato all\u2019altro, e menatoli un altro colpo in sul capo l\u2019abbatt\u00e8 del\ncavallo, e per tema di non essere sorpreso prese la fuga, avacciando\nin forma il cammino che in Padova giunse la sera; ed essendo come\nda parte del signore ricevuto, li manifest\u00f2 quello ch\u2019avea fatto al\nfratello, e le ragioni che mosso l\u2019aveano: il signore mostr\u00f2 per la\nspiacevolezza del caso ne\u2019 sembianti doglienza, senza assolvere il\nfatto o condannare, confortato il giovane che a lui era fuggito, con\nsperanza che la cosa che proceduta era da sdegno arebbe buono fine. In\nquesta miserabile fortuna di tanto signore non si trov\u00f2 chi traesse\nferro fuori, n\u00e8 chi perseguitasse il fratello, e quelli ch\u2019erano con\nlui, tremando di s\u00e8 ciascuno, per immaginazione che s\u00ec alta cosa essere\nnon potesse senza ordine, si fuggirono di presente, e lasciarono in\nterra il loro signore a morte fedito.\nCAP. LX.\n_Come Cane Signore fu fatto signore di Verona._\nSentito che fu per Verona il caso sinistro di loro signore, non si\ntrov\u00f2 nella terra persona che si levasse di cuore, tanto era odiato e\nmal voluto; e dopo alquanto spazio di tempo fu ricolto di terra senza\navere conoscimento niuno, e spirit\u00f2 poco, sicch\u00e8 appena levato del\nluogo pass\u00f2, e lasci\u00f2 la tirannia e la vita. L\u2019esequie per l\u2019onore\ndel titolo che tenea, e della casa, li furono fatte magnifiche, e pi\u00f9\nliete in vista che dolorose; perocch\u00e8 riso e pianto, e l\u2019altre forti\npassioni dell\u2019animo coll\u2019altro contrario male si possono coprire.\nIl popolo vile, e costumato in servaggio, trovandosi in sua libert\u00e0,\nperocch\u00e8 non v\u2019era capo di signoria, se non per Polo Albuino ch\u2019era\nun piccolo garzone senza consiglio e senza gente d\u2019arme, perocch\u2019erano\ntutti in servigio di messer Bernab\u00f2 nell\u2019oste a Bologna, n\u00e8 altro caldo\no favore, non seppono usare la libert\u00e0 e la franchigia che loro avea\nnon pensatamente renduto fortuna. Radunati insieme i fratelli di Gran\nCane, nel parlamento in segno di signoria diedono la bacchetta a Polo\nAlbuino ricevendo per s\u00e8 e per lo fratello, e di presente crearono\nambasciadori, e mandaronli a Padova a Cane Signore, invitandolo\nche venisse a prendere la cura della sua citt\u00e0 di Verona; il quale\naccompagnato da dugento cavalieri del signore di Padova si part\u00ec, e\ngiunto in Verona, con grande letizia e onore fu ricevuto, facendolisi\nincontro alla porta il fratello, e ivi li diede la bacchetta, e\nlo rinvest\u00ec della signoria che avea ricevuta per lui; e cos\u00ec per\ndimostranza di fede rimasono amendue nella signoria ch\u2019avea ricevuta\nper lui, e la citt\u00e0 si pos\u00f2 senza novit\u00e0 niuna in buona pace.\nCAP. LXI.\n_Come fu presa Bibbiena pe\u2019 Fiorentini._\nEssendo stato l\u2019assedio a Bibbiena per spazio di due mesi e dodici\nd\u00ec, nel quale messer Leale e Marco, essendo senza triegue colle\nbattaglie continue e con trabocchi che mai non ristavano in aperto e\ndi fuori combattuti, e in occulto colle cave, e coll\u2019animo grande e\ncolla sollecitudine sofferivano tutto senza riposo, e con consiglio\nponeano a ogni cosa riparo; e indurati negli affanni e ne\u2019 pericoli\nnon si dichinavano a nulla, ma con fronte dura e pertinacia pi\u00f9 si\nmostravano fieri che mai. I terrazzani per la disordinata fatica, e\nperch\u00e8 vedeano guastare i beni loro dentro e di fuori, desideravano\nl\u2019accordo, e vedendo che la cosa a lungo andare convenia che venisse a\nquello che volea il comune di Firenze, e pareva a loro che quanto pi\u00f9\nsi stentava venire in maggiore indegnazione de\u2019 Fiorentini, e maggiore\ndistruggimento e consumazione di loro e di loro cose; e pertanto alcuna\nvolta pregarono i Tarlati che prendessono partito a buon\u2019ora, ed ebbono\nda loro spiacevole e mala risposta. Onde segu\u00ec, che diciotto di loro\nsegretamente si giurarono insieme, de\u2019 quali si fece capo uno maestro\nAcciaio, uomo secondo suo grado intendente e coraggioso, i quali senza\nindugio o perdimento di tempo s\u2019intesono con alcuni de\u2019 terrazzani di\nBibbiena, cui i Tarlati aveano per sospetto cacciati fuori e riduciensi\nnell\u2019oste de\u2019 Fiorentini, con offerire loro, che dove potessono\navere sicurt\u00e0 e fermezza che la terra non fosse rubata, che a loro\ndava il cuore di farla venire assai prestamente alle mani del comune\ndi Firenze. E ci\u00f2 avendo gli usciti sentito, se ne ristrinsono con\nFarinata degli Ubertini, il quale con loro entr\u00f2 in ragionamento con\ndue cittadini di quello uficio della guerra i quali erano nel campo, e\nli domandarono che fede, che sicurt\u00e0, e che patti voleano; e fu loro\ndetto da\u2019 cittadini. E ci\u00f2 udito, lo conferirono a bocca a\u2019 signori\ne a\u2019 collegi, e da loro ebbono piena bal\u00eda di potere prendere piena\nconcordia, di promettere e sicurare come a loro paresse a beneficio e\ncontentamento de\u2019 terrazzani, salvando l\u2019onore del comune; e tornati\nnel campo, feciono a quelli d\u2019entro sentire che aveano mandato di\nconvenirsi con loro. I congiurati per alquanti giorni attesono il tempo\nche a loro toccava la guardia in certa parte delle mura, e venuto,\ncon una fune collarono un fante, e mandaronlo al Farinata, il quale fu\nco\u2019 detti cittadini con cui conduceva il detto trattato, e di presente\nfurono al capitano, e li manifestarono il fatto com\u2019era. Il capitano,\nper coprire col senno suo segreto, diede a intendere che avea sentito\nche la notte certa gente dovea entrare in Bibbiena, e che volea porre\naguato a quel luogo, per lo quale avea sentore che doveano entrare,\ned elesse sotto il detto nome quattrocento fanti de\u2019 migliori e de\u2019\npi\u00f9 gagliardi ch\u2019erano nell\u2019oste, e ottanta uomini di cavallo a pi\u00e8\narmati di tutte loro armi, e seco volle il Farinata con tutti gli\nusciti di Bibbiena, i quali con altri loro confidenti furono ottanta\nfanti; e avendo il capitano fatto provvedere delle scale, e ricevuto da\nquelli d\u2019entro l\u2019avviso dove le dovesse accostare, il d\u00ec della pasqua\ndell\u2019Epifania, a d\u00ec 6 di gennaio 1359, in sulla mezza notte quetamente\ns\u2019accostarono alle mura, e avendo avuto avviso di fuori da maestro\nAcciaio e da\u2019 suoi congiurati ch\u2019erano in sulle mura alla guardia di\nquel luogo, ve ne rizzarono cinque, e Farinata di prima co\u2019 suoi, e\nappresso il capitano montarono in sulle mura, e discesono nella terra\nalla condotta de\u2019 congiurati, non trovando chi gli impedisse. Mentre\nsi faceano queste cose, uno masnadiere nominato, assai confidente di\nMarco, che andava cercando le mura, quando giunse in quella parte,\nricevuto il nome da\u2019 terrazzani e datoli la via, come fu in mezzo di\nloro fedito il traboccarono delle mura dentro; e ci\u00f2 fatto, il romore\nsi lev\u00f2 nella terra, al quale si dest\u00f2 tutta l\u2019oste, che non sapeano\nche si fosse, e accostati alla terra quelli ch\u2019erano entrati, levate\nl\u2019insegne del comune di Firenze s\u2019avvisarono insieme, attendendo che\ngli eletti per lo capitano di quelli che dicemmo di sopra fossono tutti\ndentro. Marco, ch\u2019era nella rocca con la sua brigata pi\u00f9 fiorita, usc\u00ec\nfuori francamente, e percosse a quelli ch\u2019erano entrati, ma da loro\nricevuto senza paura con le spade villanamente fu ributtato; nel quale\nassalto il Farinata, ch\u2019era di quelli dinanzi, fu fedito d\u2019una lancia\nnell\u2019arcale del petto s\u00ec gravemente, che gli fu necessit\u00e0 ritirarsi\nindietro, della quale fedita assai ne stette in pericolo di morte.\nIl capitano scendendo nell\u2019entrata delle scale cadde, e sconciossi\nil piede in forma che non pot\u00e8 stare in su\u2019 piedi, sicch\u00e8 amendue i\ncapitani in sull\u2019entrata in quella notte furono impediti. I terrazzani\nche da\u2019 nostri cittadini aveano ricevuta la fede, che non riceverebbono\nn\u00e8 danno n\u00e8 ingiuria, sfatavano nelle loro case senza offendere i\nFiorentini, e alquanti di loro intimi amici di Marco e suoi servidori\nper tema si fuggirono nella rocca; e stando la terra in questi termini,\nda quelli d\u2019entro a quelli di fuori fu l\u2019una delle porti tagliata,\nsicch\u00e8 la gente in fiotto entr\u00f2 dentro, e furono signori della terra. I\ndue Fiorentini, che in nome del comune aveano promesso che n\u00e8 violenza\nn\u00e8 ruberia non si farebbe, in quella notte s\u2019adoperarono sollecitamente\nin forma e in modo che niuna ingiuria, o ruberia o danno nella terra\nsi fece eziandio in parole. I terrazzani uomini e donne assicurati\nofferiano pane e vino, e altre cose abbondantemente, cos\u00ec a quelli\nch\u2019erano entrati come a quelli ch\u2019entravano. Come a Dio piacque, e\nfu mirabile cosa, la terra si vinse senza spargimento di sangue, e\nsenza ruberia o ingiuria o violenza niuna o piccola o grande, che a\nraccontare \u00e8 cosa incredibile e vera.\nCAP. LXII.\n_Come la rocca di Bibbiena s\u2019arrend\u00e8 al comune di Firenze._\nVedendo Marco che la terra era presa, e ch\u2019egli era con gente assai\nnella rocca e con poca vittuaglia, perocch\u00e8 per tema delle cave l\u2019avea\nsfornita, cerc\u00f2 di potersi patteggiare salvando le persone, ma non\nebbe luogo, e dibattutosi sopra ci\u00f2 per molte riprese, infine impetr\u00f2,\nche la sua donna ch\u2019era figliuola del prefetto da Vico, la quale era\ngravida, con un suo piccolo fanciullo con tutti gli arnesi di lei se\nne potesse andare, e che i terrazzani e alcuni sbanditi del comune di\nFirenze fossono salvi; e quanto s\u2019appartenne agli sbanditi, non fu\nsenza ombra d\u2019infamia a\u2019 nostri cittadini che si trovarono a questo\nservigio. Marco e Lodovico suo fratello, e messer Leale loro zio,\nFrancesco della Faggiuola e altri masnadieri in numero di quaranta\nrimasono prigioni, tutto che poi appresso il detto Francesco ch\u2019era\ngarzone e infermo fosse lasciato, e a d\u00ec 7 di gennaio del detto anno\nrenderono la rocca, e a d\u00ec 12 del detto mese vennono presi a Firenze\ni detti Tarlati, e furono messi spartitamente l\u2019uno dall\u2019altro nelle\nprigioni del comune di Firenze.\nCAP. LXIII.\n_Di novit\u00e0 state in Spagna._\nCarlo fratello naturale dello scellerato re di Spagna, e da lui\ncacciato, si riducea col re d\u2019Araona, conoscendo che la forza e\nbestiale vita del fratello nel reame per paura lo facea temere e\nodiare; e per tanto stimando che li fosse assai leggiere a fare\nmovimento nel reame eziandio con piccola gente, avuto dal re ottocento\ncavalieri si mise in certa parte della Spagna, e correndo il paese\nricolse gran preda. Il re com\u2019ebbe del fatto sentore, sapendo il\nluogo dov\u2019erano, e che loro era necessario volendo tornare in loro\npaese passare per un certo luogo malagevole e stretto, subito mand\u00f2\nduemila cavalieri ad occupare quel passo. Sentendo Carlo e\u2019 Catalani\nche \u2019l passo ond\u2019era la loro ritornata era preso, e la gente che\nv\u2019era, volgendo la tema in disperazione, si deliberarono di mettersi\nalla fortuna della battaglia, che altro rimedio non v\u2019era. Il valente\ngiovane Carlo col volto fiero, come fosse certo della vittoria\nconfortando i Catalani, e inanimandoli a ben fare, mostrava che tra\nla gente che gli attendea de\u2019 nemici erano pochi buoni uomini, e che\ngli altri erano gente vile e dispettosa, e male armata e novizza, e\ndell\u2019onore del re per sua crudelt\u00e0 poco desiderosa, aggiugnendo, che\nse voleano a loro donne e famiglie tornare, necessit\u00e0 era loro fare la\nvia con le spade in mano, e che certo si rendea, conoscendo la virt\u00f9\nloro, che arebbono la via onoratamente. I Catalani vedendo l\u2019animo\nardito e sicuro dei giovane presono speranza di vittoria, e si misono\nalla battaglia, la quale fu fiera, e aspra e dura lungo tempo, ma i\nCatalani, come la necessit\u00e0 strignea, raddoppiate le forze e l\u2019ardire,\ndiportandosi valentemente, ruppono e sbarattarono gli Spagnuoli,\ne oltre a\u2019 morti e a\u2019 magagnati ne furono presi pi\u00f9 di trecento\ncavalieri, e con la preda e con la vittuaglia non pensata si tornarono\nin Araona.\nCAP. LXIV.\n_Come i Pistoiesi ripresono il castello della Sambuca._\nDurando la guerra dal signore di Milano a quello di Bologna, e tenendo\nquello di Bologna il castello della Sambuca, ch\u2019era del contado di\nPistoia, ed era la chiave di dare l\u2019entrata e l\u2019uscita per li paesi\ncos\u00ec all\u2019offesa come alla difesa, veggendo i Pistoiesi che il signore\ndi Bologna era forte impedito della detta guerra, e che messer Bernab\u00f2\nsormontava, presono tempo, e consiglio e favore, e il vescovo loro,\nil quale era Fiorentino, nella Sambuca tratt\u00f2, e seppe tanto trattare\ne ordinare, che l\u2019una delle guardie che guardava la torre della\nrocca uccise il capitano; e fermato l\u2019uscio per modo che di sotto\nnon poteano essere offesi, sal\u00ec nella vetta, e colle pietre cominci\u00f2\na combattere col castellano dal lato d\u2019entro, e\u2019 terrazzani, com\u2019era\nordinato, cominciarono a combattere di fuori; sicch\u00e8 non potendo stare\nalla difesa, che non lasciava, quei della torre vi cavalcarono. Il\ncastellano, ch\u2019era Lombardo, stordito per lo tradimento e per lo subito\nassalto, s\u2019arrend\u00e8, salve le persone e l\u2019avere, e all\u2019uscita di gennaio\ndel detto anno, e la terra rimase liberamente nelle mani de\u2019 Pistolesi.\nDi questa cosa i Fiorentini furono molto contenti, sperando al bisogno\npotere avere la guardia di quello luogo a sua difesa.\nCAP. LXV.\n_Come messer Bernab\u00f2 strignea Bologna._\nL\u2019oste di messer Bernab\u00f2 in questi tempi continovamente cresceva, la\nquale avea fermato suo campo a Casalecchio, e il capitano del luogo\nfaceva cavalcare le brigate or qua or l\u00e0, rompendo le strade, e facendo\nassai danno a\u2019 paesani. Gli Ubaldini ad arte si mostravano divisi,\ne parte ne teneano con messer Bernab\u00f2, e parte con messer Giovanni,\nil perch\u00e8 le strade e l\u2019alpi non si poteano usare. Il legato, che\ncome il nibbio aspettava la preda, per trarre a s\u00e8 l\u2019animo di messer\nGiovanni, cui vedea dovere poco durare, l\u2019aiutava con tutta la sua\nforza, mettendo al continovo in Bologna gente e vittuaglia. Messer\nBernab\u00f2 di ci\u00f2 forte turbato, gli scrisse, che non faceva bene a\nimpedirlo che non tornasse in casa sua, minacciandolo, che se non\nse ne rimanesse li farebbe novit\u00e0 nella Romagna e nella Marca. Per\nqueste minacce il legato pi\u00f9 si sforzava ad atare messer Giovanni, il\nquale vedendosi male parato e poco atto alla difesa, durando la guerra\nguari di tempo, per pi\u00f9 riprese mandava a Milano suoi ambasciadori per\nlevare messer Bernab\u00f2 dall\u2019impresa, e nondimeno ricercava se potesse\nmuovere i Fiorentini in suo aiuto; e non trovandovi modo, cominci\u00f2 a\ntrattare collegato il ragionamento: il quale dava gli orecchi a volere\nfare l\u2019impresa, la quale nella fine venne fornita, come a suo tempo\ndiremo. Ma in questi d\u00ec, la cosa tanto dubbiosa e avviluppata, che\nnon si vedea dove la cosa ragionevolemente potesse passare, la guerra\nrinforzava a giornate. Il capitano di messer Bernab\u00f2 per pi\u00f9 strignere\nla terra e da lungi e da presso ponea bastie, e all\u2019uscita di febbraio\nebbe Castiglione per trattato, ch\u2019\u00e8 un forte castello posto tra Modena\ne Bologna. Il signore di Bologna, ch\u2019era uomo al suo tempo riputato,\nastuto e di buona testa, e per molti anni pratico delle battaglie del\nmondo, bene conosceva che impossibile era sua difesa contro la forza\ndi messer Bernab\u00f2, non avendo altro aiuto, e per\u00f2 sagacissimamente\nsi sostenea, traendo delle castella quelli terrazzani che gli erano\nsospetti, e bene li conoscea, e in Bologna sotto solenne guardia tenea\nmolti cittadini di cui non prendea confidanza; e del continovo pensava,\ncome con suo vantaggio e onore potesse dare ad altrui i pensieri della\nguerra, e uscire di tante persecuzioni in luogo dove potesse il resto\nde\u2019 suoi giorni in pace vivere.\nCAP. LXVI.\n_Come gli Aretini riebbono il castello della Pieve a santo Stefano._\nIl castello della Pieve a santo Stefano lungo tempo era stato nelle\nmani de\u2019 Tarlati; e\u2019 terrazzani sentendo che Bibbiena era presa pe\u2019\nFiorentini, temendo de\u2019 mali che verisimilemente potevan loro avvenire,\ncercarono di volersi acconciare con li Aretini con volont\u00e0 di quelli\nda Pietramala. Nella terra era uno figliuolo di messer Piero Sacconi\nmale in concio a potere resistere al loro volere, e per\u00f2 venendo\neglino a lui, loro consent\u00ec ci\u00f2 che seppono divisare; e di presente\nfece il fatto a\u2019 suoi consorti sentire, e ad altri amici caporali\ndi loro stato, i quali senza indugio copertamente mandarono fanti al\ncastello, e uno di loro con pochi compagni disarmati, come se andassono\na sollazzo, entr\u00f2 dentro con loro, e come si sentirono forti dentro\nmutarono sermone, e coloro che si voleano accordare, e tutti quelli che\nsi faceano a ci\u00f2 capo mandarono per stadichi ad altre loro tenute, e di\ngente forestiera fornirono la guardia della terra, il perch\u00e8 la cosa,\nper allora si rimase. Ma i villani della terra loro intenzione, senza\nmostrare segno di fuori, serbarono nel petto, e a d\u00ec 8 di febbraio\ndetto anno, non prendendone guardia i Tarlati che aveano la cosa per\ncheta, i terrazzani preso loro tempo tutti si levarono a romore, e\npresi i caporali de\u2019 loro signori e de\u2019 soldati, tenendoli tanto che\nriebbono li stadichi loro, e liberaronsi della tirannia, racconciandosi\ncol comune d\u2019Arezzo, e tornando allo stato e costume antico di loro\ncontadini, con certe immanit\u00e0 che domandarono, e loro furono concedute.\nQuesto fu alla casa de\u2019 Tarlati, dopo la perdita di Bibbiena, grande\nabbassamento di loro stato e signoria.\nCAP. LXVII.\n_Come il re d\u2019Inghilterra si pose a oste alla citt\u00e0 di Rems._\nIl gennaio 1359 il re d\u2019Inghilterra pose campo vicino alla citt\u00e0 di\nRems, usando cautela di non fare loro guasto di fuori, e per pi\u00f9 fiate\ncon belli modi cerc\u00f2 con impromesse di magnificare e d\u2019esaltare quella\nvilla sopra tutte quelle di Francia, che gli fosse prestato l\u2019assento\nche in quella citt\u00e0 potesse prendere la corona di Francia, promettendo\na tutti di trattarli benignamente; ma poich\u00e8 vide che non era udito,\nstimando che facessono ci\u00f2 per vergogna d\u2019arrendersi senza dominaggio,\nli cominci\u00f2 a minacciare di lungo assedio e disolazione della terra se\nnon facessono quello che domandava; ma lusinghe n\u00e8 minacce approdarono\nniente, perocch\u00e8 fu di comune assentimento risposto loro, che aveano\nloro diritto re, a cui intendeano mentre che durasse loro spirito in\ncorpo stare leali, diritti e fedeli, e che facesse suo podere contro\na loro che alla difesa intenderebbono a loro podere. Avendo il re\nd\u2019Inghilterra dalla comune di Rems questa finale risposta, diede boce,\nche forniti quaranta d\u00ec d\u2019assedio, di fuori in campo prenderebbe la\ncorona; ma non succedendo le cose a suo proponimento, convenne che\nprendesse per lo migliore altro consiglio. E ci\u00f2 avvenne, perch\u00e8 la\nstagione era forte contraria a tenere suo esercito insieme o a sicurt\u00e0,\ne dividere non lo potea; onde per fare maggiori danni per lo reame,\ne per stendersi con meno gravezza nel verno, prese e ordin\u00f2 la sua\ncavalleria come appresso racconteremo.\nCAP. LXVIII.\n_Discordia del conte di Foc\u00ec a quello d\u2019Armignacca._\nVedendo il re, come poco davanti dicemmo, che il suo stallo a Rems\nera pericoloso e con poco profitto, all\u2019entrare di febbraio divise suo\noste, e una parte ne fece cavalcare per lo paese, la quale non trovando\ncontrario s\u2019arrest\u00f2 a san Dionigi ch\u2019\u00e8 presso a Parigi a due leghe: e\nquesta mandata secondo l\u2019opinione di molti fu di consiglio del re di\nNavarra e con suo favore, sotto la scusa dello sdegno preso per lui per\nlo Delfino di sospetto de\u2019 mali ch\u2019e\u2019 facea. Il Delfino, col consiglio\ndi certi baroni fidati e fedeli alla corona, intendea a fornire le\nrocche e le terre, e a fare sollecita e buona guardia in ogni luogo,\ne lasciava correre e cavalcare il paese alla volont\u00e0 degl\u2019Inghilesi. E\nstando in queste tenebre il reame di Francia, e non senza pericolo, era\nper invidia grave discordia cresciuta intra il conte di Foc\u00ec e quello\nd\u2019Armignacca, il quale solea essere assai di minore possa che quello di\nFoc\u00ec, molto era cresciuto in tanto ch\u2019avanzava assai quello di Foc\u00ec; e\nla cagione di ci\u00f2 era stato, perocch\u00e8 per spazio di cinque anni quello\nd\u2019Armignacca avea tenuto il vicariato del paese per lo Delfino, onde\navea tratto grande tesoro; e per questo vizio d\u2019invidia, il quale nelle\ncorti de\u2019 signori signoreggia, il conte di Foc\u00ec, veggendo il reame\nin tanto pericolo, con segreto favore del re d\u2019Inghilterra, secondo\nche per fama si disse, raun\u00f2 gente d\u2019arme a cavallo e cavalc\u00f2 per lo\npaese, ed entrando nelle ville e nelle castella come barone fidato alla\ncorona, e con questo modo mand\u00f2 fino a Tolosa, dicea che volea altri\ncinque anni la vicheria del paese come avea avuto quello d\u2019Armignacca,\nche domandando colta per guardare il paese, non senza tema di\nribellione e per molto arbitrio s\u2019appropri\u00f2 senza l\u2019assentimento dei\nDelfino; i paesani si portavano saviamente per non dare loro in parte\na\u2019 loro avversari, onde s\u2019acquet\u00f2 la nuova e paurosa fortuna, non che\nguerra non rimanesse tra\u2019 due conti.\nCAP. LXIX.\n_Quello feciono gli osti del re d\u2019Inghilterra in Francia._\nUn\u2019altra parte dell\u2019oste del re d\u2019Inghilterra, essendo il verno nel\nsuo pi\u00f9 grave tempo e ridotto alle piove, sotto la condotta del duca\ndi Guales, ch\u2019era il primogenito del re d\u2019Inghilterra, e del duca di\nLancastro, che al detto re era cugino, si mise a passare in Brettagna\nper luoghi stretti e guazzosi, e per li freddi spiacevoli e rei; a\nquel tempo alla gloria degl\u2019Inghilesi non era malagevole nulla, i\nquali faceano a loro senno e a loro voglia del reame di Francia quale\naveano in piega, e cos\u00ec stimavano fare di Borgogna, dove solea essere\nil pregio e l\u2019onore di gente d\u2019arme, e cos\u00ec ferono, perocch\u00e8 passarono\nper luoghi stretti e malagevoli senza contasto; e giunti nel paese,\nlo trovarono pieno di molto bene, onde molto s\u2019adagiarono al vernare.\nIl duca di Borgogna era un giovinetto, ed egli e\u2019 suoi baroni erano\nmalcontenti del re di Francia, perch\u00e8 avea la duchessa madre del\ndetto duca tolta per moglie, e per la sua dote assai avea preso tutte\ngiurisdizioni del paese; la quale cosa fu cagione di non prendere\nquella franca difesa contro agl\u2019Inghilesi che si potea pigliare.\nGl\u2019Inghilesi per questo rispetto temperatamente si portarono co\u2019\npaesani, non prendendo pi\u00f9 che a loro fosse mestiero; e perch\u00e8 il paese\nera dovizioso, e i passi nella forza degl\u2019Inghilesi, poco appresso\ndel mese di marzo seguente, il re lasciate fornite in Normandia e in\nPittieri e in Berr\u00ec certe castella afforzate che aveano acquistate,\ncavalcando liberamente il paese, col rimanente di sua oste se n\u2019and\u00f2\na Celona in Borgogna, e di l\u00e0 mand\u00f2 al papa suoi messaggi domandando\nsuo ricetto a Avignone; della qual cosa il papa e\u2019 cardinali, e\ntutta la corte ne fu in gelosia e in paura. Il papa gli mand\u00f2 per la\ndetta cagione due vescovi, li quali il pregarono e comandarono che\nnon volesse per sua venuta turbare la Chiesa di Roma, e il re di ci\u00f2\nl\u2019ubbid\u00ec; nondimeno con ogni studio facea il papa afforzare la citt\u00e0\nd\u2019Avignone.\nCAP. LXX.\n_Come pi\u00f9 castella si rubellarono a\u2019 Tarlati._\nCome per esperienza vedemo, e gli uomini e gli animali senza ragione\nper natura sono vaghi di libert\u00e0, e l\u2019appetiscono come loro proprio\nbene; gli uccelletti in gabbia vezzosamente nudriti si rallegrano\nvedendo le selve, e se possono fuggire de\u2019 luoghi dove sono incarcerati\nritornano a\u2019 boschi; gli uomini che sono stati in lungo servaggio\navvezzi al giogo della tirannia, se sono continovi, e veggiono il\ntempo di ricoverare loro libert\u00e0, con tutti i sentimenti del corpo si\nstudiano a ci\u00f2 pervenire. E di ci\u00f2 in questi d\u00ec ne vedemmo la prova\nne\u2019 suggetti de\u2019 Tarlati, perocch\u00e8 a d\u00ec 13 di febbraio 1359 la Serra\nsi diede al comune di Firenze; la quale fortezza il nome concordia\nal fatto, perocch\u00e8 serra il passo della montagna che \u00e8 dal comune di\nBibbiena in Romagna: e il detto d\u00ec Montecchio s\u2019arrend\u00e8 agli Aretini.\nQuelli della valle di Chiusi avendo mandato per gente al podest\u00e0 di\nBibbiena, e non potendola avere, se prima non ne facesse coscienza al\ncomune di Firenze, e a loro troppo tardava, l\u2019ebbono dagli Aretini, e\nrubellaronsi da\u2019 Tarlati. Guido fratello di Marco si tenne alla rocca,\nch\u2019era fortissima, e da non potersi mai vincere per forza, onde per gli\nAretini fu cinta d\u2019assedio in forma che poco potea sperare in soccorso\ndi fuori. E per questa simigliante fortuna aveano considerato che i\ntiranni murano a secco, che bene che loro mura per altezza passino\nil cielo, come n\u2019\u00e8 tratta una pietra di sotto di quelle in su che\n\u00e8 carica, l\u2019altre senza niuno ritegno rovinano; il perch\u00e8 se cotali\nche usurpano il dominio avessono buon sentimento, non piglierebbono\nfidanza delle maravigliose fortezze, ma de\u2019 cuori de\u2019 suggetti loro,\ntrattandoli bene.\nCAP. LXXI.\n_Di un trattato di Bologna scoperto._\nNon meno ne\u2019 trattati che nella forza dell\u2019arme si riposa e rivolge\nl\u2019intenzione de\u2019 tiranni; non meno acquistano con tradimento, e con\ncorrompitori di baratteria che colle battaglie. E considerato le\ngrandi, e le lunghe, e disordinate spese delle guerre, per meno spesa\nsono larghissimi ne\u2019 trattati. Questa regola si scoperse in questi di\nne\u2019 caporali di messer Bernab\u00f2, i quali teneano trattati con certi\nsoldati ch\u2019erano in Bologna, i quali promisono, che approssimandosi\nl\u2019oste a Bologna darebbono una porta. Per la detta cagione all\u2019uscita\ndi gennaio del detto anno il campo si mosse, e approssimossi alla\nterra; ma scoperto il trattato, e presi i traditori, e fattone degna\ngiustizia, l\u2019oste si ritrasse indietro, perch\u00e8 stando dov\u2019erano venuti\nstavano in disagio \u00e8 in pericolo, e tornaronsi a casa al luogo dov\u2019era\nla loro bastita maggiore.\nCAP. LXXII.\n_Come le sette di Cicilia si divoravano insieme._\nLa parte del re Luigi in Cicilia, s\u00ec de\u2019 Messinesi, come de\u2019\nPalermitani, in questo tempo era dal giovane duca di Cicilia e da\u2019 suoi\nCatalani sopra modo tribolata e astretta, che \u2019l re Luigi altro che con\nparole non aiutava i suoi partigiani, il quale era cresciuto al duca\nil seguito suo, e di continovo cavalcavano sulle porte di Palermo e di\nMessina, e loro tenute e fortezze e con assedio e trattati toglieano;\nonde non potendo resistere alle continove e gravi oppressioni, da\ncapo con grande istanza richiesono il re d\u2019aiuto, significando loro\nstato e bisogno. Il re mand\u00f2 a\u2019 Fiorentini per trecento cavalieri che\ngli erano stati per tre mesi promessi. Il comune per fare pi\u00f9 presto\nil servigio li mand\u00f2 settemila fiorini d\u2019oro, avendo sopra questo\nrisposto, che avendo altra volta mandata gente, era stata soprattenuta\ni detti danari, perch\u00e8 tanto montava il soldo di trecento cavalieri per\ntre mesi, acciocch\u00e8 \u2019l re li conducesse a suo modo, e quando n\u2019avesse\nbisogno. I danari presono luogo in altri servigi, e il soccorso de\u2019\nCiciliani per quella volta furono lettere confortatorie, dando loro\nsperanza per animarli alla sofferenza, aspettando se si cambiasse\nfortuna. Il di che di questo seguette, che i Catalani presono maggiore\ncuore, e condussono gli amici del re a grande stretta, e con grandi\npericoli e partiti, come si potr\u00e0 al suo tempo provare.\nCAP. LXXIII.\n_Come la Chiesa deliber\u00f2 l\u2019impresa di Bologna._\nEgli \u00e8 vero, che come gi\u00e0 detto avemo, messer Giovanni da Oleggio\nnon veggendo sufficiente sua possa a resistere a messer Bernab\u00f2, n\u00e8\nsperanza di soccorso bastevole, cercato e ricercato avea se con lui\npotesse avere convegna o pace fidata, e non di manco, come sagace\ne astuto, cercava col legato di rendere Bologna alla Chiesa con suo\nvantaggio e profitto. Il legato, ch\u2019era d\u2019animo grande, e desideroso di\ntorre quell\u2019impresa per crescere suo onore e nome, non si attentava,\nperch\u00e8 non si vedea sufficiente a sostenere tanto fatto, e cominciare\nnon volea senza l\u2019assento del papa e de\u2019 cardinali, per non avere\nriprensione n\u00e8 vergogna. E avendo per questa cagione e con lettere e\nambasciadori sollicitato il papa, mostrandogli quelle buone ragioni\nch\u2019erano a sua intenzione conformi, del mese di febbraio del detto\nanno, ebbe per diliberazione del santo padre e de\u2019 suoi cardinali, che\nnel nome di Dio facesse l\u2019impresa, tutto che in questo tempo messer\nBernab\u00f2 con grande spend\u00eco cercasse con danari con suoi protettori in\ncorte che ci \u00f2 non si facesse; e tanta fu la forza de\u2019 danari e de\u2019\ndoni, che ora s\u00ec ora no si dicea, con poco onore della Chiesa di Roma.\nN\u00e8 a questo contento il tiranno, sua oste cresceva premendo d\u2019imposte e\ndi colte tutti i cherici ch\u2019erano di terre a lui sottoposte; e credendo\ncon parole altiere spaventare il legato ch\u2019era uomo senza paura, forte\nlo minacciava. E cos\u00ec la citt\u00e0 di Bologna era di fuori tribolata,\ne dentro stava in gelosia, e prima non sapendo a cui fosse venduta,\ne sapendo che di lei si facea tenere mercato, e non osava parlare;\nqueste miserie si giugneano in loro gravi danni e le fatiche corporali.\nQueste pene, se da\u2019 cittadini erano pazientemente portate, meritavano\nsollevamento, ma non era ancora il tempo che Iddio avea diliberato per\nfine delle fatiche loro.\nCAP. LXXIV.\n_Come messer Giovanni da Oleggio ferm\u00f2 suo accordo con il legato di\nBologna._\nIl legato poich\u2019ebbe a suo proponimento l\u2019assento di corte di Roma,\nd\u2019onde a tempo sperava favore, ritenendo singulare amicizia con messer\nGiovanni da Oleggio, e gareggiandolo molto per avere da lui quello\nche cercava, riprese con lui ragionamento e trattato con animo di\ncontentarlo, purch\u00e8 Bologna venisse alle sue mani, e perch\u00e8 non dava\ndel suo era largo per promesse. La cosa era venuta in termine, che\npoco dibattito di lievi cose fra loro aveano. Messer Giovanni stava\nsospeso, perch\u00e8 non li parea ben fare rimanendo nemico di messer\nBernab\u00f2 e della casa de\u2019 Visconti, della quale era per gesta. E stando\nin questo intra due, sentendo messer Bernab\u00f2 che la convegna era per\nprendere tosto conclusione, e temendo forte che ci\u00f2 non venisse fatto,\nmand\u00f2 a messer Giovanni certi de\u2019 Bonzoni da Crema, che gli erano\ncognati, e a loro commise che con ogn\u2019istanza cercassono che Bologna\nnon tornasse nelle mani della Chiesa, e che offerissono al loro cognato\nogni patto e sicurt\u00e0 ch\u2019e\u2019 volesse. Costoro col detto mandato di\npresente furono a Bologna, e trovarono come la concordia era in alto\nda potersi e doversi fornire con messer Giovanni; onde si strinsono\ncon lui, e dissonli quanto aveano da loro signore, e lo confortarono\ncon belle e indottive ragioni ch\u2019e\u2019 non volesse rimanere nimico del\nsignore suo e in contumacia de\u2019 suoi consorti, e di tanta possanza e\ngrandezza, che potea con suo onore e vantaggio rimanere in buona pace\ncon loro. Messer Giovanni rispose, ch\u2019e\u2019 volea fare certo e sicuro\nmesser Bernab\u00f2 che dopo sua morte Bologna gli verrebbe alle mani,\nmentre ch\u2019e\u2019 vivea la volea tenere per lui, e titolarsene suo vicario,\ne che volea fidanza che ci\u00f2 li fosse osservato; e dove a questo messer\nBernab\u00f2 venisse realmente e facesse, disse d\u2019abbandonare ogni altro\ntrattato, affermando che sopra tutte le cose desiderava d\u2019essere in\ngrazia de\u2019 suoi maggiori, e a loro ubbidiente e fedele. I cognati\nvollono la fede da lui, ed egli la diede loro, dicendo, ch\u2019e\u2019 non potea\nguari aspettare, e che la risposta prestamente volea; e con questo\nvoltarsi indietro, e tornarsi a messer Bernab\u00f2, il quale avea sentito\nche l\u2019accordo era fatto, e che il prendere stava a messer Giovanni;\ndi che avendo da costoro chiara certezza in consiglio disse, ch\u2019era\ncontento di fare quanto messer Giovanni avea domandato, e che cos\u00ec per\nsua parte fermassono con lui. I giovani poco sperti e poco accorti,\nnon considerando il pondo del fatto, e quanto il caso portava o potea\nportare, rendendo la cosa per fatta, con matta baldanza, quasi se non\ndovesse n\u00e8 potesse fallare n\u00e8 uscire di loro mani, lieti e allegri,\nperch\u00e8 pareva loro fare gran fatti, presono alquanto soggiorno,\naspettando il tempo carissimo e pericoloso in vani diletti, nelle quali\ncose spesono tre giorni oltre all\u2019aspetto che messer Giovanni attendea;\nil perch\u00e8 ne segu\u00ec, che essendo in prima messer Giovanni in sospetto\ndella fede di messer Bernab\u00f2, il sospetto gli crebbe, e la tema di non\nessere tenuto a parole a mal fine, e senza pi\u00f9 attendere prese partito,\ne ferm\u00f2 l\u2019accordo col legato, come nel seguente capitolo diviseremo.\nFornito il fatto, i giovani che gli erano cognati li vennono il giorno\nseguente, e trovarono la pietra posta in calcina, sicch\u00e8 il pieno\nmandato ch\u2019aveano da messer Bernab\u00f2 torn\u00f2 in fumo. Per questo fallo\nseguette, che i giovani a furore e tutte le loro famiglie furono\ndisperse, e i loro beni guasti e incorporati alla camera del signore\ncome di suoi traditori, e ne rimasono in bando delle persone.\nCAP. LXXV.\n_Patti da messer Giovanni da Oleggio alla Chiesa, e la tenuta di\nBologna._\nPer lo sospetto cresciuto a messer Giovanni di messer Bernab\u00f2, come\npoco avanti dicemmo, prese l\u2019accordo, e concedette alla Chiesa Bologna\ncon queste convegne: che il legato pagasse interamente i provvisionati\ne\u2019 soldati di ci\u00f2 che dovessono avere infino al d\u00ec ch\u2019e\u2019 rassegnasse\nBologna, e che in cambio di Bologna avesse a sua vita liberamente\nla signoria della citt\u00e0 di Fermo, e di suo contado e distretto, e\nche fosse titolato per lo detto marchese della Marca, e in sustanza\nsuccedette l\u2019accordo: e per sicurt\u00e0 di fermezza dell\u2019una parte e\ndell\u2019altra, il signore di Bologna mise nella citt\u00e0 di Fermo messer\nAzzo degli Alidogi da Imola con gente d\u2019arme come amico comune, e al\ncapitano della gente che il legato avea messo in Bologna, ricevente\nper lo legato e per la Chiesa di Roma, in presenza del popolo diede la\nbacchetta della signoria, onde il popolo ne fece gran festa, perch\u00e8 ci\u00f2\ndesiderava e temeva di peggio, gridandosi per tutta la terra: Viva la\nsanta Chiesa. Nondimeno il signore com\u2019era ordinato nei patti, nelle\nsue mani fece giurare tutta gente d\u2019arme da pi\u00e8 e da cavallo infino che\nli fosse attenuta l\u2019impromessa; e cos\u00ec stette la citt\u00e0 sotto titolo\ne forza di messer Giovanni, come della Chiesa di Roma, da mezzo il\nmese di marzo al primo d\u00ec d\u2019aprile 1360. E in questo mezzo il legato\nintendea a fare pagare i soldati, e\u2019 cittadini avendo presa baldanza, e\nin fatti e in parole villaneggiavano messer Giovanni e la famiglia sua,\nricordandosi dell\u2019ingiurie ch\u2019aveano ricevute da loro; e per questo\navvenne, che un d\u00ec messer Giovanni mand\u00f2 per prendere di sua gente\nuno de\u2019 Bentivogli, il quale essendo bene accompagnato si contese, e\nnon se ne lasci\u00f2 menare, gridando, all\u2019arme all\u2019arme; onde la terra\nsi lev\u00f2 tutta a romore, infiammata contro al vecchio tiranno: il quale\nper tema si ricolse in cittadella, e tutta la notte stette armato con\nla sua gente e della Chiesa sotto buona guardia. Il d\u00ec seguente giunse\nmesser Gomise in Bologna nipote del cardinale, il quale era marchese\ndella Marca, e racchet\u00f2 il romore del popolo, e prese la guardia delle\nporti e della citt\u00e0, e accomandatola a\u2019 cittadini, corse la terra\ncol popolo insieme con grande allegrezza, e aperse a\u2019 prigioni. Il\nperch\u00e8 i cittadini si certificarono che la signoria non potea tornare\nnelle mani del tiranno, nonostante che ancora fosse in sua podest\u00e0\nla cittadella, e il giuramento de\u2019 soldati in sua mano. E stando le\ncose in tale maniera, messer Giovanni fu certificato dalla moglie\ncome liberamente avea in sua podest\u00e0 il Girfalco e l\u2019altre fortezze di\nFermo, e come presa era per lui la signoria della terra; onde avendo\nci\u00f2, secondo i patti li convenia partire di Bologna, ma forte temea\nl\u2019ira del popolo che non l\u2019offendesse in sulla partita, e per tanto si\nstava in cittadella, e come, savio e avveduto ordin\u00f2 ora una boce ora\nun\u2019altra, tenendo suo consiglio segreto nel petto; e per meglio coprire\nl\u2019animo suo pubblicamente facea cercare con gli Ubaldini che li dessono\nsicura la via, e a\u2019 Fiorentini domand\u00f2 il passo per loro terreno; i\nBolognesi stavano a orecchi levati, e non faceano motto, aspettando di\npredarlo, e di fare strazio di lui gran voglia n\u2019aveano. Il savio con\nmaestria tranquillando i Bolognesi colse tempo, il marted\u00ec santo, a d\u00ec\n31 di marzo nella mezza notte, dormendo i cittadini, chetamente e senza\nfare zitto con mille barbute, tra di suoi provvisionati e soldati di\nquelli della Chiesa, senza averne il d\u00ec fatta mostra usc\u00ec di Bologna,\ne andossene a Imola senza impedimento nessuno, e di l\u00e0 si part\u00ec, e\nandonne a Cesena a visitare il legato.\nCAP. LXXVI.\n_Come la citt\u00e0 di Bologna fu libera dal tiranno in mano del legato e\ndella Chiesa essendo assediata._\nIl primo d\u00ec d\u2019aprile, gli anni domini 1360, Bologna rimase libera\ndalla dura tirannia di messer Giovanni da Oleggio della casa de\u2019\nVisconti di Milano, il quale a d\u00ec 20 d\u2019aprile 1355 l\u2019avea rubata a\u2019\nsuoi consorti per cui la tenea, come addietro facemmo menzione, e\nnello spazio di questi cinque anni avea decapitati oltre a cinquanta\nde\u2019 maggiori e de\u2019 migliori cittadini della terra, con trovando loro\ndiverse cagioni, e dell\u2019altro popolo n\u2019avea morti e cacciati tanti, che\npochi n\u2019avea lasciati che avessono polso o forma d\u2019uomo, e con averli\nmunti e premuti infino alle sangui; e avendo fatte tante crudeltadi,\ne tante storsioni e ruberie, come volpe vecchia seppe s\u00ec fare, che\ncon grandissimo mobile di moneta e gioielli liberamente se n\u2019and\u00f2, e\nridussesi in Fermo; e levato s\u2019era del giuoco, e ridotto in luogo di\npace e di riposo, lasciando i Bolognesi e il legato nella guerra; e per\ncerto, s\u2019egli era tenuto savio, questa volta lo dimostr\u00f2.\nCAP. LXXVII.\n_Come la Chiesa riform\u00f2 Bologna._\nMesser Gomise da Albonatio Spagnuolo nipote del legato, il quale\nera stato marchese della Marca, e Niccola da Farnese capitano della\ngente del legato rimasi nella libera signoria di Bologna, e fatta\ngrande allegrezza e festa co\u2019 cittadini della partita di messer\nGiovanni da Oleggio, e mostrando di loro grande confidanza, ma per\naccattare loro benivolenza e favore, si cominciarono a ordinare alla\nguardia, e alleggiarono il popolo di molte gravezze, e massimamente\ndelle soperchie, nelle quali li tenea il tiranno; e il popolo con\nloro coscienza prese consiglio co\u2019 pi\u00f9 cari e sentiti cittadini, ed\nelessono di comune concordia d\u2019ogni stato e condizione, mescolando i\ngentili uomini e\u2019 popolari, e\u2019 dottori e artefici eziandio dell\u2019arti\nminute, pure che ognuno fosse contento, certo numero di cittadini che\nintendessono con gli uficiali della Chiesa alla guardia e alla difesa\ndella citt\u00e0; e ci\u00f2 fatto, il capitano della gente della Chiesa mand\u00f2\ncomandando alla gente di messer Bernab\u00f2 che si dovesse partire del\nterreno della Chiesa, significando loro come Bologna era tornata alle\nmani della Chiesa di Roma, com\u2019essere dovea per ragione; la risposta\nfu questa, che innanzi si partissono voleano vedere per cui, e che\ns\u2019e\u2019 volessono se ne partissono glie n\u2019andassono a cacciare. E preso\nsdegno del baldanzoso comandamento, ed essendo loro di nuovo giunto\nmille barbute, cavalcarono infino presso a Faenza, levando gran preda\ndi bestiame e di gente, la quale condussono al luogo senza impedimento\nniuno; e com\u2019aveano cominciato seguirono, facendo gran danno e\nspaventamento de\u2019 paesani, e rompendo le strade, minacciando di peggio\ni Bolognesi e\u2019 Romagnuoli; per le quali cose la letizia mostravano per\nparere loro essere fuori delle mani del tiranno, e posto gi\u00f9 il caldo\nvoglioso si cominci\u00f2 a raffreddare, e convertissi in paura di peggio, e\nci\u00f2 venne loro, come si potr\u00e0 leggendo innanzi trovare.\nCAP. LXXVIII.\n_Di una congiura si scoperse in Pisa._\nGli artefici della citt\u00e0 di Pisa, e massimamente quelli dell\u2019arte\nminuta, vedendo loro mancare i guadagni per la partita de\u2019 Fiorentini\ni quali il loro porto teneano in divieto, se ne doleano, e mormoravano\ne parlavano male; e perseverando nelle querele, una quantit\u00e0 di loro\nsi giurarono insieme molto occultamente, e presono ordine tra loro, il\nquale il venerd\u00ec santo a d\u00ec 3 d\u2019aprile doveano uccidere gran parte de\u2019\nloro maggiorenti ch\u2019erano al governo della citt\u00e0, dove e come trovar\ngli potessono insieme, o divisi; e ci\u00f2 fatto, doveano mandare per li\nGambacorti, che allora si riduceano a Firenze, e con loro riformare\nla terra, e pacificare co\u2019 Fiorentini per riavere il porto. Infra\u2019\ncongiurati erano religiosi alquanti, e preti e altri cherici assai,\nintra\u2019 quali fu un prete il quale fu veduto parlare con certi de\u2019\nsecolari della congiura assai sconciamente, e per disusata maniera,\no che parola di suo ragionamento fosse intesa, o che per lo modo del\nparlare si facesse sospetto, fu mandato per lui, e stretto, e\u2019 confess\u00f2\ntutto l\u2019ordigno; onde subitamente furono presi quattro preti e sette\nfrati, e nel torno di cento artefici d\u2019arte minute. I governatori della\nterra procedendo nel fatto trovarono ch\u2019erano tanti gli avviluppati in\nquesta congiura che per lo migliore si fermarono, e non si stesono pi\u00f9\noltre, e del numero ch\u2019aveano presi dodici ne furono impiccati, i quali\ntrovarono pi\u00f9 colpevoli e caporali, e gli altri furono condannati a\ncondizione in danari, i quali per ricomperare le persone tosto furono\npagati. Questa novit\u00e0 molto conturb\u00f2 e impover\u00ec la citt\u00e0 con guasto\ndello stato della setta che allora reggea, la quale ne rimase in grande\ngelosia, e il popolo minuto malcontento e peggio disposto.\nCAP. LXXIX.\n_Di un trattato menato in Forl\u00ec contro alla Chiesa._\nMesser Bernab\u00f2 per l\u2019impresa ch\u2019avea fatto il legato della citt\u00e0\ndi Bologna era molto stizzito o infocato, e come signore animoso e\nvendicativo non posava, e senza riguardo di spesa del continovo suo\noste cresceva, e sollecitava i suoi capitani a fare buona guerra a\u2019\nBolognesi, e dovunque potessono ne\u2019 terreni della Chiesa. Occorse in\nquesti giorni, che la gente ch\u2019era alla guardia di Forl\u00ec gran parte\nn\u2019erano ad accompagnare infino a Fermo messer Giovanni da Oleggio;\nquesto caso diede materia a un messer Stefano giudice, e a un nipote\ndi messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano di Forl\u00ec,\nnato d\u2019una sua figliuola bastarda, di cercare trattato in Forl\u00ec; questi\ndue matti baldanzosi, piuttosto per presuntuoso animo che per savio\nconsiglio, tenuto trattato col capitano della gente di messer Bernab\u00f2,\nvedendo la terra sfornita di gente di soldo, sotto ombra di cavalcata\ngran parte della migliore gente da cavallo e da pi\u00e8 dell\u2019oste del\ntiranno feciono appressare a Forl\u00ec, in luogo che per sua vicinanza\nnon gittasse tanto sospetto che al popolo fosse necessit\u00e0 prendere\nl\u2019arme, e d\u2019onde partendosi la notte potessono entrare nella terra;\ne tanto aveano predetta la cosa, che avendo i detti di sopra con\nalquanti loro amici rotte in due parti le mura della citt\u00e0, ed essendo\ncondotti millenovecento barbute e fanti assai al tempo che loro era\ndato alle dette rotture, poco accorti i traditori abbagliati della\nvoglia disordinata, tra gli steccati e le mura che fatti aveano ne\ncondussono tra gli ortali dentro e a pi\u00e8 delle mura oltre a trecento\ncavalieri e dugento pedoni, anzi che dentro se ne sentisse niente, e\nnon presono avviso che i detti ortali erano tutti affossati, e senza\nvie spedite che mettessono nelle strade mastre, il perch\u00e8 ne segu\u00ec,\nche nel ravvilupparsi disordinatamente e poco chetamente in quel\nluogo, furono sentiti e scoperti; onde il popolo si lev\u00f2 a romore, e\nfrancamente corsono ove si sentivano i nemici, e gli assalirono col\nvantaggio del sito dov\u2019erano, e non potendosi stendere n\u00e8 campeggiare,\ne inviliti, tutto che facessono per loro onore mostra d\u2019arme, in fine\nfurono cacciati di fuori, ed essendone assai magagnati e fediti: e\nmentre ch\u2019era attizzata la zuffa, poco anzi il fare del giorno la gente\nch\u2019avea accompagnato messer Giovanni da Oleggio torn\u00f2, onde quelli di\nfuori perduta la speranza si ritrassono indietro, e\u2019 traditori furono\npresi e condannati alle forche. Parendo al capitano di messer Bernab\u00f2\navere avuto dell\u2019impresa vergogna, quasi come se la preda gli fosse\nuscita di mano, la seguente mattina con duemila barbute tent\u00f2 di fare\nin aperto quello che non avea potuto fare in occulto, e venuto infino\nalle mura della citt\u00e0, la trov\u00f2 s\u00ec bene ordinata e guernita a difesa,\nche intendimento che dato gli fosse dentro riput\u00f2 a niente; onde di\u00e8\nla volta, e trovando il paese male fornito di roba da vivere, lasci\u00f2 a\nLuco quattrocento cavalieri, e tornossi nell\u2019oste a Bologna.\nCAP. LXXX.\n_Come fu combattuta Cento dall\u2019oste del tiranno._\nAvendo i capitani di messer Bernab\u00f2 perduta la speranza della citt\u00e0 di\nForl\u00ec, come di sopra dicemmo, la sollecitudine loro rivolsono altrove,\ne lasciando fornite le bastite d\u2019intorno a Bologna, cavalcarono a\nCento grossa terra de\u2019 Bolognesi, posta in quella parte che guata\nFerrara, e l\u00e0 si fermarono quasi in forma d\u2019assedio, stimando che se\npotessono o per paura o per forza vincere la terra, per la bont\u00e0 del\nsito attissimo loro per sicurare le strade verso Ferrara, e per fare al\ncampo e alle bestie dovizia per la grande quantit\u00e0 di biada che dentro\nv\u2019era raccolta, d\u2019essere vincitori della guerra; e per tanto con molto\nordine e apparecchio per pi\u00f9 e pi\u00f9 riprese in diversi giorni assalirono\nla terra con fiere battaglie di lunga bastanza, nelle quali e dall\u2019una\nparte e dall\u2019altra assai di buona gente vi fu morta e fedita, ma pi\u00f9\nassai di quelli di fuori; in fine trovando i capitani che la terra era\nbene guernita a difesa, e vedendo che il loro stallo poco approdava,\ncon avere senza acquisto fatte prodezze si levarono quindi, e andarono\na Budrio, dove trovarono pi\u00f9 larghezza di vittuaglia, ove s\u2019arrestarono\nper lunghezza di tempo.\nCAP. LXXXI.\n_Come gli Ubaldini si mostrarono tra loro divisi._\nIn questi tempi, maliziosamente per sagace consiglio la casa degli\nUbaldini si divise, e quelli di Tano da Castello col seguito loro\ns\u2019accostarono a messer Bernab\u00f2, e quelli di Maghinardo e d\u2019Albizzo\nda Gagliano con loro amici tennono col legato in palese, tutto che\nin segreto, come ghibellini e antichi nemici della Chiesa di Roma,\ns\u2019intendessono, e che con l\u2019animo fossono quello ch\u2019e\u2019 consorti loro;\nlitigavano per dare materia di rottura alle strade dell\u2019alpe, sicch\u00e8\nper quelle vie niuno osasse andare a Bologna. Per questa divisa, o\nvera o infinta che fosse, l\u2019una parte guerreggiava l\u2019altra, e insieme\nsi danneggiavano assai; per modo che l\u2019alpe era tutta rotta, e i passi\ne le strade serrate in forma, che roba n\u00e8 persona per que\u2019 luoghi\nnon poteva ire a Bologna senza gravi pericoli; il perch\u00e8 grave danno\ne disagio ne tornava a\u2019 Bolognesi assediati, che per quelli luoghi\nsoleano andare e foraggio e aiuto. E parne che sia da notare in questa\nguerra lunga e pertinace, la maggiore parte di quello che bisognava per\nvita dell\u2019oste sparta, e grande opera quasi venia per Lombardia per lo\npasso del Po, il quale il marchese da Ferrara compare di messer Bernab\u00f2\ngli avea conceduto, pagando la roba il dazio usato, di che gran danaio\nne fece il marchese: e secondo ch\u2019avemmo da persona degna di fede, che\ndi ci\u00f2 ebbe degna notizia, tra soldo e vittuaglia e altri fornimenti\nl\u2019oste costava al tiranno ogni mese oltre a\u2019 fiorini settantamila\nd\u2019oro, e tanto era la sua entrata che niente parea che ne curasse: \u00e8\nvero che grande tesoro trasse da\u2019 cherici delle terre che gli erano\nsuggetti, i quali con molti dispetti disordinatamente gravava.\nCAP. LXXXII.\n_Di portamenti degl\u2019Inghilesi in Borgogna._\nPer sperienza vedemo, che lo stomaco pure d\u2019una vivanda prende\nfastidio, e delle variazioni d\u2019esse ricreazione e piacere, e cos\u00ec gli\norecchi d\u2019uno suono continovo rincrescimento, e della mutazione di\nmolti vaghezza. Da questa mostrazione naturale preso esempio, lasceremo\nstare alquanto i fatti d\u2019Italia, le cui volture e travaglie continove\nsenza in tramessa delle forestiere possono ingenerare tedio, e\npasseremo a quelle de\u2019 Franceschi e degl\u2019Inghilesi che in questi giorni\napparirono. Essendo, come nel passato dicemmo, il re d\u2019Inghilterra,\ne\u2019 figliuoli e il duca di Lancastro in Borgogna, senza arrestare con\nattizzamento di guerra il paese i Borgognoni, che allora in occulto\nerano poco amici della casa di Francia, s\u2019accordarono con loro, dando\nloro derrata per danaio abbondevolmente di ci\u00f2 che loro fosse mestiero;\ne stando in tale maniera si cercava come il re per l\u2019avvenire dovesse\nrimanere col duca, il perch\u00e8 gl\u2019Inghilesi li riguardavano forte, senza\nfare ingiuria o danno niuno; e ci\u00f2 avvedutamente, perch\u00e8 sapeano lo\nsdegno nato tra\u2019 Borgognoni e\u2019 Franceschi, estimando d\u2019attrarli a\nloro con piacevolezza e amore. Il duca era giovane e di grande animo,\ne di possanza il maggiore barone del reame di Francia, e de\u2019 dodici\nperi, a cui stava la coronazione del reame di Francia, alla quale con\ntutti i sentimenti si dirizzava l\u2019intenzione del re d\u2019Inghilterra, la\nquale era freno che non lasciava trasandare gl\u2019Inghilesi. Nondimeno\ni paesani delle castella, e s\u00ec delle ville, per essere pi\u00f9 sicuri\ndonavano al re argento secondo loro possibilit\u00e0, e di buona voglia\nli prendea, e gli fidanzava. E per simile modo avea fatto negli altri\npaesi di Francia; prendea da cui gli s\u2019era raccomandato ci\u00f2 che dare\ngli voleano senza bargagnare, e avevali fatti sicuri di preda e di\nguasto; onde per questa via avea accolta tanta moneta, che di largo\nforniva i soldi ch\u2019avea a pagare, e tutte altre spese occorrenti senza\navere a trarre d\u2019Inghilterra danaio. E per questo modo la sperienza fa\nmanifesto quello che in fatto e\u2019 parea quasi impossibile, ed era: e per\ncerto all\u2019acquisto del reame di Francia la fortuna e \u2019l senno furono\ndel tutto dalla parte del re d\u2019Inghilterra e solo gli fu in contrade\nl\u2019odio e lo sdegno de\u2019 Franceschi, i quali non poteano patire d\u2019udire\nricordare gl\u2019Inghilesi, che sempre come vili genti aveano avuto in\ndispetto.\nCAP. LXXXIII.\n_Come i Normandi con loro armata passarono in Inghilterra._\nI Normandi, che pi\u00f9 volte aveano in loro terre dagl\u2019Inghilesi ricevuto\noltraggi e vergogna, vedendo che \u2019l re d\u2019Inghilterra, e\u2019 figliuoli\n\u00e8 \u2019l duca di Lancastro, di cui ridottavano molto, erano occupati\nnell\u2019impresa di Francia, e per ci\u00f2 passati in Borgogna, pensarono che\n\u2019l tempo loro dava spazio di fare loro vendetta. E pertanto di loro\nmovimento raunarono in piccolo tempo centocinque navili, e di loro\ngente gli armarono, e gli feciono passare nell\u2019isola, e si posono a\nSventona e in altri porti, dove arsono legni assai, e feciono quello\ndanno che poterono il maggiore. Per, questo gl\u2019Inghilesi sommossono\ntutti i porti dell\u2019isola, e furiosamente armarono per andare a trovare\ni Normandi, i quali temendo i subiti movimenti e avvisi degl\u2019Inghilesi,\navanti che loro armata fosse fornita si partirono, e tornaronsi a\nsalvamento in Normandia.\nCAP. LXXXIV.\n_Come il duca di Borgogna s\u2019accord\u00f2 con gl\u2019Inghilesi._\nDel mese di maggio 1360, il giovane duca di Borgogna, seguendo il\nconsiglio de\u2019 suoi baroni, prese accordo col re d\u2019Inghilterra in\nquesta forma. Che il re si dovesse partire del paese, e il duca a lui\ndovesse dare in tre anni centoventi migliaia di montoni d\u2019oro, come ne\ntoccasse per anno; e oltre a ci\u00f2, ch\u2019avendo il re d\u2019Inghilterra a sua\ncoronazione del reame di Francia per boce d\u2019imperio, che la sua sarebbe\nla seconda. Sotto questa concordia assai grande al re d\u2019Inghilterra,\npi\u00f9 per l\u2019onore della promessa e della boce del duca che per altra\ncagione il re d\u2019Inghilterra con tutta sua oste si part\u00ec di Borgogna,\ne dirizz\u00f2 suo viaggio verso Parigi, non trovando, fuori delle terre\nmurate, chi lo contastasse niente, e tutti i paesani e le villate che\nnon si sentivano da poterli fare resistenza gli si feciono incontro,\ne per riscatto di loro dammaggi li portavano danari, ed egli per sua\nbonarit\u00e0, ci\u00f2 che gli era dato prendea, e della sicurt\u00e0 era a tutti\ncortese.\nCAP. LXXXV.\n_Come il re d\u2019Inghilterra assedi\u00f2 Parigi._\nPoich\u00e8 \u2019l re d\u2019Inghilterra vide che la fortuna per la maggiore parte\navea favoreggiati tutti i suoi consigli e ordigni, e che tutte le\ncose, secondo il suo proponimento necessario a fornire anzi prendere\nl\u2019assedio di Parigi gli erano procedute prosperamente, eccetto che\npresure di ville o di fortezze notabili, le quali vedea avere riguardo\na Parigi, e che quando la citt\u00e0 ch\u2019era capo del reame fosse a sua\npodest\u00e0 l\u2019altre agevolmente gli verrebbono alle mani; e pens\u00f2 come\nultimo fine d\u2019ogni sua intenzione certo che la ventura gli concedesse\nParigi; e per tanto come trasse il pi\u00e8 di Borgogna, continovate sue\ngiornate con tutta sua oste se ne venne a Parigi, e giunto e riposato\nalcuno d\u00ec, il sabato santo a d\u00ec 4 d\u2019aprile 1360, la sua oste in tre\nparti divise, l\u2019una a Corboglio, l\u2019altra accomand\u00f2 al duca di Guales,\ne lo f\u00e8 porre in costa dall\u2019altro lato della citt\u00e0, la terza diede al\nconte di Lancastro, il quale si ferm\u00f2 dall\u2019altra banda, sicch\u00e8 quasi\nin terzo a sesta fermarono l\u2019assedio, e che questo fosse il deretano\npensiero manifestarono. Il re di Navarra e il fratello, il quale avea\nformata pace col Delfino, come addietro dicemmo, a questo punto si\nscopersono amici e servidori del re d\u2019Inghilterra, che la pace che\nfatta avea era stata infinta e a mal fine. Questa voltura del re di\nNavarra e del fratello assai diedono che pensare a\u2019 Franceschi. Il\nDelfino avendo alcuno sentore della venuta del re d\u2019Inghilterra e di\nsuo intendimento, con molti baroni del reame e con grande cavalleria\ns\u2019era ridotto in Parigi, e la citt\u00e0 avea d\u2019ogni cosa necessaria alla\nvita per grande tempo abbondevolmente fornita, e con provvedenza e\nsollicitudine attendeano alla guardia della citt\u00e0 e di d\u00ec e di notte,\ne di fuori lasciava fare a\u2019 nemici il loro volere, non lasciando\nuscire n\u00e8 forestieri n\u00e8 cittadini a fare d\u2019arme, e tutto ci\u00f2 per buono\ne savio consiglio: n\u00e8 tanto poteano gl\u2019Inghilesi con sollecitudine e\nscorrimenti strignere la citt\u00e0, che gente con vittuaglia non v\u2019entrasse\ne uscisse, tutto che con pericolo assai. Il paese fuori di Parigi,\neccetto citt\u00e0 e terre di guardia, ubbidiano gl\u2019Inghilesi e loro davano\nvittuaglia e danari, come addietro dicemmo, sicch\u00e8 l\u2019oste ne stava\ndoviziosa e ad agio, e senza fatica d\u2019avere a predare per vivere, e\nsenza riotta aveano la vita e i soldi loro, e i beni de\u2019 Franceschi.\nOr qui mi piace d\u2019un poco gridare: O superbi e altieri cristiani,\ndirizzate gli occhi del cuore, volgete un poco questi pensieri a\nconsiderare gli straboccamenti della potenza mondana, e vedrete la\nvilt\u00e0 e la miseria essere al fine delle pompe e miserie de\u2019 mortali;\nponetevi avanti gli occhi la nobile e famosa citt\u00e0 di Parigi assediata\ndagli Scirei d\u2019Inghilterra; ponetevi il glorioso sangue della reale\ncasa di Francia in quanto abbassamento era in questi giorni venuto;\nponetevi la magnanimit\u00e0 e il coraggio, la gentilezza e\u2019 costumi\ndella cavalleria de\u2019 Franceschi, a tanto disprezzamento in questi\ntempi ridotta, che abbi lasciato in preda il reame a poca gente, e\nloro dispettosa e di poca nomea, tenendo chiusa nelle terre murate,\ne non ardite con le teste levate, e prendendo fidanza della violente\nfortuna: pi\u00f9 \u00e8 maraviglioso a pensare che gl\u2019Inghilesi abbiano fatto\nin Francia a loro senno, che se Capalle vincesse Firenze. Il fine\ndunque dell\u2019arrogante superbia, come per esperienza sovente si vede,\n\u00e8 cadimento in luogo umile e pieno di miseria: e certo chi con animo\ntemperato vorr\u00e0 giudicare, altro non potr\u00e0 dire, se non che manifesto\ngiudicio di Dio abbi corrotto questo flagello il popolo sdegnoso, e\nanimo rilevato e altiero de\u2019 Franceschi, che tutto l\u2019altro mondo aveano\nper niente. Or dunque posate mortali, e non siate troppo osi, e sievi\nfreno il magnifico reame di Francia, il quale \u00e8 stato tra\u2019 cristiani il\nmaggiore gi\u00e0 molte centinaia d\u2019anni, e quando vi ritrovate nel pi\u00f9 alto\ngrado delle dignit\u00e0 temporali volgete gli occhi alla terra, e vedrete,\nche quanto il luogo \u00e8 pi\u00f9 alto e pi\u00f9 rilevato, tanto \u00e8 la ruina e la\ncaduta maggiore, e forse poserete gli animi vostri alla sorte che v\u2019ha\nconceduta la divina provvidenza, senza pi\u00f9 oltre cercare che vi sia di\nmestiere.\nCAP. LXXXVI.\n_Come il re d\u2019Inghilterra si strinse a Parigi, e combatt\u00e8 Corboglio._\nEssendo l\u2019oste del re d\u2019Inghilterra alquanti d\u00ec soggiornata a\nCorboglio, e divisa, come di sopra dicemmo, in modo da potersi in\npiccolo tempo raccogliere insieme quando fosse bisogno, all\u2019ottava\ndella Pasqua di Resurrezione, il re con gran parte di sua oste si mosse\ne avvicinossi a Parigi con le schiere fatte, e tanto che gli scorridori\nsi misono in sulle porti della citt\u00e0, facendo con parole e con atti\nassai oltraggio a\u2019 Franceschi, ma per\u00f2 di Parigi non usciva persona:\ne ci\u00f2 fu riputato gran senno, perch\u00e8 uscendo, come suole il popolo\nvoglioso e male ordinato, e in fatti d\u2019arme poco uso, il pericolo\nera grandissimo, e il re con i suoi Inghilesi altro non desiderava,\nfacendo sagacemente tutto ci\u00f2 che poteano per attrarli di fuori.\nVeggendo il re dopo lungo stallo, che per aizzamento che fatto fosse\na\u2019 Franceschi n\u00e8 gente usciva della terra n\u00e8 porta s\u2019apriva, fatto\ndanno d\u2019arsione per pi\u00f9 sdegnare i nemici e animare a vendetta, si\ntrasse indietro: il prenze di Guales tornato al re senza frutto di suo\npensiero, per non lasciare niente che secondo il sottile provvedimento\ndel re per ottenere suo proponimento fare si dovesse, esso in persona\ncolla gente fresca ch\u2019era rimasa nel campo con bell\u2019ordine si mise a\ncombattere il castello di Corboglio. La battaglia fu aspra e animosa,\nperocch\u00e8 gli Inghilesi che erano montati nell\u2019onore e pregio dell\u2019arme\nalla disperata senza curare la vita si metteano a ogni pericolo; i\nFranceschi che conosceano che essendo vinti vituperavano il nome loro,\ned erano carne di beccheria, si difendeano francamente ributtando\ni nemici; molti e dall\u2019una parte e dall\u2019altra ne furono morti e\nfediti; in fine gl\u2019Inghilesi non potendo niente approdare si levarono\ndall\u2019impresa. Come il duca avea fatto a Corboglio, cos\u00ec il conte di\nLancastro e poi la persona del re cercarono di pi\u00f9 altre castella e\nfortezze, e nulla poterono ottenere, s\u00ec bene erano in apparecchio a\ndifesa; e queste cose furono gran cagione di recare gl\u2019Inghilesi a\nconcordia, come a suo luogo e tempo diremo.\nCAP. LXXXVII.\n_Conta del reggimento de\u2019 Romani, e d\u2019alcuna giustizia fatta._\nL\u2019antico popolo e reggimento romano a tutto il mondo era specchio di\ncostanza, e incredibile fermezza d\u2019onesto e regolato vivere, e d\u2019ogni\nmorale virt\u00f9, e quello ch\u2019al presente possiede le ruine di quella\nfamosa citt\u00e0 \u00e8 tutto per lo contrario mobile e incostante, e senza\nalcuna ombra di morali virt\u00f9. Loro stato sovente si muove con vogliosa\ne straboccata leggerezza, e cercando libert\u00e0 l\u2019hanno trovata, ma non\nl\u2019hanno saputa ordinare n\u00e8 tenere, com\u2019addietro nell\u2019opera nostra\nsi pu\u00f2 trovare. All\u2019ultimo, dalla forma e costumi de\u2019 reggimenti\nde\u2019 popoli della Toscana che vivono in libert\u00e0, e massimamente de\u2019\nFiorentini cui essi appellano figliuoli, hanno preso il modo, e fatti\nhanno loro cittadini in similitudine di priori e con simigliante bal\u00eda,\ne riduconsi presso al Campidoglio, e per loro consiglio hanno i capi\nde\u2019 Rioni, e a similitudine de\u2019 gonfalonieri delle compagnie di Firenze\nfatti hanno banderesi con grande potest\u00e0 e bal\u00eda, li quali hanno altri\nsotto s\u00e8 a cui danno i pennoni, e ciascuno de\u2019 banderesi ha il seguito\ndi millecinquecento popolari bene armati e in punto a seguirli a ogni\nloro posta; e cos\u00ec sono circa a tremila gli ubbidienti a\u2019 banderesi.\nQuesti hanno a fare l\u2019esecuzione della giustizia di fuori contro i\npossenti e grandi cittadini che male facessono, o fossono inobbedienti\nal reggimento di Roma, o dessono alcuno ricetto ai mali fattori in\nloro fortezze o tenute; e contro a coloro che hanno trovato mal fare\ncominciato hanno cos\u00ec aspra giustizia, che passano i segni per troppa\nrigidezza, il perch\u00e8 n\u00e8 principe n\u00e8 barone \u00e8 nella giurisdizione del\npopolo di Roma che non stia spaventato, e che forte non gli ridotti, e\nche per paura non ubbidisca a\u2019 governatori di Roma e\u2019 loro rettori. E\nin questo anno occorse, che il Bello Gaietani zio del conte di Fondi,\ne Matteo dalla Torre, famosi capi e ritenitori de\u2019 ladroni del paese,\nfurono presi da\u2019 detti banderesi con pi\u00f9 loro seguaci malandrini e\nrubatori di strade, e di fatto e senza alcuno soggiorno tutti furono\nimpiccati, e le loro tenute disfatte e ragguagliate con la terra. Ed\nessendo la Campagna in ribellione de\u2019 Romani, e spilonca di ladroni,\ne questo popolo infiammato a ben fare, ridottola all\u2019ubbidienza de\u2019\nRomani.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come parte degli Ubaldini presono Montebene._\nI figliuoli di Tano da Castello della casa degli Ubaldini seguaci\nde\u2019 signori di Milano, e pertanto ai loro consorti nimici, nel detto\nanno e mese d\u2019aprile, di ci\u00f2 non prendendo guardia que\u2019 della casa\nloro, con numero di fanti a ci\u00f2 bastevoli, una mattina innanzi il fare\ndel giorno presono Montebene, e lo steccarono di steccati e fossi, e\ndentro vi feciono capanne, e lo fornirono di vittuaglia e guernimenti\nda difesa, aspettando secondo l\u2019ordine dato gente d\u2019arme da pi\u00e8 e\nda cavallo da\u2019 signori di Milano per fare da quella parte guerra a\u2019\nBolognesi rompendo le strade. E a d\u00ec 15 d\u2019aprile con dugento Ungheri\ne con trecento barbute, e con loro fedeli cavalcarono infino presso a\nBologna, e levarono gran preda di prigioni e bestiame, e altri danni\nfeciono assai. Poi a d\u00ec 23 del mese i Bolognesi con loro forza, e con\nloro i figliuoli di Maghinardo degli Ubaldini e loro fedeli, essendo\npartita la maggior parte della detta gente de\u2019 signori di Milano, che\nmale poteano nell\u2019Alpe dimorare, cavalcarono alle valli, e quelli vi\ntrovarono della detta gente misono al taglio delle spade, e in quelli\npaesi presono e uccisono e danneggiarono i fedeli dell\u2019Alpe, e con\nquella preda maggiore che fare poteano si ridussono a salvamento: a\nquelli di Montebene non poterono noiare per la fortezza del luogo.\nMontebene per met\u00e0 \u00e8 del comune di Firenze, il perch\u00e8 i Fiorentini\nmandarono ambasciadori agli Ubaldini, e gli ripresono dell\u2019impresa,\nconsiderato che aveano occupato del contado di Firenze; da loro ebbono\ntanta umile e cortese risposta, a non volere far cosa dispiacesse\nal comune, che per non fare nuova impresa per allora loro risposta\nfu accettata, non che l\u2019ingiuria con l\u2019altre non fosse riposta, e\nriserbata a loro maggiore ruina.\nCAP. LXXXIX.\n_Di novit\u00e0 e morte del re di Granata, e loro esilio._\nNel mese d\u2019aprile 1360 essendo Maometto re di Granata senza sospetto di\nsuo stato uscito a cacciare, Raisalem suo barone, uomo di grande animo\ne seguito, postoli aguato lo volle uccidere, ma esso fugg\u00ec. Costui col\nseguito e forza sua coron\u00f2 re un fratello di Maometto di piccola et\u00e0,\ne perseguitava il detto Maometto, il quale per paura fugg\u00ec a Malica,\ne poi a Fessa, e quivi si ridusse al servigio del re di Fessa e a sua\nprovvisione, e ivi dimorando aspettava tempo di ricoverare sua corona.\nGuardando Raisalem il giovane re, volle che facesse morire certi de\u2019\nsuoi baroni, e non volendo il giovane re consentire perch\u00e8 non erano\nin colpa, Raisalem l\u2019uccise, e col suo seguito e forza si f\u00e8 coronare\nre, non essendo della schiatta e casa reale, e da tutti i regnicoli\ndi Granata quasi spontaneamente fu ubbidito, e fecesi chiamare il re\nvermiglio, e con tutta sua forza e consiglio nimicava il re Maometto,\ncui egli avea del regno cacciato, e oltre nimicava il re di Castella.\nCAP. XC.\n_Come il legato richiese d\u2019aiuto il re d\u2019Ungheria alla difesa di\nBologna._\nGi\u00e0 era quasi certa e indubitata speranza a\u2019 pastori della Chiesa di\nDio, e a\u2019 governatori d\u2019essa, s\u00ec di l\u00e0 come di qua da\u2019 monti, della\ndifesa della citt\u00e0 di Bologna, e il legato d\u2019ogni parte in qualunque\nmodo potea cercava aiuto sollecitamente: com\u2019a Firenze avea mandato,\ncos\u00ec all\u2019imperadore e al re d\u2019Ungheria sommovendoli al soccorso\ndell\u2019onore di santa Chiesa intorno a\u2019 fatti di Bologna; per questo lo\nre d\u2019Ungheria richiesto, e non volendo, se prima non sapeva il come\ne perch\u00e8, con pi\u00f9 certo e diliberato consiglio fare l\u2019impresa, come\ngonfaloniere e difensore di santa Chiesa, al cui bisogno dicea non\npotere senza soccorso passare, lettere fece e sua ambasciata mand\u00f2\na\u2019 signori di Milano, loro pregando si partissero dall\u2019offesa di\nsanta Chiesa, e gli ammoniva sotto protesto d\u2019aiuto che si partissono\ndall\u2019impresa. I signori di Milano sentendo che suo movimento era pigro,\ne con lunga tratta di tempo, a\u2019 suoi ambasciadori mostrarono, e a lui\nscrissono con assai apparenti ragioni che loro impresa era giusta e\nragionevole, e che in corte di Roma palesemente se ne disputava, e che\nla ragione per loro parte rispondea, e cos\u00ec la sentenza attendeano; e\nper\u00f2 lo pregavano che contro a loro non prendesse il torto, che giusto\nil podere loro ne prenderebbono difesa, e gli ambasciadori di grande\nriverenza onorarono, e di molti e ricchi doni.\nCAP. XCI.\n_Come in corte si di\u00e8 sentenza contro a quelli di Milano per i fatti di\nBologna._\nDappoich\u00e8 Bologna fu nelle mani del legato di Spagna, nonostante che\ni signori di Milano circondata l\u2019avessono d\u2019assedio, continovo in\ncorte per loro ambasciadori avvocati protettori e procuratori il papa\ne\u2019 cardinali intempellavano, mostrando in grido che la Chiesa loro\nfaceva torto, perocch\u00e8 l\u2019aveano ancora per quattro anni a censo della\nChiesa di Roma, e loro promesso era per bolle papali di consentimento\ndel collegio de\u2019 cardinali, ch\u2019anzi il tempo loro non sarebbe tolta,\ne con l\u2019usato modo di spendere e largamente donare alla disordinata\ncupidigia de\u2019 cherici, assai de\u2019 cardinali prelati e cortigiani aveano\nche in occulto e in palese gli favoreggiavano, il perch\u00e8 la questione\nvenne in giudicio, e convenne che per sentenza si determinasse, la\nquale si credette che per lo grande aiuto e favore che in corte aveano\ni signori di Milano che venisse per loro, ma tanto non si pot\u00e8 n\u00e8 seppe\nargomentare che la sentenza non venisse di ragione per la Chiesa di\nRoma, perocch\u00e8 i signori di Milano per difetto loro n\u2019aveano perduta la\npossessione, e non l\u2019aveano potuta ricoverare, ed essendo la propriet\u00e0\ndi santa Chiesa, giustamente avea potuto racquistare la possessione.\nData la sentenza, il papa con i cardinali in concistoro deliberarono\ndi prenderne per tutte vie la difesa; ma come per antica usanza e de\u2019\nprelati al sussidio della moneta la mano era pigra e remissa, e per\nquesto mandarono e per lettere e per ambasceria a\u2019 signori di Milano\ngravandoli si togliessono dall\u2019impresa, contro a loro cominciando\nprocesso, e all\u2019imperadore, a\u2019 principi d\u2019Alamagna, e al re d\u2019Ungheria,\ne appresso a tutti i signori di Lombardia e a\u2019 comuni di Toscana\nscrissono per sussidio per non toccare il tesoro della Chiesa di Roma,\ne in tre volte a grande stento per questo servigio di camera trassono\ncentoventi migliaia di fiorini, li quali vennono a s\u00ec pochi insieme\ne s\u00ec tardi, che in fatti di guerra poco profitto fare se ne pot\u00e8, pur\nfece speranza d\u2019alcuno leggiere sostentamento.\nCAP. XCII.\n_Come messer Galeazzo Visconti si mand\u00f2 scusando in corte di Roma\ndell\u2019impresa di Bologna._\nSeguendo messer Bernab\u00f2 sollecitamente l\u2019impresa di Bologna nonostante\nla deliberazione fatta in corte, e il processo contro a lui formato,\nlo quale l\u2019avea pi\u00f9 d\u2019ira infiammato e stimolato alla guerra, messer\nGaleazzo, o che \u2019l facesse per cagione del parentado nuovamente fatto\ncol re di Francia, per lo quale dava la figliuola del re al figliuolo,\ne temea che \u2019l processo di santa Chiesa contro a lui fatto non\nl\u2019impedisse, o vero che fosse di consentimento di messer Bernab\u00f2, o per\nsuo proprio movimento, mand\u00f2 a corte suoi ambasciadori a scusarsi al\npapa e a\u2019 cardinali con dire, non intendea n\u00e8 in segreto, n\u00e8 in palese\naiutar o favoreggiare il fratello nell\u2019impresa di Bologna, perocch\u00e8\negli avea il torto, e che per lui gli era stato contradetto e vietato,\ne per tanto domandava d\u2019essere levato de\u2019 processi i quali contro a\nlui e messer Bernab\u00f2 eran formati; affermando non essere colpevole, e\nche intendea essere all\u2019ubbidienza di santa Chiesa, e operare quanto\nonestamente contro il fratello potesse. La sua scusa fu ammessa,\nove non desse favore a messer Bernab\u00f2, e il processo contro a lui fu\nsospeso.\nCAP. XCIII.\n_Come papa Innocenzio lev\u00f2 le riservagioni._\nPer lungo spazio di molti anni, cominciando al tempo di papa Giovanni\nventiduesimo, in corte di Roma erano fatte le riserbazioni di tutti i\nbeneficii cattedrali e collegiali i quali secondo la ragione canonica\nriformare si doveano e soleano per i capitoli e collegi delle dette\nchiese, e ci\u00f2 diede ad intendere di fare il detto papa Giovanni per\naccogliere moneta e fare il passaggio all\u2019acquisto della Terra santa;\ne come uomo sagacissimo e astuto in tutte sue cose, e massime in fare\nil danaio, usava questa cautela, che vacando un beneficio di grande\nentrata togliea un prelato di pi\u00f9 basso beneficio e lo promovea al\nmaggiore, e un altro di minore beneficio a quello di colui cui avea\npromosso al maggiore, e cos\u00ec d\u2019un beneficio vacato in corte cinque o\nsei ne facea vacare, avendo i frutti dell\u2019anno, e con grande spendio\ndi quelli ch\u2019erano promossi; e fece il detto papa tesoro di diciotto\nmilioni di fiorini in moneta coniata, e pi\u00f9 di sei milioni in gioielli.\nIl quale ben seppe secondo il mondo Clemente sesto colla contessa di\nTorenna, la quale tra le poppe portava le supplicazioni, e aprendo\nil seno le porgea al santo padre; il quale in cacciare, e uccellare,\ne altri diletti mondani la maggior parte de\u2019 suoi giorni spese. Ed\nera la corte tanto corrotta di simonia, che il pi\u00f9 per simonia o\nper grazia de\u2019 signori temporali e cardinali gl\u2019indegni e scellerati\ncherici erano promossi, e i buoni e onesti ributtati, non senza loro\nvituperio e vergogna. Per le quali inconvenienze Innocenzio papa mosso\nda spirito diritto e buono zelo, in quest\u2019anno 1360, per suo decreto\nfatto consiglio, e con volont\u00e0 del collegio de\u2019 cardinali, lev\u00f2 le\nriserbazioni, rilasciando le elezioni e postulazioni delle chiese\ncattedrali e collegiate alla grazia dello Spirito santo.\nCAP. XCIV.\n_Come il re Luigi fece guerra al duca di Durazzo, e ultimamente\ns\u2019accordaro._\nI processi del regno di Puglia in questi tempi di poca memoria son\ndegni per i loro lievi movimenti. Il duca di Durazzo sentendosi nemico\ndel re Luigi, per tema di suo stato accogliea in Puglia gente d\u2019arme\nnelle terre sue, e molti gentili uomini napoletani, e di Nido e di\nCapovana s\u2019erano ridotti con lui il maggior fratello del re titolato\nimperadore di Costantinopoli si tramettea di fare concordia tra loro,\ne lo re non volea consentire; e per mostrare quanto la cosa gli era\ngrave, del mese d\u2019aprile del detto anno con molta gente d\u2019arme in\npersona cavalc\u00f2 in Puglia per guerreggiare messer Luigi di Durazzo,\nil quale, com\u2019\u00e8 detto, apparecchiato s\u2019era alla difesa a suo podere;\nil re, per levarli l\u2019aiuto e favore de\u2019 Napoletani, fece comandare a\ntutti, i cavalieri di Nido e di Capovana che con lui erano che partire\nse ne dovessono altrimenti per ribelli gli avrebbe e traditori della\ncorona; n\u00e8 per tanto i gentili uomini non vollono abbandonare il duca,\nonde il re gli fece sbandire, e mando a Napoli a fare l\u2019esecuzione\ncon abbattere loro case; n\u00e8 il re avrebbe questo potuto fornire, se\nnon che la reina e preg\u00f2 e comand\u00f2 a quelli di Capovana e di Nido che\nlasciassono fare la volont\u00e0 del re, e cos\u00ec fatto fu senza contasto per\nreverenza della reina; allora abbattuti furono molti palagi e case di\ngentili uomini in Capovana e in Nido, cosa di rado udita e avvenuta in\nquella citt\u00e0. Lo re passato il furore si lasci\u00f2 consigliare, temendo\nche tale riotta non fosse cagione d\u2019attrarre gente d\u2019arme nel Regno,\ne per mano dell\u2019imperadore ferm\u00f2 la pace col duca; n\u00e8 pertanto il duca\nfid\u00f2 sua persona nella forza del re, ma il figliuolo d\u2019et\u00e0 di meno di\nsette anni mand\u00f2 a fare l\u2019omaggio al re, a tutto che per li capitoli\ndella pace ordinato era alla citt\u00e0 di Napoli.\nCAP. XCV.\n_Come messer Niccola gran siniscalco del Regno and\u00f2 in corte di Roma\nper accordare il re con la Chiesa, e fattogli dal papa ci\u00f2 gli domand\u00f2,\ne grand\u2019onore, se ne torn\u00f2 in Lombardia._\nEssendo intorno al re Luigi il grande siniscalco il maggiore e il pi\u00f9\nridottato barone, come operare suole l\u2019invidia, comune morte e vizio\ndelle corti, con false informazioni mosse il re a disdegno contro\nmesser Niccola. Esso ch\u2019era alla corona fedele, con animo grande\nmostrava di non se n\u2019avvedere, e prese cagioni oneste alle sue terre si\nriparava, massimamente a Nocea, e provvedeva i fatti suoi. Lo re povero\ndi savio consiglio per le cose gli occorrevano sovente mandava per lui;\nesso preso scusabili cagioni per farlo conoscente ritardava l\u2019andare:\ne certo essendo messer Niccola appresso del re niuno de\u2019 baroni osava\nalzare il ciglio. E in que\u2019 giorni occorso era che per lo censo debito\nalla Chiesa, e non pagato, il Regno era interdetto; il gran siniscalco\navendo voglia d\u2019essere a corte per levarsi dinanzi agl\u2019invidiosi\nassalti de\u2019 baroni, e per cercare maggiori cose, alle quali l\u2019animo suo\nsi dirizzava, e per fare prova di s\u00e8, con volont\u00e0 del re and\u00f2 a corte\ndi Roma, ove e dal papa e da\u2019 cardinali fu sopra modo onorato; e in\nprima la domenica della rosa il papa commendato di virt\u00f9, di nobilt\u00e0,\ne di valore messer Niccola li diede la Rosa, la quale osava dare al\npi\u00f9 nobile uomo che allora si trovasse in corte di Roma, appresso\ncon lui s\u2019accord\u00f2 del censo del reame, e lev\u00f2 l\u2019interdetto. Da indi a\npochi giorni il papa di proprio movimento li diede per messer Giovanni\nfigliuolo di Iacopo di Donato Acciaiuoli suo consorto l\u2019arcivescovado\ndi Patrasso, essendo i cardinali di pi\u00f9 altri solliciti promotori, di\ncostui nullo intendimento v\u2019era: il papa mostr\u00f2 come essendo uopo di\nbraccio secolare al sostenimento di quello beneficio, costui pi\u00f9 idoneo\nera che un altro per lo consiglio e favore del gran siniscalco, e senza\nattendere altra deliberazione, come domandavano i cardinali. d\u2019isso\nfatto lo elesse. Di poi di proprio moto del santo padre, l\u2019uficio e\ndignit\u00e0 del senato di Roma e tutto esso uficio accomandato fu al detto\nmesser Niccola a sua vita, e pi\u00f9 la rettoria del Patrimonio, e la\ncontea di Campagna; i quali ufici e rettorie esso messer Niccola per\nriverenza del suo signore messer lo re Luigi senza licenza non volle\naccettare. E oltre alle predette grazie spontaneamente fatte, molte\npetizioni di beneficii il papa liberamente gli segn\u00f2, mostrando a tutti\nla grande confidenza che nel nobile uomo avea. E avendo messer Niccola\npreso licenza del partire dal papa, il papa gli commise ch\u2019andasse\na\u2019 signori di Milano, e con loro cercasse accordo sopra i fatti di\nBologna. Il savio cavaliere per questa sua partita sostenne oneste\ncagioni simulando, e intanto ebbe da messer Bernab\u00f2 perch\u00e8 altrimenti\nnel secreto fare noi volea, pensando non doverne potere avere onore:\npart\u00ec adunque di corte, e dirizzossi a Milano; quello ne segu\u00ec a suo\nluogo diremo.\nCAP. XCVI.\n_Come gli Aretini per baratta ebbono Chiusi e la Rocca._\nEssendo Marco di messer Piero Saccone de\u2019 Tarlati in certo trattato col\ncomune di Firenze di dare delle sue terre al comune per liberare di\nprigione e se e\u2019 suoi, la moglie la madre e gli altri suoi fratelli,\ncon sagacit\u00e0 di chi l\u2019ebbe a conducere, furono messi in altro\ntrattato, nel quale mostrato fu loro, che se in concordia fossono con\ngli Aretini, ove stava il tutto, che i Fiorentini rimarrebbono per\ncontenti; onde pensando la donna ben fare mossa da questo consiglio, e\nper conforto di certi frati minori i quali erano in questo ragionamento\nmezzani, non potendo di Chiusi fare a suo senno, che v\u2019era dentro il\nfigliuolo, si diliber\u00f2 vogliosamente, come usanza \u00e8 delle femmine,\ndi dare Pietramala agli Aretini, con patto che come avessono Chiusi\nrestituissono Pietramala; e dato Pietramala la donna f\u00e8 dire al\nfigliuolo, che se non desse la rocca di Chiusi, come data avea la rocca\ndi Pietramala cos\u00ec darebbe quella del Caprese, e di tutte altre loro\nterre. Il giovane veggendo il male principio, e conoscendo la madre\nanimosa e costante, diede la rocca di Chiusi agli Aretini, la quale\ncon sicurt\u00e0 di stadichi di renderla, se non facessono Marco e gli\naltri suoi trarre di prigione, e incontanente alla donna restituirono\nPietramala. Di questa baratta il comune di Firenze concepette non\npiccolo sdegno contro agli Aretini, ma non lo dimostr\u00f2, aspettando che\nessi di loro errore ammendassero, e rendessero al comune di Firenze suo\ndebito onore; la qual cosa n\u00e8 vollono n\u00e8 seppono fare, come col tempo\nseguendo nostra scrittura si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XCVII.\n_Come il conticino da Ghiaggiuolo fu da\u2019 figliuoli propri preso e\nvituperevolmente tenuto._\nSeguita cosa per sua natura non degna di memoria, ma piuttosto di\nperpetuo silenzio: l\u2019esempio crudele, disonesto e abominevole ci\nforza a porlo intra gli altri nostri ricordi. Ramberto della casa de\u2019\nMalatesti da Rimini detto volgarmente il conticino da Gh\u00ecaggiuolo, uomo\nassai famoso, essendo nell\u2019et\u00e0 di sessantacinque anni e oltre, avea\ndella figliuola di Francesco della Faggiuola sua donna due figliuoli,\nl\u2019uno per nome Francesco, l\u2019altro Niccol\u00f2, giovani costumati e di\ngentile aspetto, e che in vista mostravano di pi\u00f9 alto animo che non\nmostrarono per opera. Costoro essendo col padre in arme al servigio\ndi santa Chiesa, eziandio contro i consorti loro allora nimici di\nsanta Chiesa, e contro il capitano di Forl\u00ec, presono Santarcangiolo e\naltre terre, e le ridussono all\u2019ubbidienza di santa Chiesa, e presono\nla guerra contro al capitano di Forl\u00ec. In un assalto amendue questi\ngiovani furono presi; e avendo il conte di Lando con sua gente servito\nil capitano, e dovendo da lui avere danari assai, intra gli altri\npagamenti questi due giovani gli furono assegnati in parte di pagamento\nper fiorini seimila, ed egli li si prese, seguendo il proverbio, dal\nmale pagatore o aceto o cercone. Il padre sentendo ch\u2019erano nelle\nmani del conte di Lando, e fuori delle mani dell\u2019antico e crudele\nnemico capitano di Forl\u00ec, con molta sollecitudine e arte cerc\u00f2 di\nriscuoterli, e infine pagati fiorini mille cinquecento gli riebbe.\n\u00c8 vero che essendo la madre de\u2019 detti Francesco e Niccol\u00f2 attempata\ne datasi allo spirito, il detto conticino pubblicamente si tenea\nin casa un\u2019amica, e di lei avea cinque figliuoli d\u2019assai vezzoso e\ngentilesco aspetto, il maggiore d\u2019et\u00e0 di dodici anni. Il conte, ch\u2019era\nnell\u2019et\u00e0 che detto avemo, grande affezione mostrava a questi bastardi,\nil perch\u00e8 la loro madre prendea di baldanza pi\u00f9 non si convenia; e\npertanto era in uggia e crepore a\u2019 detti Francesco e Niccol\u00f2, non di\nmanco il conte i madornali e loro madre onorava quanto si convenia\nteneramente, lasciando a loro madre in dominio la rocca di Ghiaggiuolo\ne \u2019l castello, stimando in suo concetto lasciare di sua masserizia\nalcuna cosa a\u2019 bastardi, e il retaggio a\u2019 madornali. Lo giorno di\nPasqua rosata, a d\u00ec 23 di maggio, avendo il conte e\u2019 figliuoli desinato\ninsieme di buona voglia, e stando gran pezza a sollazzare insieme,\ne ito il conte a dormire, e poi ritornato a festeggiare con loro, e\nstando a vedere loro giuochi, un fedele del conte, fante assai pregiato\ne fidatissimo a lui, lo prese di dietro; il conte pensando cianciasse,\ncom\u2019era usato, niuno riparo prese, e un altro intanto sopraggiunse che\ngli lev\u00f2 il coltello dal lato, e alandolo all\u2019altro tenere lo gittarono\nin terra; i figliuoli con le funi nelle mani, ne\u2019 piedi con tutta\nl\u2019altra persona strettamente il legarono, come si suole di ladroni, e\ncos\u00ec legato lo feciono portare, e nella sua propria camera in un fondo\nche v\u2019era l\u2019incarcerarono, e sotto buona e fidata guardia il teneano,\ne tanto per pi\u00f9 giorni lo tennono legato facendolo imboccare e fare gli\naltri servigi, che feciono fare una stanga di ferro, e buove, le quali\npesanti fuori d\u2019ordine gli misono in gamba, mettendoli i piedi la notte\nne\u2019 ceppi. La sua femmina detta Rosina nel fiumicello di Chiusercole\ncon un sasso al collo feciono annegare; i bastardi cacciarono tutti,\ni quali con vergogna de\u2019 madornali in piccolo tempo presono cattivo\nviaggio. Lo padre facendo sovente di parole schernire, e rimprocciarli\nla Rosina e\u2019 suoi bastardi; costui pazientemente tutto portando, e\numilmente spesso domandando misericordia, con volere far ci\u00f2 che i\nfigliuoli sapessono divisare, i lor cuori pi\u00f9 indurando a giornate,\nlungo tempo lo tennono in s\u00ec orribile vita. Io ho letto e riletto,\nmai tanta crudelt\u00e0 non trovai ne\u2019 cuori de\u2019 salvatichi barbari, e\nnon so a quali fiere selvaggie gli potessi assomigliare. I figliuoli\nsogliono essere teneri del padre, e di sua gloria e onore; fede ne fa\nValerio Massimo per l\u2019esempio di Manlio, il quale essendo dal padre\nvillanamente trattato, sentendo che il padre volea essere accusato,\nand\u00f2 alla casa dell\u2019accusatore, il quale graziosamente lo ricevette\npensando che volesse favorare l\u2019accusa contro il padre, il giovane\nriduttolo in luogo segreto gli strinse il coltello sopra il capo, e\nsi fece promettere e giurare si leverebbe dall\u2019accusare: costoro bene\ntrattati dal padre, senza cagione, che eziandio qualunque leve pena\nmeritase, lo crucifissono; e pertanto in perpetua infamia di s\u00ec fatti\nfigliuoli scritto l\u2019avemo.\nCAP. XCVIII.\n_Come si ferm\u00f2 pace dal re d\u2019Inghilterra a\u2019 Franceschi, e\u2019 patti e le\nconvegne ebbono insieme._\nAvendo come nell\u2019addietro narrato avemo lo re d\u2019Inghilterra il verno\ntutto e parte della primavera co\u2019 figliuoli e col cugino cavalcato\ntutto il reame di Francia senza contasto alcuno, n\u00e8 per\u00f2 potuto\nacquistare alcuna buona terra, ed essendo stati sopra Parigi ad assedio\ncon niente profittare, standosi a Ciartres, il detto re come savio\ne pratico prencipe, pensando e conoscendo i difetti e i pericoli che\nsogliono e possono occorrere nelle continuanze delle guerre, vedendosi\nil sovrano in arme e nell\u2019onore del reame di Francia, e in caso di\npoter prendere suo vantaggio nella pace, si dispose al tutto non volere\npi\u00f9 sua fortuna tentare: onde essendo presso a Ciartres a due leghe il\ncardinale di Pelagorga e l\u2019abate di Clugn\u00ec legati del papa a cercare\nla pace tra\u2019 detti due re, lo re d\u2019Inghilterra loro fece sentire,\nch\u2019attenderebbe al trattato della pace cercato per loro dove per lo\ngovernamento e\u2019 reggenti di Francia si dovesse mandare trattatori: li\ndetti legati ci\u00f2 inteso di presente mandarono al reggente significando,\nche s\u2019attendere volea alla pace cercata per loro per avventura la\npotrebbe avere. In questo i detti legati col re d\u2019Inghilterra elessono\nper luogo comune una villa detta Beeragn\u00ec, la quale \u00e8 presso a\nCiartres a una lega: lo reggente di Francia per la sua parte mand\u00f2 il\nvescovo di Brevagio, il conte di Trinciavilla, il quale era prigione\ndegl\u2019Inghilesi, il maliscalco di Francia e pi\u00f9 altri signori e prelati,\ni quali partirono di Parigi a d\u00ec 17 d\u2019aprile, e a d\u00ec primo di maggio\nquivi co\u2019 detti legati e con loro per la parte del re d\u2019Inghilterra\ns\u2019accozzarono, il duca di biancastro, il conte di Norentona, il conte\ndi Vervich, e \u2019l conte di Cosmoforte, e altri signori e cavalieri in\nnumero di ventidue, e a d\u00ec 8 di maggio per la grazia di Dio furono\nd\u2019accordo, fermando la pace in sostanza nell\u2019infrascritto modo. In\nprima che \u2019l re d\u2019Inghilterra con quello che tenea in Guascogna abbi\nper quel modo le tenea il re di Francia l\u2019infrascritte citt\u00e0, contee\ne paesi, oltre a quelle che tenea in Ghienna e Guascogna, la citt\u00e0\ne castella di Poittiers, e tutta la terra e \u2019l paese di Poittu, e \u2019l\nfio di Tomers, e la terra di Bellavilla, la citt\u00e0 e castello di san\nReose di Santes, e tutte le terre e paesi d\u2019Essa; la citt\u00e0 e castella\ndi Pelagorga con sue terre e paese, la citt\u00e0, castella, terre e paesi\ndi Limogia, la citt\u00e0, e castella, terre, e paese di Caorsa, la citt\u00e0\ne castella, terre e paese di Tarbes; la terra e il paese e la contea\ndi Bigorece, la citt\u00e0, terre, e paese di Gaure; la citt\u00e0 terra e\npaesi di Goulogm la citt\u00e0 terra e paesi di Rodes, la contrada e paese\ndi Rovergne: e se v\u2019\u00e8 alcuno signore come il conte di Foci, il conte\nd\u2019Armignacca, il conte dell\u2019Isole, il conte di Pelagorga, il visconte\ndi Limoggia, o altri che tenghino alcuna cosa de\u2019 detti luoghi e paesi,\nfare debbino omaggio al re d\u2019Inghilterra, e tutti altri servigi e\ndoveri per cagione di loro terre alla maniera che l\u2019hanno fatto nel\ntempo passato, e pi\u00f9 tutto ci\u00f2 che il re d\u2019Inghilterra o alcuno di loro\ntennono nella villa di Monstreul in sul mare, e pi\u00f9 tutta la contea di\nPonthieu, salvo lo alienato per lo re d\u2019Inghilterra ad altri che nel re\ndi Francia, e salvo se il re di Francia l\u2019avesse in cambio per altre\nterre, nel quale caso lo re d\u2019Inghilterra gli dee liberare la terra\ndata in cambio: e se terre alienate per lo re d\u2019Inghilterra ad altrui,\nle quali poi fossono venute nelle mani del re di Francia, lo re di\nFrancia dare le dee a persone che ne facciano omaggio, e che rispondano\na quello d\u2019Inghilterra. E pi\u00f9 deve avere il detto re d\u2019Inghilterra la\nvilla e castello di Galese, la villa castello e signoria della Marca,\nla villa castello e signoria di Sangato, Golognegi, Amegoie con tutte\nterre, vie, maresi, riviere, rendite, signorie, case, e chiese, e tutte\nappartenenze e luoghi intrachiusi con tutti i loro confini, e pi\u00f9 la\nvilla e tutta intera la contea di Ginis, con tutte le ville terre\ne fortezze e diritture di quelle come tenea il conte diretanamente\nmorto, e come tenea il re di Francia, e di tutte le sopraddette citt\u00e0,\ncastella e luoghi dee il re d\u2019Inghilterra, e sue rede e successori\nliberamente avere tutti gli omaggi, obbedienze, sovranitadi, fii,\ndiritti, saramenti, riconoscenze, fedeli, servigi, e mero e misto\nimperio, e tutte giurisdizioni e alte e basse, e padronaggi di\nchiese, e ogni signoria e ogni diritto che per qualunque cagione il\nre, la corona di Francia o i reali potessono per alcuna ragione o\ncolore domandare, tutto s\u2019intenda essere trasferito nel re, corona\nd\u2019Inghilterra, e sue rede e successori pienamente e perpetuamente:\ne tutti quelli che giurato avessono per dette cagioni nelle mani del\nre, o d\u2019alcuno de\u2019 reali, da\u2019 detti saramenti s\u2019intendessono essere\nliberi e quitati, rimanendo al re d\u2019Inghilterra come e\u2019 sono appresso\ndel re di Francia. E tutte dette citt\u00e0, terre castella e luoghi, il\nre e la corona d\u2019Inghilterra perpetualmente deve in loro franchigia\ntenere, e perpetuale libert\u00e0, come signore diritto e sovrano, e come\nbuono vicino al re di Francia e reame, e senza fare riconoscenza\nalcuna alla corona di Francia. E deve il re di Francia dare e pagare\nal re d\u2019Inghilterra tre milioni di scudi d\u2019oro, di Filippo gli due, i\nquali vagliono un obole d\u2019Inghilterra, de\u2019 quali al re d\u2019Inghilterra,\no a\u2019 suoi commessarii, secentomigliaia quattro mesi appresso che\n\u2019l re di Francia sar\u00e0 in Calese, dove il pagamento far dee; e infra\nl\u2019anno prossimo avvenire quattrocento migliaia nella citt\u00e0 di Londra,\ne ciascuno anno appresso quattrocento migliaia, tanto che compiuti\nsieno di pagare i detti tre milioni di scudi. E per osservanza del\ndetto trattato e predette e infrascritte cose, de\u2019 prigioni presi alla\nbattaglia di Poittiers devono rimanere per stadichi al re d\u2019Inghilterra\ngl\u2019infrascritti, e pi\u00f9 ancora degli altri, ci\u00f2 sono: messer Luigi conte\nd\u2019Angi\u00f2, messer Gianni conte di Poittiers figliuoli del re di Francia,\nil duca d\u2019Orliens fratello del re; e del numero de\u2019 quaranta che \u2019l\nre di Francia dee dare, sedici de\u2019 presi alla battaglia di Poittiers,\ni compagni del re di Francia de\u2019 nuovi staggiai nomi sono: il duca di\nBorgogna, il conte di Broig o il fratello, il conte d\u2019Alanson o messer\nPiero suo fratello, il conte di san Polo, il conte di Ricorti, il\nconte di Pomeu, il conte di Valentinese, il conte di Brame, il conte\ndi Baluldemonte, il visconte di Belmonte, il conte di Foreste, il\nsire da Iara, il sire di Fiene, il sire de\u2019 Pratelli, il sire di san\nVenante, il signore de\u2019 Culetiers, il Delfino di Daluyernia, il sire\ndi Angestiem, il sire di Montener, e messer Guglielmo di Raon, messer\nLuigi di Ricorti, messer Gianni de\u2019 Lagni. I nomi de\u2019 sedici presi\nsono questi: messer Filippo di Francia, il conte d\u2019Eia, il conte di\nLargavilla, il conte di Ponthieu, il conte di Trinciavilla, il conte\ndi Logamb, il conte della Serra, il conte di don Martino, il conte\ndi Ventado, il conte di Salisbruc, il conte di Vedasme, il signore di\nTruoy, il signore di.... il signore de Vali, il maliscalco di Donam,\nil sire d\u2019Ambrign\u00ec. Dati li detti staggi, e venuto il re di Francia\na Calese, e liberato di sua prigione, infra li tre mesi seguenti lo\nre d\u2019Inghilterra dee lasciare libere al re di Francia la villa e la\nfortezza della Roccella, le castella e ville della contea d\u2019Agenes e\nloro appartenenze, e il re di Francia tre mesi appresso che partito\nsar\u00e0 da Calese dee rendere in Calese quattro persone della villa di\nParigi, e due persone di ciascuna villa, ci\u00f2 sono; Santo Omer, Aranzon,\nAmiens, Belvaggio, Lilla, Tornai, Doaggio, Long, Rems, Celona, Tors,\nCiartres, Tolosa, Lione, Campigno, Roano, Camo, Trasiborgo de\u2019 pi\u00f9\nsufficienti di dette ville per compimento del trattato. E dee il detto\nre di Francia e suo primogenito rinunziare ogni diritto e sovranit\u00e0,\ne ogni ragione che sopra e nelle citt\u00e0, castella e luoghi potessono\nusare come vicini, senza appello o quistione per sovranit\u00e0 per lo detto\nre e reame di Francia, o avere potesse, sopra le dette contee, citt\u00e0,\ncastella, terre, e luoghi, o loro appartenenze, le cede e doni al re\nd\u2019Inghilterra perpetualmente. E lo re d\u2019Inghilterra e suo primogenito\ndebbono rinunziare al nome e diritto della corona di Francia, e\nall\u2019omaggio, sovranit\u00e0 e dominio della duchea di Normandia, della\nduchea di Torenna, della contea d\u2019Arom, e al dominio, sovranit\u00e0, e\nomaggio del ducato di Retognac, e alla sovranit\u00e0 e omaggio della contea\ndi Fiandra, e di tutte altre cose appartenenti alla corona di Francia,\nsalvo delle dette contee, citt\u00e0, castella, ville, e luoghi suddetti,\nche pervenire debbono al re e corona d\u2019Inghilterra; e dee lo detto\nre d\u2019Inghilterra cedere e trasportare nella corona di Francia ogni\nragione somma ove potesse avere. E s\u00ec tosto il re d\u2019Inghilterra e suo\nprimogenito ci\u00f2 debbono fare, come il re di Francia le citt\u00e0, ville,\ncastella, e luoghi che il re di Francia tiene delle sue nominate sopra\nquelle tiene il re d\u2019Inghilterra avr\u00e0 date, e consegnate liberamente\nal detto re d\u2019Inghilterra, o suoi commessarii, le quali son queste;\nla citt\u00e0 di Poittiers, e tutta la terra e paese di Poittu, con essa\nil fio di Toraci, e la terra di Bellavilla, la citt\u00e0 di Gem, la terra\ne\u2019 paesi d\u2019Agenes, la citt\u00e0 di Pelagorga, la citt\u00e0 di Caorsa, la citt\u00e0\ndi Limoggia, tutta la contea di Gavera con tutte loro castella, terre\ne paese. E ci\u00f2 far dee il re di Francia per infino alla festa di san\nGiovanni Batista; e ci\u00f2 fatto, subitamente appresso, davanti a quelli\nche per lo re di Francia a ci\u00f2 saranno diputati, lo re d\u2019Inghilterra e\nsuo primogenito debbono rinunziare al reame di Francia, come detto \u00e8 di\nsopra, e farne trasporto, cedizione e lasciamento per fede e saramento\nsolennemente, e con lettere patenti aperte e suggellate del suggello\nreale, le quali lo detto re mandare dee nella nativit\u00e0 di nostra\nDonna prossima avvenire nella chiesa degli agostini di Bruggia, le\nquali devono essere date a quelli i quali il re di Francia vi mandasse\nper riceverle. E se nel termine di san Giovanni Batista il detto re\ndi Francia non potesse dare o consegnare al detto re d\u2019Inghilterra,\no suoi commessarii a ci\u00f2 deputati, le sopraddette citt\u00e0, castella,\nville i terre, e luoghi, le possa e debba dare e consegnare infra il\ntermine di tutti i Santi prossimi avvenire a un anno, e fatto ci\u00f2,\ndee lo re d\u2019Inghilterra infra il termine di sant\u2019Andrea prossimo\nseguente fare le dette renunzie, mandare e presentare a Bruggia, come\n\u00e8 detto di sopra. E per simile modo \u00e8 tenuto e dee lo re di Francia\ne suo primogenito renunziare, trasportare e cedere ogni loro ragione\ndella corona di Francia quali avessono sopra delle citt\u00e0, castella,\nville, e terre, e luoghi, che per vigore del presente trattato aver\ndee lo re d\u2019Inghilterra, e quelle mandare al suddetto termine al\nluogo degli agostini, dove dare si debbono al re d\u2019Inghilterra, o a\u2019\nsuoi commessarii a ci\u00f2 deputati. N\u00e8 si dee il re di Francia n\u00e8 sua\ngente armare contro al re d\u2019Inghilterra infino a tanto che fornito\nsia, e mandato pienamente ad esecuzione ci\u00f2 che nel trattato della\npace si contiene e specificato \u00e8: e pi\u00f9 che durante il detto tempo e\ntermine nel quale lo re di Francia dee dare e consegnare le suddette\ncitt\u00e0, castella, ville, terre, e luoghi, il detto re di Francia e suo\nprimogenito non possano n\u00e8 debbano in essi usare sovranit\u00e0 o servigio,\nn\u00e8 domandare alcuna soggezione, n\u00e8 querele, n\u00e8 appellagioni in loro\ncorpi ricevere, n\u00e8 lo re d\u2019Inghilterra si dee n\u00e8 procedere n\u00e8 per\naltro modo in esse intromettere, n\u00e8 niente travagliare. Si termin\u00f2, e\ntal fine ebbe la lunga guerra per spazio di ventiquattro anni o circa\nmenata tra gli detti due re, con inestimabile e incredibile danno\ndi persone e di avere degli detti due re e reami, e loro aderenti e\nseguaci, e s\u00ec de\u2019 mercatanti che praticavano i detti due reami. So che\nmi potea con meno scrittura passare, ma fatto son lungo per mostrare\nalle genti a quanta vilt\u00e0 venne per allora la corona di Francia. E qui\nfaremo piccolo tramezzamento d\u2019alcune cose occorse fuori della presente\nmateria, acciocch\u00e8 l\u2019animo e l\u2019intelletto faticato sopra una materia,\ne quindi avendo preso fastidio, abbi per nuovo cibo ricreazione, e\ntorneremo alle italiane fortune.\nCAP. XCIX.\n_D\u2019un trattato si scoperse in Bologna, e quello ne segu\u00ec._\nEssendo alcuni cittadini bolognesi con alquanti forestieri in trattato\nco\u2019 capitani dell\u2019oste del Biscione, con impromessa di dare loro\nuna porta se si appressassero alla citt\u00e0, l\u2019oste subito si mosse, e\nvenne a Panicale presso a Bologna a due miglia, il perch\u00e8 i Bolognesi\nspaventati ebbono gran paura, onde d\u00ec e notte stando in sollecita\nguardia sagacemente de\u2019 sospetti cercavano, i quali nel mormorio del\npopolo brogliavano. I traditori veggendo che loro malvagia intenzione\nad esecuzione non poteano mandare, e che loro malizia si venia a\nscoprire, la notte i pi\u00f9 presono consiglio, e si collarono a terra\ndelle mura, massimamente i caporali; degli altri alquanti presi\nne furono, e messi al macello. Vedendo caporali dell\u2019oste che loro\npensiere venia fallato, e che dov\u2019erano gran soffratta di vittuaglia\nsentivano, del mese di giugno si ritrassono addietro, e tornarsi a\nCastelfranco; onde dilungati da Bologna miglia ventuno, essendo il\ntempo del mietere, tutti i Bolognesi, eziandio quelli che usi non erano\ndi s\u00ec fatto servigio, sollecitamente puosono mano alla falce, e quello\nsegavano, o grano o biada che fosse, con la paglia con sollecitudine a\nguisa delle formiche riponeano nella citt\u00e0. Gl\u2019inimici in questi giorni\nsoprastettono assai senza fare loro cavalcate, o per disagio che patito\navessono, o perch\u00e8 attendessono loro paghe, o perch\u00e8 fossono contenti\nche i Bolognesi facessono la state perch\u00e8 pi\u00f9 si mantenesse la guerra,\no perch\u00e8 per pecunia fossono corrotti, che pi\u00f9 credibile fu; e certo i\nBolognesi non furono lenti, ma in pochi d\u00ec misono dentro roba da vivere\nper un anno, che gran conforto fu a\u2019 poveri lavoratori, e a tutta la\ncitt\u00e0.\nCAP. C.\n_Come il papa confort\u00f2 gli ambasciadori bolognesi, e richiese d\u2019aiuto i\nFiorentini all\u2019impresa di Bologna._\nIl papa avea a grande onore e con paternale accoglienza ricevuti\ngli ambasciadori bolognesi, e inteso quello che esposto aveano, con\namorevoli e persuasive parole riconfort\u00f2, con affermare che sarebbono\ndal tiranno di Milano difesi. \u00c8 vero che mandato avea un piccolo\nsussidio di camera al legato, il quale fu prima logoro e stribuito che\nal legato giugnesse. A principi d\u2019Alamagna, al re d\u2019Ungheria, ai comuni\ndi Toscana mandato avea per aiuto la Chiesa di Roma, e per lo generale\nde\u2019 romitani, il quale il papa avea per ambasciadore mandato a Firenze,\nforte strinse esso comune che in servigio di santa Chiesa facesse\nl\u2019impresa della difesa di Bologna, mostrando con colorate ragioni che\natare santa Chiesa, quando seco ha la ragione e la giustizia, contro\nal tiranno usurpatore, occupatore della libert\u00e0 di santa Chiesa e\ndegli altri popoli che a libert\u00e0 vogliono vivere, non era fare contro\nla pace, e che pi\u00f9 utile e fidata vicino era al comune di Firenze la\nChiesa di Dio che messer Bernab\u00f2, e pi\u00f9 altre ragioni rettoricamente\ndicendo, per le quali dimostrava che \u2019l comune potea e dovea servire\nsanta Chiesa, e massimamente per conservare in libert\u00e0 i loro fratelli\nBolognesi, ma poco gli valse a questa volta sonare la campanella, che\n\u2019l comune di Firenze, usato di mantenere sua fede e lealt\u00e0, a questa\nvolta chiuse gli orecchi. Cos\u00ec avesse fatto per l\u2019addietro, e per\nl\u2019innanzi facesse, perocch\u00e8 quando per lo passato ha fatte l\u2019alte e\ngrandi imprese, per i governatori della Chiesa di Roma addosso gli sono\nrimase a strigare; e quando il comune ha avuto bisogno, la Chiesa l\u2019ha\nal tutto abbandonato, in grave pericolo di suo stato; ora il comune\na questa volta stette fermo e costante a non imprendere cose n\u00e8 per\ndiretto n\u00e8 per indiretto, che la pace potessono maculare. I principi\nd\u2019Alamagna e il re d\u2019Ungheria non furono alla richiesta correnti,\nvogliendo con capo di ragione gravemente procedere sicch\u00e8 la riuscita\nvergognosa non fosse, considerata la potenza del signore di Milano.\nDipoi del mese di giugno passarono per Firenze gli ambasciadori del re\nd\u2019Ungheria, i quali andavano al santo padre, e da loro s\u2019ebbe che \u2019l\nre avea desti suoi baroni e gente, per averla in punto se bisognasse.\nIl legato per sodisfare alla guardia di Bologna ha premuto e preme\ndi sussidio di pecunia la Marca, il Ducato e la Romagna, sicch\u00e8 n\u00e8\nhanno potuto n\u00e8 possono dormire; e in que\u2019 giorni il legato mand\u00f2 in\nBologna messer Galeotto de\u2019 Malatesti capitano della gente dell\u2019arme,\naspettando il gran siniscalco il quale in que\u2019 d\u00ec tornare dovea dal\nsignore di Milano con trattato d\u2019accordo; e cos\u00ec i Bolognesi mal\nguidati e peggio trattati stavano in forse ora d\u2019accordo ora di guerra:\nla gente del legato guardavano la terra, e i nimici di fuori aveano il\ncampo in bal\u00eda.\nCAP. CI.\n_Come i Chiaravallesi vennero contro a Todi, e come furono rotti e\npresi._\nI Chiaravallesi di Todi aveano menato trattato con certi loro amici\nd\u2019entro per rientrare in casa loro, ed era il trattato, ch\u2019e\u2019 doveano\navere il castello che si chiama la Pietra; e venuto il tempo, a d\u00ec\n10 di giugno mandaro per lo castello, e loro dato fu. Fatto questo\nprincipio con quaranta uomini da cavallo e con gran popolo si\ndirizzarono a Todi, con speranza che i cittadini fossono intrigati e\ndisordinati per la subita ribellione del castello, e che i loro amici\nd\u2019entro avessono pi\u00f9 baldanza a metterli dentro; avvenne, che desto\nil popolo per la perdita della Pietra di presente fu sotto l\u2019arme,\ne quelli del cardinale, i quali allora governavano quella citt\u00e0,\nde\u2019 quali era il sovrano messer Catalano, sentendo l\u2019avvenimento\nde\u2019 Chiaravallesi lasciarono le porti con buone guardie, e con loro\nseguaci a pi\u00e8 e a cavallo francamente si misono fuori a petto ai loro\navversari, i quali veggendo la moltitudine del popolo venire con furia\ncontro a loro, impauriti si misono alla fuga, e il popolo a seguitarli,\nuccidendo cui giugnere poteano; e rotti e straccati i Chiaravallesi,\nche mattamente s\u2019erano messi innanzi, il popolo con quell\u2019empito\nfurioso se n\u2019and\u00f2 al castello e riebbelo, con gran danno di quelli che\nv\u2019erano entrati; e tornati in Todi si riposavo, non trovando di loro\ncittadini d\u2019entro alcuno sospetto.\nCAP. CII.\n_Come l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 si strinse a Bologna, e fermaronvi\nbastite._\nEssendo soggiornata la gente di messer Bernab\u00f2 a Castelfranco, e preso\nsuo rinfrescamento a utilit\u00e0 de\u2019 Bolognesi come dinanzi \u00e8 detto,\ninverso l\u2019uscita di giugno cavalcaro verso Bologna facendo danno\nd\u2019arsione pi\u00f9 che non erano usati, e puosonsi presso a un miglio fuori\ndella porta di santo Stefano, e feciono nuove bastite, e altrove per\ntenere pi\u00f9 stretta la terra e d\u2019intorno la cavalcarono, sicch\u00e8 la gente\nsi ritenne dell\u2019andare fuori pi\u00f9 che non solea, e quando uscivano\nda lunga dell\u2019oste, ci\u00f2 faceano con scorta de\u2019 cavalieri d\u2019entro, e\nrecavano della roba, ma non al modo usato, n\u00e8 senza grande pericolo\ndelle persone.\nCAP. CIII.\n_Come la casa reale di Francia feciono parentado co\u2019 Visconti per\ndanari, con vituperio della corona._\nLa fortuna, maestra e donna delle mondane delizie, senza torre pi\u00f9\nlontano esempio de\u2019 suoi straboccamenti, ce n\u2019adduce nel presente\na narrare uno, lo quale senza stupore di mente chi diritto vorr\u00e0\ngiudicare n\u00e8 porre si pu\u00f2 in scrittura n\u00e8 leggere. Chi arebbe per lo\npassato, considerato la grandezza della corona di Francia, potuto\nimmaginare, che per gli assalti del piccolo re d\u2019Inghilterra in\ncomparazione del re di Francia fosse a tanto ridotta, che quasi\ncom\u2019all\u2019incanto la propria carne vendesse, la qual cosa \u00e8 nel cospetto\nde\u2019 cristiani ammirabile specchio e certissimo dell\u2019infelicit\u00e0 degli\nstati mondani. E per pi\u00f9 mostrare la grandezza di questa misera\nfortuna, torneremo un poco addietro all\u2019origine del presente stocco\nregale della casa di Francia. Giovanni lo Sventurato re di Francia\nebbe per moglie la figlia del re di Boemia nata d\u2019Ottachero, e\nsorella carnale di Carlo imperadore de\u2019 Romani, della quale avea tre\nfigliuoli maschi e tre femmine, delle quali l\u2019una era consegrata a\nDio nel nobile e ricco monistero di Pusc\u00ec, l\u2019altra era donna del re di\nNavarra, la terza nome Elisabetta era la donna del re di Francia: ora\nesso Giovanni, per soddisfare ai secento migliaia di scudi promessi\ndi pagare in Calese al re d\u2019Inghilterra per i patti della pace, si\ncondusse a vendere al tiranno di Milano messer Galeazzo Visconti per\nsecento migliaia di fiorini la figliuola per giugnerla in matrimonio\ncon messer Giovanni figliuolo di messer Galeazzo, allora d\u2019et\u00e0 d\u2019undici\nanni, lo quale per lo titolo della dote titolato fu conte di Virt\u00f9. Il\nmodo fu questo, che essendo il re di Francia prigione in Inghilterra\ndel mese di giugno detto anno, e occorrendoli spese molte, e pi\u00f9\navere a pagare i detti secento migliaia di scudi, e trovandosi male\nin apparecchio a ci\u00f2 potere fare, la detta sua figliuola consent\u00ec\nmogliera del detto messer Giovanni, avendo in dono da messer Galeazzo\ntrecento migliaia di fiorini d\u2019oro, e comperando nel reame di Francia\ndal re baronaggi in nome di dota della detta fanciulla di valuta di\ntrecento migliaia di fiorini: e ci\u00f2 fu accecamento, che il re ricevuti\ni danari gli di\u00e8 la piccolissima contea di Vergi\u00f9, tutto che di\nVirt\u00f9 volgarmente si titolasse, per coprire la miseria della povera\ncontea. Lo re di Francia per la detta convegna promise, che avuti\ni trecento migliaia di fiorini al mezzo di settembre di detto anno\nfarebbe la figliuola conducere in Savoia, e ivi la farebbe assegnare\nal piacimento di messer Galeazzo. Fermate e stipulate solennemente\nle dette convegne tra il re e messer Galeazzo, parendo a\u2019 signori di\nMilano avere fatto, quello ch\u2019aveano fatto magnificandosi, mandarono\nper tutta Italia ambasciadori a significare il fatto, e a invitare\nbaroni, signori e comuni che venissono e mandassono alla loro corte e\nfesta; e cominciarono a ricogliere gioielli, pietre preziose, sciamiti,\ndrappi, quanti in Italia avere ne poterono, facendo di tutto pomposo\napparecchiamento. Giunta la fanciulla in Savoia, messer Galeazzo con\nl\u2019ordine si convenia mand\u00f2 per lei, e giunta in Milano a d\u00ec 8 del mese\nd\u2019ottobre, la fanciulla in abito e atto regale si contenne, ricevendo\nriverenza e da\u2019 signori e da loro donne, ma il drappo sopra capo non\nsofferse, e cos\u00ec stette infino che fu sposata; e da quel punto innanzi\nposto in oblio la reale dignit\u00e0 e nobilt\u00e0 di sangue, reverenza fece e\na messer Galeazzo, e a messer Bernab\u00f2, e alle donne loro. Il corredo\ncominci\u00f2 la domenica a d\u00ec 11 d\u2019ottobre. con apparecchiamento di molte\nvivande alla lombarda, di per s\u00e8 ordinate le donne in numero di secento\nriccamente ornate, e magnificamente servite, e gli uomini dall\u2019altra\nparte, essendo gli ambasciadori de\u2019 signori, de\u2019 tiranni, e de\u2019 comuni\nin numero di pi\u00f9 di mille alle prime tavole servite di tre vivande\ncopiosamente. La festa dur\u00f2 per tre giorni, facendo nel cortile di\nmesser Galeazzo del continovo giostre a tre arringhi, e le donne ne\u2019\ncasamenti d\u2019intorno erano ordinate e alloggiate a vedere; le burbanze\nfurono grandi di sopravveste e cimieri, tale venne in figura del re\ndi Francia, tale del re d\u2019Inghilterra, e cos\u00ec degli altri re, duchi\ne signori, perch\u00e8 la festa pi\u00f9 onorevole fosse, tutto che valentria\nd\u2019arme poco o niente vi si facesse da doverlo pregiare; altre notabili\ncose non vi furono; nell\u2019ultimo messer Bernab\u00f2 fece il convito suo, e\nfu fornita la festa. \u00c8 vero che lungamente dinanzi essendovi giunti gli\nambasciadori italiani tutti onorati furono, e fatte loro larghe spese\nda\u2019 signori con sollecita provvedenza. Messer Giovanni era d\u2019et\u00e0 di\ndieci anni, il perch\u00e8 il matrimonio non si pot\u00e8 consumare in questo.\nAlquanto avemo il tempo passato per ricogliere insieme la storia di\nquesto matrimonio, ora torneremo addietro a pi\u00f9 spaventevol volto delle\nmiserie mondane in nostra materia.\nCAP. CIV.\n_Come messer Niccol\u00f2 di Cesaro conte di ... e signore di Messina fu\nmorto con quaranta compagni._\nNel mese di luglio detto anno, essendo messer Niccol\u00f2 di Cesaro conte\ndi .... tornato in Messina, e senza avere avuto dal re Luigi aiuto col\nquale potesse con la parte avversa campeggiare, perocch\u00e8 i Catalani\nliberamente scorreano il piano tra Messina e Melazzo, e aveano prese\nparecchie castella, temendo messer Niccol\u00f2 non prendessono il buono\ne forte castello di santa Lucia, vi cavalc\u00f2 con quaranta compagni a\ncavallo per ordinare la guardia e la difesa che avessono a fare quelli\ndel castello, e per confortarli del soccorso se bisogno loro fosse. Gli\nuomini del castello che vedeano l\u2019altra parte poderosa e in campo, e\nche essendo ito messer Niccol\u00f2 al re Luigi per aiuto non avea menato\nforza da poterli difendere, cominciarono a turbarsi contra lui, e\ntanto mont\u00f2 il bestial furore de\u2019 villani, ch\u2019egli co\u2019 suoi compagni\nsi rinchiuse nella rocca; i villani perseverando il loro mal talento\nmandarono per i Catalani che vi erano presso, e dieronsi a loro; e in\nesso stante i Catalani mandarono seicento cavalieri e popolo assai con\nquelli del castello, e assediarono la rocca, la quale per lo subito\ne sprovveduto caso male era fornita, in tanto che messer Niccol\u00f2 fu\ncostretto da cercare patti d\u2019arrendersi, e cos\u00ec f\u00e8 salve le persone:\ne avendo renduta la rocca fu menato con i suoi compagni a Melazzo,\ne loro detto fu, che se voleano campare facessono s\u00ec, che quelli di\nMelazzo s\u2019arrendessero loro. Messer Niccol\u00f2 vedendo nelle mani di cui\nera, e il partito duro, giudicossi morto, non di manco come valente\nsi mise a tentare se potesse la morte fuggire, e con umili e dolci\nparole quanto pot\u00e8 preg\u00f2 quelli di Melazzo, che per lo scampo suo e de\u2019\ncompagni volessero assentire alla volont\u00e0 de\u2019 Catalani, ma essi se ne\nfeciono beffe, e la risposta feciono colle balestra; onde i Catalani\nintralasciata, loro promessa f\u00e8, senza alcuna piet\u00e0 o misericordia\ndavanti a Melazzo e messer Niccol\u00f2 e tutti i suoi compagni tagliarono a\npezzi. Tale fu il fine della breve tirannia di messer Niccola di Cesaro\nsignore di Messina. I Messinesi per la morte di messer Niccol\u00f2 e de\u2019\ncompagni scorta la bestiale crudelt\u00e0 de\u2019 Catalani, e visto che non si\npoteano confidare, come meglio seppono e poterono s\u2019ordinarono alla\ndifesa, aspettando a tempo dal re Luigi qualche soccorso.\nCAP. CV.\n_Come fornito il trattato della pace tra i due re si f\u00e8 triegua, e\ngiurossi l\u2019una e l\u2019altra, e lo re d\u2019Inghilterra si torn\u00f2 nell\u2019isola per\nmandare a esecuzione le cose ordinate._\nFermato a Briagn\u00ec il trattato della pace tra i due re di Francia\ne d\u2019Inghilterra, perch\u00e8 parea che l\u2019esecuzione d\u2019essa avesse lungo\ntratto di tempo, feciono ivi medesimo una triegua, perch\u00e8 ogni radice\ne materia di guerra cessasse. E ci\u00f2 fatto, il re d\u2019Inghilterra mand\u00f2\na Parigi messer Rinaldo di Cubano, messer Bartolommeo Durvasso, messer\nFrancesco Dalla, e messer Ricciardo della Vacca suoi baroni, nella cui\npresenza il Delfino di Vienna e duca di Normandia, primogenito del re\ndi Francia e governatore del reame, in sul corpo di Cristo sagrato, e\nin su li santi Evangeli giur\u00f2 d\u2019attendere e osservare la detta triegua\ne la pace, e che la farebbe attendere e osservare; appresso lui simile\nfecero tutti i baroni di Francia che si trovarono in Parigi; e ci\u00f2\nfatto, i detti baroni del re d\u2019Inghilterra si tornarono a Ciartres\nal re d\u2019Inghilterra. I figliuoli del re d\u2019Inghilterra e lo conte di\nLancastro feciono simile giuramento a quello del Delfino di Vienna, e\nappresso i baroni del re d\u2019Inghilterra che col re si trovarono giuraro\ncome fatto aveano quelli di Francia: e ci\u00f2 fatto fu a d\u00ec 11 del mese\ndi maggio 1360. Le promesse fatte ne\u2019 detti giuramenti furono, che li\ndue re infra tre settimane dopo il prossimo san Giovanni giurerebbono\nla detta pace in Calese. La detta triegua bandita fu a d\u00ec 12 di maggio\nin Parigi, e appresso per tutto il reame. Fatto il saramento, agli\n11 d\u00ec il re d\u2019Inghilterra con tutto suo oste pacificamente si part\u00ec\nda Ciartres passando per Normandia, e prendendo derrata per danaio, e\ncol prence suo figliuolo, e con gli altri suoi baroni entr\u00f2 in mare a\n......, e pass\u00f2 in Inghilterra, e tutta sua\u2019 gente d\u2019arme pacificamente\nsi ridusse a Calese. Giunto il re d\u2019Inghilterra, quello di Francia gli\ndi\u00e8 desinare nella torre di Londra, e quivi per loro fede giurarono\ndi tenere e osservare il trattato di pace; appresso a d\u00ec 8 di luglio\nil re di Francia venne a Calese, e a d\u00ec 9 detto il re d\u2019Inghilterra\nil re di Francia lui e \u2019l figliuolo convit\u00f2 a mangiare, e in quella\nmattina lo re di Francia ferm\u00f2 l\u2019accordo tra il re d\u2019Inghilterra e\n\u2019l conte di Fiandra, e il detto conte and\u00f2 a Calese, e da ciascuno re\nlietamente fu ricevuto. Poi a d\u00ec 14 di luglio, Carlo primogenito del\nre di Francia, duca di Normandia, e Delfino di Vienna, e governatore\ndi Francia, da Bologna sul mare and\u00f2 a Calese a vedere il padre, e\ndesin\u00f2 col re d\u2019Inghilterra, l\u2019altra mattina si part\u00ec. \u00c8 vero che\nperch\u00e8 non dubitasse lo re d\u2019Inghilterra mand\u00f2 a Bologna due figliuoli\ncome staggi; poi sabato mattina a d\u00ec 24 di luglio, l\u2019abate di Clugn\u00ec\nnella Chiesa di san Niccol\u00f2 in Calese, nella presenza de\u2019 detti\ndue re e di due figliuoli di ciascuno, e di pi\u00f9 di sessanta baroni\ntra dell\u2019uno e dell\u2019altro re, disse messa, e consegrato il corpo di\nCristo, quando venne al terzo Agnus Dei che dice, dona nobis pacem,\nli detti due re si inginocchiarono con molta reverenza; l\u2019abate si\nrivolse a loro col corpo di Cristo sagrato in mano, sopra il quale i\ndue re giurarono d\u2019attendere e osservare il trattato della pace, poi\ndi quella detta ostia si comunicarono insieme. Appresso l\u2019abate loro\nporse li santi Evangeli, e ancora sopra essi giurarono; giurato che\nebbono i due re, similemente giurarono i loro figliuoli, e tutti i\nloro baroni che erano quivi nel numero detto di sopra. Detta la messa,\nmesser Filippo di Navarra con tre baroni per parte del re di Navarra,\ne il duca d\u2019Orliens fratello del re di Francia con tre altri baroni\nfeciono e giurarono pace in vece e nome del re loro. Appresso il re\nd\u2019Inghilterra fece pace col conte di Fiandra, e il duca di Lancastro\ncugino del re d\u2019Inghilterra fece omaggio al re di Francia per le terre\nche da lui tenea in Campagna per retaggio della madre; e in questo\nstante la contea di Monforte fu renduta a messer Gianni di Brettagna.\nLo re di Francia per mostrare sua magnificenza, sopra i patti della\npace di grato don\u00f2 al re d\u2019Inghilterra la Roccella. Fu la detta pace\ngridata ne\u2019 due reami a d\u00ec 24 d\u2019ottobre 1360. Lo re d\u2019Inghilterra\ndove in suo titolo dicea, re di Francia e d\u2019Inghilterra, signore\nd\u2019Irlanda e d\u2019Aquitania, del detto titolo lev\u00f2 re di Francia, ma non\nrinunzi\u00f2 perci\u00f2 alla signoria di Francia, perch\u00e8 lo re di Francia\nnon avea rinunziato alla sovranit\u00e0 e risorto delle citt\u00e0 e castella,\nterre e cose le quali per l\u2019osservanza della pace avea concedute al re\nd\u2019Inghilterra, ma bene l\u2019avea tratte della sorte della citt\u00e0, castella\ne luoghi al suo reame debiti e sottoposti; e certo per li patti\nrinunziare dovea, ricevute certe terre dal re d\u2019Inghilterra: e ci\u00f2\nconsentendo li due re, parvono per grandezza d\u2019animo in tacito accordo.\nLo re di Francia, lo quale era stato prigione d\u2019Inghilterra anni\nquattro e d\u00ec venticinque, pagati li secento migliaia di scudi, e con la\nbuona volont\u00e0 del re d\u2019Inghilterra se n\u2019and\u00f2 a Bologna sul mare, e di\nl\u00e0 poi a santo Dionigi. Lo re d\u2019Inghilterra di poi a d\u00ec 31 di gennaio\npart\u00ec da Calese, e seco ne men\u00f2 il duca d\u2019Angi\u00f2 e quello di Berr\u00ec\nfigliuoli del re di Francia, e il duca d\u2019Orliens, e quello di Borbona,\nmesser Piero di Lanzone, e \u2019l fratello del conte di Stap\u00e8, tutti de\u2019\nreali di Francia, con tutti gli altri baroni e quelli che scrivemo di\nsopra che dovea staggi tenere. Lo re di Francia essendo a san Dionigi,\navanti ch\u2019entrasse in Parigi, a d\u00ec 2 di dicembre mand\u00f2 al re di Navarra\nche venisse a lui, e perch\u00e8 sicuramente venisse, gli mand\u00f2 sofficienti\nstadichi. Lo re di Navarra non gli parendo avere misfatto alla corona\nliberamente insieme con gli staggi che \u2019l re gli avea mandati venne\na lui, e giunt\u00f2 gli f\u00e8 la debita riverenza, e dipoi appresso giur\u00f2 in\nsul corpo di Cristo sagrato nella presenza del re, che da quel giorno\ninnanzi gli sarebbe buono e leale figliuolo, e fedele suggetto. Lo\nre di Francia appresso giur\u00f2 che a lui sarebbe buon padre e signore:\nseguendo appresso il duca di Normandia e messer Filippo di Navarra\ngiurarono fedelmente diritta amist\u00e0 e fratellanza; e pi\u00f9 il detto re di\nNavarra promise e giur\u00f2 di fare a suo podere che \u2019l re d\u2019Inghilterra\nla pace conchiusa a Briagn\u00ec osserverebbe. Il seguente d\u00ec, che fu il\ntredecimo d\u00ec di dicembre, lo re di Francia entr\u00f2 in Parigi, dove a\ngrande onore fu ricevuto, e donato dalla comune vasellamento d\u2019argento\nappresso di mille marchi. Lo re riposato, ordine diede a dirizzare e\ns\u00e8 e il reame regolandosi a minori spese, e f\u00e8 battere moneta a soldi\nsedici il franco.\nCAP. CVI.\n_Come tre castella si rubellarono nella Marca al legato._\nScritto avemo il fine della lunga guerra delli due re di Francia e\nd\u2019Inghilterra, tornando alle italiane tempeste ne occorre, che essendo\nl\u2019oste di messer Bernab\u00f2 a Bologna, continovo facea tenere trattati in\nRomagna e nella Marca, e li paesani per le disordinate gravezze che\nil legato faceva loro si rammaricavano forte, onde a coloro ch\u2019erano\ndisposti a mal fare ne cresceva baldanza; e per\u00f2 a petizione di\nquelli da Boschereto, aspettando forza da messer Bernab\u00f2 secondo la\npromessa, ribellarono in un d\u00ec all\u2019uscita di luglio il loro castello di\nBoschereto, e Corinalto e Montenuovo, in loro vicinanza, terre forti e\nubertuose d\u2019ogni bene da vivere. Il legato sentendo questa ribellione,\nincontanente vi fece cavalcare messer Galeotto de\u2019 Malatesti con\ngente assai a pi\u00e8 e a cavallo, e innanzi che quelli di Corinalto si\npotessono provvedere alla difesa furono soprappresi in pochi d\u00ec per\nmodo s\u2019arrenderono, e salvate le persone, il castello fu rubato e\narso. L\u2019altre due ch\u2019erano pi\u00f9 forti e meglio ordinate alla difesa\nricevettono l\u2019assedio, aspettando soccorso dall\u2019oste di messer Bernab\u00f2.\nCAP. CVII.\n_Come mortalit\u00e0 dell\u2019anguinaia ricominci\u00f2 in diverse parti del mondo._\nNon \u00e8 da lasciare in obliazione la mor\u00eda mirabile dell\u2019anguinaia in\nquest\u2019anno ricominciata, simile a quella che principio ebbe nel 1348\ninfino nel 1350, come narrammo nel cominciamento del primo libro di\nquesto nostro trattato. Questa pestilenza ricominci\u00f2 del mese di maggio\nin Fiandra, che di largo il terzo de\u2019 cittadini e oltra morirono,\noffendendo pi\u00f9 il minuto popolo e povera gente che a\u2019 mezzani, maggiori\ne forestieri, che pochi ne perirono, e durovvi infino all\u2019uscita\nd\u2019ottobre del detto anno, e cos\u00ec seguit\u00f2 per l\u2019altra Fiandra. In\nBrabante tocc\u00f2 poco, e cos\u00ec in Piccardia, ma nel vescovado di Lieges\nf\u00e8 spaventevole dammaggio, perocch\u00e8 la met\u00e0 de\u2019 viventi periro. Di\npoi si venne stendendo nella bassa Alamagna toccando non generalmente\nogni terra, ma quasi quelle dove prima non avea gravate, e valic\u00f2 nel\nFrioli e nella Schiavonia; e fu di quella medesima infert\u00e0 d\u2019enfiatura\nd\u2019anguinaia e sotto il ditello come la prima generale, e s\u00ec era passato\ndal tempo di quella e suo cominciamento a quello di questa per spazio\ndi quattordici anni, e anni dieci della fine di quella a questa,\nessendo alcuna volta tra questo tempo ritocca ora in uno ora in altro\nluogo, ma non grande come questo anno, certificando gli uomini correnti\nnel male che la mano di Dio non \u00e8 stanca n\u00e8 limitata da costellazioni\nn\u00e8 da fisiche ragioni. Addivenne nel Frioli e in Ungheria, che la mor\u00eda\ncominciata in enfiatura torn\u00f2 in uscimento di sangue, e poi si convert\u00ec\nin febbre, e molti febbricosi farnetici, ballando e cantando morivano.\nE in questi tempi occorse cosa assai degna di nota, che in Pollonia,\nnelle parti confinanti con le terre dell\u2019imperio, essendo in esse\ngrandissima quantit\u00e0 di Giudei, i paesani cominciarono a mormorare,\ndicendo, che questa pestilenza loro venia per i Giudei; onde i Giudei\ntemendo mandarono al re de\u2019 loro anziani a chiederli misericordia, e\nfecionli gran doni di moneta, e d\u2019una corona di smisurata valuta; lo re\nconservare gli volea, ma i popoli furiosi non si poterono quietare, ma\ncorrendo straboccatamente tra\u2019 Giudei, e quasi a ultima consumazione,\ncon ferro e fuoco oltre a diecimila Giudei spensono, e alla camera del\nre tutti i loro beni furono incorporati.\nCAP. CVIII.\n_Come il comune di Firenze prese Montecarelli e Montevivagni, e in essi\npreso il conte Tano, venuto a Firenze fu decapitato._\nEssendo il conte Tano de\u2019 conti Alberti per i suoi difetti e prave\noperazioni nemico al comune di Firenze, massimamente per l\u2019accostarsi\nche f\u00e8 con l\u2019arcivescovo di Milano, in cui favore, (quando la gente\ndel detto arcivescovo, essendone capitano messer Giovanni da Oleggio,\npass\u00f2 in Mugello, e assedi\u00f2 la Scarperia) ribell\u00f2 il castello di\nMontecarelli, caldeggiando l\u2019oste ch\u2019era alla Scarperia, di questa\nimpresa ne piace dire alcuna piacevole e notabile ricordanza; che\nessendo appresso del detto conte un matto giocolaro, un giorno si mise\nin un fossato che dividea il contado del conte da quello del comune\ndi Firenze, e quivi come assalito ad alta boce cominci\u00f2 a gridare per\nmolte riprese, accorri uomo, alle cui grida trassono in breve tempo\noltre a cinquecento fanti del contado del comune di Firenze, i quali\nper le malizie del conte stavano sempre ad orecchi levati, e simile vi\ntrasse il conte, e riprese il matto, ed esso riprese lui, dicendoli:\nConte, guarda che a un mio piccolo grido subito sono corsi cinquecento\nuomini di quello del comune di Firenze, e niuno tratto ce n\u2019\u00e8 di quelli\ndell\u2019arcivescovo di Milano: in buona f\u00e8, conte, tu sonerai il corno\nd\u2019Orlando, e in tuo aiuto e favore non trarranno cinque di quelli di\nMilano in un anno. Lo detto conte bestiale, o per paura ch\u2019avesse\ndel comune di Firenze, o per averlo a vile, gli sbanditi del detto\ncomune ritenea, e coloro ch\u2019erano pi\u00f9 rei e famosi di mal fare; per\nquesto avvenne, che a loro posta entravano nel Mugello, e gli uomini\nuccideano e rubavano, e rifuggeano in Montecarelli, e ci\u00f2 feciono\nsconciamente pi\u00f9 volte; il perch\u00e8 il comune ci\u00f2 f\u00e8 noto all\u2019arcivescovo\ndi Milano, il quale rispuose ch\u2019era contro a sua coscienza, e ch\u2019esso\nnon era favoreggiatore di ladroni, e che il comune di Firenze facesse\nquello volesse giustizia e pace del paese; il perch\u00e8 il comune con\nordinato processo f\u00e8 sbandire e condannare il detto conte e pi\u00f9 altri\nnell\u2019avere e nella persona, nonostante che per la pace dal comune\ndi Firenze all\u2019arcivescovo costui da\u2019 Fiorentini non dovesse essere\ngravato. Quivi procedette, che a d\u00ec 12 d\u2019agosto detto anno, il comune\ndi Firenze mand\u00f2 dugento uomini di cavallo e molti fanti del Mugello\na Montecarelli, avendo trattato con fedeli del conte che il castello\nsarebbe dato. Il conte Tano veggendo gli atti de\u2019 fedeli, e di quelli\nprendendo sospetto, s\u2019era rifuggito co\u2019 masnadieri che seco avea, e con\ngli sbanditi del comune di Firenze in Montevivagni. Come il castello\ndi Montecarelli fu attorniato dalla gente del comune di Firenze, i\nfedeli del conte che l\u2019aveano in guardia seguendo il trattato di subito\ns\u2019arrenderono salvi, ricevuti furono nella protezione del comune.\nIl castello per diliberazione del comune infino alle fondamenta fu\nabbattuto, e il capitano di Firenze fatto capitano dell\u2019oste si dirizz\u00f2\nall\u2019assedio di Montevivagni; ed essendosi il conte provveduto alla\ndifesa, per gli suoi sconci peccati perd\u00e8 il senno a non prendere\naccordo col comune di Firenze, che \u2019l pot\u00e8 avere a vantaggio, solo\ndando le ragioni del detto Montevivagni al comune di Firenze, e\nprendendo danari, anzi si mise mattamente alla difesa; il capitano\ndell\u2019oste gli tolse per forza un poggetto nomato l\u2019Arcivescovo, e ci\u00f2\navuto, d\u2019intorno intorno l\u2019assedi\u00f2 infino a d\u00ec 8 di settembre. Questo\nd\u00ec vi cominci\u00f2 a dare la battaglia, e combattendosi forte, quelli\nch\u2019aveano la guardia della torre domandarono d\u2019essere salvi come\ngli altri fedeli del conte, e fatto loro la promessa, cominciarono a\ndare delle pietre a\u2019 masnadieri e sbanditi ch\u2019erano alla difesa delle\nmura col conte, e per forza gliene levarono; onde il conte con suoi\nmalfattori fu costretto arrendersi alla misericordia del comune di\nFirenze. Fuvvi preso il conte con uno degli Ubaldini, e con quattordici\ncaporali sbanditi del comune di Firenze, e lasciati liberi i fedeli. Il\nconte con i predetti vennono legati dinanzi al potest\u00e0 e capitano, che\ncon gran festa fu ricevuto, assai maggiore non si convenia a s\u00ec piccolo\nfatto. Poi a d\u00ec 14 di settembre, il d\u00ec di santa Croce, il detto conte\nTano per lo bando che avea fu dicapitato, e seppellito in santa Croce\ndirimpetto alla cappella di santo Lodovico a pi\u00e8 delle scalee, quasi\nnel mezzo; quello degli Ubaldini a richiesta de\u2019 suoi consorti fu loro\nrenduto. Gli sbanditi furono tranati e appesi vilmente. Tale fu il fine\ndella spelonca di Montecarelli, e del suo conte Tano e sua corrotta\nfede, in non lieve esempio degli altri vicini del comune di Firenze.\nCAP. CIX.\n_Come in Francia si cominci\u00f2 compagnia denominata bianca._\nNella concordia presa degli due re di Francia e d\u2019Inghilterra, della\nquale s\u2019attendea certa fine di buona pace, essendo il re d\u2019Inghilterra\nco\u2019 figliuoli e con l\u2019oste sua tornato nell\u2019isola, molti cavalieri e\narcieri inghilesi usati alle prede e ruberie si rimasono nel paese: e\navendo messer Beltramo di Crech\u00ec e l\u2019arciprete di Pelagorga ordinato\ndi fare compagnia, raccolsono ogni maniera di gente la quale trovarono\ndisposta a mal fare, ed ebbono Franceschi, Tedeschi, Inghilesi,\nGuasconi, e Borgognoni, Normandi, e Provenzali, e crebbono in poco di\ntempo in grande numero, e nomarsi la compagnia bianca, e cominciarono\na conturbare i paesi, e a trarre danari e roba d\u2019ogni parte, e cos\u00ec\nstettono infino che la pace fu ferma, e il re di Francia lasciato di\nprigione; allora per comandamento de\u2019 detti due re sotto pena di cuore\ne d\u2019avere, e d\u2019essere perseguitati da\u2019 loro signori, s\u2019uscirono del\nreame di Francia, e ridussonsi a Lingr\u00e8 nell\u2019impero, e ivi s\u2019accolsono\nin numero di seimila barbute, essendo in paese grasso e ubertuoso da\nvivere: cercarono di valicare a Lione, i paesani s\u2019adunarono a\u2019 passi,\ne impedivanli per modo, che dove erano si ritennono lungamente con far\ndanno assai con loro poco frutto.\nCAP. CX.\n_Della gravezza fatta per messer Bernab\u00f2 ai cherici e laici, rotto il\ntrattato della pace._\nVedendo messer Bernab\u00f2 che la Chiesa si sforzava alla difesa di\nBologna, e che l\u2019intenzione sua non si empieva tosto come pensava,\ne che la spesa cresceva, fece stimare tutte le rendite e\u2019 beni de\u2019\nprelati e cherici che erano sotto sua tirannia, e fatta la tassazione\nebbe per nome e sopra nome tutti i secolari poderosi vicini alle\nprelature, benefiche chiese, e comandamento fece, che qualunque\nvicinanza infra certo tempo avessono pagato alla camera sua quelli\ndanari che il beneficio era tassato, e il beneficio rispondea alla\ntassazione, che pagassono, e cos\u00ec convenne che fatto fosse, per modo\nche in tre mesi, luglio, agosto e settembre, ebbe nella camera sua\nde\u2019 beni de\u2019 cherici per questa via oltre a trecento trenta migliaia\ndi fiorini d\u2019oro, e di secolari sudditi suoi oltre alle sue rendite\nordinate in sussidio di trecentosettanta migliaia di fiorini d\u2019oro,\ne ci\u00f2 per sostenere e fornire l\u2019impresa fatta, e che fare intendea\ndell\u2019oste sua sopra la citt\u00e0 di Bologna: e convenne che cos\u00ec fatto\nfosse perch\u00e8 il volle, e nel tempo, stimandosi il superbo tiranno di\nvincere per stracca la citt\u00e0 di Bologna, e la Chiesa che presa l\u2019avea.\nEssendo messer Niccola Acciaiuoli grande siniscalco del regno di Puglia\ncon messer Bernab\u00f2 per trattare accordo da lui alla Chiesa de\u2019 fatti di\nBologna, e venuto al legato, e trovatolo con pi\u00f9 animo fermo contro al\ntiranno che non si stimava, avendo il legato ordinato certe convegne\nda trattarsi nella pace, e per uno famigliare del gran siniscalco le\nfece mandare a messer Bernab\u00f2, il quale volle che a capitolo a capitolo\ngli fossero lette, e leggendosi, a catuno capitolo rispondea, e io\nvoglio Bologna, e cos\u00ec al tutto rimase il trattato rotto, con arrota\ndi pi\u00f9 villane novelle di parole dal tiranno al legato. Ed era in\nquesti giorni la citt\u00e0 di Bologna molto stretta, e pativa disagi e\ngravezze assai, ma di fuori si procacciava il soccorso per il legato\ncon molta sollicitudine, e messer Bernab\u00f2 continovo tenea un trattato\nd\u2019impacciare il legato nella Marca e nella Romagna.\nCAP. CXI.\n_Come il capitano dell\u2019oste di messer Bernab\u00f2 mand\u00f2 a soccorrere le\ncastella ribellate al legato nella Marca._\nSentendo il capitano dell\u2019oste da Bologna come delle tre castella\nrebellate al legato le due si teneano aspettando soccorso, mand\u00f2\nAnichino di Bongardo Tedesco con millecinquecento barbute e con\nmille masnadieri per soccorrerli, e per prendere luogo nella Marca,\ne impacciare il legato s\u00ec di l\u00e0 che non potesse soccorrere Bologna, e\nchiaramente gli venia fatto, se Anichino fosse stato leale, perocch\u00e8\nsenza contasto entr\u00f2 in Romagna, e fu a Rimini, e messer Pandolfo e\nl\u2019oste del legato per paura si part\u00ec dall\u2019assedio del castello: ma\ncome che la cosa s\u2019andasse, e\u2019 non volle andare pi\u00f9 oltre, e d\u2019allora\ninnanzi fece delle cose che tornarono a gran beneficio dell\u2019impresa\ndel legato, e a onta e vergogna di messer Bernab\u00f2, come seguendo nostra\nmateria nel principio del decimo libro racconteremo. Tornossi addietro\nAnichino, e le castella s\u2019arrenderono al legato e furono disfatte,\nall\u2019uscita d\u2019agosto detto anno.\nCAP. CXII.\n_Ancora dello stato del tempo e della moria dell\u2019anguinaia._\nQuesto anno fu singolare di continovo sereno tutta la state e di\nnotabile caldo, ed ebbe secondo il lungo tempo secco e caldo comunale\nricolta di grano e di vino, e degli altri frutti della terra, ma la\nmor\u00eda fu grandissima in molte parti occidentali, come narrato di sopra\navemo, e l\u2019Italia ebbe molti infermi di lunghe malattie, ed assai\nmorti; e generale infermit\u00e0 di vaiuolo fu nella state di fanciulli\ne ne\u2019 garzoni, ed eziandio negli uomini e femmine di maggiori etadi,\nch\u2019era cosa di stupore e fastidiosa a vedere.\nCAP. CXIII.\n_Come i Pisani arsono un castello de\u2019 Pistoiesi._\nIn questi d\u00ec i Pisani con dugento barbute e mille fanti cavalcarono\nsopra i Pistoiesi, e presono e arsono un loro castello nella montagna,\nnel quale nella veritade si riparava gente di mala condizione, e che\nfaceano danno ai loro distrettuali. Male ne parve ai Fiorentini, ma fu\ns\u00ec piccola cosa, che per lo meno male s\u2019infinsono di non lo vedere.\nTAVOLA DEI CAPITOLI\n _Qui comincia l\u2019ottavo libro della Cronica di Matteo\n _CAP. II. Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come\n procedette il suo nome e le sue prediche in Pavia_ 7\n _CAP. III. Come frate Iacopo fece tribuni di popolo\n _CAP. IV. Come frate Iacopo cacci\u00f2 i signori da Beccheria\n _CAP. VI. Come per pi\u00f9 riprese in diversi tempi fu\n messo fuoco nelle case della Badia di Firenze_ 13\n _CAP. VII. Come la terra di Romena si comper\u00f2 per\n _CAP. VIII. Come la compagnia di Provenza si sparse\n _CAP. IX. Come la compagnia del conte di Lando fu\n condotta per i collegati di Lombardia_ 17\n _CAP. X. Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana\n _CAP. XI. Come i Pisani feciono armata per rompere\n _CAP. XII. Come essendo l\u2019oste de\u2019 Visconti a Mantova,\n parte della compagnia si mise in Castro_ 20\n _CAP. XIII. Come la Chiesa di Roma fe\u2019 gravezza\n _CAP. XIV. Cominciamento di guerra tra certi comuni\n _CAP. XV. Di certe novit\u00e0 apparenti contro il soldano\n _CAP. XVI. Come il re di Navarra fu tratto di prigione_ 24\n _CAP. XVII. Come i Perugini dall\u2019una parte i Cortonesi\n dall\u2019altra mandarono per aiuto a Firenze_ 25\n _CAP. XVIII. Come la gente de\u2019 signori di Milano furono\n _CAP. XIX. Come l\u2019oste del re d\u2019Ungheria prese la\n _CAP. XX. Come messer Bernab\u00f2 fece combattere\n _CAP. XXI. Come si cominci\u00f2 a trattare pace da\u2019 collegati\n _CAP. XXII. Come i Perugini puosono cinque battifolli\n _CAP. XXIII. Come i Trevigiani furono rotti dagli\n _CAP. XXIV. Cominciamenti di nuovi scandali nella\n _CAP. XXV. D\u2019un singolare accidente ch\u2019avvenne in\n _CAP. XXVI. Come in Firenze nacque una fanciulla\n _CAP. XXVII. Come i Sanesi si scopersono nemici\n _CAP. XXVIII. Come i Sanesi misono cavalieri in\n _CAP. XXIX. La cagione che mosse i borgesi di Parigi\n _CAP. XXX. Della pace dal re d\u2019Ungheria a\u2019 Veneziani_ 43\n _CAP. XXXI. Come da prima in citt\u00e0 di Firenze furono\n accusati certi cittadini per ghibellini_ 45\n _CAP. XXXII. Come a\u2019 capitani della parte furono\n _CAP. XXXIII. Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere\n _CAP. XXXIV. Come si lev\u00f2 l\u2019oste da Cortona_ 51\n _CAP. XXXV. Di novit\u00e0 di Perugia per detta cagione_ 52\n _CAP. XXXVI. Di una gran festa fe\u2019 bandire il re\n _CAP. XXXVII. Come l\u2019armata del comune di Firenze\n _CAP. XXXVIII. Come il popolo di Parigi cominci\u00f2\n _CAP. XXXIX. Come i Perugini tornarono a oste a Cortona_ 57\n _CAP. XL. Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia_ 56\n _CAP. XLI. Come furono sconfitti Sanesi da\u2019 Perugini_ 60\n _CAP. XLII. Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta_ 62\n _CAP. XLIII. Come i conti da Montedoglio presono e\n _CAP. XLIV. Come il re d\u2019Inghilterra and\u00f2 a vicitare\n il re di Francia, e annunziarli la pace_ 64\n _CAP. XLV. Come i Tarlati si feciono accomandati\n _CAP. XLVI. D\u2019una folgore percosse il campanile\n de\u2019 frati predicatori di Firenze_ 66\n _CAP. XLVII. Della pomposa festa che si f\u00e8 in Inghilterra\n _CAP. XLVIII. Come i Perugini cavalcarono i Sanesi\n _CAP. XLIX. Come il legato del papa ripuose l\u2019assedio\n _CAP. L. Come i Provenzali feciono compagnia per\n _CAP. LI. Come si pubblic\u00f2 la pace de\u2019 due re_ 72\n _CAP. LII. Come il legato del papa pose due bastite\n _CAP. LIII. Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo_ 73\n _CAP. LIV. Come si part\u00ec la compagnia di Provenza_ 74\n _CAP. LV. Come i signori di Milano posono l\u2019assedio\n _CAP. LVI. Come i Perugini afforzarono l\u2019Orsaia_ 76\n _CAP. LVII. Come si fece la pace da\u2019 signori di Milano\n _CAP. LVIII. Come s\u2019abbatt\u00e8 i palazzi di quelli da\n _CAP. LIX. Di molte paci e altre cose notevoli fatte_ 79\n _CAP. LX. Come la compagnia del conte di Lando\n _CAP. LXI. Come il re Luigi riebbe il castello di Parma_ 81\n _CAP. LXII. De\u2019 fatti di Siena della loro guerra_ 82\n _CAP. LXIII. Come i Pisani abbandonarono la gara\n _CAP. LXIV. Come i Sanesi chiamarono capitano, e\n _CAP. LXV. Come si fece certa arrota al palio di san\n _CAP. LXVI. Come il Delfino mand\u00f2 per lo proposto\n _CAP. LXVII. Di novit\u00e0 fatte per lo popolo di Parigi_ 86\n _CAP. LXVIII. Come l\u2019altre ville seguirono di fare\n _CAP. LXX. Come il legato ebbe Meldola_ 89\n _CAP. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono il monte\n _CAP. LXXIII. Come il conte di Lando torn\u00f2 d\u2019Alamagna\n _CAP. LXXIV. Come la compagnia fu rotta nell\u2019alpe_ 95\n _CAP. LXXV. Come il conte di Lando scamp\u00f2 di prigione_ 99\n _CAP. LXXVI. Come l\u2019altra parte della compagnia\n _CAP. LXXVII. Come il comune di Firenze procedette\n _CAP. LXXVIII. Il fine ch\u2019ebbe l\u2019impresa de\u2019 Fiorentini_ 103\n _CAP. LXXIX. Come la compagnia and\u00f2 in Romagna_ 107\n _CAP. LXXX. Come i signori di Francia vennono sopra\n _CAP. LXXXI. Come il re di Spagna uccise molti\n _CAP. LXXXII. Della detta materia di Spagna_ 111\n _CAP. LXXXIII. Come la compagnia cavalc\u00f2 a Cervia_ 113\n _CAP. LXXXIV. Come il capitano di Forl\u00ec mise la\n _CAP. LXXXV. D\u2019una nuova compagnia di Tedeschi_ 115\n _CAP. LXXXVI. Come si lev\u00f2 l\u2019oste da molte terre_ 116\n _CAP. LXXXVII. Come si f\u00e8 accordo dal Delfino a\n _CAP. LXXXVIII. Di detta materia, e come fu morto\n _CAP. LXXXIX. Come furono impesi que\u2019 borgesi a\n cui erano state accomandate le chiavi delle bastite_ 121\n _CAP. XC. Come si scoperse il trattato tenea il re di\n _CAP. XCI. Come il re di Navarra guast\u00f2 intorno a Parigi_ 123\n _CAP. XCII. Come il marchese non volle dare Asti\n _CAP. XCIII. Come la compagnia assal\u00ec Faenza_ 125\n _CAP. XCIV. Come i Fiorentini mandarono a Bologna\n _CAP. XCV. Qui si fa menzione delle ragioni che\n \u2019l monistero di Settimo ha nello Stale_ 128\n _CAP. XCVI. Come la compagnia della Rosa di Provenza\n _CAP. XCVII. Come s\u2019afforz\u00f2 e guard\u00f2 i passi dell\u2019alpe\n perch\u00e8 la compagnia non passasse_ 130\n _CAP. XCVIII. Come l\u2019imperadore fece il duca d\u2019Osteric\n _CAP. XCIX. De\u2019 processi della compagnia in questi giorni_ 133\n _CAP. C. Come il re del Garbo fu morto_ 135\n _CAP. CI. Come i cardinali ch\u2019erano in Inghilterra si\n _CAP. CII. Della pace da\u2019 Sanesi a\u2019 Perugini_ 138\n _CAP. CIII. Come il cardinale torn\u00f2 in Italia_ 140\n _CAP. CIV. Come messer Gilio di Spagna parlament\u00f2\n _CAP. CV. Come la compagnia si condusse per la Romagna_ 144\n _CAP. CVI. Dello stato della Cicilia_ 145\n _CAP. CVII. Del male stato del reame di Francia_ 146\n _CAP. CVIII. Di mortalit\u00e0 d\u2019Alamagna e Brabante_ 147\n _CAP. CIX. Di giustizia fatta in Parigi_ 148\n _CAP. CX. De\u2019 dificii fatti a sant\u2019Antonio di Firenze_ 149\n LIBRO NONO\n _Qui comincia il quinto libro; e prima il prologo_ 151\n _CAP. II. Come la compagnia si part\u00ec da Sogliano e\n _CAP. III. Come il comune di Firenze diede balia\n a\u2019 cittadini contro alla compagnia_ 155\n _CAP. IV. Come precedette la compagnia in Romagna_ 157\n _CAP. V. Di novit\u00e0 state tra signori di Cortona_ 159\n _CAP. VI. Dello inganno fatto per lo legato al comune\n _CAP. VII. Il male segu\u00ec per l\u2019accordo fatto dal legato\n _CAP. VIII. Di molte fosse feciono i signori di Lombardia\n _CAP. IX. Come il re d\u2019Inghilterra dissimulando la\n pace cercava la guerra co\u2019 Franceschi_ 167\n _CAP. X. Come il re di Navarra tribolava Francia_ 169\n _CAP. XI. Del male stato di Cicilia in questi tempi_ 170\n _CAP. XII. Del male stato di Puglia per ladroni_ 172\n _CAP. XIII. Della morte di messer Bernardino da\n _CAP. XV. Di certa novit\u00e0 ch\u2019ebbe in Perugia in questi\n _CAP. XVI. Di sconfitta ebbono i Turchi da\u2019 frieri_ 177\n _CAP. XVII. Di novit\u00e0 state in Provenza contro a quelli\n _CAP. XVIII. Il consiglio si tenne in Francia sopra\n _CAP. XIX. Come il re di Spagna e quello d\u2019Araona\n s\u2019affrontarono e non combatterono_ 182\n _CAP. XX. Come il comune di Firenze si provvide contro\n _CAP. XXI. D\u2019una folgore che cadde in sulla chiesa\n _CAP. XXII. D\u2019una battaglia tra due baroni del re\n _CAP. XXIII. Come sotto nome di falsa pace il re di\n _CAP. XXIV. Novit\u00e0 state a Montepulciano_ 189\n _CAP. XXV. Di fanciulli mostruosi che nacquero in\n _CAP. XXVI. Come la compagnia pass\u00f2 in Toscana, e\n cerc\u00f2 concordia con i Fiorentini_ 191\n _CAP. XXVII. Come la compagnia s\u2019appress\u00f2 a Firenze_ 194\n _CAP. XXVIII. Come il comune di Firenze di\u00e8 l\u2019insegne,\n _CAP. XXIX. Come la compagnia gir\u00f2 il nostro contado,\n _CAP. XXX. Come la compagnia mand\u00f2 il guanto della\n battaglia al nostro capitano, e la risposta fatta_ 200\n _CAP. XXXI. Come la compagnia vituperosamente si\n part\u00ec del campo delle Mosche, e fuggissi_ 204\n _CAP. XXXII. Come il re d\u2019Ungheria pass\u00f2 nel reame\n _CAP. XXXIII. Come messer Feltrino da Gonzaga\n _CAP. XXXIV. Come il vescovo di Trievi sconfisse\n _CAP. XXXV. Come fu soccorsa Pavia, e levatone\n _CAP. XXXVI. Come il capitano di Forl\u00ec s\u2019arrend\u00e8 al\n _CAP. XXXVII. Di una compagnia creata d\u2019Inghilesi\n _CAP. XXXVIII. D\u2019una zuffa che fu tra gli artefici di\n _CAP. XXXIX. Come l\u2019imperadore de\u2019 Tartari fu morto_ 215\n _CAP. XL. Di novit\u00e0 de\u2019 Turchi in Romania_ 216\n _CAP. XLI. Come il Delfino di Vienna fece pace col\n _CAP. XLII. Come l\u2019oste de\u2019 Fiorentini torn\u00f2 a Firenze\n e la compagnia ne and\u00f2 nella Riviera_ 218\n _CAP. XLIII. Della morte e sepoltura di messer Biordo\n _CAP. XLIV. Come i Perugini mandarono ambasciata\n a Siena, e abominando i Fiorentini_ 222\n _CAP. XLV. Come il comune di Firenze mand\u00f2 aiuto\n di mille barbute a messer Bernab\u00f2 contro alla\n _CAP. XLVI. Come il castello di Troco fu incorporato\n _CAP. XLVII. Come il comune di Firenze assedi\u00f2\n _CAP. XLVIII. Come il comune comper\u00f2 Soci_ 228\n _CAP. XLIX. Come il vescovo d\u2019Arezzo diede le sue\n ragioni che avea in Bibbiena al comune di Firenze_ 229\n _CAP. L. Seguita la sequela della compagnia_ 230\n _CAP. LI. De\u2019 fatti di Sicilia, e del seguire l\u2019ammonire\n _CAP. LII. Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto\n _CAP. LIII. Come il re d\u2019Inghilterra pass\u00f2 in Francia\n _CAP. LIV. La poca fede del conte di Lando_ 238\n _CAP. LV. Come Pavia s\u2019arrend\u00e8 a messer Galeazzo_ 239\n _CAP. LVI. Come i signori di Milano sfidarono il signore\n _CAP. LVII. Come messer Bernab\u00f2 mand\u00f2 l\u2019oste sua\n _CAP. LVIII. Come fu maestrato da prima in Firenze\n _CAP. LIX. Come fu morto il signore di Verona dal\n _CAP. LX. Come Cane Signore fu fatto signore di Verona_ 248\n _CAP. LXI. Come fu presa Bibbiena pe\u2019 Fiorentini_ 249\n _CAP. LXII. Come la rocca di Bibbiena s\u2019arrend\u00e8 al\n _CAP. LXIII. Di novit\u00e0 state in Spagna_ 254\n _CAP. LXIV. Come i Pistoiesi ripresono il castello della\n _CAP. LXV. Come messer Bernab\u00f2 strignea Bologna_ 256\n _CAP. LXVI. Come gli Aretini riebbono il castello della\n _CAP. LXVII. Come il re d\u2019Inghilterra si pose a oste\n _CAP. LXVIII. Discordia del conte di Foci a quello\n _CAP. LXIX. Quello feciono gli osti del re d\u2019Inghilterra\n _CAP. LXX. Come pi\u00f9 castella si rubellarono a\u2019 Tarlati_ 263\n _CAP. LXXI. Di un trattato di Bologna scoperto_ 264\n _CAP. LXXII. Come le sette di Cicilia si divorarono\n _CAP. LXXIII. Come la Chiesa deliber\u00f2 l\u2019impresa\n _CAP. LXXIV. Come messer Giovanni da Oleggio ferm\u00f2\n suo accordo con il legato di Bologna_ 267\n _CAP. LXXV. Patti da messer Giovanni da Oleggio\n alla Chiesa, e la tenuta di Bologna_ 270\n _CAP. LXXVI. Come la citt\u00e0 di Bologna fu libera dal\n tiranno in mano del legato e della Chiesa essendo\n _CAP. LXXVII. Come la Chiesa riform\u00f2 Bologna_ 273\n _CAP. LXXVIII. Di una congiura si scoperse in Pisa_ 274\n _CAP. LXXIX. Di un trattato menato in Forl\u00ec contro\n _CAP. LXXX. Come fu combattuta Cento dall\u2019oste\n _CAP. LXXXI. Come gli Ubaldini si mostrarono tra\n _CAP. LXXXII. Di portamenti degl\u2019Inghilesi in Borgogna_ 280\n _CAP. LXXXIII. Come i Normandi con loro armata\n _CAP. LXXXIV. Come il duca di Borgogna, s\u2019accord\u00f2\n _CAP. LXXXV. Come il re d\u2019Inghilterra assedi\u00f2 Parigi_ 283\n _CAP. LXXXVI. Come il re d\u2019Inghilterra si strinse a\n _CAP. LXXXVII. Conta del reggimento de\u2019 Romani,\n _CAP. LXXXVIII. Come parte degli Ubaldini presono\n _CAP. LXXXIX. Di novit\u00e0 e morte del re di Granata,\n _CAP. XC. Come il legato richiese d\u2019aiuto il re d\u2019Ungheria\n _CAP. XCI. Come in corte si di\u00e8 sentenza contro a quelli\n _CAP. XCII. Come messer Galeazzo Visconti si mand\u00f2\n scusando in corte di Roma dell\u2019impresa di Bologna_ 294\n _CAP. XCIII. Come papa Innocenzio lev\u00f2 la riservagioni_ 295\n _CAP. XCIV. Come il re Luigi fece guerra al duca di\n Durazzo, e ultimamente s\u2019accordaro_ 296\n _CAP. XCV. Come messer Niccola gran siniscalco del\n Regno and\u00f2 in corte di Roma per accordare il\n re con la Chiesa, e fattogli dal papa ci\u00f2 gli domand\u00f2,\n e grand\u2019onore, se ne torn\u00f2 in Lombardia_ 297\n _CAP. XCVI. Come gli Aretini per baratta ebbono\n _CAP. XCVII. Come il conticino da Ghiaggiuolo fu\n da\u2019 figliuoli propri preso e vituperosamente tenuto_ 301\n _CAP. XCVIII. Come si ferm\u00f2 pace dal re d\u2019Inghilterra\n a\u2019 Franceschi, e\u2019 patti e le convegne ebbono insieme_ 304\n _CAP. XCIX. D\u2019un trattato si scoperse in Bologna,\n _CAP. C. Come il papa confort\u00f2 gli ambasciadori bolognesi,\n e richiese d\u2019aiuto i Fiorentini all\u2019impresa di Bologna_ 313\n _CAP. CI. Come i Chiaravallesi vennero contro a Todi,\n _CAP. CII. Come l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 si strinse a\n _CAP. CIII. Come la casa reale di Francia feciono\n parentado co\u2019 Visconti per danari, con vituperio\n _CAP. CIV. Come messer Niccol\u00f2 di Cesaro conte di.....\n e signore di Messina fu morto con quaranta compagni_ 320\n _CAP. CV. Come fornito il trattato della pace tra i due\n re si f\u00e8 triegua, e giurossi l\u2019una e l\u2019altra, e lo re\n d\u2019Inghilterra si torn\u00f2 nell\u2019isola per mandare a\n _CAP. CVI. Come tre castella si rubellarono nella\n _CAP. CVII. Come mortalit\u00e0 dell\u2019anguinaia ricominci\u00f2\n _CAP. CVIII. Come il comune di Firenze prese Montecarelli\n e Montevivagni, e in essi preso il conte\n Tano, venuto a Firenze fu decapitato_ 328\n _CAP. CIX. Come in Francia si cominci\u00f2 compagnia\n _CAP. CX. Della gravezza fatta per messer Bernab\u00f2\n ai cherici e laici, rotto il trattato della pace_ 332\n _CAP. CXI. Come il capitano dell\u2019oste di messer Bernab\u00f2\n mand\u00f2 a soccorrere le castella ribellate al\n _CAP. CXII. Ancora dello stato del tempo e della\n _CAP. CXIII. Come i Pisani arsono un castello de\u2019\n TOMO IV.\n \u2014 141 \u2014 30 e ogni ogni vergogna e ogni vergogna\n \u2014 252 \u2014 4 fu ribattuto fu ributtato\n \u2014 325 \u2014 23 osservebbe osserverebbe\nNota del Trascrittore\nOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo\nsenza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in\nfine libro sono state riportate nel testo.", "source_dataset": "gutenberg", "source_dataset_detailed": "gutenberg - Cronica di Matteo Villani, vol. IV\n"}, +{"source_document": "", "creation_year": 1343, "culture": " Italian\n", "content": "VOL. III ***\n A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA\nLIBRO QUINTO\n_Qui comincia il quinto libro della Cronica di Matteo Villani; e prima\nil Prologo._\nCAPITOLO PRIMO.\nChiunque considera con spedita e libera mente il pervenire a\u2019 magnifici\ne supremi titoli degli onori mondani, trover\u00e0 che pi\u00f9 paiono mirabili\ninnanzi al fatto e di lungi da quello, che nella presenza della\ndesiderata ambizione e gloria: e questo avviene, perch\u00e8 il sommo stato\ndelle cose mobili e mortali, venuto al termine dell\u2019ottato fine,\ninvilisce, perocch\u00e8 non pu\u00f2 empiere la mente dell\u2019animo immortale;\nancora si fa pi\u00f9 vile, se con somma virt\u00f9 non si governa e regge; ma\nquando s\u2019aggiugne a\u2019 vizi, l\u2019ottata signoria diventa incomportabile\ntirannia, e muta il glorioso titolo in ispaventevole tremore de\u2019\nsudditi popoli. Ma perocch\u00e8 ogni signoria procede ed \u00e8 data da Dio in\nquesto mondo, assai \u00e8 manifesto, che per i peccati de\u2019 popoli regna\nl\u2019iniquo. L\u2019imperial nome sormonta gli altri per somma magnificenza,\nal qual solea ubbidire tutte le nazioni dell\u2019universo, ma a\u2019 nostri\ntempi gl\u2019infedeli hanno quello in dispregio, e nella parte posseduta\nper i cristiani tanti sono i potenti re, signori, e tiranni, comuni,\ne popoli che non l\u2019ubbidiscono, che piccolissima parte ne rimane alla\nsua suggezione; la qual cosa estimano ch\u2019avvenga principalmente dalla\ndivina disposizione, il cui provvedimento e consiglio non \u00e8 nella\npodest\u00e0 dell\u2019intelletto umano. Ancora n\u2019\u00e8 forse cagione non piccola\nl\u2019imperiale elezione trasportata ai sette principi d\u2019Alamagna, i\nquali hanno continovato lungamente a eleggere e promuovere all\u2019imperio\nsignori di loro lingua, i quali colla forza teutonica, e col consiglio\nindiscreto e movimento furioso di quella gente barbara hanno voluto\nreggere e governare il romano imperio; la qual cosa \u00e8 strana da quel\npopolo italiano che a tutto l\u2019universo diede le sue leggi, e\u2019 buoni\ncostumi e la disciplina militare: e mancando a\u2019 Tedeschi le principali\nparti che si richieggono all\u2019imperiale governamento, non \u00e8 maraviglia\nperch\u00e8 mancata sia la somma signoria di quello. E stringendone l\u2019usata\nmateria a fare principio al quinto libro, la coronazione di Carlo di\nLuzimborgo, e quanto di quella seguit\u00f2 in brevissimo tempo, sieno in\nparte esempio di quello che narrato avemo nella presente rubrica.\nCAP. II.\n_Come messer Carlo di Luzimborgo fu coronato imperadore de\u2019 Romani._\nDomenica mattina a d\u00ec 5 del mese d\u2019aprile, gli anni Domini 1355 dalla\nsua salutevole incarnazione, il d\u00ec della Resurrezione di Cristo,\nessendo il cardinale d\u2019Ostia legato del papa a fare la consecrazione\ndell\u2019imperadore con molti prelati nella basilica di san Pietro,\nl\u2019eletto Carlo sopraddetto giugnendo a san Pietro co\u2019 Romani, e colla\ngrande cavalleria e moltitudine di popolo che l\u2019aveano accompagnato,\nscavalcato colla sua donna, furono ricevuti nella chiesa con grande\ntumulto di stromenti, e allegrezza e festa di catuna gente. E\nincontanente ch\u2019egli fu in san Pietro, com\u2019egli avea ordinato, molti\ncavalieri armati tramezzarono tra la sua persona e della donna con\nalquanti pi\u00f9 confidenti prelati ch\u2019erano all\u2019uficio dell\u2019altare, e\nl\u2019altro popolo riempierono s\u00ec il mezzo della grande basilica che niuno\npotea valicare verso l\u2019altare, o vedere la sua consacrazione, salvo\ni prelati e coloro ch\u2019erano in compagnia con l\u2019eletto. E celebrato\nl\u2019uficio della solenne messa, spogliato l\u2019eletto de\u2019 suoi primi\nvestimenti, e stando a pi\u00e8 dell\u2019altare, ricevuta la sagra unzione, e\nconfessata la sua cattolica fede, con quelle cerimonie che l\u2019usanza\nrichiede, fu vestito dell\u2019imperiali vestimenta, e consecrato dal\ncardinale; per lo prefetto di Vico, in chi sta l\u2019uficio d\u2019incoronare,\ngli fu messo la corona dell\u2019oro imperiale, ed egli incoron\u00f2\nl\u2019imperatrice. E fatta la solennit\u00e0 della sua coronazione, l\u2019imperadore\nnella maest\u00e0 imperiale mont\u00f2 in su uno grande e nobile destriere,\nportando nella mano destra un bastone d\u2019oro, e nella sinistra una palla\nd\u2019oro ivi suso una crocetta di sopra, e sotto nobilissimi palii d\u2019oro\ne di seta, addestrato da\u2019 principi romani e da altri nobili signori\nalla sella e al freno e d\u2019intorno, e appresso a lui l\u2019imperadrice,\ncon grande allegrezza e festa furono condotti per la citt\u00e0 di Roma a\nsan Giovanni Laterano, ov\u2019era fatto l\u2019apparecchiamento per desinare;\ne ivi smontati, con grande reverenza andarono a vicitare l\u2019altare: e\ngi\u00e0 valicata l\u2019ora di nona, si posono a mangiare: e fatta la desinea,\nl\u2019imperadore e l\u2019imperadrice, con poca compagnia di loro gente, mutato\nl\u2019abito dell\u2019imperiale maest\u00e0, montarono a cavallo, e andarono ad\nalbergare fuori della citt\u00e0 di Roma a san Lorenzo tra le vigne: e\nquesto fece per ubbidire al comandamento a lui fatto dal santo padre,\nche coronato che fosse, non dovesse albergare in Roma. A questa\ncoronazione si trovarono cinquemila tra baroni e cavalieri alamanni,\ni pi\u00f9 Boemi, e pi\u00f9 di diecimila Italiani vi furono a cavallo, tutti al\nservigio e a fare onore all\u2019imperadore. E niuno contrario o sospetto a\nlui si trov\u00f2 in Italia, per l\u2019umile venuta e savia pratica che tenne,\ndi non essere partefice e di non seguire il consiglio de\u2019 ghibellini\ncome i suoi antecessori, cosa maravigliosa e non udita, addietro per\nmolti tempi. E partito l\u2019imperadore da san Lorenzo con minore compagnia\nse n\u2019and\u00f2 a Tivoli per osservare alcuna ceremonia debita a\u2019 novelli\nimperadori; incontanente tutta la cavalleria si cominci\u00f2 a partire da\nRoma, e venire verso Siena e Pisa, e chi a ritrarsi verso la Magna.\nLasceremo alquanto l\u2019imperadore e la sua cavalleria al cammino, e\nseguiremo d\u2019altre novit\u00e0 strane, che in questi giorni s\u2019apparecchiano\nalla nostra materia.\nCAP. III.\n_Come messer Ruberto di Durazzo prese per furto il Balzo in Provenza._\nQuello che seguita essendo molto strano dalla schiatta reale, ci\nfa manifesto, che dove la necessit\u00e0 regna, rade volte s\u2019aggiugne la\nragione. Messer Ruberto, figliuolo che fu di messer Gianni duca di\nDurazzo, nipote del re Ruberto, tornato di prigione d\u2019Ungheria, e male\nprovveduto dal re Luigi suo cugino, se n\u2019and\u00f2 in Francia; e servendo\nil re alle sue spese, non essendo provveduto da lui torn\u00f2 in Provenza;\ne ivi, per mantenersi a onore, gravati gli amici e\u2019 parenti, consum\u00f2\nci\u00f2 ch\u2019egli avea: e venuto a tanto che non potea mantenere quattro\nscudieri, si pens\u00f2 di fare male; e non avendo da se la forza, s\u2019accost\u00f2\ncol sire della Guardia, a cui manifest\u00f2 il suo pensiero, e richieselo\nd\u2019aiuto. Costui, ch\u2019era uomo atto alla guerra pi\u00f9 ch\u2019al riposo, disse\ndi seguirlo volentieri, e accolsono ottanta cavalieri, e provvidonsi\ndi scale; e una notte, a d\u00ec 6 d\u2019aprile del detto anno, essendo il forte\ncastello del Balzo in Provenza senza alcuno sospetto, e \u2019l signore del\nBalzo nel Regno in cortese guardia del re, messer Ruberto vi s\u2019entr\u00f2\ndentro, e senza contasto prese il castello e la rocca inespugnabile.\nSentendosi la novella in corte, il papa e\u2019 cardinali se ne turbarono\nforte, salvo il cardinale di Pelagorga ch\u2019era suo zio, il quale con\nseguito di certi cardinali di sua setta lo scusavano in concestoro,\ne segretamente l\u2019atavano per modo, che in pochi d\u00ec ebbe nel Balzo\ntrecento cavalieri e cinquecento fanti armati, e cominci\u00f2 a correre il\npaese e fare preda fin presso Avignone, non senza sospetto del papa, e\nde\u2019 cardinali, e di tutta la Provenza.\nCAP. IV.\n_Come i Provenzali s\u2019accolsono per porre l\u2019assedio al Balzo._\nEssendo questa cosa divolgata per la Provenza, i baroni del paese\nch\u2019amavano la casa del Balzo, e temeano delle loro castella per lo\nmale esempio, senza essere richiesti da altro signore fece catuno suo\nsforzo, e trassero con cavalieri e fanti che poterono fare al Balzo,\ne in pochi giorni vi si trovarono ottocento cavalieri e gran popolo:\ne dato ordine tra loro, tennono assediato il castello e la gente che\ndentro v\u2019era. La novella and\u00f2 di subito a Napoli al conte d\u2019Avellino\nsignore del Balzo, il quale di presente il disse al re; ond\u2019egli\nsi turb\u00f2 forte, e incontanente licenzi\u00f2 il conte, e rimandollo in\nProvenza, profferendogli il suo aiuto: il conte si mise in fretta al\nsuo viaggio. Il papa e\u2019 cardinali erano in turbazione colla setta\ndi quelli di Pelagorga, la qual cosa conturbava non poco la corte\ne tutta la Provenza. Lasceremo al presente la materia del Balzo, e\ntrapasseremo alle novit\u00e0 che occorsono in Italia innanzi che il Balzo\nsi racquistasse.\nCAP. V.\n_Come si comincio l\u2019izza da messer Galeazzo Visconti a messer Giovanni\nda Oleggio._\nMesser Giovanni da Oleggio vicario di Bologna per messer Maffiolo de\u2019\nVisconti di Milano, innanzi che l\u2019arcivescovo avesse presa Bologna\nera provveduto dal detto arcivescovo, del quale si credea che fosse\nfigliuolo, tra altre utili possessioni d\u2019un castello grande e nobile\nchiamato...., del quale messer Giovanni avea buona rendita: il castello\nvicinava con certe terre di messer Galeazzo Visconti. Avvenne, che\nmesser Giovanni s\u2019intendea in Milano d\u2019amore con alcuna donna la quale\nnel segreto era al servigio di messer Galeazzo, il quale accorgendosi\ndi messer Giovanni, l\u2019ebbe a sdegno, e senza altro dimostramento\ndella cagione prese izza contro a lui, e messer Giovanni sforzandosi\ndi fargli onore nol potea contentare: infine gli tolse il castello,\npi\u00f9 per fargli dispetto che per altra cagione. Della qual cosa messer\nGiovanni non s\u2019os\u00f2 rammaricare n\u00e8 dolere, ma di questo nacque poi\nmaggiore novit\u00e0 quando messer Giovanni si rubell\u00f2 alla casa de\u2019\nVisconti, come leggendo appresso si potr\u00e0 trovare.\nCAP. VI.\n_Come il capitano di Forl\u00ec sconfisse gente della Chiesa._\nDel mese d\u2019aprile del detto anno, il capitano di Forl\u00ec cavalcava\nnella Marca, e avea in sua compagnia dugento cavalieri i pi\u00f9 gentili\nuomini giovani, i quali erano con lui per amore a sua provvisione. Il\ncapitano della gente d\u2019arme della Chiesa seppe l\u2019andata del capitano\ndi Forl\u00ec, e di notte gli si fece incontro, e misegli un aguato di\nquattrocento cavalieri. Il capitano di Forl\u00ec, innanzi che fosse al\npasso dell\u2019aguato, per sue spie seppe come i nemici in quantit\u00e0 di\nquattrocento cavalieri l\u2019attendeano di presso; egli era in parte\nch\u2019el si poteva tornare addietro salvamente, ma pensando che ci\u00f2 gli\ntornerebbe a vergogna, avendo l\u2019animo grande, e giovani cavalieri con\nseco pro\u2019 e arditi, diliber\u00f2 con loro d\u2019andare ad assalire i nemici,\nnon ostante che gran vantaggio avessono del numero della gente e del\nterreno; fece cento feditori ch\u2019andassono innanzi a cominciare la\nzuffa, i quali si mossono in un fiotto, e dirizzaronsi al cammino\nverso l\u2019aguato, a modo come se \u2019l capitano fosse tra loro. I nemici\npensandogli raccogliere a mansalva uscirono loro addosso, credendo\nche vi fosse il capitano di Forl\u00ec. I cento cavalieri, vedendo venire\nverso loro tutto l\u2019aguato, strettamente con grande ardire, s\u00ec fedirono\ntra loro s\u00ec virtuosamente, che gli feciono invilire; e vedendo come\nfrancamente sosteneano contro a loro, temettono che il capitano con\nmaggior forza non venisse loro addosso; e vedendo dalla lunga apparire\ngente al loro soccorso, e che questi cento cavalieri tanto francamente\nsi sosteneano, innanzi che il capitano giugnesse ruppono; e giugnendo\nil capitano di Forl\u00ec al soccorso de\u2019 suoi, trov\u00f2 rotti i nemici, e\nperseguitandoli, prese dugento cavalieri e pi\u00f9 di quell\u2019aguato, e\nraccolta la preda, vittoriosamente forn\u00ec il suo viaggio.\nCAP. VII.\n_Come messer Filippo di Taranto prese per moglie la figliuola del duca\ndi Calavria._\nEssendo dama Maria, sirocchia della reina Giovanna figliuola del duca\ndi Calavria, rimasa vedova di due mariti tagliati a ghiado, che l\u2019uno\nfu il duca di Durazzo, l\u2019altro Ruberto figliuolo del conte d\u2019Avellino,\nde\u2019 quali innanzi \u00e8 fatta menzione, essendo cos\u00ec vedova, del mese\nd\u2019aprile, ella e messer Filippo di Taranto fratello carnale del re\nLuigi senza moglie, non ostante ch\u2019ella fosse figliuola di suo cugino\ncarnale e stata moglie del duca suo cugino, senza alcuna dispensazione,\ncon volont\u00e0 e consiglio del detto re e della reina Giovanna sua\nsirocchia, per nome di matrimonio si congiunsono insieme; e dopo la\nloro congiunzione e maritaggio, il detto messer Filippo and\u00f2 a corte\ndi Roma a Avignone al papa per avere la dispensagione. Il papa ebbe\nquesta cosa molto a grave, e il collegio de\u2019 cardinali, e fu da loro\nmesser Filippo mal veduto, e dimor\u00f2 in corte e in Provenza lungamente,\nadoperando cose da piacere al papa per potere avere la dispensazione\na lui pi\u00f9 volte negata. Infine dopo lungo dimoro, caricato il papa dal\nre e dalla reina, che questa vergogna non rimanesse nella casa reale,\ninfine per lo meno male, e per ricoprire quello vituperio, concedette\nla detta dispensagione.\nCAP. VIII.\n_Come Massa e Montepulciano non ricevettono i vicari del patriarca._\nIn questi d\u00ec, essendo l\u2019imperadore a Roma, i Massetani, e\u2019\nMontepulcianesi, e que\u2019 di Grosseto, che soleano ubbidire al comune\ndi Siena, avendo sentiti i romori della citt\u00e0, e l\u2019abbattimento\ndell\u2019ordine de\u2019 nove e di tutti gli ufici del comune mandandovi il\nvicario dell\u2019imperadore per riprendere la signoria di quelle terre,\ncatuna si ritenne senza volere ricevere la signoria del vicario,\nvolendo prima vedere come la citt\u00e0 di Siena si dovea riposare. E di\nquesta novit\u00e0 il minuto popolo e gli artefici ch\u2019aveano abbattuto\nl\u2019ordine de\u2019 nove, che di ci\u00f2 erano contenti, furono turbati assai,\ne presono cagione d\u2019intendersi insieme, onde poi seguirono gravi\nrevoluzioni, come al suo tempo appresso racconteremo.\nCAP. IX.\n_Come i Visconti tolsono a messer Giovanni da Oleggio il suo castello._\nEssendo messer Giovanni de\u2019 Peppoli che vend\u00e8 Bologna molto confidente\na messer Galeazzo Visconti, per accattare benivolenza a\u2019 suoi amici da\nBologna da messer Giovanni da Oleggio che n\u2019era vicario oper\u00f2 tanto,\nche messer Galeazzo gli rend\u00e8 la grazia sua, e il castello, che per\nsdegno gli avea tolto; la qual cosa fu a messer Giovanni da Oleggio a\ngrado, e di presente si provvide di ricchi doni, e mandolli a messer\nGaleazzo, il quale gli ricevette graziosamente. Messer Maffiolo vedendo\nche messer Giovanni era tornato nella grazia di messer Galeazzo,\nincominci\u00f2 a prendere sconfidanza di lui, e inanimossi di rimuoverlo\ndel vicariato di Bologna, e il suo proprio castello ch\u2019avea riavuto\nda messer Galeazzo rec\u00f2 cortesemente al suo governamento, e certa\nprovvisione ch\u2019egli era usato di fare ogni anno a messer Giovanni per\ni servigi che ricevea da lui cominci\u00f2 a sostenere con dissimulazioni.\nE parendogli che messer Giovanni ubbidisse pi\u00f9 gli altri suoi fratelli\nche se, avendo intendimento di mutarlo e trarlo di Bologna, copria il\nsuo intendimento con povero consiglio, che non sapea pi\u00f9; ma colui con\ncui egli avea a fare era uomo astuto e avvisato, e per\u00f2 il fine and\u00f2\ntutto per altro modo che messer Maffiolo e\u2019 fratelli non pensarono,\ncome leggendo innanzi si potr\u00e0 vedere.\nCAP. X.\n_Andamenti della gran compagnia._\nEssendo lungamente stata in Puglia la compagnia del conte di Lando,\nfavoreggiata dal duca di Durazzo e dal conte Paladino in vergogna della\ncorona, perch\u00e8 dal re erano stati mal trattati, del mese di maggio\nla condussono in Terra di Lavoro, e misonsi a Serni e a Matalona,\nfacendo per lo paese danni di ruberie e di prede quanto pi\u00f9 poteano,\nsenza trovare fuori delle mura delle terre alcuno contasto: e appresso\nfeciono pi\u00f9 parti di loro, e sparsonsi per lo paese facendo danni\nassai, come per i tempi innanzi si racconteranno.\nCAP. XI.\n_Come il re di Tunisi fu morto._\nInnanzi ch\u2019e\u2019 Genovesi prendessono Tripoli di Barberia, il re di Tunisi\navendo assai figliuoli di diverse donne, com\u2019\u00e8 usanza de\u2019 saracini,\ni quali figliuoli male ordinati, non volendo che la successione del\nregno venisse a quel loro fratello a cui il re intendea di lasciare la\nreale signoria, trattarono e misono ad esecuzione la violente morte del\nre loro padre; e rimanendo il reame in vacazione, i baroni occuparono\nchi in un paese e chi in un altro le possessioni e ragioni del reame;\ne nondimeno alcuni de\u2019 piccoli figliuoli del re che non era partefice\nal patricidio feciono re, il quale possedea Tunisi e parte del reame,\nma non l\u2019occupava. In quel tempo avvenne, ch\u2019un figliuolo d\u2019un fabbro\nsaracino, essendo sperto, e ben parlante, e di grand\u2019animo, ebbe cuore,\ntrovandosi in Tunisi, d\u2019occupare la citt\u00e0 con tirannia; ed essendovi\ngrande per la sua eloquenza, per la sua industria se ne fece signore,\ne reggea e governava quel popolo e quell\u2019antica citt\u00e0 a suo volere,\nsenza lasciarli ritornare alla debita signoria del re di Tunisi; e per\nlo male stato di quello reame non era chi lo repugnasse. Per la qual\ncosa avvenne, che certi Genovesi ch\u2019aveano veduto il reggimento di\nquel tiranno, e sentito com\u2019egli era in odio al re di Tunisi e a\u2019 suoi\nbaroni, da cui non avrebbe soccorso, e il gran tesoro ch\u2019era in quel\npopolo, si pensarono di prendere per ingegno e per forza quella citt\u00e0,\ncome poi venne loro fatto, secondo che appresso leggendo si potr\u00e0\ntrovare.\nCAP. XII.\n_Come messer Giovanni da Oleggio rubell\u00f2 Bologna._\nNoi abbiamo poco addietro narrato come messer Maffiolo de\u2019 Visconti\ndi Milano, nella cui parte era venuta la citt\u00e0 di Bologna, avea preso\nsospetto di messer Giovanni da Oleggio suo vicario, e provvedeasi\nsegretamente a rimuoverlo; e parendogli tempo, mand\u00f2 a Bologna messer\nGaleazzo de\u2019 Pigli da Modena con certa famiglia, acciocch\u00e8 prendesse\nda messer Giovanni la signoria, e rimanesse suo vicario in Bologna, e\na messer Giovanni scrisse, ch\u2019assegnato ch\u2019avesse al nuovo vicario la\ntenuta e la signoria, che se ne tornasse a Milano, facendogli assai\nlarghe offerte. E giunto in Bologna messer Galeazzo, fu da messer\nGiovanni ricevuto graziosamente nella prima apparenza, e per mostrarsi\nfedele e ubbidiente al suo signore, di presente fece assegnare la rocca\ne la guardia della porta di verso Modena a uno Milanese, di cui messer\nMaffiolo n\u2019avea fatto castellano. Questo si crede che facesse piuttosto\nper poter meglio trattare l\u2019altre cose che gli bollivano nell\u2019animo,\nche per semplice disposizione d\u2019ubbidienza. E vedendosi egli allo\nstremo partito, lavorava dentro con grande angoscia dell\u2019animo, e non\navea con cui confidentemente potersi consigliare; e dall\u2019una parte il\npremea la fede promessa alla casa de\u2019 Visconti di cui e\u2019 si tenea per\nnazione, ma pi\u00f9 per i grandi onori e per lo stato ov\u2019era pervenuto di\npiccolo grande, per i beneficii ricevuti da\u2019 suoi signori; e dall\u2019altro\nlato tempellava la mente l\u2019ambizione della signoria che gli convenia\nlasciare, e lo sdegno che gi\u00e0 sentiva preso per messer Maffiolo gli\ngenerava paura che lasciata la signoria e\u2019 non fosse mal trattato, e\nper\u00f2, ma pi\u00f9 l\u2019appetito della signoria, il fece diliberare di mettersi\ninnanzi a ogni pericolo di sua fortuna, che di lasciare cos\u00ec grande\nsignoria com\u2019egli avea tra le mani, e ogni fede promessa, e tutte\nl\u2019altre ragioni di sua natura, e d\u2019onori e di beneficii ricevuti mise\naddietro per niente. E avendo in se medesimo cos\u00ec diliberato, ebbe a\nse messer Galeazzo nuovo vicario, e fecegli vedere con belle ragioni,\ncome la subita revoluzione della signoria di Bologna era di gran\npericolo, e maggiormente perch\u00e8 sapea che \u2019l marchese di Ferrara avea\naccolto gente d\u2019arme, e manifesto era per l\u2019aspre cose ch\u2019egli avea\nfatte a\u2019 Bolognesi ch\u2019elli erano mal contenti; e per\u00f2 consigliava,\nch\u2019egli prima andasse a prendere le tenute delle castella di fuori, e\nquelle rifornisse e provvedesse di buona guardia, e fatto questo, senza\npericolo potea sicuramente ricevere la signoria. Costui ignorante del\nbaratto seguit\u00f2 il consiglio di messer Giovanni, e prese le masnade\nch\u2019avea in Bologna a cavallo e a pi\u00e8, e\u2019 nuovi castellani e le lettere\ndel comandamento, ch\u2019e\u2019 castellani e l\u2019altre masnade dovessono ubbidire\nal nuovo vicario; e messolo fuori della citt\u00e0 di Bologna, incontanente\nmesser Giovanni mand\u00f2 pe\u2019 rettori e per tutti gli uficiali ch\u2019erano\nin Bologna, catuno per se, e come veniano a lui, gli facea mettere\nin certa camera del suo palagio in salva guardia: e com\u2019ebbe raccolti\ntutti i rettori, e uficiali in quella sera, mand\u00f2 per tutti i maggiori\ncittadini di Bologna grandi e popolani, e per coloro cui egli avea pi\u00f9\nserviti e meno gravati, e raunatili insieme nel suo palagio, essendo\ngi\u00e0 assai infra la notte, disse, com\u2019egli col loro aiuto intendea di\nvolere torre la signoria di Bologna a messer Maffiolo e agli altri suoi\nfratelli signori di Milano, e voleala tenere per se, promettendo di\ntrattare benignamente grandi e popolani, e d\u2019alleggiare i cittadini dal\ndisordinato giogo, che a petizione di que\u2019 tiranni era stato costretto\ndi tenere loro addosso contro a sua volont\u00e0; scusando se, che come\nsottoposto al duro comandamento avea fatte assai aspre e crudeli cose\na que\u2019 cittadini, facendole contro alla sua natura e all\u2019animo suo per\nubbidire a\u2019 crudeli tiranni, a cui non avea potuto fare resistenza, ma\nda quinci innanzi intendea trattarli come fratelli, e ne daria loro un\nsegnale, mettendo il governamento della cittadinanza nelle loro mani.\nI cittadini paurosi per l\u2019usata tirannia, temendo che \u2019l parlare di\nmesser Giovanni non fosse per tentarli della loro fedelt\u00e0, dimostrarono\ne rispuosono di concordia, ch\u2019elli erano apparecchiati a mantenere\na lui e a\u2019 suoi signori la fede promessa. Messer Giovanni vedendo la\nferma risposta de\u2019 cittadini, e temendo il pericolo della brevit\u00e0 del\ntempo, con aspre parole cominci\u00f2 a minacciare i cittadini, dicendo,\nche parlava aperto e non per tentarli, e che poteano bene comprendere,\nche in questo punto a lui convenia prendere o lasciare la signoria,\ned egli per suo vantaggio, e per trarre loro del servaggio, volea\nfare con loro consentimento quello ch\u2019avea loro proposto e ragionato:\nma poich\u00e8 vedea tanta follia nelle cieche menti di que\u2019 cittadini,\ndisse, che contro a loro e contro agli altri che non v\u2019erano farebbe\naspre e dure cose infino alla morte di catuno, e la citt\u00e0 arderebbe\ne lascerebbe desolata. E questo dimostrava con tanto infocamento\nd\u2019animo, che manifesto fu a tutti ch\u2019e\u2019 parlava da dovero e non per\nalcuna tentazione. Allora presono tra loro consiglio, e dissono:\nSignor nostro, che aiuto vi possiamo noi fare, essendo senz\u2019arme?\nmesser Giovanni disse, che volea ch\u2019eglino il chiamassono signore, e\nin quella notte farebbe a catuno rendere l\u2019armi: ed eglino il feciono,\ne l\u2019armi furono rendute in quella notte a chi le volle. La mattina\nmesser Giovanni mand\u00f2 per i conestabili de\u2019 soldati da cavallo e da\npi\u00e8, e disse, che volea il saramento da loro a se come signore di\nBologna, e chi fare nol volesse di presente si partisse di Bologna, e\ndel contado e del suo distretto, a pena della testa; giurarono a lui\nle due parti, e gli altri si partirono, e di presente uscirono del\npaese: e tutti gli uficiali ch\u2019egli avea rinchiusi rimut\u00f2 de\u2019 loro\nufici, e misevi de\u2019 nuovi che giurarono a lui, e quelli fece partire\ndella citt\u00e0. Il nuovo castellano, ch\u2019avea messo nella rocca della porta\nverso Modena, avendo messer Giovanni mandato per lui, non v\u2019era voluto\nandare, ma per mattia n\u2019avea mandato il figliuolo, il quale messer\nGiovanni ritenne: e in quella mattina con gran fretta mand\u00f2 a tutti\ni castellani di fuori, che non si dovessono rimuovere, n\u00e8 ricevere in\nloro castella messer Galeazzo de\u2019 Pigli per lettere o per comandamento\nch\u2019e\u2019 portasse da sua parte, e di ci\u00f2 fu bene ubbidito. Il castellano\ndella citt\u00e0 sopraddetto, sentendo la ribellione di messer Giovanni,\nnon volea rendergli la rocca. Messer Giovanni, dal venerd\u00ec mattina\nfino alla domenica sera, con molta sollecitudine intese a ordinare\ne a rifermare il reggimento della citt\u00e0 e della guardia dentro:\ne in questo tempo il marchese di Ferrara, cui egli avea richiesto\nd\u2019aiuto, gli mand\u00f2 dugentocinquanta cavalieri. Il luned\u00ec mattina, non\nvolendo il castellano milanese rendere la rocca della porta, messer\nGiovanni vi mand\u00f2 gente d\u2019arme per mostrare di volerla combattere, e\nper fare impiccare il figliuolo nel cospetto del padre; la battaglia\nfu ordinata, e le forche ritte, e \u2019l figliuolo menatovi a pi\u00e8 per\nimpiccare. Il padre doloroso, vedendosi senza soccorso da non potere\nresistere, e \u2019l figliuolo per essere impiccato, rend\u00e8 la tenuta, e fu\nlibero egli e \u2019l figliuolo: e messer Giovanni rimase libero signore\ndella citt\u00e0 di Bologna, levatala dalla signoria de\u2019 signori di Milano,\nper cui l\u2019avea governata e retta in cruda tirannia infino a d\u00ec 20 del\nmese d\u2019aprile 1355 che se ne fece signore ed ebbe la detta rocca, e\nin Bologna prese tutti i Milanesi che v\u2019erano e le loro mercatanzie,\nde\u2019 quali trasse molti danari per riscatto delle persone e della\nmercatanzia. E nelle castella di fuori non ebbe podere d\u2019entrare messer\nGaleazzo, salvo che in Luco, e ivi si ritenne, sentendo la ribellione\ndi messer Giovanni, aspettando la volont\u00e0 de\u2019 suoi signori. Messer\nGiovanni mettendosi alla fortuna rimase signore; quegli che segue\nrifrenandola per senno, ovvero per mattia, ne perd\u00e8 la vita, come\nappresso diviseremo.\nCAP. XIII.\n_Come il doge di Vinegia fu decapitato._\nMesser Marino Faliere doge di Vinegia, uomo di gran virt\u00f9 e senno,\nreggendo l\u2019uficio di cotanta dignit\u00e0, e senza sospetto e in grazia\nde\u2019 suoi cittadini, avendo l\u2019animo grande si contentava male, non\nparendogli potere fare a sua volont\u00e0 com\u2019avrebbe voluto, strignendolo\nla loro antica legge di non potere passare la deliberazione del\nconsiglio a lui diputato per lo comune; e per\u00f2 avea preso sdegno contro\na\u2019 gentili uomini che pi\u00f9 lo repugnavano presontuosamente. E intanto\navvenne, che certi popolani furono da alquanti de\u2019 grandi di parole e\ndi fatti oltraggiati villanamente; e crescendo lo sdegno del doge per\nla disordinata baldanza de\u2019 gentili uomini, prese sicurt\u00e0 di scoprire\nagli oltraggiati popolani l\u2019animo suo ch\u2019avea contro la riverenza de\u2019\ngentili uomini, che tutti erano del consiglio; e di questo seguit\u00f2,\nche il doge concedette segretamente licenza a\u2019 popolari ingiuriati che\nsi procacciassono di confidenti amici, e d\u2019arme e di gente acconcia\nal servigio, e una notte ordinata fossono su la piazza di san Marco,\ne sonassono le campane a stormo, e dessono voce che le galee de\u2019\nGenovesi fossono nel golfo; e per usanza in cotali novit\u00e0 i gentili\nuomini di consiglio soleano venire al palazzo al doge per provvedere\ne consigliare quello che fosse da fare, e in quella venuta i popolani\narmati li doveano uccidere, ovvero radunati in palagio metterli alle\nspade; e questo fatto, doveano correre la citt\u00e0 gridando, viva il\npopolo, e fare il doge signore, e annullare l\u2019ordine del consiglio\ne de\u2019 gentili uomini, e fare tutti gli uficiali popolari. Ed essendo\ncon molta credenza la cosa condotta sino alla sera che la notte dovea\nseguire, il fatto come a Dio piacque per lo minore male, il doge\nin questa sera mand\u00f2 per un suo confidente popolare amico, uomo di\ngrande ricchezza, a cui rivel\u00f2 il trattato, e come in quella notte si\ndovea fare il fatto: costui turbato nella mente, con savie parole gli\nbiasim\u00f2 l\u2019impresa e impaur\u00ec il doge, e non ostante che la cosa fosse\nrecata molto agli stremi del tempo, disse, che l\u00e0 dove piacesse al\ndoge, che metterebbe subito consiglio che la cosa non procederebbe.\nIl doge invilito nell\u2019animo al consiglio di questo suo amico, gli\ndi\u00e8 mattamente parola ch\u2019egli ordinasse segretamente che il fatto si\nrimanesse; e acciocch\u00e8 dato gli fosse fede, gli di\u00e8 un suo segreto\nsuggello. Questi and\u00f2 di presente ai caporali a cui il doge il mand\u00f2\nch\u2019aveano accolta la loro compagnia, e disse loro da parte del doge,\nche si dovessono ritrarre dall\u2019impresa, e mostr\u00f2 loro il segno del suo\nsuggello. A\u2019 popolari ch\u2019erano apparecchiati parve essere traditi,\ne non ardirono di procedere pi\u00f9 innanzi, sentendo la mutazione del\ndoge. Uno pellicciere ch\u2019era degl\u2019invitati, sentendo che la cosa non\nprocedea, per paura d\u2019essere incolpato se n\u2019and\u00f2 a uno gentile uomo\ndi consiglio, e manifestogli quello che sapea del fatto, che non sapea\nper\u00f2 tutto. Costui men\u00f2 il pellicciere al doge, il quale, non sapendo\nche il doge sentisse di questo fatto, gli narr\u00f2 ci\u00f2 che ne sapea, e\nnominogli i caporali. Il doge annull\u00f2 molto il fatto, dicendo, che per\nalcuno sentimento che n\u2019avea avuto avea fatto spiare, e trovato avea\nche la cosa era nulla. Il savio consigliere disse al doge, che volea\nche questa cosa sentisse il consiglio; e contradiandolo il doge, costui\npersever\u00f2 tanto in questo, che il savio doge divenuto per vilt\u00e0 fuori\ndel senno promise farlo raunare; commettendo fallo capitale della sua\ntesta, che lieve gli era ritenere costoro, e fare eseguire quello che\nordinato era, o stringerli e giudicarli a suo volere segretamente. La\nmattina raunato il consiglio, e divolgata la novella, furono mandati a\nprendere i caporali, e venuti dinanzi al doge e al consiglio, il doge\nli chiam\u00f2 traditori per dimostrarsi strano dal trattato, ma vennegli\nfallato, perocch\u00e8 in faccia gli dissono, che ogni cosa che ordinata era\ns\u2019era mossa da lui e proceduta dal suo consiglio. Il doge nol seppe\nnegare. Il consiglio incontanente il fece guardare nel suo palagio\nper loro medesimi. In prima impesono quattro de\u2019 caporali alle colonne\ndel palagio del doge, e il d\u00ec seguente confiscarono tutti i beni del\ndoge, ch\u2019era grande ricco uomo, al comune, salvo che per grazia gli\nconcedettono che di duemila fiorini potesse testare a sua volont\u00e0;\ne menatolo in sulla scala dov\u2019egli avea fatto il saramento quando il\nmisono nella signoria, gli feciono tagliare la testa, e vilissimamente\nil suo corpo messo in una barca fu mandato a seppellire a\u2019 frati;\ne l\u2019amico suo che sturb\u00f2 il patricidio de\u2019 grandi cittadini, e il\nrivolgimento dello stato di quella citt\u00e0, ebbe per merito condannagione\ngrande pecuniale, e perpetuo esilio, rilegato nell\u2019isola di Creti.\nCAP. XIV.\n_Come l\u2019imperadore torn\u00f2 coronato a Siena._\nL\u2019imperadore Carlo ricevuta la corona in Roma, come detto abbiamo, se\nne torn\u00f2 verso Siena, e soggiornato a Montalcino, e appresso venuto a\nMontepulciano; e in catuno luogo lasciati suoi vicari con alcuna gente,\ndomenica a d\u00ec 19 d\u2019aprile in sul vespero giunse alla citt\u00e0 di Siena;\ne innanzi che entrasse nella citt\u00e0, fattoglisi incontro i cittadini\ncon gran festa in sull\u2019ora del vespero, in quest\u2019abboccamento otto\ncittadini pomposi e avari per cessare la debita spesa alla cavalleria\nsi feciono a lui fare cavalieri, e appresso entrato nella citt\u00e0 glie\nn\u2019accorreano molti senza ordine o provvisione, ed egli avvisato del\nvano e lieve movimento di quella gente, commise al patriarca che in suo\nnome gli facesse. Il patriarca non potea resistere a farne tanti quanti\nnella via glie n\u2019erano appresentati: e vedendone cos\u00ec gran mercato,\nassai se ne feciono che innanzi a quell\u2019ora niuno pensiere aveano\navuto a farsi cavalieri, n\u00e8 provveduto quello che richiede a volere\nricevere la cavalleria, ma con lieve movimento si faceano portare sopra\nle braccia a coloro ch\u2019erano intorno al patriarca, e quand\u2019erano a lui\nnella via il levavano alto, e traevangli il cappuccio usato, e ricevuta\nla guanciata usata in segno di cavalleria gli mettevano un cappuccio\naccattato col fregio dell\u2019oro, e traevanlo della pressa, ed era fatto\ncavaliere; e per questo modo se ne feciono trentaquattro in quella\nsera tra grandi e popolari. E condotto l\u2019imperadore al suo ostiere,\nfu fatto sera, e catuno si torn\u00f2 a casa; e\u2019 cavalieri novelli senza\nniuno apparecchiamento o spesa con la loro famiglia celebrarono quella\nnotte la festa della loro cavalleria. Chi considera con la mente non\nsottoposta alla vile avarizia l\u2019avvenimento d\u2019un novello imperadore\nin cotanto famosa citt\u00e0, e tanti nobili e ricchi cittadini promossi\nall\u2019onore della cavalleria nella patria loro, uomini di natura pomposi,\nnon avere fatto alcuna solennit\u00e0 in comune o in diviso a onore della\ncavalleria, pu\u00f2 giudicare quella gente poco essere degna del ricevuto\nonore.\nCAP. XV.\n_Come il legato parlament\u00f2 a Siena con l\u2019imperadore._\nMesser Gilio cardinale di Spagna, a cui il papa e\u2019 cardinali aveano\ncommesso il procaccio e la legazione di riacquistare la Marca, e \u2019l\nDucato, e la Romagna occupata per messer Malatesta da Rimini e per\ngli altri tiranni Romagnuoli, avendo molto premuto e dirotto messer\nMalatesta, l\u2019avea condotto in parte, ch\u2019e\u2019 tentava di volere accordarsi\ncol cardinale per le mani dell\u2019imperadore, e avea detto di venire\na Siena per questa cagione all\u2019imperadore; e \u2019l legato per questo\nfatto, e per vicitare l\u2019imperadore, si mosse della Marca, e a Siena\ngiunse a d\u00ec primo di Maggio; e ivi, con l\u2019altro cardinale d\u2019Ostia\nch\u2019avea coronato l\u2019imperadore, furono a parlamentare con lui de\u2019 fatti\nd\u2019Italia ch\u2019apparteneano a santa Chiesa, attendendo messer Malatesta\nper pigliare accordo con lui: ma il tiranno mutato consiglio, non vi\nvolle andare. In questo attendere, l\u2019imperadore tratt\u00f2 con loro de\u2019\nfatti di Perugia, che a lui aveano proposto ch\u2019erano immediate sotto\nla giurisdizione di santa Chiesa, come del ducato di Spuleto, per\nliberarsi da lui, e al legato non rispondeano in alcuna ubbidienza per\nnome di santa Chiesa; e per questa cagione deliberarono tra loro, che\nl\u2019imperadore senza offendere santa Chiesa potea trattare con loro, come\ncon l\u2019altre citt\u00e0 d\u2019Italia, e cos\u00ec si pensava l\u2019imperadore di fare, ma\nsopravvenendogli altre novitadi, come noi diviseremo appresso, feciono\ndimenticare i fatti di Perugia, e partire il legato in animo forte\nadirato contro a messer Malatesta, da cui si tenea deluso a questa\nvolta.\nCAP. XVI.\n_Come l\u2019imperadore ebbe la seconda paga da\u2019 Fiorentini._\nEssendo l\u2019imperadore in Siena, obbligato a molti baroni e cavalieri da\ncui avea ricevuto servigio, mostrandosi povero di moneta, li nutricava\ndi promesse, e rimandavali nella Magna mal contenti: e volendogli i\nFiorentini fare la seconda paga, mand\u00f2 a dire a\u2019 signori di Firenze,\nche glie la mandassimo segretamente. I Fiorentini innanzi al termine\npromesso, all\u2019uscita d\u2019aprile gli mandarone contanti trentamila\nfiorini: e fattogli in segreto sentire come i danari erano venuti, di\npresente fece uscire dall\u2019ostiere tutta sua famiglia, e rinchiusosi in\nuna camera, in sua presenza li fece contare al patriarca; e trovato\nche uno di sua famiglia stava a vedere al buco dell\u2019uscio, il pun\u00ec\ngravemente, temendo ch\u2019e\u2019 suoi baroni nol sentissono, perocch\u00e8 pi\u00f9\namava di tenersi i danari in borsa, che l\u2019amore de\u2019 suoi baroni o il\nloro contentamento.\nCAP. XVII.\n_Come il nuovo tiranno di Bologna mand\u00f2 a Firenze ambasciadori a\nrichiedere i Fiorentini._\nMesser Giovanni da Oleggio avendo novellamente tolto e rubato la\ncitt\u00e0 di Bologna a\u2019 suoi signori de\u2019 Visconti, e trovandosi povero\nd\u2019aiuto a sostenere il fascio di quella citt\u00e0 e de\u2019 potenti avversari,\nincontanente mand\u00f2 lettere per suoi messaggi, e appresso solenni\nambasciadori al comune di Firenze, offerendo di volere essere singulare\namico de\u2019 Fiorentini, e di governare e reggere quella citt\u00e0 alla\nvolont\u00e0 e piacere del comune di Firenze. E i detti ambasciadori con\nmolte suasioni e larghe promesse da parte di messer Giovanni pregarono,\nch\u2019almeno in privato, se non volesse in palese, il nostro comune\nil dovesse consigliare, acciocch\u00e8 potesse quella citt\u00e0 mantenere in\namore e in fratellanza, come anticamente era costumata d\u2019essere co\u2019\nFiorentini, e difenderla da\u2019 tiranni di Milano, originali nemici del\ncomune di Firenze. I Fiorentini conobbono chiaramente, ch\u2019essendo\nBologna in loro amist\u00e0 e lega, sarebbe a modo che forte muro alla\ndifesa del nostro comune contro a ogni potenza tirannesca di Lombardia;\nma per osservare lealmente la promessa pace a\u2019 Visconti signori di\nMilano, per niuno vantaggio che conoscessono, o per promesse che fatte\nfossono loro, poterono essere recati a fare in segreto o in palese\ncosa, che sospetto potesse essere alla pace promessa a\u2019 Visconti. E\navendo gli ambasciadori trovata ferma costanza nel comune a mantenere\nsua fede, si tornarono mal contenti al loro signore a Bologna a d\u00ec 4\nmese di maggio del detto anno; e questo fu chiaramente manifesto a\u2019\nsignori di Milano, che molto l\u2019ebbono a bene, e offersonsi largamente\nal comune di Firenze.\nCAP. XVIII.\n_Come fu sconfitto, e preso messer Galeotto da Rimini da\u2019 cavalieri del\nlegato._\nAvendo poco addietro narrato come messer Malatesta da Rimini avea\ncambiato l\u2019animo dell\u2019accordo con messer lo cardinale legato, seguit\u00f2,\nche la sua gente d\u2019arme capitanata e guidata per messer Galeotto suo\nfratello, perocch\u00e8 in pochi giorni due volte avea rotti i cavalieri\ndella Chiesa, avviliva tanto quella gente che poco se ne curava. E\nper\u00f2 avendo per assedio e per forza preso un castello di Recanati,\ncon pi\u00f9 di seicento barbute e gran popolo s\u2019era posto ad assedio a un\naltro, e nondimeno per buona provvidenza di guerra avea fortificato\nil campo con un muro per modo, ch\u2019entrare n\u00e8 uscire per lo piano non\nsi potea se non per una sola entrata; e per questo stavano baldanzosi\nall\u2019assedio con minore guardia, non temendo per gente che il legato\navesse, per la qual cosa prima ebbono addosso la cavalleria del legato,\nche di loro si fossono provveduti. Messer Ridolfo da Camerino capitano\ndella gente della Chiesa, con pi\u00f9 d\u2019ottocento cavalieri e con assai\nbuoni masnadieri, avendogli condotti al campo de\u2019 nemici, gli fece\nassalire agramente, e per due volte tolse loro l\u2019entrata del campo,\ne quelli di messer Galeotto combattendo virtuosamente catuna volta lo\nracquistarono per forza d\u2019arme. Infine avvedendosi il capitano della\nChiesa che un piccolo poggetto si guardava per lo popolo d\u2019Ancona\nch\u2019era sopra il campo, mosse i cavalieri e\u2019 balestrieri contro a loro,\ni quali francamente gli assalirono: e non potendo avere soccorso dal\ncampo, ch\u2019erano combattuti dall\u2019altra parte, per forza furono rotti:\ne di quel poggetto senza riparo di muro cacciando e uccidendo i\nnemici per forza entrarono nel campo, e l\u2019altra parte di loro presono\nl\u2019entrata del campo e misonsi dentro. Messer Galeazzo si ristrinse\nco\u2019 suoi combattendo co\u2019 nemici, dinanzi e di dietro assaliti, molto\nvigorosamente a modo di valenti cavalieri, e per pi\u00f9 riprese si\npercosse tra\u2019 nemici, e due volte preso fu riscosso d\u00e0 suoi cavalieri.\nInfine vincendo quelli della Chiesa, a messer Galeotto fu morto il\ndestriere sotto, e ricoverato un piccolo cavallo, volendosi salvare,\nfu fedito di pi\u00f9 fedite; e ritenuto prigione, e tutta sua gente rotta,\npresa e sbarattata e morta; e liberato il castello, messer Ridolfo\ndetto con piena vittoria si torn\u00f2 al legato: e questa fu la cagione\nperch\u00e8 poi messer Malatesta non pot\u00e8 fare retta contro al legato, come\nappresso si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XIX.\n_Come la fama della liberazione di Lucca si sparse._\nAvvenne in questi d\u00ec, all\u2019entrante del mese di maggio del detto anno,\nessendo l\u2019imperadore libero signore di Pisa, di Lucca, di Siena, di\nSangimignano e di Volterra, e dell\u2019altre terre loro sottoposte, e in\namore e pace co\u2019 Fiorentini e\u2019 Perugini, Pistoiesi e Aretini, senza\nalcuno avversario in Italia, onde che la cosa muovesse, una fama corse\nper tutta Italia ch\u2019egli avea fatto accordo con gli usciti di Lucca, i\nquali si dicea che gli doveano far dare in Francia centoventimigliaia\ndi fiorini d\u2019oro quand\u2019egli liberasse la citt\u00e0 di Lucca della signoria\nde\u2019 Pisani; e questo si dicea ch\u2019avea promesso di fare finito il\ntermine ch\u2019e\u2019 Pisani aveano promesso di liberarla; e doveala lasciare\nin libert\u00e0 al reggimento del popolo e rimettervi tutti gli usciti,\nla quale suggezione de\u2019 Pisani dovea seguire il secondo anno. Il\ndivolgamento di questa fama non si trov\u00f2 ch\u2019avesse fondamento da\ntrattato fatto dall\u2019imperadore, o se fatto fu, altrove che in Toscana e\nper altri che per la persona dell\u2019imperadore ebbe movimento. Trovossi\nbene, che grandi ricchi mercatanti usciti di Lucca intendeano a fare\ncolta di moneta. Ma come che la cosa si fosse o si spirasse, a tutti\nparve che cos\u00ec dovesse essere, e in segno di ci\u00f2 furono revoluzioni e\ngravi novit\u00e0 ch\u2019appresso ne seguitarono, come leggendo nostro trattato\nsi potr\u00e0 trovare.\nCAP. XX.\n_Come l\u2019imperadore diede Siena al patriarca._\nNel soggiorno che l\u2019imperadore facea a Siena tratt\u00f2 di volere che\nil patriarca suo fratello fosse libero signore di quella citt\u00e0, e\u2019\nSanesi avendosi condotti nel reggimento non per\u00f2 fermo dell\u2019ignorante\npopolo vacillante nello stato, per volere accattare la benivolenza\ndell\u2019imperadore consentirono d\u2019avere il patriarca per loro signore,\ne di volont\u00e0 dell\u2019imperadore di nuovo feciono la suggezione e \u2019l\nsaramento al patriarca, e a lui furono assegnate tutte le terre e\ncastella della loro giurisdizione, nelle quali conferm\u00f2 suoi castellani\ne vicari, cosa strana all\u2019antico governamento della loro libert\u00e0, e\ndi matto consentimento: e l\u2019imperadore per la sua autorit\u00e0 e pe\u2019 suoi\nprivilegi gli conferm\u00f2 la libera signoria di quella terra, e del suo\ncontado e distretto. Il patriarca volendo confermare la sua signoria\ns\u2019accost\u00f2 col minuto popolo, e di quelli fece uficiali a\u2019 reggimenti\ncomuni dentro nella citt\u00e0, e per lo loro consiglio si reggea, essendosi\naccorto che per lo favore di quella minuta gente era venuto alla\nsignoria, e per questo avea schiusi gli altri maggiori popolani, e\nabbattuto in tutto la setta dell\u2019ordine de\u2019 nove per modo, che non\nardivano in palese a comparire tra gli altri cittadini,\nCAP. XXI.\n_Come i capi de\u2019 ghibellini d\u2019Italia si dolsono all\u2019imperadore._\nIn questi medesimi d\u00ec, all\u2019entrante di maggio, i caporali di\nparte ghibellina ch\u2019erano venuti alla coronazione dell\u2019imperadore,\naspettandone la loro esaltazione e l\u2019abbassamento di parte guelfa in\nToscana, e vedendo per opera il contradio, si raunarono insieme in\nuna chiesa di Siena, e ivi ricordarono tra loro tutte le persecuzioni\nricevute da\u2019 guelfi per cagione dell\u2019imperio, e le infamazioni de\u2019\ncomuni di Toscana, e spezialmente del comune di Firenze, per le\nresistenze fatte agl\u2019imperadori; e avendo raccolta loro materia da\ndire, feciono quelle cose pronunziare nel cospetto dell\u2019imperadore\nal prefetto di Vico; il quale saviamente in prima raccont\u00f2 la fede,\nl\u2019amore, i servigi che i ghibellini d\u2019Italia aveano portato e fatto\nper i tempi passati di quanto avere si potea memoria agl\u2019imperadori\nalamanni, e in singularit\u00e0 all\u2019imperadore Arrigo suo avolo, e come\ni guelfi d\u2019Italia aveano sempre fatto grave resistenza all\u2019imperio,\ne tra gli altri comuni pi\u00f9 singolarmente e con maggior forza il\ncomune di Firenze; e come per operazione di quel comune l\u2019imperadore\nArrigo suo avolo era morto, e le imperiali forze recate al niente;\ne\u2019 ghibellini sentendo l\u2019avvenimento della sua signoria tutti erano\nvenuti in grande speranza, aspettando per lui essere esaltati, e\nvedere la struzione de\u2019 guelfi, e singolarmente del comune di Firenze\nsempre ribello all\u2019imperadore; e vedendo che per danari egli s\u2019era\nacconcio con quel comune, e a\u2019 suoi fedeli ghibellini per sua venuta\nnon era seguito vendetta delle loro oppressioni e de\u2019 danni ricevuti,\ne le loro terre e castella perdute non erano racquistate, n\u00e8 per suo\nprocaccio loro restituite, essendo perdute per volere mantenere la\nparte imperiale, si maravigliavano forte, e molto pi\u00f9 conoscendo che\nil tempo era venuto che col loro aiuto, e delle citt\u00e0 e castella di\nToscana tornate all\u2019imperiale suggezione, e colla sua grande potenza,\ne\u2019 potea essere signore della citt\u00e0 e de\u2019 danari de\u2019 Fiorentini, e per\nun poco di danari avea fatto accordo con quel comune in poco onore\ndella maest\u00e0 imperiale. L\u2019imperadore, udite le dette cose, senza\nristrignersi ad altro consiglio o fare risponditore alcuno altro,\ncome signore facondioso d\u2019intendimento e d\u2019eloquenza, coll\u2019animo\nquieto parlando soavemente, disse: Noi sappiamo bene l\u2019amore e la fede\nch\u2019avete portata all\u2019imperio, e\u2019 servigi fatti al nostro avolo per voi\nnon possiamo dimenticare, perocch\u00e8 scritti sono ne\u2019 suoi annali. Appo\ni nostri registri troviamo noi, che i mali consigli de\u2019 ghibellini\nd\u2019Italia, avendo pi\u00f9 rispetto al proprio esaltamento, e a fare le loro\nproprie vendette, che all\u2019onore e grandezza dell\u2019imperadore Arrigo mio\navolo, il feciono male capitare, e non il comune di Firenze, n\u00e8 alcuna\noperazione di quel comune; e per\u00f2 non intendo in ci\u00f2 seguitare vostro\nconsiglio: e frustrati della loro corrotta intenzione, mal contenti e\npoco avanzati si tornarono in loro paese.\nCAP. XXII.\n_Come l\u2019imperadore si part\u00ec da Siena e and\u00f2 a Samminiato._\nL\u2019imperadore raccomandata la signoria e \u2019l reggimento della citt\u00e0 di\nSiena al patriarca, a d\u00ec 5 di maggio del detto anno si part\u00ec della\ncitt\u00e0, e vennesene da Staggia e da Poggibonizzi senza entrare nella\nterra; e fatta ivi di fuori sua lieve desinea, si mise a cammino, e la\nsera giunse a Samminiato del Tedesco, e da\u2019 Samminiatesi fu ricevuto\na onore come loro signore. E com\u2019egli prese la via di l\u00e0 per andare\na Pisa, molti de\u2019 suoi baroni con grande comitiva de\u2019 loro cavalieri\nsi partirono da lui, e vennonsene a Firenze per seguire loro cammino\ntornandosi in Alamagna. In Firenze furono ricevuti cortesemente,\nrassegnandosi i caporali per nome, e dando il numero della loro gente\nal conservadore: e questo valico fu pi\u00f9 giorni, avendo il d\u00ec e la\nnotte da seicento in ottocento o pi\u00f9 cavalieri tedeschi ad albergare\nin Firenze, e per\u00f2 niuno sospetto o movimento si fece o si prese nella\ncitt\u00e0, salvo che un pennone per gonfalone guardava la notte senza\nandare la gente attorno.\nCAP. XXIII.\n_Come il cardinale d\u2019Ostia fu ricevuto a Firenze._\nIl cardinale d\u2019Ostia ch\u2019avea coronato l\u2019imperadore, avendo volont\u00e0\ndi venire a Firenze per vedere la citt\u00e0 e per procacciare alcuna cosa\ndal comune, venne a Firenze a d\u00ec 6 di maggio del detto anno, ricevuto\nda\u2019 cittadini con grande onore, andandogli incontro la generale\nprocessione, e messo sotto un ricco palio d\u2019oro e di seta, addestrato\nda\u2019 cavalieri di Firenze e da\u2019 maggiori popolari, sonando tutte le\ncampane del comune e delle chiese a Dio laudiamo mentre ch\u2019e\u2019 pen\u00f2 ad\nessere albergato, con grande riverenza per onore di santa Chiesa fu\ncollocato nelle case degli Alberti; e fattogli per lo comune ricchi\npresenti, domandatosi per lui a\u2019 priori cose indiscretamente che non\ngli poteano fare, delle quali iscusatisi onestamente, non contento\nda loro per la sua ambizione, a d\u00ec 8 di maggio del detto anno, mal\ncontento del nostro comune per suo disonesto sdegno se ne ritorn\u00f2\na Pisa, dimenticato l\u2019onore ricevuto per lo corrotto appetito della\nsconcia domanda.\nCAP. XXIV.\n_Come la gente del legato presono quattro castella di Malatesta._\nDopo la sconfitta e la presura di messer Galeotto narrata poco\naddietro, messer Malatesta and\u00f2 a Pisa all\u2019imperadore, perch\u00e8\nl\u2019acconciasse in pace col legato e con la Chiesa; nondimeno avea alle\nfrontiere della gente e delle terre della Chiesa tutta la forza della\nsua gente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8 ragunata quivi, avvisando che l\u00e0\nsi facesse la guerra, e cos\u00ec dimostrava di volere fare il capitano\ndella gente della Chiesa; ma come uomo avvisato ne\u2019 fatti della guerra,\navendo condotto certo trattato per le mani del conticino da Ghiaggiuolo\nil quale era de\u2019 Malatesti, ma nimico di messer Malatesta e de\u2019 suoi\nper la morte di suo padre, questi avendo ordinato il suo trattato,\nfece col capitano della Chiesa che subito mand\u00f2 della Marca in Romagna\ncinquecento cavalieri e altrettanti e pi\u00f9 masnadieri, i quali furono\nprima in su le porte di Rimini ch\u2019e\u2019 terrazzani sprovveduti senza\navere gente d\u2019arme alla guardia se n\u2019avvedessono, e funne la citt\u00e0\nin gran pericolo; e per questo subito avvenimento, non essendo gente\nnella terra da potere soccorrere di fuori n\u00e8 riparare al trattato\ndel conticino, presono e rubellarono a\u2019 Malatesti il castello di\nsant\u2019Arcagnolo, e \u2019l Verrucchio, e due altre castella intorno e di\npresso alla citt\u00e0 di Rimini, le quali fornirono di gente da cavallo e\nda pi\u00e8 che faceano guerra a Rimini e nel paese, ed erano come bastite\nche teneano assediata la terra. Di questa cosa si conturb\u00f2 tutta la\nRomagna, e fu cagione di recare i Malatesti pi\u00f9 tosto a rendersi alla\nvolont\u00e0 del legato, come al suo tempo appresso racconteremo; e questo\nfu del mese di maggio del detto anno.\nCAP. XXV.\n_Come mor\u00ec il duca di Pollonia._\nIl duca Stefano di Pollonia cugino dell\u2019imperadore, giovane virtudioso\ne di grande autorit\u00e0, avendo vaghezza di venire a Firenze per suo\ndiporto, e lasciato l\u2019imperadore a Pisa, venne con sua compagnia di\ngiovani baroni a Firenze, ove fu ricevuto a grande onore; ed essendo il\ngran siniscalco del Regno messer Niccola Acciaiuoli a Firenze, gli fece\ncompagnia festeggiando per la citt\u00e0. E avendo ricevuto onore di corredi\nda\u2019 signori e dal gran siniscalco, e compiaciutosi molto co\u2019 cavalieri\ne gentili uomini, e nella cittadinanza de\u2019 Fiorentini e a pi\u00f9 feste,\ntornato a Pisa all\u2019imperadore si lod\u00f2 molto de\u2019 Fiorentini, e magnific\u00f2\nil nome della nostra citt\u00e0 in molte cose, e dopo pochi d\u00ec cadde malato\nin Pisa, e d\u2019una continua febbre in sette d\u00ec pass\u00f2 di questa vita.\nDissesi ch\u2019avea mangiato in Pisa d\u2019un\u2019anguilla, e che immantinente\nammal\u00f2, ma la continua pi\u00f9 ch\u2019altro il trasse a fine; della cui morte\nfu gran danno, perocch\u2019era barone di grande aspetto. Della morte di\ncostui molto si dolse l\u2019imperadore, ma l\u2019imperadrice vedendolo morire\ncos\u00ec brevemente impaur\u00ec molto, e stimolava l\u2019imperadore di ritornare\nnella Magna, e molti baroni e cavalieri per la morte del duca Stefano\nabbandonarono l\u2019imperadore e tornaronsi in Alamagna, e lasciaronlo\ncon poca gente. E \u2019l sire della Lippa, uno dei maggiori signori di\nBoemia, essendo malato a Pisa si fece conducere a Firenze, e giunto\nnella citt\u00e0, e venuto a notizia de\u2019 signori, di presente il feciono\nalbergare nel vescovado con tutta sua famiglia, che non v\u2019era il\nvescovo, e fornironlo di buone letta e di tutto ci\u00f2 che a bene stare\ngli bisognava, e ordinarongli i migliori medici della citt\u00e0 alla\nprovvisione e consiglio della sua sanit\u00e0, e continovo sera e mattina\ngli faceano apparecchiare delle loro dilicate vivande e de\u2019 loro fini\nvini. E tanta fede aggiunta col suo piacere ebbe il nostro comune,\nche di lunga malattia e quasi incurabile, non pensando potere campare\naltrove, come fu piacere di Dio prese perfetta sanit\u00e0 nella citt\u00e0\ndi Firenze, e guarito, fu onorato di doni e d\u2019altre cose dal nostro\ncomune. Per le quali cose fatto singulare amico del nostro comune e\nde\u2019 suoi cittadini, soggiorn\u00f2 nella citt\u00e0 a suo diletto infino alla...,\ntanto che fu tornato nella sua fortezza: poi ebbe dal comune i danari\nche i Fiorentini gli aveano promessi per l\u2019imperadore, come innanzi\nracconteremo.\nCAP. XXVI.\n_Come fu coronato poeta maestro Zanobi da Strada._\nEra in questi d\u00ec in Pisa il maestro Zanobi, nato del maestro Giovanni\nda Strada del contado di Firenze; il padre insegn\u00f2 grammatica a\u2019\ngiovani di Firenze e a questo suo figliuolo, il quale fu di tanto\nvirtuoso ingegno, che morto il padre, e rimaso egli in et\u00e0 di\nvent\u2019anni, ritenne in suo capo la scuola del padre; e venne in tanta\nfecondit\u00e0 di scienza, che senza udire altro dottore ammend\u00f2 e pass\u00f2\nin grammatica la scienza del padre, e alla sua aggiunse chiara e\nspeculativa rettorica; e dilettandosi negli autori ne venne tanto\ncopioso, che in breve tempo d\u2019anni esercitando la sua nobile industria\ndivenne tanto eccellente in poesia, che mosso l\u2019imperadore alla gran\nfama della sua virt\u00f9, e da messer Niccola Acciaiuoli di Firenze gran\nsiniscalco del reame di Cicilia, alla cui compagnia il detto maestro\nZanobi era venuto, vedute e intese delle sue magnifiche opere fatte\ncome grande poeta, volle che alla virt\u00f9 dell\u2019uomo s\u2019aggiugnesse l\u2019onore\ndella dignit\u00e0, e pubblicandolo in chiaro poeta in pubblico parlamento,\ncon solenne festa il coron\u00f2 dell\u2019ottato alloro; e fu poeta coronato\ne approvato dall\u2019imperiale maest\u00e0 del mese di maggio del detto anno\nnella citt\u00e0 di Pisa; e cos\u00ec coronato, accompagnato da tutti i baroni\ndell\u2019imperadore e da molti altri della citt\u00e0 di Pisa, con grand\u2019onore\ncelebr\u00f2 la festa della sua coronazione. E nota, che in questi tempi\nerano due eccellenti poeti coronati cittadini di Firenze, amendue di\nfresca et\u00e0; e l\u2019altro ch\u2019avea nome messer Francesco di ser Petraccolo,\nonorevole e antico cittadino di Firenze, il cui nome e la cui fama\ncoronato nella citt\u00e0 di Roma era di maggiore eccellenza, e maggiori e\npi\u00f9 alte materie compose, e pi\u00f9, perocch\u2019e\u2019 vivette pi\u00f9 lungamente, e\ncominci\u00f2 prima; ma le loro cose nella loro vita a pochi erano note, e\nquanto ch\u2019elle fossono dilettevoli a udire, le virt\u00f9 teologhe a\u2019 nostri\nd\u00ec le fanno riputare a vili nel cospetto de\u2019 savi.\nCAP. XXVII.\n_Come fu morto messer Francesco Castracani da\u2019 figliuoli di Castruccio._\nSentendo i Pisani che messer Francesco Castracani di Lucca facea\nvenire gente delle sue terre di Garfagnana in favore della setta de\u2019\nraspanti di Pisa per muovere novit\u00e0 nella citt\u00e0, il feciono assapere\nall\u2019imperadore. L\u2019imperadore gli mand\u00f2 comandando che di presente si\ndovesse partire della citt\u00e0 di Pisa. E sostenuti pi\u00f9 comandamenti senza\nubbidire, sentendo che \u2019l maliscalco colle masnade s\u2019armavano contro a\nlui, si part\u00ec tenendo la via verso Lucca; e partito lui, fu comandato\nil simile a\u2019 figliuoli di Castruccio Castracani, i quali dolendosi di\nquello ch\u2019avvenne a loro per messer Francesco, si partirono cavalcando\nper quella medesima via, e la sera si trovarono ad albergo insieme, e\nivi mostrandosi di buona voglia albergarono insieme, e dormirono in uno\nletto. La mattina seguendo loro viaggio vennono a uno maniero, il quale\nCastruccio essendo signore di Lucca avea fatto edificare e acconciare\na suo diletto molto nobilemente, e di pochi d\u00ec innanzi l\u2019imperadore\nl\u2019avea restituito a\u2019 figliuoli di Castruccio; e trovandovisi presso,\npregarono messer Francesco che con loro insieme andasse a vicitare\nil luogo, e risposto di farlo volentieri, uscirono di strada, e\nandarono al maniero, e giunti l\u00e0, i famigli si dierono attorno per i\ngiardini a loro diletto. Messer Arrigo e messer Valeriano di Castruccio\nrimasono con messer Francesco, e col figliuolo e con un suo genero,\ned entrarono ne\u2019 palagi per vedere l\u2019edificio, il quale era bello, ma\nmolto guasto, perch\u00e8 diciassette anni era stato disabitato; e sedendo\ncostoro in sulla sala del palagio, messer Arrigo s\u2019accost\u00f2 al fratello,\ne dissegli: Ora abbiamo tempo; e andando messer Francesco guardando\nl\u2019edificio, messer Arrigo, essendogli poco addietro, di subito trasse\nla spada, e non avvedendosene messer Francesco, gli diede nella gamba\nun colpo grave e pericoloso. Messer Francesco sentendosi fedito,\nvolendosi rivolgere, chiamando traditore messer Arrigo, non potendosi\nsostenere cadde, e messere Arrigo gli di\u00e8 s\u00f9 la testa un altro colpo\ndella spada che non lo lasci\u00f2 rilevare: e morto messer Francesco, i due\nfratelli corsono addosso al genero, e ivi senza arresto l\u2019uccisono, e\n\u2019l figliuolo di messer Francesco lasciarono per morto; e rimontati a\ncavallo seguirono loro viaggio, e tornaronsi in Lombardia; e questo\nfu a d\u00ec 18 di maggio del detto anno: cosa detestabile per lo grande\ntradimento mosso da invidia; ma per divino giudicio spesso avviene che\nle tirannie prendono termine e fine per simiglianti modi.\nCAP. XXVIII.\n_Come i Fiorentini mandarono tre cittadini all\u2019imperadore a sua\nrichiesta._\nL\u2019imperadore trovando l\u2019animo de\u2019 Pisani male contento per la voce\ncorsa, come detto \u00e8, ch\u2019egli trattava di liberare Lucca, e avvedendosi\ndelle novit\u00e0 che cominciavano ad apparire in Pisa e in Siena, cominci\u00f2\na sospettare, e avendo fidanza nel comune di Firenze, il richiese\nche gli mandasse tre confidenti suoi cittadini per averli al suo\nconsiglio. Il comune di presente gliel mand\u00f2, e da lui furono ricevuti\ngraziosamente. Ma poco si pot\u00e8 intendere o consigliare con loro, tante\nsfrenate novit\u00e0 occorsono l\u2019una appresso l\u2019altra, che voleano pi\u00f9\noperazione subita che consiglio, come seguendo appresso diviseremo.\nCAP. XXIX.\n_Come i Sanesi ebbono novit\u00e0._\nIl popolo minuto di Siena gi\u00e0 avea cominciato a sperare nella signoria,\ne per l\u2019appetito di quella dall\u2019una parte, e per paura e gelosia\ndall\u2019altra non potea acquetare; e gi\u00e0 impaziente del loro signore, a\ncui di tanta concordia s\u2019erano sottoposti, a d\u00ec 18 di maggio del detto\nanno levarono la citt\u00e0 a romore, e presono l\u2019arme, e serrarono le porte\ndella terra. Il patriarca maravigliandosi di questo subito movimento,\nsenza muoversi ad altra novit\u00e0 domand\u00f2 quello che \u2019l popolo volea: e\nrisposto gli fu, che rivoleano le catene usate nella citt\u00e0 a ogni canto\ndelle vie, ch\u2019erano state levate all\u2019avvenimento dell\u2019imperadore. Il\npatriarca l\u2019acconsent\u00ec, e fecele rendere loro. E appresso domandarono\ndi volere dodici uficiali sopra il governamento del comune di due in\ndue mesi al modo che soleano essere i nove, e che da loro parte andasse\nil bando: e domandarono di volere avere un gonfalone del popolo, e che\nla misura del loro staio si crescesse. Il patriarca vedendosi male\napparecchiato a potere resistere al popolo commosso e armato, ogni\ncosa concedette alla loro volont\u00e0. I loro grandi in questo fatto non\nsi armarono, e non si dimostrarono in favore del minuto popolo n\u00e8 in\ncontrario; e se questo movimento ebbe ordine da loro non si scoperse:\nma \u2019l popolo os\u00f2 di dire che questo movimento avea fatto temendo che\nl\u2019ordine dell\u2019uficio de\u2019 nove non si rifacesse; che sentivano che per\nforza di danari si cercava di rifare. E stato il popolo tre d\u00ec armato,\ne impetrata la loro intenzione si racquet\u00f2: e poste gi\u00f9 l\u2019armi, rimase\narrogante e superbo per la vittoria del loro primo cominciamento. E\ndi presente ebbono fatto i dodici di loro minuti mestieri e messili\nnell\u2019uficio, e fatto un gonfalone e datolo a uno loro vile artefice,\ncon ordine che tutti dovessono accompagnare e seguire il loro\ngonfalone. E questo fu il principio del loro reggimento, del quale poi\nseguirono maggiori cose come seguendo il tempo racconteremo.\nCAP. XXX.\n_Come i Pisani per gelosia furono in arme._\nEssendo venuta la novella della morte di messer Francesco Castracani\na Pisa, la setta de\u2019 raspanti cui e\u2019 favoreggiava si cominciarono a\ndolere fortemente, e dire che questa era stata operazione della parte\nde\u2019 Gambacorti, ma ci\u00f2 non era vero; nondimeno l\u2019imperadore se ne fece\ngrande maraviglia, e tutta la citt\u00e0 ne prese conturbazione, e crebbene\nl\u2019izza delle loro sette. E stando la citt\u00e0 in questo bollimento, a d\u00ec\n20 del detto mese di maggio improvviso s\u2019apprese fuoco nel palagio del\ncomune ove abitava l\u2019imperadore, e senza potervi mettere rimedio arse\ntutta la camera dell\u2019arme del comune ch\u2019era in quel palagio, ove arsono\ntutte le buone belestra, tende, e trabacche, e padiglioni, e l\u2019altre\narmadure che v\u2019erano, che niuna ne pot\u00e8 campare. E per questa cagione\nconvenne che l\u2019imperadore andasse ad abitare al duomo, e \u2019l popolo\ntutto sotto l\u2019arme tra per l\u2019una cagione e per l\u2019altra stava in gelosia\ne in sospetto, e per questo modo stette armato il d\u00ec e la notte. La\nmattina vegnente rassicurata la gente lasciarono l\u2019arme quetamente, e\ncatuno intese a\u2019 suoi mestieri. E in quella mattina ebbe l\u2019imperadore\nnovelle della novit\u00e0 di Siena, che gli dierono assai malinconia e\npensiero, e pi\u00f9 perch\u00e8 si trovava fortuneggiare in Pisa, e mal fornito\ndi gente d\u2019arme da potere provvedere e riparare alle fortune che si\nvedea apparecchiare. Allora cominci\u00f2 a potere conoscere che l\u2019avarizia\nera nimica d\u2019ogni buona provvisione.\nCAP. XXXI.\n_Ancora gran novit\u00e0 di Pisa._\nQuello che seguita \u00e8 grande assalto d\u2019avversa fortuna: e per esprimere\nmeglio la verit\u00e0 del fatto, ci conviene alquanto ritornare a dietro\nla nostra materia avvolta in diversi e vari intendimenti, i quali\nper lungo spazio di tempo cercammo discretamente, per lasciare di\ntanto inopinato caso la verit\u00e0 del fatto nel nostro trattato. Egli\n\u00e8 manifesto che i Gambacorti di Pisa aveano lungamente in grande\nprosperit\u00e0 governata e retta la citt\u00e0 di Pisa, e quella magnificata con\npace in grandi ricchezze de\u2019 suoi cittadini. L\u2019invidia delle loro buone\noperazioni avea creato una setta contro a loro chiamati i Raspanti,\ne la loro si chiamava de\u2019 Bergolini. I Gambacorti furono coloro che\nricevettono in pace l\u2019imperadore, e che gli diedono la signoria di\nPisa, bench\u00e8 ci\u00f2 facessono secondo la volont\u00e0 del popolo. A costoro\npromise l\u2019imperadore di mantenere e accrescere nella citt\u00e0 di Pisa il\ngovernamento del comune e il loro buono stato, e ne\u2019 cominciamenti\nappo l\u2019imperadore erano i maggiori, e molto fedelmente si portavano\nal servigio dell\u2019imperio. I raspanti, uomini astuti e vegghianti, per\nabbassare i Gambacorti aveano pi\u00f9 volte messo novit\u00e0 e romori nella\nterra, e\u2019 Gambacorti con loro seguito, per riparare con dolcezza\nalla loro malizia, aveano acconsentito di raccomunarsi insieme nella\ncittadinanza e negli ufici, e fatta pace con loro, e acconsentito\nall\u2019imperadore la derogazione de\u2019 patti promessi, stretti dalla\nnecessit\u00e0 pi\u00f9 che dalla ferma fede dell\u2019imperadore il feciono. \u00c8 vero\nch\u2019e\u2019 Gambacorti con la loro parte, e i raspanti e tutti i cittadini\ndi Pisa si doleano d\u2019uno modo della voce corsa che l\u2019imperadore\navesse l\u2019animo di liberare Lucca, e questo parlavano pubblicamente.\nL\u2019imperadore dicea di non liberarla, e nondimeno avea presa la guardia\ndel castello dell\u2019Agosta con la sua gente e trattine i Pisani, e a\u2019\nPisani parea ch\u2019egli attendesse il termine che compieva la sommissione\ndi quella citt\u00e0, che venia il giugno seguente, e nel vero si sapea\nch\u2019e\u2019 Lucchesi accoglievano moneta per la detta speranza: e trovammo\nnel vero che tutti i buoni cittadini di Pisa di catuna setta s\u2019erano\nconsigliati insieme per riparare che Lucca non si liberasse d\u2019uno animo\ne d\u2019una volont\u00e0, e di questo s\u2019era fatto capo il Paffetta de\u2019 conti di\nMontescudaio; e quelli della Rocca caporali della setta de\u2019 raspanti, e\na questo comune consiglio acconsentirono i Gambacorti; delle quali cose\nseguit\u00f2 la loro morte, come appresso diviseremo.\nCAP. XXXII.\n_Come furono in Pisa presi i Gambacorti._\nDopo la novit\u00e0 dell\u2019arsione sopraddetta e della morte di messer\nFrancesco Castracane, essendo il popolo insollito, e malcontento e\nsospettoso de\u2019 fatti di Lucca, sopravvenne, che le some degli arnesi\ne dell\u2019armadure de\u2019 loro cittadini ch\u2019erano stati alla guardia\ndell\u2019Agosta in Lucca tornavano, avendo rassegnata la guardia di quella\nalla gente dell\u2019imperadore. I Pisani della setta de\u2019 raspanti, per\nle cui contrade le some passavano, facendosene capo il Paffetta,\ncominciarono a levare il romore contro all\u2019imperadore, e ogni uomo\ns\u2019and\u00f2 ad armare; la gente dell\u2019imperadore veggendo questa novit\u00e0\ns\u2019armarono, e montarono a cavallo in diverse contrade com\u2019erano\nalbergati, e tutti traevano al duomo dov\u2019era il loro signore. I\ncittadini gli lanciavano, e assalivano, e uccidevano per le vie\ncome fossono loro nemici, e in questo primo romore in pi\u00f9 contrade\nfurono morti pi\u00f9 di centocinquanta cavalieri tedeschi di quelli\ndell\u2019imperadore. L\u2019imperadore vedendosi a questo pericolo, e mal\nfornito a fare resistenza al furore del commosso popolo, s\u2019era armato\ne diliberato di volersi partire con la sua gente ch\u2019avea raccolta\nal duomo. De\u2019 Gambacorti, ci\u00f2 era Franceschino e Lotto, quand\u2019era\nquesto romore si trovarono in casa l\u2019imperadore con certi altri\ncittadini senz\u2019arme; e Bartolommeo e Piero, maravigliandosi di questo\nsubito romore, si racchiusono in casa il cardinale d\u2019Ostia legato\ndel papa. I grandi e i buoni cittadini che non sapeano la cagione\ndel romore traevano a casa i Gambacorti; e nel vero, se alcuno di\nloro fosse uscito fuori di casa armato, non ne dubito, che tanto e\ntale era il seguito de\u2019 buoni cittadini, che la citt\u00e0 di Pisa avrebbe\npreso quel partito ch\u2019e\u2019 Gambacorti avessono voluto, ma la loro mala\nprovvedenza coperta da semplice ignoranza li condusse alla loro ruina,\ne la sagace malizia de\u2019 loro avversari li fece signori. Il conte\nPaffetta e messer Lodovico della Rocca, ch\u2019erano stati i movitori\ndi questo romore, avvedendosi che la maggior forza de\u2019 cittadini\ntraevano a casa i Gambacorti, e che quelli della casa per folle\nconsiglio non comparivano a farsi capo de\u2019 cittadini, s\u2019avvisarono\nd\u2019abbatterli per malizia in quello furore, coll\u2019aiuto della paura\nche sentivano ch\u2019avea l\u2019imperadore che cercava di volersi partire;\ne per fornire loro intendimento, acciocch\u00e8 \u2019l romore mosso per loro\nnon tornasse in loro confusione, cambiarono la voce, e mostrandosi\naiutatori dell\u2019imperadore, con gran compagnia di loro seguito armati\ns\u2019appresentarono dinanzi dall\u2019imperadore, e dissono: Signor nostro,\nvoi siete tradito da\u2019 Gambacorti e dalla loro setta, perch\u00e8 non pare\nloro essere signori di Pisa come e\u2019 solieno, e per questa cagione hanno\nfatto levare questo romore e uccidere la vostra gente, e alle loro case\nhanno raccolto in arme la maggior forza de\u2019 cittadini; dicendoli, che\nse per lui a questo punto non si mettesse riparo, egli e sua gente era\nin grave pericolo a campare del loro furore, ed eglino medesimi co\u2019\nloro seguaci erano in grave pericolo di morte e d\u2019essere cacciati di\nPisa: e detto questo, s\u2019offersono all\u2019imperadore, e dissono; Se voi ci\nvolete dare l\u2019aiuto del vostro maliscalco e parte di vostre masnade,\nrecheremo tosto al niente la parte de\u2019 Gambacorti, e voi faremo libero\nsignore di Pisa. L\u2019imperadore avendo il suo senno intenebrato, e\nsviato da se per la via della paura, indiscretamente diede fede alla\nmanifesta iniquit\u00e0 di costoro, e non volle la cosa ricercare con alcuna\nragione o verit\u00e0 del fatto; ma in quello stante prese parte, e fecesi\nnemico de\u2019 suoi fedeli e innocenti amici, e amico di coloro che gli\nerano stati avversari, e diede le sue masnade e il suo maliscalco a\nseguitare messer Paffetta, e messer Lodovico e la loro setta contro a\u2019\nGambacorti, i quali senz\u2019arme avea ne\u2019 suoi palagi e in casa ignoranti\ndi questo fatto, e per suo comandamento fece ritenere Franceschino\ne Lotto ch\u2019avea in casa, e al legato mand\u00f2 per gli altri ch\u2019erano\nl\u00e0 fuggiti udendo il romore sotto le sue braccia, e fu di tanta vile\ncondizione, che di presente glie le mand\u00f2, in gran disonore e infamia\ndel suo cappello e della libert\u00e0 di santa Chiesa; e cos\u00ec fece di pi\u00f9\naltri cittadini, che a lui erano fuggiti per tema del romore.\nCAP. XXXIII.\n_Come fur arse le case de\u2019 Gambacorti._\nIl conte Paffetta e messer Lodovico della Rocca avendo accolto loro\nseguito, e la gente e l\u2019insegna dell\u2019imperadore, i quali il d\u00ec aveano\nperseguitati e morti, ora per loro sagace industria li traevano\nalla morte de\u2019 loro cittadini, e gridando viva l\u2019imperadore, molta\ngente di loro seguito ragunata contro a lui rivolsono contro a\u2019\nGambacorti, e contro a\u2019 buoni cittadini ch\u2019erano tratti senza loro\nsaputa o procaccio alle loro case. E venendo a valicare i ponti\ndell\u2019Arno, trovarono alcuna lieve resistenza di gente ignorante del\nfatto, e tra loro non era alcuno de\u2019 Gambacorti, in manifesto segno\nche quel d\u00ec era terminato alla loro ruina; perocch\u00e8 se alcuno di\nquella casa fosse comparito in arme, tanti e tali erano i cittadini\ntratti per difenderli, ch\u2019avrebbono ributtati i loro avversari e la\ngente dell\u2019imperadore al Ponte vecchio e al Ponte della spina; ma non\napparendo alcuno de\u2019 Gambacorti, il Paffetta e messer Lodovico colla\ncavalleria dell\u2019imperadore furono lasciati passare, e addirizzaronsi\nverso casa i Gambacorti, e trovandole senza alcuna difesa, le feciono\nrubare e appresso ardere; e per questo inopinato furore presi i non\ncolpevoli Gambacorti con certi altri loro amici, e arse le case,\ndiedono per quella giornata, a d\u00ec 21 di maggio del detto anno, riposo\nal furore dello scommosso popolo. I presi furono Franceschino, Lotto,\nBartolommeo, Piero e Gherardo de\u2019 Gambacorti; e gli altri cittadini di\nloro seguito furono ser Benincasa Giunterelli notaio della condotta,\nCecco Cinquini, ser Piero dell\u2019Abate, ser Nieri Papa, Neruccio\nMestondine, Neri di Lando da Faggiuola, Ugo di Guitto, e Giovanni\ndelle Brache, messer Guelfo de\u2019 Lanfranchi, e messer Piero Baglia\nde\u2019 Gualandi, messer Rosso de\u2019 Sismondi e Francesco di Rossello. E\navvegnach\u00e8 tutti questi fossono in questo d\u00ec presi, nondimeno non per\u00f2\ntutti furono giudicati dall\u2019imperadore, come appresso diviseremo nei d\u00ec\ndella loro condannazione.\nCAP. XXXIV.\n_Di novit\u00e0 seguite a Lucca._\nIn questo avviluppato furore della commozione di Pisa fu di subito\nla novella a Lucca; e a\u2019 Lucchesi parendo che fosse venuto il tempo\ndi potere uscire del grave giogo e servaggio de\u2019 Pisani, incontanente\na d\u00ec 22 del detto maggio sommossono i loro contadini che venissono a\nliberare la citt\u00e0, che da loro erano impotenti a ci\u00f2 fare, perocch\u00e8\nerano pochi e male in arme da potere muovere tanto fatto. I contadini\ncaporali nemici de\u2019 Pisani per l\u2019animo della parte e per le gravi\noppressioni, trassono subitamente d\u2019ogni parte alla citt\u00e0, e i\ncittadini mossono il romore dentro, e presono l\u2019arme contro alle\nguardie delle porti, che di quelli dell\u2019Agosta non temeano, perocch\u2019era\nin mano della gente dell\u2019imperadore, e non si travagliavano di\ndifendere la citt\u00e0 a\u2019 Pisani; e avendo gi\u00e0 presa alcuna porta, misono\ndentro parte de\u2019 loro contadini, e col loro aiuto ripresono tutte le\nfortezze della citt\u00e0 e tutte le porti, fuori che quella del castello\ne quella del prato; essendo gi\u00e0 liberi signori del corpo della terra,\ne potendovi mettere i contadini e fortificarsi alla difesa della\nloro libert\u00e0, e poteano avere subito aiuto di gente d\u2019arme da\u2019 loro\nvicini, e\u2019 Pisani non erano in istato da contradiarli, e l\u2019imperadore\ntradito da\u2019 Pisani non li avrebbe atati, assai chiaro era tornata la\nlibert\u00e0 nelle loro mani, ma forse non compiuto ancora il termine de\u2019\nloro peccati; e per\u00f2 avvenne, che certi popolani ch\u2019erano meno male\ntrattati da\u2019 Pisani che gli altri, e alquanti degl\u2019Interminelli, per\ntema che la tirannia gi\u00e0 passata di Castruccio non tornasse loro a\nmale, tradirono i loro cittadini, e dissono ch\u2019aveano da\u2019 Pisani ogni\npatto che sapessono dimandare, e che con buona pace sarebbono liberi.\nIl popolo vile, nutricato lungamente in servaggio, lievemente si lasci\u00f2\ningannare, e lasciarono accomiatare i contadini e restituire la guardia\ndelle porti a\u2019 Pisani; i quali per riprendere con pi\u00f9 asprezza la\nsignoria, fattisi forti nella citt\u00e0 arsono molte case de\u2019 cittadini, e\ni pi\u00f9 franchi e chi avea alcuno polso cacciarono fuori della terra, e\ni miseri che dentro vi lasciarono strinsono sotto gravi servaggi della\nloro vita, e tolsono loro ogni ferramento d\u2019arme, e in Pisa tenendo\nin sospetto l\u2019imperadore si feciono rendere la guardia dell\u2019Agosta, e\nvoleano che privilegiasse loro la signoria di Lucca: di questo li tenne\nsospesi a questa volta, ed eglino riavendo l\u2019Agosta si contentarono.\nCAP. XXXV.\n_Come nuovo romore si lev\u00f2 in Siena._\nEssendo i cittadini di Siena male disposti tra loro, avvedendosi che \u2019l\nminuto popolo cercava la libera signoria, questo spiacea agli altri: e\nvedendo che \u2019l patriarca a d\u00ec 22 di maggio del detto anno avea ricevuto\nil saramento di nuovo, e per\u00f2 non ostante ch\u2019egli avesse acconsentito\nal popolo l\u2019uficio de\u2019 dodici e \u2019l gonfalone si recava in dubbio quello\nuficio; nondimeno gli artefici e il minuto popolo esercitavano gli\nufici loro sforzatamente, e aveano commessa la guardia della citt\u00e0 a\ncerti caporali i quali andavano alla cerca con grande compagnia di loro\nartefici per la terra, oggi l\u2019uno e domani l\u2019altro. In questo avvenne,\nche certi fanti da Casole di Volterra che veniano a petizione di certi\ngentili uomini, la guardia degli artefici gli presono, e di fatto li\nvoleano fare impiccare. I grandi cittadini e \u2019l popolo grasso vedendo\nlo sfrenato furore del minuto popolo cominciarono a fare romore contro\na loro, e tutta la citt\u00e0 fu sotto l\u2019arme, e l\u2019esecuzione de\u2019 presi si\nrimase. Allora il minuto popolo che reggea mand\u00f2 all\u2019imperadore a Pisa\nche mandasse loro aiuto. L\u2019imperadore vedendosi in Pisa in cotanta\nbriga e tempesta, e conoscendo l\u2019incostanza del popolo, e vedendo le\nnuove cose che ogni d\u00ec nascevano in Siena, mand\u00f2 a dire a\u2019 Sanesi che\ngli rimandassono il patriarca suo fratello salvo, e facessono di quello\nreggimento come a loro piacesse, che tra loro non volea prendere parte.\nCAP. XXXVI.\n_Come i Sanesi feciono rinunziare la signoria al patriarca._\nAvuti ch\u2019ebbono i dodici nuovi ufiziali di Siena, a d\u00ec 26 di maggio\ndetto, la risposta dall\u2019imperadore, feciono loro generale consiglio,\nnel quale il minuto popolo e gli artefici furono per comune, ma non\ncos\u00ec gli altri cittadini, e nella loro presenza feciono venire il\npatriarca, il quale come loro signore venne colla bacchetta in mano;\ned essendo nel consiglio, disonestamente gli feciono rendere la\nbacchetta, e rinunziare alla singulare signoria che data gli aveano\na richiesta dell\u2019imperadore, e fecionne trarre pubblichi istromenti a\npi\u00f9 notai. E fatto questo, parendo al patriarca essere in vergognoso\ne non sicuro partito tra le mani dello scondito popolazzo cui egli\nmattamente avea esaltato, domand\u00f2 di potersene andare all\u2019imperadore\ncon sicuro condotto; fugli risposto, che tanto gli conveniva stare\nche le loro castella fossono restituite nella guardia del comune:\navendo con suo mandato e colle sue lettere mandato gente a prenderle,\nnondimeno gli convenne contro a sua voglia due d\u00ec attendere: poi\na d\u00ec 27 di maggio del detto anno in fretta si mise a cammino per\nritornarsi all\u2019imperadore. I Massetani e quelli di Montepulciano\nlasciarono partire la gente dell\u2019imperadore, e per\u00f2 non accettarono\nla signoria de\u2019 Sanesi a quella volta. Per queste rivolture di Pisa e\ndi Siena in cos\u00ec pochi giorni dopo la coronazione dell\u2019imperadore si\npu\u00f2 comprendere, come altre volte abbiamo contato, che il reggimento\ndella gente tedesca \u00e8 strano agl\u2019Italiani, e non si sanno reggere n\u00e8\nprovvedere; e per\u00f2 \u00e8 poco savio chi si sottomette alla loro suggezione,\nche non tengono fede a mantenere lo stato che trovano, e da loro non\nsanno governare i popoli, e per\u00f2 di necessit\u00e0 seguitano pericolose\nrivoluzioni de\u2019 liberi comuni, e quello ch\u2019\u00e8 detto, e quello che\nseguita, sono manifesti esempi del nostro consiglio.\nCAP. XXXVII.\n_Come furono decapitati i Gambacorti._\nAvendo l\u2019imperadore presi i Gambacorti e gli altri nominati cittadini,\ne fattili contradi alla maest\u00e0 imperiale ov\u2019erano fedeli, e rubelli\nov\u2019erano amici, a suggestione del conte Paffetta e di messer Lodovico\ndella Rocca, come detto \u00e8, essendo racquetato il tumulto del popolo, e\nl\u2019imperadore nell\u2019animo quieto per coprire il notorio fallo, e perch\u00e8\ndimostrare si potesse pi\u00f9 certo, volendo giustificare la sua inconsulta\nimpresa, essendo dal cominciamento della loro presura ciascuno\nracchiuso di per se senza sapere l\u2019uno dell\u2019altro, li fece disaminare\na un giudice d\u2019Arezzo, acciocch\u00e8 potesse formare l\u2019inquisizione\ncontro a loro per poterli giudicare colpevoli. E avendoli disaminati\nsenza martorio, e appresso con tormento, ciascuno disse per forza di\ntormento ci\u00f2 che \u2019l giudice volle che dicessono, acciocch\u00e8 li potesse\ncondannare colpevoli, come sapea la volont\u00e0 del signore; e nondimeno\npubblicato il processo si trov\u00f2, che l\u2019uno non avea detto come l\u2019altro,\nma diversamente: l\u2019uno, come avea trattato col comune di Firenze, e\nche dovea mandare la sua cavalleria in Valdarno, e non conchiudea;\ne l\u2019altro nomin\u00f2 che \u2019l trattato era con tre cittadini di Firenze,\ne nominolli per nome, e non sapea dire il modo; e l\u2019altro si trov\u00f2\nch\u2019avea detto per un altro modo: e cos\u00ec esaminati tutti, non era nel\nprocesso convenienza salvo che in una cosa, che tutti, vedendo che a\ndiritto o a torto convenia loro morire, per non essere pi\u00f9 tormentati,\nconfessarono a volont\u00e0 del giudice ch\u2019aveano voluto tradire e uccidere\nl\u2019imperadore e la sua gente. Il furore del romore mosso in Pisa\nera s\u00ec manifesto che non fu di loro operazione, che \u2019l processo nol\npotea contenere. I tre cittadini di Firenze nominati per Franceschino\nerano tali, che niuno sospetto ne cadde nel cospetto dell\u2019imperadore:\nnondimeno non lasci\u00f2 trarre del processo i loro nomi, anzi convenne che\nsi appresentassono in giudicio in Samminiato del Tedesco, allora terra\nlibera dell\u2019imperadore, e per sentenza imperiale furono dichiarati non\ncolpevoli e prosciolti. E allora veduto pe\u2019 savi tutto il processo,\nfu manifesto che i presi per ragione non doveano esser giudicati\ncolpevoli; ma gli sventurati Gambacorti, ch\u2019aveano tanto tempo retta la\ncitt\u00e0 di Pisa in singolare buono stato, e onorato l\u2019imperadore sopra\ngli altri cittadini, in parlamento fatto a d\u00ec 26 di maggio predetto\nfurono giudicati traditori dell\u2019imperiale maest\u00e0, Franceschino Lotto e\nBartolommeo Gambacorti fratelli carnali, e Cecco Cinquini e ser Nieri\nPapa, Ugo di Guitto e Giovanni delle Brache, tutti grandi popolani di\nPisa: e armato il maliscalco con cinquecento cavalieri tedeschi furono\nmenati in camicia cinti di strambe e di cinghie, e a modo di vilissimi\nladroni tirati e tratti da\u2019 ragazzi, furono cos\u00ec vilmente condotti dal\nduomo di Pisa alla piazza degli anziani, scusandosi fino alla morte non\ncolpevoli, e scusando il comune di Firenze e i tre cittadini nominati;\ne ivi involti nel fastidio della piazza e nel sangue l\u2019uno dell\u2019altro\nfurono decapitati, e gli sventurati corpi maculati dalla bruttura\ndel sangue per comandamento dell\u2019imperadore stettono tre d\u00ec in sulla\npiazza senza essere coperti o sepolti: la cui morte, in vituperio del\ncardinale legato del papa, e in abbassamento della gloria imperiale,\ndiede ammaestramento a\u2019 popoli che voleano vivere in libert\u00e0 e a\u2019\nrettori di quelli, di non doversi potere fidare alle promesse imperiali\nnello stato delle loro signorie, n\u00e8 nel grande stato cittadinesco\nalcuno singulare onorato cittadino, perocch\u00e8 l\u2019invidia spesso per non\nprovvedute vie \u00e8 cagione di grandi ruine. Per la morte di costoro, e\nper la paura conceputa nel petto dell\u2019imperadore, messer Paffetta e\nmesser Lodovico della Rocca rimasono i maggiori governatori di Pisa, ma\ntosto sent\u00ec messer Paffetta la volta della fallace fortuna, come al suo\ntempo appresso racconteremo.\nCAP. XXXVIII.\n_Dello stato de\u2019 Gambacorti passato._\nAvvegnach\u00e8 quello ch\u2019\u00e8 narrato de\u2019 Gambacorti dovesse bastare, tuttavia\nper dare esempio agli altri cittadini di temperanza ne\u2019 fallaci\nstati del comune ricordiamo, che costoro essendo mercatanti e antichi\ncittadini di Pisa, cacciati i Conti e quelli della Rocca ch\u2019aveano\nretto un tempo, costoro senza usurpare il reggimento accostati e tratti\ninnanzi da\u2019 buoni cittadini di Pisa, per loro operazioni pacifiche\ne virtuose divennono i maggiori, e per loro consiglio si mantenea\ngiustizia, e s\u2019aumentava la pace de\u2019 loro vicini; e per questo, e\nper la frequenza delle mercatanzie e del loro porto molto accrebbono\nle ricchezze a\u2019 cittadini, e \u2019l comune usc\u00ec in piccol tempo di gran\ndebito. Questi fratelli montarono in tanta autorit\u00e0, che poterono\nfare la pace dall\u2019arcivescovo di Milano al comune di Firenze e agli\naltri comuni di Toscana, e rimanere arbitri tra le parti: e venendo\nl\u2019imperadore in Italia, e\u2019 furono in podere di non riceverlo in Pisa\ns\u2019avessono voluto, ma per loro consiglio si ricevette, con promissione\nd\u2019essere da lui conservati nel loro stato. Costoro l\u2019albergarono nelle\nloro case, facendoli grande onore e ricchi doni del loro e di quello\ndel comune, e portandosi nelle rivoluzioni ch\u2019avvennono sempre in fede\ne in purit\u00e0 verso il signore, e comportando pazientemente la loro\ndetrazione mossa dalla loro avversaria setta. Ma che vale la troppa\nricchezza, e gli onori e \u2019l magnifico stato della cittadinanza contro\nalla rodente invidia de\u2019 suoi cittadini? nella quale si racchiude\ngli aguati della fortuna e della mortale inimicizia, alla quale manca\nl\u2019umana provvisione, e spesso genera inestimabili cadimenti e ruine;\ne per questo e molti altri esempi assai \u00e8 pi\u00f9 senno vivere civilmente,\nche prendere il reggimento del comune pi\u00f9 che la comune sorte gli dea,\ne quella innanzi ristrignere e mancare, che crescere o allargare per\nambizione; perocch\u00e8 i popoli naturalmente sono ingrati, e tra loro le\nvirt\u00f9 e la troppa alterezza come \u00e8 temuta e riverita, cos\u00ec in occulto\n\u00e8 odiata, e l\u2019invidia conceputa genera pericolosi traboccamenti; e\nla furiosa e matta baldanza pi\u00f9 muove e guida il popolo, che virt\u00f9 o\ngiustizia non pu\u00f2 sostenere o riparare.\nCAP. XXXIX.\n_Come l\u2019imperadore prese in guardia Pietrasanta e Serezzana._\nParendo all\u2019imperadore non stare sicuro in Pisa per le novit\u00e0\nsopravvenute, domand\u00f2 a\u2019 Pisani di volere la libera guardia di\nPietrasanta e di Serezzana, e\u2019 Pisani glie la diedono, e incontanente\nvi mand\u00f2 l\u2019imperadrice con parte della sua gente, e fece pigliare la\ntenuta delle terre e la guardia della rocca di Pietrasanta; e quando\nebbe novella che le castella erano in sua guardia gli parve essere\npi\u00f9 al sicuro, sentendo ch\u2019e\u2019 cittadini si cominciavano a rammaricare\nde\u2019 Gambacorti e degli altri cittadini decapitati, e rivoleano i\npresi; l\u2019imperadore di presente si sarebbe partito, e abbandonato\nogni cosa per grande paura che gli martellava la mente non senza\ngravezza di coscienza delle cose novellamente fatte, ma temeva forte\ndel patriarca per le novit\u00e0 mosse in Siena, e grande pericolo gli\npareva lasciarlovi addietro; e per\u00f2 attendeva con grande affezione,\ne ogni d\u00ec gli parea del soggiorno un anno aspettando. A\u2019 caporali\npisani nuovamente esaltati parea rimanere male partendosi l\u2019imperadore,\nperocch\u00e8 ancora erano troppo grandi i loro avversari; e per tanto\nfurono all\u2019imperadore, e domandarongli che vi lasciasse suo vicario;\nl\u2019imperadore contento della loro domanda ordin\u00f2 suo vicario un valente\nprelato, uomo sperto in arme e di gran consiglio, chiamato messer\nAntorgo Maraialdo vescovo d\u2019Augusta, con trecento cavalieri, ma non\ndeterminatoli questo numero n\u00e8 altro per l\u2019avvenire, con salario della\nsua persona e della sua gente di fiorini dodicimila d\u2019oro il mese; e\ncos\u00ec prese l\u2019uficio e \u2019l titolo del vicariato.\nCAP. XL.\n_Come l\u2019imperadore si part\u00ec da Pisa._\nAvendo l\u2019imperadore novelle certe che \u2019l patriarca era in cammino, e\nlibero da\u2019 Sanesi e\u2019 tornavasi a lui, non aspett\u00f2 che giugnesse in Pisa\ninnanzi la sua partita, ma avute le novelle in sull\u2019ora del vespero, a\nd\u00ec 27 di maggio del detto anno si part\u00ec di Pisa, e con lui il cardinale\nd\u2019Ostia, e cavalcando forte non si tenne sicuro infinch\u2019e\u2019 fu giunto a\nPietrasanta; e giunto l\u00e0, si mise di presente con l\u2019imperadrice a stare\ndentro dalla rocca, e mentre che vi dimor\u00f2, che furono pi\u00f9 giorni,\ncontinovo torn\u00f2 a dormire nella rocca, e in persona andava a fare\nserrare le porte, e mettea le guardie, e portavasene le chiavi nella\nsua camera, ch\u2019era nella mastra torre di quella rocca.\nCAP. XLI.\n_Come i Sanesi domandarono vicario all\u2019imperadore, e non l\u2019accettarono._\nParendo a\u2019 Sanesi avere offeso l\u2019imperadore, e non essendo ancora in\nistato fermo del loro reggimento, mandarono all\u2019imperadore che mandasse\nloro suo vicario. L\u2019imperadore chiam\u00f2 per suo vicario della citt\u00e0\ndi Siena messer Agabito della Colonna di Roma. I Sanesi saputo cui\negli mandava loro per vicario, uomo animoso in parte ghibellina e di\ndisonesta vita, avvegnach\u00e8 fosse di grande lignaggio, il ricusarono, e\npi\u00f9 non si travagliarono di domandare altro vicario all\u2019imperadore, n\u00e8\nl\u2019imperadore per sdegno preso di darlo loro.\nCAP. XLII.\n_Come i Sanesi presono e rubarono Massa._\nRimasa la signoria di Siena nelle mani degli artefici e del minuto\npopolo favoreggiato dalle case de\u2019 grandi, avendo veduto che Massa\ndi Maremma non avea voluto ricevere la loro signoria, e dimostrava di\nvolersi reggere in libert\u00e0, di subito senza provvisione, all\u2019entrata\ndel mese di giugno del detto anno, in furore si mosse il popolo con\ncerti soldati ch\u2019avea, e andaronne a Massa. Gl\u2019infelici Massetani, che\nstando alle difese per lo disordine di quel popolo erano vincitori,\nper pi\u00f9 disordinato modo che quello de\u2019 Sanesi, baldanzosi uscirono\ndella citt\u00e0 di Massa e affrontaronsi alla battaglia co\u2019 Sanesi,\nnella quale furono rotti e sconfitti; e fuggendo alla citt\u00e0, e\u2019\nSanesi seguitandoli, con loro insieme v\u2019entrarono dentro; e senza\nmisericordia, come avessono preso una terra di nemici, intesono a\nrubare, e a spogliare la citt\u00e0 di tutti i suoi beni, ch\u2019erano pochi,\ne recare in preda gli uomini, e le femmine e\u2019 fanciulli, e raccolta\nla gente, misono fuoco nella citt\u00e0, e menarne a Siena gli uomini, e\nle femmine, e\u2019 fanciulli, e le masserizie e l\u2019altre cose, in gran\ngloria e gazzarra di quello scondito popolazzo. E nell\u2019empito di\nquesta loro vittoria corsono a Grosseto, e feciono pruova di volerlo\nper forza, ma non ebbono podere d\u2019accostarsi alle mura, e con vergogna\nsi tornarono addietro. Ma poi i Grossetani per fuggire la guerra\nde\u2019 loro vicini s\u2019accordarono co\u2019 Sanesi, e ricevettono la loro\nsignoria. A Montepulciano non vollono andare, perch\u00e8 sentirono ch\u2019e\u2019\nMontepulcianesi erano provveduti alla loro difesa, non ostante che per\nloro si tenesse la rocca del castello, ma non potea dare l\u2019entrata.\nCAP. XLIII.\n_Come l\u2019imperadore domand\u00f2 menda a\u2019 Pisani._\nEssendo l\u2019imperadore a Pietrasanta ove gli pareva essere sicuro dal\nfurore del popolo, e pertanto traendo l\u2019animo suo alla cupidigia pi\u00f9\nche all\u2019onore imperiale, mand\u00f2 a Pisa per certi cittadini caporali\ndel nuovo reggimento, e fugli mandato messer Paffetta con altri cinque\ncittadini; e avendo costoro a se, disse, che voleva dal comune di Pisa\nl\u2019ammenda del danno ricevuto al tempo del romore; del suo disonore\ne della morte de\u2019 suoi cavalieri non fece conto. Questi cittadini\ntenendosi in istato per lui, e acciocch\u00e8 \u2019l suo vicario li mantenesse\nnegli onori, gli terminarono per ammenda fiorini tredicimila d\u2019oro,\ned egli ne fu contento; e tanto attese che gli furono mandati, e quit\u00f2\ndel danno ricevuto il comune di Pisa. L\u2019ingiuria e la vergogna sfogata\nnel sangue degl\u2019innocenti, con pi\u00f9 gravezza il seguit\u00f2 per lunghi tempi\ninfino nella Magna.\nCAP. XLIV.\n_Come i Sanesi vollono fornire la rocca di Montepulciano, e non\npoterono._\nMesser Niccol\u00f2 e Messer Iacopo de\u2019 Cavalieri di Montepulciano, che\nfurono tratti della terra quando l\u2019imperadore and\u00f2 a desinare con loro,\ned essendo nel cammino di Roma, come gi\u00e0 \u00e8 detto, quando sentirono la\nrevoluzione del popolo e del patriarca si tornarono in Montepulciano,\ne avendo accolta gente d\u2019arme coll\u2019aiuto de\u2019 loro terrazzani s\u2019erano\nafforzati, e aveano assediati i Sanesi ch\u2019erano nella rocca. Il popolo\ne gli artefici di Siena baldanzosi per la presura di Massa e per\nl\u2019ubbidienza di Grosseto accolsono la loro potenza a cavallo e a piede,\ne andarono per fornire la rocca di Montepulciano. I terrazzani co\u2019 loro\nsignori provveduti di buona gente d\u2019arme ordinatamente prenderono loro\nvantaggio, e ributtarono i Sanesi addietro con danno e con vergogna:\ne fatto questo, incontanente quelli della rocca s\u2019arrenderono a\u2019\nterrazzani, i quali di presente la disfeciono, e fortificarono le mura\ndella terra, e d\u2019un animo, per lo tradimento che i Sanesi feciono a\u2019\nloro signori narrato addietro, si disposono e ordinarono alla difesa\ncontro a loro.\nCAP. XLV.\n_Come i Veneziani feciono pace co\u2019 Genovesi senza i Catalani._\nPartendoci un poco di Toscana, i Veneziani non senza ammirazione ci si\napparecchiano, n\u00e8 per\u00f2 a loro cosa nuova, ma forse non troppo onesta.\nCompagni e collegati erano stati lungamente col re d\u2019Araona e co\u2019\nsuoi Catalani contro a\u2019 Genovesi, e fatte con loro diverse e gravi\nbattaglie, nelle quali comunemente aveano partecipato lo spargimento\ndel loro sangue, e perdimento di navili nelle sconfitte, e l\u2019onore e\n\u2019l navilio e la preda nelle vittorie acquistate; e ancora essendo in\nlega e in giuramento con quel re e con quella gente, stretti dalla\npaura de\u2019 Genovesi, che poco innanzi gli aveano mal guidati nel porto\ndi Sapienza, e temendo che non si allegassono contro a loro col re\nd\u2019Ungheria, a cui eglino teneano occupata Giadra e gran parte della\nSchiavonia, posponendo la vergogna della fede che rompeano a\u2019 Catalani,\nsenza loro consentimento, all\u2019uscita di maggio predetto fermarono pace\nco\u2019 Genovesi in questa maniera: che la pace dovesse avere tra loro\ncominciamento a d\u00ec 28 del mese di settembre prossimo avvenire, e che\nfra questo termine il re d\u2019Aragona co\u2019 suoi Catalani con certi patti\npotesse venire, s\u2019e\u2019 volesse, alla detta pace, e se non, rimanesse\nin guerra co\u2019 Genovesi senza i Veneziani: e fu di patto, che infra\nquesto tempo niuno comune dovesse dinnovo armare, ma se le galee e\u2019\nlegni armati di catuno comune ch\u2019erano in mare in diverse parti del\nmondo s\u2019abboccassono e facessono danno l\u2019uno all\u2019altro, intendessesi\nessere fatto per buona guerra, e ci\u00f2 che n\u2019avvenisse, e\u2019 non avesse a\nmaculare la detta pace. E\u2019 Veneziani promisono di stare tre anni senza\nandare colle loro galee o altri navili alla Tana, ma in questo tempo\nfare loro porto e mercato a Caffa. E promisono i Veneziani a\u2019 Genovesi\nper ammenda, e per riavere i loro prigioni, in certi termini ordinati\ndugento migliaia di fiorini d\u2019oro, e\u2019 prigioni di catuna parte furono\nlasciati liberamente.\nCAP. XLVI.\n_Come si f\u00e8 l\u2019accordo dal legato a messer Malatesta da Rimini._\nMesser Malatesta da Rimini, il quale tenea occupata a santa Chiesa\nAncona con gran parte della Marca e alquante terre in Romagna,\ntrovandosi assottigliato del danaro e della rendita per la tempesta\ndella compagnia e per la sconfitta ricevuta dalla Chiesa, e preso il\nfratello, e i sudditi tanto gravati che pi\u00f9 non poteano sostenere,\ne avendo addosso il legato a cui al continovo accresceva forza, e da\nniuno signore o comune di Toscana contro alla Chiesa non potea avere\naiuto, e col legato non trovava accordo con patti, avendone lungamente\nfatto cercare, conoscendo egli e\u2019 suoi essere naturali guelfi,\nche la pace piuttosto che la guerra potea mantenere il loro stato,\nconfortato da\u2019 suoi amici e di santa Chiesa, che il legato gli sarebbe\nbenivolo e grazioso, s\u2019arrend\u00e8 liberamente alla sua misericordia,\ne liberamente rend\u00e8 a santa Chiesa quante terre tenea nella Marca e\nin Romagna; e il legato ricevuto ogni cosa in nome di santa Chiesa,\nessendo grato dell\u2019onore ricevuto da\u2019 Malatesti, e per compiacere a\u2019\nguelfi d\u2019Italia, avendo promesso e giurato messer Malatesta e\u2019 suoi\ndi stare in ubbidienza, e di mantenere lealt\u00e0 e fede a santa Chiesa,\nacciocch\u00e8 potessono a onore mantenere loro stato, diede loro la libera\ngiurisdizione e signoria di cinque citt\u00e0, ci\u00f2 sono, Rimini, Pesaro,\nFano, Fossombrone, e .... co\u2019 loro contadi, per dodici anni avvenire;\nle quali riconobbono la santa Chiesa, e promisono di darne per censo\nogni anno alla Chiesa certa piccola quantit\u00e0 di pecunia, e compiuto il\ntermine, farne la volont\u00e0 di santa Chiesa. E rimasi contenti e in pace,\nmesser Malatesta e\u2019 figliuoli e\u2019 fratelli cominciarono fedelmente a\nseguitare il legato, e a servire la santa Chiesa; ed essendo singulari\namici de\u2019 Fiorentini, assai con pi\u00f9 fidanza gli adoperava e onorava\nil legato ne\u2019 fatti della guerra. E questa pace e accordo fu fatto\nall\u2019uscita di maggio del detto anno.\nCAP. XLVII.\n_Come i Genovesi appostarono Tripoli._\nAvea il comune di Genova, innanzi la pace fatta co\u2019 Veneziani, armate\nquindici galee di loro cittadini, e fattone ammiraglio Filippo Doria,\ned era l\u2019intenzione del comune di fare prendere la Loiera in Sardigna\nper alcuno trattato, che si menava per un soldato ch\u2019era alla guardia\ndi quella; e giunti in Sardigna, trovarono che il trattato non ebbe\neffetto. Allora l\u2019ammiraglio si pens\u00f2 di fare maggiore impresa, e\navea l\u2019animo a diverse terre per via di furto: e arrivati in Cicilia\na Trapani, ebbe avviso, come Tripoli di Barberia era per un vile\ntirannello rubellato alla corona, ed era male guernito alla difesa\nd\u2019un subito assalto, e per questo fece in Trapani fare scale e\naltri argomenti da potere combattere alle mura, tenendo segreta sua\nintenzione; e quando si vide apparecchiato, fece muovere le sue galee\nverso la Barberia. E giunto a Tripoli, mostrando d\u2019andare pacificamente\nper mercatanzie, trovando due navi del signore cariche di spezieria\nche venivano d\u2019Alessandria, si mostrarono come amici, e al signore\nfeciono domandare licenza di potere mettere scala in terra per alcuno\nrinfrescamento, e il signore la concedette. L\u2019ammiraglio mise in terra\nalquanti de\u2019 suoi pi\u00f9 savi e provveduti vestiti vilmente a modo di\ngaleotti per comperare alcune cose per rinfrescamento, e commise loro\nche provvedessono il modo della guardia di quelli Saracini e di loro\naspetto, e l\u2019altezza delle mura della citt\u00e0, e da qual parte fosse\npi\u00f9 debole. Il signore pi\u00f9 per paura che per amore fece fare onore a\u2019\ngaleotti, e nondimeno guardare la terra. Eglino mostrandosi rozzi e\ngrossi provvidono molto bene quello che fu loro imposto: e comperate\ndelle cose, si ritornarono a galea, e avvisarono pienamente il loro\nammiraglio. Il signore present\u00f2 alle galee due grossi buoi, e castroni\ne vino; i Genovesi non vollono prendere le cose, ma molto grandi grazie\nne feciono rapportare al signore, e incontanente, senza fare a\u2019 legni\ncarichi alcuna novit\u00e0, suonarono loro trombetta, e partendosi di l\u00e0,\nsi misono in alto mare, tanto che si dilungarono da ogni vista della\ncitt\u00e0, per assicurare pi\u00f9 il signore e la gente della terra; i quali\nsentendo le galee partite, e che a\u2019 loro legni carichi non aveano fatto\nnulla, che li poteano prendere, presono sicurt\u00e0, la quale tosto torn\u00f2\nloro amara, come appresso diviseremo.\nCAP. XLVIII.\n_Come i Genovesi presono Tripoli a inganno._\nI Genovesi ch\u2019erano partiti da Tripoli, come la notte fu fatta, avendo\nbonaccia in mare, si strinsono insieme colle loro galee, e ragunato al\nconsiglio padroni e nocchieri, l\u2019ammiraglio manifest\u00f2 loro l\u2019intenzione\nch\u2019avea, quando a loro piacesse, di vincere per ingegno e per forza la\ncitt\u00e0 di Tripoli, ove tutti sarebbono ricchi di gran tesoro; e mostr\u00f2\nloro come il signore di quella era un vile tirannello nato d\u2019un fabbro\nsaracino, e disamato da tutti per la sua tirannia, e per\u00f2 se fosse\nassalito francamente non potrebbe fare resistenza, e soccorso non\npotea avere, perch\u00e8 non ubbidiva il re di Tunisi, ma era suo ribello;\ne avvisolli com\u2019egli avea fatto provvedere di prendere le mura e la\nporta agevolmente: e per\u00f2, l\u00e0 dove e\u2019 volessono essere prod\u2019uomini, la\ngrande e la ricca preda era loro apparecchiata. Costoro cupidi della\nroba altrui, avendo udito il loro ammiraglio, con grande allegrezza\ndeliberarono che l\u2019impresa si facesse, e offersonsi tutti a ben fare\nil suo comandamento, e misonsi di presente in concio di loro armi,\ne balestra, e saettamento; e preso alcuno riposo, in quella notte, e\ninnanzi che il giorno venisse, all\u2019aurora tutti armati e ordinati di\nquello ch\u2019aveano a fare giunsono nel porto di Tripoli, e di colpo con\npoca fatica ebbono presi i due navili del signore; e messe le ciurme in\nterra e\u2019 loro soprassaglienti colle balestra, portando le scale a\u2019 muri\ndella citt\u00e0 vi montarono suso senza trovare resistenza, e la parte di\nloro ch\u2019era rimasa a guardia delle galee e de\u2019 legni s\u2019accostarono alla\nterra per dare aiuto e soccorso a\u2019 loro compagni; e questo fu s\u00ec tosto\ne s\u00ec prestamente fatto, che appena i cittadini se n\u2019avvidono, se non\nquando i Genovesi teneano le mura, e gi\u00e0 aveano presa la porta. Levato\nil romore per la citt\u00e0, il signore armato colla sua gente, e con parte\nde\u2019 cittadini ch\u2019ebbono cuore alla difesa, corsono per volere riparare\nch\u2019e\u2019 nemici non potessono correre la terra, e abboccaronsi con loro. I\nGenovesi erano gi\u00e0 tanti entrati dentro e s\u00ec forti, che per suo assalto\nnon li pot\u00e8 ributtare; e stando loro a petto, i Genovesi ordinati\ncolle balestra a vicenda li sollecitavano tanto co\u2019 verrettoni, ch\u2019e\u2019\nSaracini male armati non li poteano sostenere. E il signore vedendo che\nnon potea riparare, vilmente diede la volta, e fuggendosi abbandon\u00f2 la\ncitt\u00e0 e il popolo. I Genovesi, sentendo partito il tiranno, presono\npi\u00f9 ardire, e ordinatisi insieme si misono per la terra, e qualunque\nsi volea difendere uccidevano, e grande strage feciono quel d\u00ec de\u2019\nSaracini; e avendo corsa tutta la terra, presono le porti e serraronle,\ne misonvi le guardie, e furono al tutto signori della terra e degli\nuomini, e di tutta la loro sostanza.\nCAP. XLIX.\n_Di quello medesimo._\nPresa, come detto \u00e8, l\u2019antica citt\u00e0 di Tripoli, e chiuse le porti, i\nGenovesi diedono ordine di spogliare le case, e di farsi insegnare\ni tesori del signore e l\u2019avere de\u2019 cittadini, e che ogni cosa\npervenisse a bottino, sicch\u00e8 lo spogliamento andasse per ordine;\ne cos\u00ec seguitarono penando pi\u00f9 giorni a fare questa esecuzione, e\ncondussono a bottino in pecunia, e in avere sottile, e ornamenti d\u2019oro\ne d\u2019argento il valere di pi\u00f9 di diciannove centinaia di migliaia di\nfiorini d\u2019oro, e settemila prigioni tra uomini, femmine, e fanciulli;\ne questo fu senza le segrete ruberie ch\u2019e\u2019 galeotti e gli altri\nmaggiori feciono, che non le rassegnarono in comune, e di ci\u00f2 non\nsi fece cerca n\u00e8 inquisizione; e avendo cos\u00ec spogliata la terra, la\nguardarono, e mandarono una delle loro pi\u00f9 sottili galee al comune\ndi Genova, significando quello ch\u2019aveano fatto, e come teneano la\ncitt\u00e0 a farne la volont\u00e0 del comune. I governatori di quel comune, e\nappresso i buoni cittadini si turbarono forte del tradimento fatto a\ncoloro che non erano nemici, e non aveano guardia di loro, non ostante\nche fossono Saracini, e temettono forte, ch\u2019e\u2019 cittadini di Genova\nch\u2019erano in Tunisi e in Egitto tra\u2019 Saracini, e in loro mani colle\nloro mercatanzie, non fossono per questo a furore presi e morti; e cos\u00ec\nsarebbe avvenuto, se non fosse che Tripoli era sotto reggimento di vile\ntiranno, e non ubbidia al re di Tunisi, e per\u00f2 egli e gli altri signori\nsaracini contenti del suo male non se ne curarono. Agli ambasciadori\ndella galea non fu risposto; i quali vedendo i cittadini mal contenti,\nsenza prendere comiato si tornarono a Tripoli a\u2019 loro compagni; i quali\nvedendosi smisuratamente ricchi, del cruccio del loro comune, sapendo\nche tutti erano corsali, poco si curarono, e in Tripoli si misono\na stare, consumando ogni reliquia di quella citt\u00e0, e cercavano di\nvenderla per averne danari da chi pi\u00f9 ne desse: e questo fu di giugno\ndel detto anno.\nCAP. L.\n_Come la gente del marchese di Ferrara fu sconfitta, a Spaziano._\nIn questi medesimi d\u00ec, il marchese di Ferrara avea mandato quattrocento\ncavalieri e millecinquecento fanti ad assediare un castello ch\u2019avea\nnome Spaziano, il quale avea occupato il signore di Milano nel\nFerrarese; e avendolo tenuto assediato alcun tempo, messer Bernab\u00f2 vi\nmand\u00f2 subitamente de\u2019 suoi cavalieri al soccorso, e furono tanti, che\nper forza li levarono dall\u2019assedio e sconfissono, dando loro danno\nassai; e liberato il castello, il fornirono di ci\u00f2 ch\u2019avea bisogno, e\ntornarsene a Milano.\nCAP. LI.\n_Come l\u2019imperadore ebbe l\u2019ultima paga da\u2019 Fiorentini, e f\u00e8 la fine._\nRestavano i Fiorentini a dare all\u2019imperadore ventimila fiorini d\u2019oro\nper lo resto de\u2019 centomila, e sentendolo partito da Pisa, e ch\u2019egli\nera a Pietrasanta, s\u2019affrettarono di mandarglieli pi\u00f9 tosto, e a d\u00ec\n10 di giugno gli feciono appresentare contanti ventimila fiorini a\nPietrasanta. L\u2019imperadore considerato il suo partimento non d\u2019onore\nma piuttosto d\u2019abbassamento dell\u2019imperiale maest\u00e0, e vedendo la\nsollecitudine della fede promessa del comune di Firenze, e il luogo\ndove gli aveano mandata la pecunia, fu molto allegro, e commend\u00f2\nmagnificamente la fede e il buono portamento ch\u2019avea trovato ne\u2019\ncittadini di Firenze, dicendo, come i Pisani ch\u2019erano camera d\u2019imperio,\ne\u2019 Sanesi che liberamente s\u2019erano dati senza mezzo alla sua signoria\nl\u2019aveano ingannato e tradito, e fattagli gran vergogna per loro\ncorrotta fede, e\u2019 Fiorentini l\u2019aveano atato e consigliato dirittamente,\ne onorato molto i suoi baroni, e la sua gente, e adempiutogli\npienamente ci\u00f2 ch\u2019aveano promesso, onde molto si tenea per contento da\nquello comune; e di proprio movimento li privilegi\u00f2 di nuovo ci\u00f2 che\nteneano in distretto, e riconobbe diciotto migliaia di fiorini che il\ncomune diede per lui al sire della Lippa suo alto barone, e tremila che\nper suo mandato avea pagati ad altri baroni, e di tutta la quantit\u00e0\ndi centomila fiorini d\u2019oro ch\u2019aveano promesso, come addietro abbiamo\nnarrato, fece fine al detto comune per suoi documenti e cautela,\nper carta fatta per ser Agnolo di ser Andrea di messer Agnolo da\nPoggibonizzi notaio imperiale, fatta nella detta terra di Pietrasanta\nil detto d\u00ec.\nCAP. LII.\n_Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato._\nAvendo veduto messer Altino figliuolo di Castruccio Castracane gi\u00e0\ntiranno di Lucca, come l\u2019imperadore era uscito di Pisa con sua vergogna\nper andarsene nella Magna, accolti certi masnadieri e con sua gente\nentr\u00f2 in Monteggoli presso a Pietrasanta, per tenersi la terra. I\nPisani sdegnati di presente vi cavalcarono, e assediarono il castello\nintorno. Messer Altino intendea a difenderlo da\u2019 Pisani, e credea\npoterlo fare. I Pisani sentendo ivi presso l\u2019imperadore, mandarono\na pregarlo che gli piacesse di venire nel campo, perocch\u2019elli erano\ncerti che alla sua persona messer Altino non si terrebbe. L\u2019imperadore\nv\u2019and\u00f2, e fece comandare a messer Altino che si dovesse arrendere; il\nquale incontanente ubbid\u00ec a\u2019 suoi comandamenti, e diede la terra a\u2019\nPisani, e s\u00e8 all\u2019imperadore. I Pisani di presente arsono e disfeciono\nil castello: e richiesto l\u2019imperadore da\u2019 Pisani che desse loro messer\nAltino, con poco onore della sua corona il mand\u00f2 prigione a Pisa, e ivi\na pochi d\u00ec, partito l\u2019imperadore da Pietrasanta, i Pisani gli feciono\ntagliare la testa.\nCAP. LIII.\n_D\u2019una fanciulla pilosa presentata all\u2019imperadore._\nMentre che l\u2019imperadore era a Pietrasanta, per grande maraviglia, e\ncosa nuova e strana, gli fu presentata una fanciulla femmina d\u2019et\u00e0\ndi sette anni, tutta lanuta come una pecora, di lana rossa mal tinta,\ned era piena per tutta la persona di quella lana insino all\u2019estremit\u00e0\ndelle labbra e degli occhi. L\u2019imperadrice, maravigliatasi di vedere un\ncorpo umano cos\u00ec maravigliosamente vestito dalla natura, l\u2019accomand\u00f2 a\nsue damigelle che la nudrissono e guardassono, e menolla nella Magna.\nCAP. LIV.\n_Come l\u2019imperadore e l\u2019imperadrice si partirono per tornare in\nAlamagna._\nAvendo l\u2019imperadore col senno e colla provvedenza alamannica presa la\ncorona dell\u2019imperio, e guidati i fatti degl\u2019Italiani come nel nostro\ntrattato \u00e8 raccontato, essendosi ridotto a Pietrasanta, l\u2019imperadrice\nsollecitando che si tornasse nella Magna, a d\u00ec 11 di giugno del detto\nanno si part\u00ec di l\u00e0 con milledugento cavalieri di sua gente, e tenne\nla via di Lombardia; e giugnendo alle terre de\u2019 signori di Milano\nnon pot\u00e8 in alcuna entrare, ma a tutte trov\u00f2 le porte serrate, e le\nmura e le torri piene d\u2019uomini armati alla guardia colle balestra,\ne col saettamento apparecchiato. E giugnendo a Cremona, ch\u2019\u00e8 grossa\ncitt\u00e0, volendovi entrare dentro, fu ritenuto alla porta per spazio di\ndue ore innanzi che vi potesse entrare; poi ebbe licenza d\u2019andarvi\nla sua persona con alquanta compagnia senza alcuna gente armata; e\nstrignendolo la necessit\u00e0, per non mostrare d\u2019avere dimenticata la pace\nche la sua persona avea voluto trattare tra\u2019 Lombardi, vi si mise ad\nentrare, e stettevi la notte e il d\u00ec seguente, continovo le porti della\ncitt\u00e0 serrate, e di d\u00ec e di notte i soldati armati facendo continova\nguardia. E ragionando l\u2019imperadore con certi che v\u2019erano per i signori\ndi Milano, di volere trattare della pace tra\u2019 Lombardi, gli fu detto\nda parte de\u2019 signori, che non se ne dovesse affaticare. E per\u00f2 la\nmattina vegnente, avendo gi\u00e0 preso di se alcuno sospetto, s\u2019usc\u00ec della\ncitt\u00e0, e cavalc\u00f2 a Soncino. Ivi fu ricevuto con pochi disarmati e con\ngrandissima guardia: e vedendosi cos\u00ec onorare ora ch\u2019era imperadore\nnella forza de\u2019 tiranni di Milano, molto pieno di sdegno s\u2019affrett\u00f2\ndi tornare in Alamagna, ove torn\u00f2 colla corona ricevuta senza colpo\ndi spada, e colla borsa piena di danari avendola recata vota, ma con\npoca gloria delle sue virtuose operazioni, e con assai vergogna in\nabbassamento dell\u2019imperiale maest\u00e0.\nCAP. LV.\n_Come il minuto popolo di Siena prese al tutto la signoria di quella._\nDel mese di giugno del detto anno, il minuto popolo di Siena avendo\nfino a qui avuto in certi ufici in compagnia alquanti delle grandi case\ndi Siena, e desiderando d\u2019avere in tutto il governamento di quella\ncitt\u00e0, lev\u00f2 il romore, e tutti i cittadini presono l\u2019arme; e stando\nil popolo armato, dimostr\u00f2 di volere che i grandi rinunziassono agli\nufici del comune; e sentendo i grandi che questo movea dal consiglio\ndato al minuto popolo per Giovanni d\u2019Agnolino Bottoni de\u2019 Salimbeni\nper accattare la benivolenza del minuto popolo per animo tirannesco,\nnon vollono per forza d\u2019arme cercare di ributtare i loro cittadini;\ne acciocch\u00e8 il popolo non si tenesse d\u2019avere lo stato del reggimento\nda Giovanni d\u2019Agnolino, i Tolomei suoi avversari furono quelli che\nprima cominciarono a rinunziare agli ufici, e volere che il popolo gli\navesse in tutto, e cos\u00ec feciono gli altri appresso. E volle il popolo,\nche laddove lo staio era cresciuto per lo patriarca alla misura lieve,\nfosse alla picchiata, e cos\u00ec fu conceduto per tutti. Allora il popolo\nordin\u00f2 d\u2019avere il gran consiglio, e lasciato l\u2019arme, in questo stabil\u00ec\nper riformagione la loro somma signoria, reggendosi per dodici priori\ndi due in due mesi, e ivi li crearono; e ancora feciono un gonfaloniere\ndi popolo, e certi altri ch\u2019avessono a rispondere a lui per terziere\ndella citt\u00e0: e ivi da capo rifiutato messer Agapito della Colonna per\nloro vicario, come detto \u00e8, cominci\u00f2 in libert\u00e0 il reggimento di quello\npopolazzo.\nCAP. LVI.\n_Come la compagnia del conte di Lando cavalc\u00f2 a Napoli._\nAvvenne ancora del detto mese di giugno, che la compagnia ch\u2019era\nlungamente stata in Puglia guidata dal conte di Lando, sentendo che il\nre Luigi contro a loro non avea fatta alcuna provvisione a sua difesa,\nsi partirono di Puglia, e vennonsene in Principato; e soggiornati\nalquanti d\u00ec nelle contrade di Serni, e di Matalona, e d\u2019Argenza,\nfeciono grandi prede; e non trovando fuori delle terre murate alcun\ncontrasto, di l\u00e0 entrarono in Terra di Lavoro, e vennono infino presso\na Napoli, e cavalcarono il paese d\u2019intorno; e non sentendo chi vietasse\nloro il paese, essendo ubbiditi da\u2019 casali e da\u2019 paesani di fuori, e\nforniti di quello che alla loro vita e dei loro cavalli bisognava, per\npotere stare pi\u00f9 ad agio, si divisono in pi\u00f9 compagnie, e l\u2019una stando\nnell\u2019una contrada, e l\u2019altra nell\u2019altra, compresono a modo di paesani\ntutto il paese; e lasciarono l\u2019arme non sentendo alcuno avversario, e\ncominciarono a prendere diletti d\u2019uccellare e di cacciare; e i loro\ncavalcatori e\u2019 ragazzi visitavano le ville e\u2019 casali, e recavano\nall\u2019ostiere ci\u00f2 che bisognava largamente per la loro vita e di loro\ncavalli, e quando i signori tornavano, trovavano apparecchiato, e\ni cattivelli paesani, che non aveano aiuto dal loro signore, erano\nconsumati in vilissima fama della real corona.\nCAP. LVII.\n_Come Fermo torn\u00f2 alla Chiesa e si rubell\u00f2 da Gentile da Mogliano._\nIn questo mese di giugno, quelli della citt\u00e0 di Fermo, i quali per lo\ntradimento fatto per Gentile da Mogliano al legato quando gli rubell\u00f2\nla citt\u00e0 colla forza del capitano di Forl\u00ec e coll\u2019ordine di messer\nMalatesta, essendo contro al loro volere, come narrato \u00e8 addietro,\ntornati contro alla signoria del legato, dove s\u2019erano ridotti con\nloro grande piacere, vedendo ora la forza del legato loro di presso,\ne che Gentile era povero di gente, levarono il romore nella citt\u00e0,\ne rinchiusone Gentile nella rocca, e diedono la terra al legato; il\nquale la forn\u00ec di buone masnade a pi\u00e8 e a cavallo, e presene buona e\nsollecita guardia.\nCAP. LVIII.\n_Come il re di Francia mand\u00f2 gente in Scozia per guerreggiare\ngl\u2019Inghilesi._\nTrapassando alquanto agli strani, il re di Francia vedendo che passate\nle triegue gl\u2019Inghilesi cavalcavano nel reame, e facevano spesso\ndanno alle sue genti e al paese, prese consiglio da\u2019 suoi, e avendo\nalcuno intendimento da certi baroni di Scozia, mand\u00f2 in Scozia il sire\ndi Garendone suo barone con ottocento armadure di ferro, a fine di\nmuovere gli Scotti a fare guerra agl\u2019Inghilesi per modo, che quelli che\nguerreggiavano in Francia avessono cagione di tornare a guerreggiare\ncon gli Scotti. E giunta questa gente in Scozia, gli Scotti tennero\nloro consiglio e diliberarono, che essendo il loro re David prigione\ndel re d\u2019Inghilterra, se gli Scotti movessono guerra agl\u2019Inghilesi\ntornerebbe in pericolo e dannaggio del loro re; e per\u00f2 non vollono\nche ad istanza del re di Francia in Scozia si facesse movimento di\nguerra sopra gl\u2019Inghilesi, e per questo la gente francesca ch\u2019era di\nl\u00e0 passata si ritorn\u00f2 addietro. E questo avvenne del mese di giugno del\ndetto anno.\nCAP. LIX.\n_Come i prigioni d\u2019Ostiglia presono il castello._\nDi questo mese una buona brigata di prigioni, che messer Gran Cane\ndella Scala avea racchiusi in Ostiglia, seppono tanto fare per loro\nsottile provvedimento che tutte le guardie delle prigioni e del\ncastello uccisono, e presono il castello, e recaronlo nella loro\nguardia e signoria. Il castello era forte e in s\u00f9 i confini del\ndistretto di Mantova e di Ferrara. Sentendo i signori vicini questa\nrubellione, tentarono quelli di Mantova e di Ferrara catuno di volere\ndare danari a\u2019 prigioni che l\u2019aveano preso per avere quella tenuta,\nch\u2019era di piccola guardia, ed era forte da non potere essere vinta\nper battaglia, e dava il passo in catuna parte; i matti prigioni\nnon seppono prendere il buono partito, e per\u00f2 s\u2019accostarono al reo;\ne avendo grandi promesse da messer Gran Cane, cui eglino aveano\ncotanto offeso, affidandosi solamente alla fede delle sue promesse,\nche renderebbe loro i propri beni e farebbe a catuno altri vantaggi,\ndicendo, che non imputerebbe loro il misfatto, perocch\u00e8 fatto l\u2019aveano\ncome prigioni, a cui era lecito di trovare ogni via di loro scampo,\nsicch\u00e8 ci\u00f2 non era tradimento. I miseri vinti dalle vane promesse\nrenderono la tenuta del forte castello alla gente di messer Gran\nCane, il quale ripresa la fortezza, incontanente attenne la promessa\nammazzandone una parte colle scuri, e altri con gravi tormenti fece\nmorire, e trentasei de\u2019 residui pi\u00f9 vili fece impendere per la gola:\ne per questo modo morti tutti i prigioni riebbe la sua fortezza del\ncastello d\u2019Ostiglia.\nCAP. LX.\n_Come i Genovesi venderono Tripoli._\nI Genovesi ch\u2019aveano preso Tripoli di Barberia, come addietro abbiamo\nnarrato, e non avendo potuto avere risposta dal loro comune quello che\ndella citt\u00e0 si facessono, cercarono di venderla per danari a\u2019 baroni\nsaracini che v\u2019erano di presso, e niuno trovarono che vi volesse\nintendere. Era a quel tempo signore dell\u2019isola di Gerbi un Saracino\nricco e di gran cuore; costui intese a volerla comperare, e trattato\nil mercato, ne di\u00e8 a\u2019 Genovesi cinquantamila doble d\u2019oro; e ricevuto\nil pagamento e la tenuta della citt\u00e0, e sceltisi de\u2019 cittadini uomini\ne femmine e fanciulle cui e\u2019 vollono, gli altri lasciarono colla\ncitt\u00e0 spogliata d\u2019ogni bene; e raccolti in su le loro quindici galee\npiene d\u2019arnesi e di gran tesoro partironsi del paese, e lungamente\nstettono ora in una parte ora in un\u2019altra, tanto che il loro comune fu\nrassicurato de\u2019 loro cittadini ch\u2019erano in Alessandria e in Tunisi,\nche per questa novit\u00e0 di Tripoli non aveano ricevuto danno, allora\nribandirono quelli delle galee, i quali aveano sbanditi per lo fallo\ncommesso, e dierono loro licenza che potessono tornare a Genova, quando\ntre mesi alle loro spese avessono guerreggiate le marine di Catalogna;\ni quali fatto il servigio tornarono a Genova, e riempierono la citt\u00e0\ndi schiavi e schiave saracine, e di molto tesoro acquistato con gran\ntradimento, ma per giusto giudicio di Dio in breve tempo capitarono\nquasi tutti male, rimanendo in povero stato.\nCAP. LXI.\n_Come gli usciti di Lucca tentarono di far guerra._\nEssendo per le novit\u00e0 sopravvenute all\u2019imperadore in Pisa perduta agli\nusciti di Lucca la speranza d\u2019essere liberati dal giogo de\u2019 Pisani,\nsecondo il trattato di cui era scorsa la fama; e veduto come fortuna\navea fatti signori della citt\u00e0 le piccole reliquie de\u2019 Lucchesi\nch\u2019erano nella citt\u00e0 in una giornata, per un poco d\u2019ardire ch\u2019aveano\ndimostrato, se da loro medesimi non fossono stati traditi, come detto\n\u00e8, trovandosi gli usciti avere ragunata alcuna moneta per la detta\ncagione della speranza dell\u2019imperadore, e parendo loro ch\u2019e\u2019 Pisani\nfossono in dubbioso stato, s\u2019intesono insieme i guelfi co\u2019 ghibellini,\ne\u2019 figliuoli di Castruccio ch\u2019erano in Lombardia promisono a tutti i\ncaporali delle famiglie guelfe uscite di Lucca nella loro fede, che\ncontro alla loro origine e\u2019 si farebbono guelfi per trarre di tanto\nservaggio la loro citt\u00e0; e trattarono con loro di fare ogni loro sforzo\ncon buona punga per rientrare in Lucca, e catuno promise di fornirsi\ndi gente per loro aiuto, e di cavalli e d\u2019armi per fornire loro\nimpresa. E sentendo i Pisani questo apparecchiamento, si provvidono\nsollecitamente al riparo. Le cose procedettono e seguirono al loro fine\ncome degnamente meritarono, e tosto ci verr\u00e0 il tempo da raccontarlo.\nCAP. LXII.\n_Conta della gran compagnia di Puglia._\nAvvedendosi quelli della compagnia ch\u2019erano in Terra di Lavoro,\nche il re n\u00e8 i suoi baroni mettevano alcuno riparo contro a loro,\npresono maggiore baldanza, e raccolti insieme se ne vennero verso\nNapoli, e posonsi a campo a Giuliano tra Aversa e Napoli, presso a\nNapoli a quattro miglia di piano, e domandavano al re danari senza\nfare guasto. Allora i Napoletani vedendo che il re non si movea, si\nmossono da loro, e accolsono de\u2019 paesani e de\u2019 forestieri una quantit\u00e0\ndi cavalieri, e feciono capo il conte camarlingo, e \u2019l conte di san\nSeverino e l\u2019ammiraglio di volont\u00e0 del re; nondimeno costoro non\nuscivano di Napoli a riparare le cavalcate della compagnia e sturbavano\nl\u2019accordo, che si cercava di dare loro danari. Per la qual cosa i\nNapoletani temendo di ricevere il guasto, di che la compagnia gli\nminacciava, a d\u00ec 12 di Luglio del detto anno s\u2019armarono a cavallo e\na pi\u00e8 romoreggiando, e minacciando i baroni che non lasciavano fare\nl\u2019accordo colla compagnia. I baroni erano forti da loro, e aveano con\nseco i forestieri armati, sicch\u00e8 poco curavano le minacce o le mostre\nde\u2019 Napoletani, e avvedendosene i Napoletani, posono gi\u00f9 l\u2019arme, e\nse n\u2019acquetarono. Nondimeno il re mostrando di fare al movimento de\u2019\nNapoletani l\u2019accordo, vedendosi l\u2019oste di presso addosso, per schifare\nmaggiore pericolo, tratt\u00f2 di dare loro fiorini centoventimila in\ncerti termini, e per questo si levarono da Giuliano, e dilungaronsi da\nNapoli, paesando e vivendo alle spese de\u2019 paesani. L\u2019effetto di questo\ntrattato ebbe mutamenti con danno de\u2019 regnicoli innanzi che si traesse\na fine, come innanzi al suo tempo racconteremo.\nCAP. LXIII.\n_Come il gran siniscalco condusse mille barbute contro alla compagnia,\nond\u2019ella s\u2019accrebbe._\nMentre che queste cose si trattavano in Napoli, il gran siniscalco del\nRegno messer Niccola Acciaiuoli di Firenze essendo stato in Toscana, e\nin Romagna e nella Marca accogliendo gente d\u2019arme, s\u2019era con essa messo\na cammino: e giunto alla citt\u00e0 di Sulmona con mille barbute di gente\ntedesca e oltramontana, f\u00e8 sentire al re la sua venuta; il re richiese\ni baroni per volersi combattere colla compagnia venendo contro a\u2019\npatti promessi: ma la cosa venne dilatando e prendendo indugio, e nel\nsoprastare il caldo appetito del re venne raffreddando, e ancora de\u2019\nsuoi baroni, e il termine delle paghe de\u2019 soldati menati per lo gran\nsiniscalco cominci\u00f2 a venire; e non essendo il re mobolato da poterli\npagare e riconducere per innanzi, assai se ne partirono dal servigio\ndel re. e andarsene alla compagnia, e fecionla maggiore.\nCAP. LXIV.\n_Come gli usciti di Lucca s\u2019accolsono senza far nulla._\nRitornando nostra materia al fatto degli usciti di Lucca, que\u2019\ncaporali ch\u2019erano a soldo del comune di Firenze, con le loro bandiere\nappresentandosi al tempo ordinato tra loro, cominci\u00f2 la cosa a\npubblicarsi in Firenze. Quando il comune sent\u00ec questo, incontanente\ntutti gli cass\u00f2 dal suo soldo, e comand\u00f2 loro sotto pena della vita,\nche niuna ragunata di gente facessono nel contado o distretto di\nFirenze, e contradisse a tutti i cittadini e contadini sotto pena\ndell\u2019avere e della persona, che niuno aiuto o favore si desse loro,\nperocch\u00e8 non volea il nostro comune rompere per niuna cagione la pace\nch\u2019avea co\u2019 Pisani. Nondimeno i Lucchesi guelfi ch\u2019erano in Toscana,\ncon loro sforzo s\u2019accolsono in certo luogo in s\u00f9 quello di Lucca, e\nivi si trovarono con dugento cavalieri e con molti masnadieri che gli\nseguitavano per speranza di guadagnare. I conducitori furono Obizzi\ne Salamoncelli, e attendeano che dall\u2019altra parte, com\u2019era ordinato,\nvenissono i figliuoli di Castruccio con gli usciti ghibellini, e col\npopolo di Lunigiana e Garfagnana. I Pisani sentendo che gli usciti di\nLucca si cominciavano a ragunare, cacciarono di Lucca tutti i cittadini\nch\u2019aveano alcuna apparenza, e mandaronvi per comune i due quartieri di\nPisa alla guardia, e con grande studio si fornirono di gente d\u2019arme\nalla difesa. I figliuoli di Castruccio non attennono la promessa al\ntermine, per la qual cosa gli usciti guelfi soprastati al termine\npi\u00f9 di due d\u00ec, e non avendo novelle che venissono, si cominciarono a\nsfilare, e senza ordine tornare catuno a casa con poco onore. Abbianne\nfatto memoria non per lo fatto, che nol meritava, ma perch\u00e8 in quel\ntempo che questo fu, erano quarantadue anni ch\u2019e\u2019 Lucchesi guelfi erano\nstati fuori della loro citt\u00e0, e mai non aveano fatta altrettanta vista\nper cercare di volere tornare in Lucca, come a questa volta.\nCAP. LXV.\n_Come il re di Cicilia racquist\u00f2 pi\u00f9 terre._\nIn questo tempo, don Luigi di Cicilia coll\u2019aiuto de\u2019 Catalani\ndell\u2019isola e della loro setta, accolti insieme in arme a pi\u00e8 e a\ncavallo si mossono da Catania con la persona del loro signore, e\ncavalcando sopra le terre ch\u2019ubbidiano l\u2019altra setta di Chiaramonti e\nil re di Puglia, e trovandole mal fornite alla difesa, s\u2019arrenderono e\nubbidirono, vedendo la persona di don Luigi, senza farli resistenza.\nE appresso preso pi\u00f9 ardire, del mese di luglio con sei galee armate\ne con l\u2019altra gente per terra venne a Palermo, e posevisi intorno\ncredendolasi riavere, ma vedendo ch\u2019e\u2019 si difendeano colla gente\nforestiera che v\u2019era per lo re Luigi di Puglia, fece danno assai nelle\nvillate di fuori, e poi se ne ritorn\u00f2 a Catania.\nCAP. LXVI.\n_Novit\u00e0 di Padova._\nEssendo messer Iacopino da Carrara signore di Padova, e avendo\nlungamente tenuta la signoria in compagnia di Francesco suo nipote\ncarnale, avendosi portato insieme grande onore, non sentendosi alcuna\ncagione d\u2019odio o di sospetto tra loro, salvo che messer Francesco\nvolea pace co\u2019 signori di Milano, e messer Iacopo la volea con loro,\ne voleala co\u2019 signori di Mantova insieme con cui erano collegati, non\ndovea per\u00f2 per questo essere cagione d\u2019odio tra loro, ma piuttosto\nquello che non soffera d\u2019avere consorto nella signoria tra gli animi\nambiziosi di quella; e per questo Francesco ch\u2019era pi\u00f9 giovane e pi\u00f9\natto a guerra, e avea il seguito della gente d\u2019arme, una sera, a d\u00ec\n26 del mese di luglio del detto anno, essendo messer Iacopino nella\nsua sala posto a cena, messer Francesco con suoi compagni armati\ncopertamente venne al palagio, dove non gli era n\u00e8 di d\u00ec n\u00e8 di notte\nvietata porta, e andato suso, trov\u00f2 il zio che cenava, e accogliendo\nil nipote senza alcuno sospetto, fu da lui preso, e incamerato e messo\nin buona guardia, senza essere per lui alcuna resistenza fatta nel\npalagio. La mattina vegnente messer Francesco cavalc\u00f2 per la citt\u00e0, e\nsenza fare novit\u00e0 nella terra fu ubbidito in tutto come signore, e si\nscus\u00f2 al popolo, che questo avea fatto perocch\u00e8 avea trovato di certo,\nche poich\u00e8 messer Iacopino si vide avere figliuolo, avea cercato di\nfare avvelenare lui: e che ci\u00f2 fosse vero o no, tanto se ne dimostr\u00f2,\nche alcuni di ci\u00f2 furono incolpati e martoriati, tanto che confessarono\nil malificio, e perderonne le persone.\nCAP. LXVII.\n_Come i Visconti tentarono di racquistare Bologna._\nDi questo mese di luglio del detto anno, messer Bernab\u00f2 de\u2019 Visconti\ndi Milano avendo tenuto alcuno trattato in Bologna, credendolasi\nracquistare, mand\u00f2 di subito duemila cavalieri e di molti masnadieri\ndi soldo sopra la citt\u00e0 di Bologna, e la loro prima posta fu al Borgo a\nPanicale, e feciono vista d\u2019afforzare loro campo presso a Bologna a tre\nmiglia; poi all\u2019entrata d\u2019agosto si levarono di l\u00e0 e andarono a Budrio,\ne trovandovi difetto d\u2019acqua, si partirono di l\u00e0, e posono campo a\nMedicina tra Bologna e Imola, e l\u00e0 dimorarono attendendo che novit\u00e0 si\nmovesse in Bologna. Lasceremo ora questa gente ch\u2019attende di fare suo\nbaratto, come al tempo innanzi racconteremo.\nCAP. LXVIII.\n_Come in Firenze nacquono quattro lioni._\nA d\u00ec 3 d\u2019agosto nacquono in Firenze quattro lioni, due maschi e due\nfemmine; l\u2019uno si don\u00f2 al duca d\u2019Osteric, che \u2019l domand\u00f2 al comune,\nl\u2019altro al signore di Padova.\nCAP. LXIX.\n_Novit\u00e0 fatte per gli usciti di Lucca._\nAll\u2019entrata del mese d\u2019agosto del detto anno, messer Arrigo e messer\nGallerano figliuoli di Castruccio usciti di Lucca, con quella gente\nd\u2019arme ch\u2019avere poterono in Lombardia apparirono in Lunigiana, e ivi\ne di Garfagnana accolsono fanti a pi\u00e8; e i Lucchesi guelfi usciti da\ncapo si ragunarono e accozzarono co\u2019 figliuoli di Castruccio, e di\nconcordia, trovandosi quattrocento cavalieri e duemilacinquecento\nfanti, si posono ad assedio a Castiglione, che si guardava per i\nPisani. I Pisani avuto l\u2019aiuto da\u2019 Sanesi, con cui erano in lega e\ncompagnia, con settecento cavalieri e seimila pedoni uscirono di Pisa\nper andare a soccorrere il castello, e a d\u00ec 12 d\u2019agosto del detto anno,\ntrovandosi ne\u2019 campi presso a\u2019 nemici, feciono loro schiere. Gli usciti\ndi Lucca, veggendosi il vantaggio del terreno, si feciono ordinatamente\nloro incontro da quella parte donde li vidono venire. I Pisani si\nmostrarono di volerli assalire da quella parte, e cominciaronvi\nl\u2019assalto per tenere i nemici a bada; e cominciata la battaglia, il\nloro capitano con quella gente ch\u2019e\u2019 s\u2019avea eletta, mentre che d\u2019ogni\nparte si mantenea l\u2019assalto, gir\u00f2 il poggio, e mont\u00f2 sopra i nemici\nda quella parte onde venia la vittuaglia agli usciti che teneano\nl\u2019assedio, e fece questo s\u00ec prestamente, che i Lucchesi, ch\u2019aveano\nassai di buoni capitani, non vi poterono riparare, ma veduto ch\u2019ebbono\nch\u2019e\u2019 nemici aveano tolto loro la via del pane, non vidono potere\nmantenere l\u2019assedio al castello; e per\u00f2 si strinsono insieme, e arsone\nil campo loro, e ricolsonsi in alcuna parte ivi presso senza potere\nessere danneggiati da\u2019 nemici; e raccolti quivi, senza alcuno danno\ndi l\u00e0 si partirono salvamente, e valicarono l\u2019alpe, e capitarono nel\nFrignano, e di l\u00e0 catuno con accrescimento d\u2019onta, senza altro danno,\nperduta la speranza di tornare in Lucca, catuno torn\u00f2 a procacciare\nsue condotte per vivere al soldo, e \u2019l castello rimase libero\nall\u2019ubbidienza de\u2019 Pisani.\nCAP. LXX.\n_Come i Catalani non vollono la pace co\u2019 Genovesi fatta per i\nVeneziani._\nIl re d\u2019Araona essendo in Ispagna dopo l\u2019acquisto fatto della Loiera,\ne dell\u2019accordo preso col giudice d\u2019Alborea, sentendo che i Veneziani\naveano fatta pace co\u2019 Genovesi senza il suo consentimento contro\nal giuramento della loro compagnia, fece di presente armare venti\ngalee per sua sicurt\u00e0: e domandaronli i Genovesi la Loiera e altre\nterre di Sardigna, se con loro volea pace. E questa fu la cagione gi\u00e0\nscritta addietro, perch\u00e8 il comune di Genova riband\u00ec le quindici galee\nch\u2019aveano preso Tripoli, le quali feciono per tre mesi gravi danni\nnella riviera di Catalogna, spezialmente d\u2019ardere e di profondare loro\nnavili ne\u2019 porti. Le venti galee del re avendo fortificate e fornite le\nterre di Sardigna, e reiterata la pace col giudice, si ritornarono in\nCatalogna senz\u2019altra novit\u00e0 fare.\nCAP. LXXI.\n_Come messer Ruberto di Durazzo lasci\u00f2 il Balzo._\nDi questo mese d\u2019agosto, essendo stato messer Ruberto di Durazzo\nstretto da\u2019 Provenzali nel Balzo per modo, che non avea potuto correre\nil paese n\u00e8 fare prede com\u2019avea cominciato, bench\u00e8 \u2019l castello potesse\ntenere lungamente, parendogli stare con sua vergogna senza guadagno, di\nsua volont\u00e0 s\u2019usc\u00ec del castello, e rilasciollo a\u2019 signori del Balzo.\nAlcuni dissono, che \u2019l papa gli di\u00e8 alcuni danari co\u2019 quali si mise\nin arme, e and\u00f2 a servire il re di Francia nelle sue guerre ove mor\u00ec a\nonore, come a suo tempo racconteremo.\nCAP. LXXII.\n_Come arse la bastita da Modena._\nEssendo lungamente mantenuta per la forza di messer Bernab\u00f2 di Milano\nuna grande e forte bastita sopra la citt\u00e0 di Modena con molti cavalieri\ne masnadieri, i quali aveano per stretto modo assediata la citt\u00e0,\ne recata in grandi stremi, come piacque a Dio, quello che non avea\npotuto fare la gran compagnia nel caso della ribellione di Bologna,\nn\u00e8 appresso tutta la forza della lega di Lombardia, fece subitamente\nun fuoco che vi s\u2019apprese, ma piuttosto fu fama ch\u2019un soldato corrotto\ndal signore di Bologna il vi mise. Questo fuoco infiamm\u00f2 per s\u00ec fatto\nmodo la bastita, che per la gente dentro non si pot\u00e8 ammortare. I\nModenesi stati a vedere lungamente, e sentendo il romore, presono\nl\u2019arme, e corsono verso la bastita con smisurato romore. I cavalieri\ne\u2019 masnadieri, che ve n\u2019erano assai, impacciati dal fuoco, e impauriti\ndel romore, si ritrassono fuori della bastita con animo di fermarsi di\nfuori, ma non ebbono potere di farlo, che di presente catuno cominci\u00f2\na fuggire senza essere cacciati, e abbandonarono la bastita. I Modenesi\nla presono e spensono il fuoco: e appresso per tema che messer Bernab\u00f2\nnon la rifacesse da capo riporre, ch\u2019era il luogo molto forte, la\nfeciono riparare e rafforzare, e misonvi gente a guardarla lungamente\nper sicurt\u00e0 della terra.\nCAP. LXXIII.\n_Come fu fatto il castello di Sancasciano._\nTornando alquanto nostra materia al fatto di Firenze, occorse in\nquesti d\u00ec, che tornando a memoria a\u2019 collegi del nostro comune i\ndanni ricevuti a\u2019 tempi delle persecuzioni fatte al nostro comune, e\ni pericoli che occorsi erano alla citt\u00e0 ponendosi i nemici a oste in\nsul poggio del borgo di Sancasciano in Valdipesa, e questo conosciuto\nper esperienza dell\u2019imperadore Arrigo di Luzimborgo, e appresso di\nCastruccio tiranno di Lucca, e novellamente della gran compagnia di\nfra Moriale, che catuno nimicando il nostro comune tennono campo\nin quel luogo con podere, per lo vantaggio del sito, di potere\nvantaggiare assai e non potere essere danneggiati: acciocch\u00e8 questo\nnon potesse pi\u00f9 avvenire, deliber\u00f2 il comune di farvi un forte e\nnobile castello di mura, e incontanente del mese d\u2019agosto del detto\nanno 1355 si cominciarono a fare i fossi, e all\u2019uscita di settembre\ndel detto anno si cominciarono a fondare le mura, e tutte s\u2019allogarono\nin somma a buoni maestri con discreti e avvisati provveditori, dando\nd\u2019ogni braccio quadro soldi sette di piccioli, di lire tre soldi\nnove il fiorino dell\u2019oro, dando il comune a\u2019 maestri solo la calcina,\nacciocch\u2019e\u2019 maestri avessono cagione di fare buone le mura. Le mura\nfurono larghe nel fondamento braccia quattro, e fondate braccia\nuno sotto il piano del fosso, e sopra terra grosse braccia due,\nristrignendosi a modo di barbacane, e sopra terra alle braccia dodici,\ncon corridoi intorno i beccatelli, e armate di torri intorno intorno,\ndi lungi braccia cinquanta dall\u2019una torre all\u2019altra, alzate braccia\ndodici sopra le mura e con due porte mastre, catuna con due torri\npi\u00f9 alte che l\u2019altre e bene ordinate alla guardia. E questo circuito\ncomprese il poggio e il borgo, e senza arresto fu compiuto e perfetto\nil lavorio del mese di settembre seguente 1356. E veduto il conto del\ndetto edificio, cost\u00f2 al Comune di Firenze trentacinque migliaia di\nfiorini d\u2019oro.\nCAP. LXXIV.\n_Come in Firenze s\u2019ordin\u00f2 la tavola delle possessioni._\nDi questo mese d\u2019agosto, alquanti cittadini di Firenze, parendo loro\nche dovesse essere util cosa al comune per levare la briga a\u2019 creditori\ndi ritrovare i beni del debitore, misono innanzi a\u2019 signori che si\nfacesse una tavola, nella quale si scrivessono tutti i beni immobili\ndella citt\u00e0 e del contado per popolo e per confini, e diedono il modo\na catuno quartiere della citt\u00e0 e del contado per se; e\u2019 signori misono\nla petizione, e vinsesi, parendo a tutti che dovesse essere utile\ncosa. Agli uomini antichi, e savi e pratichi parea la cosa impossibile\na potere avere perfezione, ma non fu loro creduto, se non quando per\npratica si conobbe. Furono comandate le recate a ogni possessore sotto\ngrave pena, e nondimeno ch\u2019e\u2019 reggitori de\u2019 popoli anche le dovessono\nrecare, catuno si provvidde di recare e di fare recare i beni in cui\nvolle, e confinavali secondo che trovava l\u2019usata vicinanza, e quando\ntali nelle loro recate mutavano i primi possessori, e cos\u00ec d\u2019ogni parte\ndiscordavano i confini, e oltre a questa inconvenienza ve n\u2019accorrevano\nmolte altre maggiori. Per la qual cosa dopo la lunga scrittura, e la\ngrande spesa cresciuta parecchi anni, in confusione senza frutto rimase\nabbandonata, e la sperienza ammaestr\u00f2 il nostro comune alle sue spese.\nAvenne fatta memoria per esempio di coloro che verranno appresso,\nacciocch\u2019e\u2019 notino quello ch\u2019\u00e8 detto provato per opera; e ancora, che\nmolti recavano una medesima cosa per mostrare che possedessero i beni:\nma quello ch\u2019\u00e8 pi\u00f9 forte, si \u00e8 la mutazione de\u2019 beni, che pi\u00f9 occorre\nnella nostra citt\u00e0 che altrove, perch\u00e8 pi\u00f9 abbonda di mercatanzie e di\nmestieri e d\u2019arti, c\u2019hanno a fare la mutazione de\u2019 beni immobili.\nCAP. LXXV.\n_Come il re d\u2019Inghilterra con grande apparecchio valic\u00f2 a Calese._\nAvendo noi addietro narrata la morte del conestabile di Francia, della\nquale il re di Navarra fu operatore, seguita, che d\u2019allora innanzi il\nre di Navarra era in odio del re Giovanni di Francia, e per questa\ncagione tenne trattato col re d\u2019Inghilterra di riceverlo nelle sue\nterre. Il re d\u2019Inghilterra era di questo molto contento, e per\u00f2 mise\nin concio sua gente e suo navilio per valicare con forte braccio; e\nnel soprastare che facea, per sollecita operazione del cardinale di\nBologna e d\u2019altri baroni e\u2019 fu fatta la pace tra \u2019l re di Francia a\nquello di Navarra, e perdonatoli liberamente l\u2019offesa della morte del\nconestabile, e per suo amore a tutti gli altri ch\u2019erano a ci\u00f2 stati.\nIl re d\u2019Inghilterra avendo apparecchiata la sua gente d\u2019arme e \u2019l\nsuo navilio, del mese di settembre del detto anno valic\u00f2 a Calese.\nIl re di Francia avea d\u2019altra parte apparecchiata la sua baronia, e\ncon quindicimila cavalieri e molti sergenti gli si fece incontro in\nNormandia. Il re d\u2019Inghilterra sentendo la pace fatta tra\u2019 due re, e\nvedendo la gran forza apparecchiata contro a s\u00e8 dal re di Francia,\nnon si attent\u00f2 d\u2019uscire a campo, n\u00e8 di seguire sua impresa, e data\nla volta, con sua vergogna si ritorn\u00f2 con tutta la sua oste in\nInghilterra. Il re di Francia sentendo i suoi nemici tornati nell\u2019isola\nsi ritorn\u00f2 a Parigi, e dimostrando grande amore al re di Navarra, gli\naccomand\u00f2 il Delfino suo maggiore figliuolo, i quali d\u2019allora innanzi\nsi congiunsono di fraternale amore, e di grande compagnia.\nCAP. LXXVI.\n_Come il re Luigi s\u2019accord\u00f2 colla compagnia del conte di Lando._\nMandaci il tempo materia di ritornare in Italia. Di questo mese di\nsettembre del detto anno, essendo la compagnia ritornata presso a\nNapoli in Terra di Lavoro, e il re per arroto al danno per la gente\ncondotta nel Regno alle sue spese, volendo atare i Napoletani che non\nperdessono le loro vendemmie, e non avendo il podere altro che con\ndanari, rifece la nuova concordia, e promise loro centocinque migliaia\ndi fiorini d\u2019oro; le trentacinque migliaia contanti, e le settanta\nin due paghe a venire: e mentre che le penassono ad avere si doveano\nstare in Puglia. E per fornire la prima paga, il re Luigi grav\u00f2 di\nfatto i Napoletani, e certi baroni, e forestieri, e mercatanti, e le\nloro mercatanzie, e pag\u00f2 la compagnia, e andossene in Puglia alla roba\nd\u2019ogni uomo, non senza grande rammarichio, contro alla corona degli\nuomini di quel paese.\nCAP. LXXVII.\n_Come il conte da Doadola fu sconfitto e morto dal capitano di Forl\u00ec._\nAvendo il legato rivolto tutto suo intendimento di volere abbattere\nla tirannia di Francesco degli Ordelaffi capitano di Forl\u00ec, e\nguerreggiando la citt\u00e0 di Cesena, il conte Carlo da Doadola con due\nfigliuoli del conticino da Ghiaggiuolo de\u2019 Malatesti si mise in preda\ncon cento cavalieri e con assai masnadieri, e corsono insino presso\nalle mura di Cesena; e avendo raccolta una buona preda d\u2019uomini e di\nbestiame, si raccoglievano per tornare al campo. Avendo questo sentito\nmadonna Cia moglie del capitano, a cui egli avea accomandata la guardia\ndi quella citt\u00e0, non come femmina, ma come virtudioso cavaliere mont\u00f2 a\ncavallo coll\u2019arme indosso gridando, e smovendo i cavalieri soldati che\nv\u2019erano che la dovessono seguire contro a\u2019 nemici ch\u2019erano di fuori. I\ncavalieri inanimati, vedendo tanto ardire in una femmina, di presente\nla seguitarono, e abboccatosi co\u2019 nemici per forza li sconfissono, e\nfuvvi fedito il conte Carlo per modo che poco appresso mor\u00ec, e presi\ni due figliuoli del conticino da Ghiaggiuolo, e la maggior parte de\u2019\ncavalieri e assai masnadieri furono prigioni; e riscossa la preda, con\ngrande onore si tornarono in Cesena del mese d\u2019agosto predetto.\nCAP. LXXVIII.\n_Come la gente del Biscione prese le mura di Bologna e furono cacciati._\nPoco addietro ci ricorda, che noi trattammo de\u2019 duemila cavalieri e\nde\u2019 molti masnadieri che messer Bernab\u00f2 avea mandati sopra Bologna,\ne le mute che fatte aveano di luogo in luogo; all\u2019ultimo, all\u2019uscita\ndel mese d\u2019agosto del detto anno, erano tornati al borgo a Panicale\nforniti di molte scale, e bolcioni ferrati da cozzare mura della citt\u00e0,\ne di queste cose il signore di Bologna non si prendeva guardia. E per\u00f2\nuna notte ordinata tutta l\u2019oste se ne venne alle mura di Bologna dalla\nparte del prato, dov\u2019era pi\u00f9 solitario, ed ebbono poste le scale alle\nmura, e di subito vi montarono suso pi\u00f9 di dugento cavalieri armati,\nch\u2019erano smontati de\u2019 cavalli, e assai masnadieri, e traboccate le\nguardie che vi trovarono dalle mura in terra, cominciarono a perquotere\nle mura co\u2019 bolcioni tanto che gi\u00e0 l\u2019aveano forate e aperte le mura da\npi\u00e8, innanzi che \u2019l signore o i cittadini se n\u2019avvedessono, e alquanti\nper gagliardia erano scesi dentro e entrati per la piccola rottura;\ne parendo agli assalitori avere la forza delle mura e l\u2019entrata,\navvisando che dentro fosse dato loro alcuno aiuto per lo loro trattato,\ncominciarono a gridare ad alte boci: Vivano i popolani, e muoia il\nsignore. A questo romore il popolo si cominci\u00f2 a sentire, e ogni uomo\na prendere l\u2019arme, e certe masnade di fanti a pi\u00e8 toscani con alquanti\ncittadini trassono in quella parte ov\u2019erano i nemici, e quanti ne\ntrovarono a basso entrati uccisono, e ingrossandosi alla difesa quelli\ndella terra a cavallo e a pi\u00e8, con molti balestrieri cacciarono a terra\nquelli ch\u2019erano montati su per le mura; e avvedendosi i capitani della\ngente di messer Bernab\u00f2, che per lo fallo dell\u2019affrettato romore la\ncitt\u00e0 era difesa, con vergogna sonarono a ricolta e tornarsi al borgo a\nPanicale, e indi cavalcate le contrade d\u2019intorno, e fatto assai danno\nd\u2019arsione presono loro cammino e andarono a Milano; e il signore di\nBologna, vedendo il pericolo ch\u2019avea corso, prese miglior guardia.\nCAP. LXXIX.\n_Novit\u00e0 state in Udine._\nDi questo medesimo mese d\u2019agosto: o che il patriarca d\u2019Aquilea\nfacesse fare gravezze con oppressione al popolo della citt\u00e0 d\u2019Udine\na lui soggetta, o che il vicario ch\u2019era testa lucchese, chiamato\nmesser Iacopo Morvello, per soperchia baldanza, ch\u2019avea per moglie\nla figliuola del patriarca, facesse da s\u00e8 cose sconce, a furore di\npopolo con l\u2019aiuto d\u2019alquanti terrieri del paese fu preso nel palazzo\ndel comune, e tratto di l\u00e0, fu racchiuso in prigione, e poco appresso\nsenza processo dicollato, in grande vituperio e vergogna del patriarca,\nch\u2019era fratello dell\u2019imperadore.\nCAP. LXXX.\n_Come abbondarono grilli in Cipri e in Barberia._\nIn questo tempo abbondarono nell\u2019isola di Cipri tanti grilli, che\nriempierono tutti i campi alti da terra un quarto di braccio, e\nconsumarono ci\u00f2 che verde trovarono sopra la terra, e guastarono i\nlavori per modo, che frutto non se ne pot\u00e8 avere in quest\u2019anno. E \u2019l\nsimigliante avvenne questo medesimo anno 1355 in molte parti della\nBarberia, e massimamente nel reame di Tunisi; ed essendo mancato il\npane al minuto popolo di Barberia, metteano i grilli ne\u2019 forni, e cotti\nalquanto incrosticati li mangiavano i Saracini, e con questa brutta\nvivanda mantennero la misera vita, ma grande mortalit\u00e0 seguit\u00f2 di quel\npopolo.\nCAP. LXXXI.\n_Come messer Maffiolo Visconti fu morto da\u2019 fratelli._\nMesser Maffiolo de\u2019 Visconti di Milano essendo il maggiore de\u2019 tre\nfratelli signori di Milano, perch\u00e8 era dissoluto nella sua vita e senza\nalcuna virt\u00f9 era riputato il minore nel reggimento della signoria:\ntuttavia messer Bernab\u00f2 e messer Galeazzo gli rendeano assai onore.\nAvvenne, che per scellerato stemperamento della sua lussuria accolse\nnella camera sua venti tra donne maritate, e fanciulle, e altre\nfemmine, colle quali, avendole fatte spogliare ignude, si sollazzava a\nsuo diletto con loro bestialmente; e ricordandosi in quello sformato\ne sfrenato ardore di libidine d\u2019una bella giovane moglie d\u2019un buono\ncittadino di Milano, mand\u00f2 per lei, e minacciandolo di farlo morire\nse immantinente non glie la menasse, o mandasse. Vedendosi questo\nbuono uomo a cos\u00ec villano partito, come disperato piangendo se n\u2019and\u00f2\na messer Bernab\u00f2, e contogli il grave partito a che messer Maffiolo\nl\u2019avea messo, dicendo, che innanzi volea morire ch\u2019assentire a cotanta\nsua vergogna, pregandolo che \u2019l dovesse atare. Messer Bernab\u00f2 disse:\nIo non ho a gastigare il mio maggiore fratello, per non mostrare a\ncolui la sua intenzione, e di presente cavalc\u00f2 all\u2019ostiere di Messer\nMaffiolo, e trov\u00f2 la scellerata danza del suo fratello; e senza dire\nalcuna cosa diede la volta, e accozzossi con messer Galeasso, e disse:\nNoi corriamo gran pericolo di nostro stato, e le sconce e dissolute\ncose di messer Maffiolo ci faranno cacciare della signoria, se per noi\nnon si ripara a cotanto pericolo a che ci conduce. E manifestatoli\nci\u00f2 che facea delle donne de\u2019 buoni uomini di Milano, e il richiamo\nche n\u2019avea avuto, di presente s\u2019accordarono alla morte sua, che altro\ngastigamento non avea luogo. E per\u00f2 essendo andato messer Maffiolo\na Moncia a fare una caccia, la sera di sant\u2019Agnolo di settembre, li\nfeciono dare con quaglie veleno; e la mattina vegnente essendo nella\ncaccia si cominci\u00f2 a sentir male nel ventre, e di presente se ne torn\u00f2\na Milano; e vicitato la sera da\u2019 fratelli, la mattina si trov\u00f2 morto in\ns\u00f9 \u2019l letto. Alcuni dissono, che in quella visitazione e\u2019 fu soffocato\nda loro, e altri tennono che morisse delle quaglie; e l\u2019una cagione e\nl\u2019altra pot\u00e8 essere, per non farlo storiare. Il vero fu che mor\u00ec come\nun cane, senza confessione, di violenta morte, e forse degnamente per\nla sua dissoluta vita.\nCAP. LXXXII.\n_Come messer Bernab\u00f2 ebbe la Mirandola._\nDappoich\u00e8 la bastita da Modena per l\u2019arsione fu ripresa da\u2019 Modenesi,\nmesser Bernab\u00f2 tenne nelle castella ch\u2019avea acquistate nel Modenese\ngente d\u2019arme per scorrere il paese, e fare continova guerra a Modena:\ne oltre a ci\u00f2 mise a campo tra Reggio e Modena millecinquecento\ncavalieri e assai masnadieri, i quali assediavano il castello della\nMirandola, il quale era di certi gentili uomini loro patrimonio: e non\nessendo potenti a poterlo lungamente difendere da\u2019 signori di Milano,\ns\u2019accordarono con loro, e diedono la guardia del castello a messer\nBernab\u00f2, ed egli li ricevette in amist\u00e0, e con provvisione li mise\nnelle sue guerre. E in questi d\u00ec, vedendosi messer Giovanni da Oleggio\nin pericolo della guardia di Bologna, cerc\u00f2 accordo con messer Bernab\u00f2;\ne messer Bernab\u00f2 per poterlo rimettere in confidenza, per meglio potere\nvenire alla sua intenzione, s\u2019accord\u00f2 con lui; e messer Giovanni\ngli promise di guardare Bologna per lui, e dopo la sua morte gliela\nlascerebbe, e riceverebbe nella citt\u00e0 continuamente un suo potest\u00e0. E\nfece questo messer Giovanni da Oleggio senza volont\u00e0 o consiglio de\u2019\ncittadini di Bologna, sperando rimanere in pace nella signoria, nella\nquale rimase in continovi aguati, come leggendo per innanzi si potr\u00e0\ntrovare: e ricevette in prima per potest\u00e0 di Bologna il signore della\nMirandola sopraddetto.\nCAP. LXXXIII.\n_Come i Perugini presono a difendere Montepulciano._\nI Sanesi vedendosi avere perduta in tutto la signoria ch\u2019avere soleano\nin Montepulciano, trattavano della guerra; ed essendo cercato se\nco\u2019 Sanesi si potea trovare modo d\u2019accordo senza fargliene signori,\nnon trovandosi, i signori che dentro v\u2019erano ritornati, ricordandosi\nche \u2019l comune di Siena non avea attenuti i patti promessi loro altra\nvolta sotto la sicurt\u00e0 e fede del comune di Firenze e di Perugia, a\ncui i Sanesi l\u2019aveano rotta con inganno assai sconcio e manifesto, al\nquale i detti comuni senza l\u2019arme non aveano potuto mettere rimedio, e\nl\u2019arme non aveano voluto pigliare, per questa cagione non si vollono\npi\u00f9 fidare alla corrotta fede de\u2019 Sanesi; e vedendosi impotenti da\ndifendersi da\u2019 Sanesi, s\u2019accordarono, e misono di volont\u00e0 del popolo\nla guardia di Montepulciano con certi patti nelle mani de\u2019 Perugini;\ne i Perugini vaghi di crescere signoria, e ricordandosi dell\u2019ingiuria\nricevuta in Siena per questi fatti di Montepulciano, accettarono la\nguardia, e incontanente la fornirono di loro soldati a cavallo e a\npi\u00e8 per difenderla da\u2019 Sanesi. Questa cosa conturb\u00f2 molto il comune\ndi Siena, e perci\u00f2 facendosi la lega che seguit\u00f2 appresso de\u2019 Toscani,\ni Sanesi non vi vollono essere, e altre gravi cose ne seguirono, come\ninnanzi si potr\u00e0 trovare al debito tempo.\nCAP. LXXXIV.\n_Come il re d\u2019Inghilterra torn\u00f2 in Francia._\nQuello che seguita \u00e8 cosa bene strana: essendo il re d\u2019Inghilterra,\ncome poco innanzi avemo contato, ritornato di state nell\u2019isola\nd\u2019Inghilterra con tutto suo oste e col navilio, e dovendosi secondo\nusanza della guerra, il navilio e la gente d\u2019arme riposare per\nla grazia del verno, il detto re di maggiore animo e ardire che\naltro signore al suo tempo, del mese d\u2019ottobre del detto anno, co\u2019\nfigliuoli, e colla moglie, e co\u2019 baroni, e con grande moltitudine\ndi suoi cavalieri e arcieri, di subito e improvviso a\u2019 Franceschi\nvalic\u00f2 a Calese: e di presente fece tre osti, l\u2019una accomand\u00f2 al conte\ndi Lancastro suo cugino, e questa mand\u00f2 in Brettagna, e la seconda\naccomand\u00f2 al suo maggiore figliuolo duca di Guales, e questa mand\u00f2 in\nGuascogna, e l\u2019altra ritenne a s\u00e8, per venire verso Parigi, e a catuna\ncomand\u00f2 che dimostrasse sua virt\u00f9, mettendosi innanzi fra le terre del\nre di Francia ardendo e predando, e facendo dimostranza di valorosi\nbaroni contro a\u2019 loro nemici.\nCAP. LXXXV.\n_Come il re d\u2019Inghilterra cavalc\u00f2 il reame fino ad Amiens._\nMandato ch\u2019ebbe il re d\u2019Inghilterra i detti baroni, catuno con grande\ncompagnia di cavalieri e d\u2019arcieri nel reame di Francia, egli in\npersona si mosse da Calese colla sua oste, e avviossi verso Parigi\ndov\u2019era il re di Francia, e guastando le ville del paese con fuoco,\nfacendo grandi prede se ne venne ad Amiens, e ivi s\u2019arrest\u00f2 alquanti\nd\u00ec. Ma vedendo che \u2019l soprastare gli era pericoloso per la gran\ncavalleria che \u2019l re di Francia apparecchiava contro a lui, e perch\u00e8\ni passi del suo ritorno erano da potere essere occupati, sopravvenendo\nla gente del re di Francia, a grave suo pericolo, come savio guerriere\nraccolse tutta la sua gente e tutta la preda ch\u2019avea fatta, e senza\ncontasto sano e salvo colla sua oste si torn\u00f2 a Calese in dieci\nd\u00ec dalla sua mossa. Il conte di Lancastro entr\u00f2 colla sua oste in\nBrettagna e cavalc\u00f2 il paese, facendo danno assai e grandi prede, e\nstettevi pi\u00f9 tempo: poi si raccolse colla sua oste, e con gran preda\ntornossi a salvamento.\nCAP. LXXXVI.\n_Della materia degl\u2019Inghilesi medesima._\nIl valente prenze di Guales colla sua compagnia di tremila cavalieri\ne quattromila arcieri mosso da Calese, a gran giornate si mise in\nTolosana, e trovando i paesi sprovveduti del suo subito avvenimento,\nfece in Tolosana molte grandi prede, e con fuoco guast\u00f2 molto paese;\ne senza arrestarsi in Tolosana cavalc\u00f2 a Carcasciona, e vinse e prese\nl\u2019antica citt\u00e0 di Carcasciona, fuori che la rocca della villa, ch\u2019era\nun forte castello; e recato in preda ci\u00f2 che pot\u00e8 fare portare, arse\nla maggior parte della villa, e cavalc\u00f2 pi\u00f9 innanzi in Bideurese, e\narse e fece preda grande senza contasto, e della sua gente corse insino\npresso a Mompelieri a poche leghe, e dimostrava di voler venire insino\na sant\u2019Andrea dirimpetto a Avignone, il Rodano in mezzo, e forte se\nne temette nella corte di Roma; ma il papa gli mand\u00f2 a dire che non\nvenisse pi\u00f9 innanzi, e incontanente per ubbidire al santo padre si\ntorn\u00f2 addietro, essendo stato nuovo flagello di quel paese, che memoria\nnon v\u2019avea per i viventi a quel tempo ch\u2019altra guerra gli avesse\nmolestati. Il conestabile di Francia, ch\u2019era allora messer Giacche\nfigliuolo del duca di Borbona, giovane cavaliere e di gran cuore,\navendo accolta assai gente d\u2019arme, in compagnia del conte d\u2019Armignacca,\ne del conte di Foci e di pi\u00f9 altri baroni del paese, sentendo tornare\nper quel paese il duca di Guales con tutta la preda, ch\u2019era pi\u00f9 di\nmille carrette cariche dell\u2019avere de\u2019 paesani, e pi\u00f9 di cinquemila\nprigioni, si volle abboccare con gl\u2019Inghilesi per combattere con loro\nper riscuotere la preda. Il conte d\u2019Armignacca e gli altri baroni\nnon vollono e non acconsentirono al conestabile, parendo loro avere\ndisavvantaggio per la buona compagnia de\u2019 franchi guerrieri ch\u2019erano\ncon il duca di Guales. Il giovane e franco barone ne prese sdegno, e\ncavalc\u00f2 a Parigi e rifiut\u00f2 l\u2019uficio, e allora fu fatto conestabile\nil duca d\u2019Atene conte di Brenna. Il valente duca di Guales intese\na conducere la sua preda, ch\u2019era oltre a modo grande, e sentendo i\nnemici appresso, come fu alla selva di Crugn\u00ec per maestria di guerra vi\nnascose una parte di sua gente in aguato, e i Franceschi vi mandarono\nad imboscare, non sapendo degl\u2019Inghilesi che v\u2019erano, messer Astorgio\ndi Duraforte con mille cavalieri, i quali entrando nella selva furono\ndi subito assaliti dagl\u2019Inghilesi che prima v\u2019erano riposti, che\npoco sostennono, che furono sconfitti e sbarattati con loro danno,\ne d\u2019allora innanzi non trovarono gl\u2019Inghilesi contasto, e ricchi di\npreda, sani e salvi si tornarono a Bordello in Guascogna, del mese di\nnovembre del detto anno.\nCAP. LXXXVII.\n_Come mor\u00ec il re Lodovico di Cicilia, e l\u2019isola rimase in male stato._\nDi questo mese di novembre anno detto, Lodovico di Cicilia primogenito\ndi don Pietro si mor\u00ec molto giovane, e poco appresso di lui si mor\u00ec il\nseguente suo fratello detto duca Giovanni, e de\u2019 tre fratelli rimase\nFederigo il minore, il quale la setta de\u2019 Catalani recarono appo\nloro, per potere sotto il titolo d\u2019avere a governare il giovane, a\ncui s\u2019appartenea il regno, aggiugnersi maggiore forza. Ma per questo\nl\u2019altra setta degl\u2019Italiani si feciono pi\u00f9 strani contro al duca\nFederigo, e diventarono pi\u00f9 animosi contro alla setta de\u2019 Catalani.\nE per la detta maladizione di divisione e tempesta tanto intestina\nbattaglia era nell\u2019isola, che gli abitanti di catuna terra erano\nin fatica d\u2019avere del pane per vivere, e consumavansi d\u2019inopia e di\ncarestia; e di questo seguit\u00f2 poi grande novit\u00e0 nell\u2019isola, come al suo\ntempo racconteremo.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come in Napoli fu romore._\nA\u2019 Napoletani parendo essere gravati de\u2019 danari pagati per la compagnia\ne d\u2019alcune altre gravezze, del mese di novembre del detto anno, per\nmostrare la potenza e la franchigia di quella citt\u00e0, tutti di concordia\npresono l\u2019arme, e feciono armare tutti i forestieri mercatanti e\nartefici ch\u2019erano nella citt\u00e0, e levarono il romore, gridando: Viva la\nreina, e muoia il suo consiglio. E di questo tumulto seguit\u00f2 solamente,\nche la misura del sale fu alcuna cosa consentita loro migliore mercato:\nconvenevole prezzo di cotanto movimento, non volendosi francare\ndell\u2019antica consuetudine della loro natura, che come sono pieni di\nfurore per ambizioso vento, cos\u00ec poco mantengono l\u2019ira, che li riduce a\npace.\nLIBRO SESTO\nCAPITOLO PRIMO.\n_Il Prologo._\nPerocch\u00e8 \u2019l sesto libro del nostro trattato nuova e non pensata materia\ndi guerra nel suo principio con seguito di gran cose in breve tempo\nci apparecchia, ci fa pensare come e quanto lo stato della tirannesca\nsignoria \u00e8 pieno d\u2019aguati e di calamitosa vita. Le loro scellerate\noperazioni sempre combattono e spesso abbattono le virt\u00f9 de\u2019 buoni: i\nloro diletti sono dissimiglianti a\u2019 buoni costumi: per loro s\u2019abbattono\nle ricchezze de\u2019 sudditi; nimicano gli uomini che crescono nella loro\ngiurisdizione in magnanimit\u00e0 e in senno; assottigliano con incarichi la\nsustanza de\u2019 popoli: la loro sfrenata libidine non prende saziamento\ndal fatto, ma quanto il piacere della vista richiede, tanta in fatto\na\u2019 sudditi contro all\u2019onesto debito conviene sostenere e patire.\nMa perocch\u00e8 in queste e molte altre maligne operazioni le violenti\ntirannie si manifestano, non richieggiono da noi nuovo raccontamento.\nMa traendone una parte assai strana nell\u2019apparenza e assai dimestica\nnel fatto, qual\u2019\u00e8 pi\u00f9 maravigliosa vista, guardando nella tirannesca\ngloria, a vedere antichi e nobili principi naturali ubbidienti a\u2019\ntiranneschi servigi, e uomini d\u2019alti lignaggi e d\u2019antica nobilt\u00e0 usare\nle mense di coloro, e prendere le loro provvisioni? Ma se guardare\nvogliamo l\u2019uscimento delle cose, quella gloria spesso si converte\nin calamitosa miseria. Chi la pu\u00f2 disegnare maggiore? che i tiranni\nmedesimi non sanno n\u00e8 possono in alcuno riposare la loro fede, ed\neglino al continovo aspettano il cadimento del tiranno, e lievemente\nsi dispongono e accordano alla loro distruzione, non ostante le\nsopraddette cose. E questo non si trova avvenire nelle reali e naturali\nsignorie, perocch\u2019e\u2019 loro fatti ne\u2019 sudditi, e nelle loro virt\u00f9 e cose\nson contrarie a\u2019 tiranni. Dunque come le tirannie si criano, com\u2019elle\nesaltando si fortificano e crescono, cos\u00ec in esse si nutrica e nasconde\nla materia della loro confusione e ruina. Certo intra l\u2019altre questa\n\u00e8 grandissima miseria de\u2019 tiranni: e perocch\u00e8 al presente ci occorre\nalcuna cosa di ci\u00f2 manifestare in fatto non di lieve movimento, come\nseguir\u00e0 appresso nostro volume, basti narrando quella avere fatto certa\nprova al nostro proponimento.\nCAP. II.\n_Come nacque briga da\u2019 Visconti e que\u2019 di Pavia e di Monferrato._\nCerta cosa \u00e8, che il marchese di Monferrato per vicinanza e per larghe\nprovvisioni de\u2019 tiranni di Milano, e i signori da Beccheria di Pavia\nparenti stretti e dimestichi della loro mensa, per lunghi tempi uniti\ncolla casa de\u2019 Visconti signori di Milano, e nelle loro guerre stati i\nprincipali aiutatori, e in questo tempo valicando Carlo d\u2019Osteric re\nde\u2019 Romani in Lombardia, come gi\u00e0 \u00e8 detto, il marchese, non ostante\nch\u2019e\u2019 fosse soggetto all\u2019imperio, venne a Milano per dare aiuto e\nfavore a\u2019 signori con seicento cavalieri di buona gente d\u2019arme, e\nque\u2019 da Beccheria anche vi mandarono loro sforzo. Avvenne, che un\nd\u00ec essendo il marchese in Piacenza in compagnia di messer Maffiolo\nVisconti, ch\u2019allora vivea, un suo scudiere and\u00f2 in cucina al cuoco\ndi messer Maffiolo per un tagliere di vivanda: il cuoco villanamente\ngliel contradicea: lo scudiere sdegnoso diede una gotata al cuoco, e\nportonne la vivanda; il cuoco di presente se n\u2019and\u00f2 a dolere a messer\nMaffiolo suo signore. Il tiranno mosso a furore non consider\u00f2 suo\nonore, n\u00e8 quello di tant\u2019uomo quant\u2019era il marchese, e senza dirli\nalcuna cosa, avendolo in sua compagnia, fece prendere lo scudiere,\ne in quell\u2019istante tagliarli la mano; della qual cosa il marchese\nfu molto turbato, ma ritenne con virt\u00f9 nel petto il grave sdegno.\nQuesto li rinnov\u00f2 nella mente certo oltraggio che la famiglia di\nmesser Galeazzo Visconti per maggioranza avea fatto alla sua gente\nche vicinavano con sue terre, la quale cosa con senno avea trapassata\ninsino allora. E ancora di nuovo sentiva, come al continovo per nuovi\ndispetti la gente di messer Galeazzo oltraggiava i detti sudditi che\nvicinavano con loro, e il signore il sentiva, e vedea l\u2019onore che \u2019l\nmarchese facea alla loro signoria, e per arrogante maggioranza mostrava\nd\u2019esserne contento; onde turbato il marchese, cambi\u00f2 l\u2019animo, ed\nessendo con quelli da Beccheria una cosa, s\u2019intesono insieme, essendo\nl\u2019imperadore futuro a Mantova, e ancora, con lui s\u2019intesono in segreto.\nE trattando l\u2019imperadore co\u2019 signori di Milano di volere prendere la\ncorona a Moncia, sentirono i Visconti, che se non s\u2019accordavano con\nlui, che quelli da Beccheria erano acconci di riceverlo in Pavia;\nonde i signori concepettono contro a loro; per la qual cosa poterono\ncomprendere, che partito l\u2019imperadore, a loro converrebbe mutare\nstato. E tornando l\u2019imperadore coronato da Moncia in Milano, i signori\nfeciono molti cavalieri, e in questo stante il marchese cavalc\u00f2 subito\na Pavia, e men\u00f2 seco due di quelli da Beccheria e feceli fare cavalieri\nall\u2019imperadore, e questo accrebbe l\u2019izza e la malavoglia a\u2019 tiranni.\nPoi partito l\u2019imperadore il marchese se n\u2019and\u00f2 via, e quelli da\nBeccheria rimasono in gran sospetto de\u2019 signori di Milano, e stavanne\nin pi\u00f9 guardia che non soleano. E dalle sopraddette cose seguitarono\nle ribellioni e le nuove guerre che appresso seguirono a\u2019 signori di\nMilano, come seguendo nostro trattato per li tempi racconteremo.\nCAP. III.\n_Come si rubellarono terre di Piemonte._\nIl marchese di Monferrato avendo ordinato co\u2019 signori di Pavia che\nsi fortificassono di gente e di buona guardia, acciocch\u00e8 i tiranni\nvicini non li potessono improvviso sorprendere, tornato nelle sue\nterre, procacci\u00f2 aiuto di gente d\u2019arme da certi baroni tedeschi di sua\namist\u00e0, e con suoi trattati (ch\u2019era molto amato da quelli del Piemonte\ne dalla sua gente) trovandosi forte di cavalieri e favoreggiato\ndall\u2019imperadore, del mese di dicembre, gli anni di Cristo 1355, fece\nrubellare nel Piemonte a messer Galeazzo de\u2019 Visconti di Milano Chieri\ne Carasco; e poco appresso del mese di gennaio fece rubellare al detto\ntiranno la ricca terra d\u2019Asti, e appresso Albi, Valenza, e Tortona, e\npi\u00f9 altre terre del Piemonte, e tutti i popoli di quelle d\u2019un animo,\ncon ordine di mantenere la difesa, feciono loro capitano il detto\nmarchese. Messer Galeazzo vi mand\u00f2 incontanente molta gente d\u2019arme\na cavallo e a pi\u00e8 credendo ricoverare delle terre; il marchese era\nprovveduto di buona gente, e coll\u2019aiuto de\u2019 Piemontesi si fece loro\nincontro alle frontiere, e in alcuni abboccamenti fece vergogna alla\ngente di messer Galeazzo, e difese bene i Piemontesi. Allora quelli da\nBeccheria, ch\u2019erano confederati nella amist\u00e0 e compagnia del marchese,\nnon si poterono pi\u00f9 coprire, e per\u00f2 in aperto si fortificarono di\ngente e d\u2019altre cose, aspettando l\u2019impeto dell\u2019ira e della forza de\u2019\ntiranni contro a loro, non dimostrando per\u00f2 di volere essere i movitori\ndella guerra, ma apparecchiati alla difesa. Lasceremo alquanto questa\nmateria per raccontare al suo tempo con pi\u00f9 chiarezza le cose che ne\nseguitarono, e diremo degli altri fatti che prima occorrono alla nostra\nmateria.\nCAP. IV.\n_Come i Fiorentini feciono lega contro la compagnia._\nE\u2019 m\u2019incresce di scrivere quello ch\u2019ora seguita, perocch\u00e8 \u2019l nostro\ncomune delle leghe e delle compagnie c\u2019ha usato di fare co\u2019 comuni\ndi Toscana, al bisogno sempre s\u2019\u00e8 trovato ingannato, nondimeno il\nfatto narreremo. Sentendosi gi\u00e0 per tutta Italia che \u2019l conte di Lando\ncolla compagnia ch\u2019aveva nel Regno era per venire al primo tempo nella\nMarca, e valicare in Toscana, i Fiorentini volendo riparare ch\u2019ella\nnon facesse ricomperare i comuni di Toscana, mandarono a Perugia, e a\nPisa, e a Siena, e all\u2019altre minori comuni di Toscana, richieggendo i\ndetti comuni, che per beneficio di tutti parea loro di fare una lega\ne una taglia di duemila cavalieri il meno, i quali fossono al tempo\napparecchiati interi e cavalcanti al servigio della detta lega contro\nalla compagnia, o a chi venisse a fare guerra sopra alcuna citt\u00e0 di\nquelle della lega. E a ci\u00f2 feciono muovere i detti comuni per loro\nambasciadori, e dur\u00f2 il trattato lungamente, sturbandolo i Sanesi per\nl\u2019izza ch\u2019aveano presa co\u2019 Perugini per l\u2019impresa di Montepulciano; in\nfine, essendo la cosa cominciata al principio di gennaio, del mese di\nfebbraio del detto anno ebbe compimento in questo modo tra\u2019 Fiorentini,\ne\u2019 Pisani, e\u2019 Perugini: che la lega dovesse durare tre anni, e la\ntaglia fosse di milleottocento cavalieri, ottocento de\u2019 Fiorentini,\ncinquecentocinquanta de\u2019 Pisani, e quattrocentocinquanta de\u2019 Perugini;\ncon patto ch\u2019e\u2019 Sanesi vi potessono entrare colla loro parte della\ntaglia de\u2019 cavalieri, e che del mese d\u2019aprile fossono pagati e\napparecchiati, e che l\u2019uno comune dovesse fare rassegnare i cavalieri\ndell\u2019altro. La lega fu ferma e fatta, l\u2019effetto che ne seguit\u00f2 fa\nmanifesto quello che poco innanzi n\u2019avemo detto.\nCAP. V.\n_Come gli Scotti presono Vervic._\nEssendo tornato il re d\u2019Inghilterra a Calese dalla cavalcata ch\u2019avea\nfatta ad Amiens, come poco innanzi abbiamo detto, i baroni di\nScozia sentendo il re, e i figliuoli, e\u2019 baroni, e tutta la forza\ndel re d\u2019Inghilterra valicati nel reame di Francia, e cominciatovi\ngrande guerra, non ostante che il loro re vi fosse in prigione,\nprestamente accolsono molta gente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8, e\nimprovviso agl\u2019Inghilesi se ne vennono a Vervic, grande e forte terra\ndegl\u2019Inghilesi, situata agli stremi de\u2019 confini di Scozia; e giugnendo\nalla citt\u00e0 sprovveduta, per forza v\u2019entrarono dentro e presono la\nterra, ma il castello del re che v\u2019era forte e bene guernito non\npoterono avere; ma com\u2019ebbono presa la terra, la lasciarono guernita\ndi loro gente, e per savia provvisione con tutta loro oste si misono\ninnanzi, e presono una montagna onde il soccorso degl\u2019Inghilesi\npotea venire alla terra, e non d\u2019altra parte, e ivi s\u2019accamparono per\ncontradire agl\u2019Inghilesi il passo. Era in que\u2019 d\u00ec il conte di Lancastro\ngi\u00e0 tornato in Inghilterra, il quale di presente cavalc\u00f2 nel paese\ncolla sua gente, ma non ebbe podere di levare gli Scotti dal passo.\nIl re Adoardo sentendo la novella degli Scotti, incontanente valic\u00f2\nnell\u2019isola con quella gente che subitamente pot\u00e8 muovere, e senza\narresto se n\u2019and\u00f2 contro a\u2019 nemici che teneano il passo della montagna,\ne aggiuntosi il conte di Lancastro colla sua gente, non ostante che\ngrande fosse il loro disavvantaggio ad avere a combattere i nemici\nall\u2019erta, colla sua persona si mise innanzi, e diede tanto conforto\na\u2019 suoi, ricordando loro le vittorie avute sopra gli Scotti e la loro\nvilt\u00e0, che con tanto ardore d\u2019animo, e con tanto duro assalto d\u2019ogni\nparte li percossono, che per forza li ributtarono della montagna;\ne senza avere cuore di rifare testa alla terra ch\u2019aveano presa\nl\u2019abbandonarono in tanta fretta, che la preda ch\u2019aveano accolta non\nne portarono, e assai de\u2019 loro Scotti vi lasciarono morti e presi per\nricordanza. E questo fu del mese di gennaio del detto anno. Allora fece\nil re racconciare la terra, e fornire di miglior guardia.\nCAP. VI.\n_D\u2019un trattato fatto per racquistare Bologna._\nMesser Bernab\u00f2 de\u2019 Visconti di Milano avendo la mente attenta a trovar\nmodo di racquistare Bologna, e di vendicarsi di messer Giovanni\nda Oleggio; quanto che per l\u2019accordo fatto si dimostrasse amico,\ndiede boce e dimostr\u00f2 manifesto segno di volere guerreggiare in\nsul Ferrarese; e mand\u00f2 messer Arrigo figliuolo di Castruccio che fu\ntiranno di Lucca in Romagna, a conducere al suo soldo mille barbute\ndella compagnia ch\u2019allora era nel paese, il quale avea caparrati i\nconestabili, e intesosi secondo il segreto a lui commesso da messer\nBernab\u00f2 col capitano di Forl\u00ec, e col signore di Ravenna, e con alquanti\ndegli Ubaldini in cui si confidava, e ancora s\u2019intendea col podest\u00e0 di\nBologna, ch\u2019avea nome messer Ramondo de\u2019 Ramondi di Parma, ed erano in\nquesto trattato certi caporali di quelli da Pagano, e altri Bolognesi\nconfidenti di messer Bernab\u00f2. Il modo era, che la forza del tiranno\ndovea venire da Milano sul Ferrarese secondo la palese boce, e gi\u00e0 era\nmesser Bernab\u00f2 venuto in persona a Parma con duemila cavalieri, e come\nmesser Bernab\u00f2 fosse in sul Ferrarese, messer Arrigo di Castruccio\nco\u2019 cavalieri condotti di Romagna, e coll\u2019aiuto de\u2019 Romagnuoli e degli\nUbaldini, essendo provveduti e apparecchiati, doveano il d\u00ec nominato,\nessendo messer Bernab\u00f2 in sul Ferrarese, valicare sopra Bologna da\nquella parte, e messer Arrigo colla sua compagnia venire dall\u2019altra,\ne allora il podest\u00e0, e que\u2019 da Pagano con gli altri Bolognesi\nconfidenti doveano levare il romore nella citt\u00e0, e con loro quattordici\nconestabili di cavalieri che tenevano a questo trattato; e costoro,\nch\u2019erano soldati di messer Giovanni, nel romore doveano trarre a lui, e\nucciderlo se potessono, e se non, si doveano strignere dall\u2019una parte\ndella citt\u00e0, e aprire e spezzare la porta, e mettervi dentro quella\ngente di fuori che pi\u00f9 avessono di presso. Questo trattato era segreto\nper li palesi verisimili della vicina impresa della guerra di Ferrara,\nalla quale il marchese prendea ogni riparo che potea; ma come fu\npiacere di Dio, per lo meno male, la cosa fu rivelata per strano e non\npensato modo come appresso diviseremo.\nCAP. VII.\n_Come si scoperse il trattato di Bologna, e fevvisi giustizia._\nIn Bologna era tornato di Romagna messer Arrigo di Castruccio,\navendo fornito e messo in punto ci\u00f2 che gli era stato commesso, e\nivi era venuto per intendersi con gli altri traditori. Avvenne, che,\nall\u2019entrata del mese di Febbraio del detto anno, Francesco de\u2019 Roaldi\ndi Bologna, grande cittadino e molto confidente di messer Giovanni da\nOleggio, tanto ch\u2019al continovo ricevea provvisione da lui, essendo in\nquesto trattato, confidandosi nel suo senno, volendosi sgravare della\nsua provvisione, se n\u2019and\u00f2 a messer Giovanni, e per me\u2019 coprire quello\nche sentiva in s\u00e8, disse: Signor mio, pigliate ne\u2019 vostri fatti buona\nguardia, perocch\u2019io sento che molti uomini, e oltre al modo usato, sono\nvenuti della montagna nella citt\u00e0 in questi giorni; e a dirli questo\nil movea la tenerezza ch\u2019avea nell\u2019animo del suo stato e onore, per\nlo beneficio ch\u2019avea ricevuto e ricevea da lui. Il tiranno il commend\u00f2\ndi questo fatto, e ringrazionnelo assai, e dopo questo confort\u00f2 della\nbuona guardia. Messer Francesco entrando in altra materia disse a\nmesser Giovanni: Signor mio, io vi prego che vi piaccia di darmi\nlicenza, ch\u2019io possa prendere altrove mio vantaggio, perocch\u00e8 della\nprovvisione ch\u2019io ho da voi non posso comportare la vita mia a onore.\nIl tiranno si maravigli\u00f2 di questo, perocch\u00e8 gli avea assegnate grandi\nprovvisioni e altri gaggi, e ricordogli le dette cose, e ancora li\npromettea al tempo maggiori, e nondimeno messer Francesco pure gli\ndomandava licenza. Il tiranno gli disse, che si ripensasse, e poi\ntornasse a lui; e a tanto si part\u00ec messer Francesco. Messer Giovanni\nmand\u00f2 incontanente alle porti, e fece sapere chi a que\u2019 giorni vi fosse\nentrato oltre all\u2019usato modo, e trov\u00f2 che non v\u2019erano entrati contadini\nn\u00e8 altra gente oltre al modo usato, e cos\u00ec se n\u2019erano usciti. E per\nquesto cominci\u00f2 a maravigliarsi pi\u00f9 del movimento di messer Francesco\nde\u2019 Roaldi, e sospicciando mand\u00f2 per lui; e quando l\u2019ebbe seco, il\ntiranno finse di sapere che sentisse contro a lui alcuno trattato. Il\nsavio cavaliere veggendosi preso dall\u2019astuzia, pens\u00f2 che senza grave\ntormento non potea passare mettendosi al niego, e per\u00f2 di cheto gli\nconfess\u00f2 e manifest\u00f2 tutto il trattato. Il tiranno senza arresto mand\u00f2\nper lo potest\u00e0, e per messer Arrigo di Castruccio ch\u2019era in Bologna,\ne per que\u2019 caporali da Pagano, e avuti costoro disse, e a certi degli\nUbaldini ch\u2019era no in quel servigio, ch\u2019e\u2019 perdonava loro per vicinanza\ne per molti servigi ch\u2019avea ricevuti da quella casa, ma comand\u00f2 loro\nche incontanente si dovessono partire, e cos\u00ec fu fatto. E abboccando\nmesser Giovanni i traditori insieme, fu da loro al tutto chiaro del\ntrattato sopraddetto: e a d\u00ec 12 di febbraio, non trovando il tiranno\nchi volesse fare la condannagione n\u00e8 l\u2019esecuzione, fece podest\u00e0 messer\nTassino de\u2019 Donati rubello di Firenze; costui li condann\u00f2; e Sinibaldo\ndi messer Amerigo Donati di Firenze, allora in bando e al soldo del\ntiranno, con dugento fanti tutti armati a corazze fece tagliare la\ntesta a messer Arrigo, figliuolo che fu di Castruccio signore di Lucca\ne di Pisa, e a messer Bernardo e a Galeotto da Pagano, e a messer\nRamondo Ramondi da Parma podest\u00e0 di Bologna, e a Francesco de\u2019 Roaldi\ndi Bologna; e appresso, a d\u00ec 20 del detto mese, ne furono decapitati\ndiciassette tra conestabili de\u2019 soldati e famigli de\u2019 traditori.\nE fatto questo, messer Giovanni rimase in maggior paura, e in gran\nsospetto di messer Bernab\u00f2 di Milano.\nCAP. VIII.\n_Come il signore di Bologna fece lega._\nEra insino a qui messer Giovanni da Oleggio, poich\u00e8 avea fatta la pace\ne la concordia con messer Bernab\u00f2, stato in fede ne\u2019 suoi servigi, e\nintesosi con lui e ricevuto in Bologna le sue podest\u00e0, e attendea dopo\nla sua morte lasciarli Bologna, come gli avea promesso, ma vedendo\nquesto mortale trattato contro a s\u00e8, non pens\u00f2 potersi mai pi\u00f9 fidare\nde\u2019 signori di Milano, e conobbe, che a volersi meglio potere guardare\ngli convenia essere loro mortale nemico, e per\u00f2 incontanente si riforn\u00ec\ndi nuove masnade di cavalieri e di masnadieri. Ed essendo in guerra il\nsignore di Mantova e il marchese di Ferrara col Biscione, ch\u2019allora\nera cos\u00ec chiamata la tirannia di Milano per la loro arme, si colleg\u00f2\ncon loro, e promise d\u2019essere sempre contro alla casa de\u2019 Visconti\ndi Milano, e mand\u00f2 la sua gente a fare loro guerra con gli altri\ncollegati.\nCAP. IX.\n_Come l\u2019oste del Biscione ch\u2019era a Reggio si lev\u00f2 in isconfitta._\nA Reggio era stata lungamente l\u2019oste de\u2019 signori di Milano in una\nforte bastita presso alla terra, nella quale avea ottocento cavalieri\ne grande popolo, e in quel tempo vi s\u2019aspettava il fornimento della\nvittuaglia da Parma con grande scorta. Il marchese di Ferrara, e\nquegli di Mantova, e \u2019l signore di Bologna sentendo quell\u2019apparecchio,\naccolsono loro gente per impedire la scorta a loro podere; e avendo\na Modena seicento barbute e cinquecento masnadieri, il signore di\nBologna n\u2019aggiunse dugento cavalieri e cinquanta masnadieri; e avendo\nlingua come la vittuaglia in dugento carra colla scorta dovea l\u2019altro\nd\u00ec venire alla bastita, cavalcarono la notte per modo, che essendo\ngiunta l\u2019altra parte alla bastita, e messavi la roba, tornandosene\nsenza sospetto, costoro li assalirono sprovveduti, i quali non feciono\nretta, e quasi tutti furono presi, i buoi e le carra in preda. E\navuta subitamente questa vittoria, con grandi grida e con maggiore\nbaldanza percossono alla bastita dalla parte di fuori; e quelli di\nReggio ch\u2019aveano veduta la vittoria della loro gente francamente li\nassalirono dalla parte d\u2019entro, e combattendo la bastita d\u2019ogni parte,\nin fine per forza v\u2019entrarono dentro, ed ebbono a prigioni i cavalieri\ne\u2019 masnadieri che quella guardavano, e pochi ne poterono campare; e\nmessa la vittuaglia e l\u2019arme, e tutti i prigioni guadagnati in Reggio,\narsono in tutto la bastita: e riposati alcuno d\u00ec la gente in Reggio,\ncavalcarono infino a Parma, e valicarono quella facendo grandi prede\ne danno a\u2019 paesani: e del mese di febbraio del detto anno, con grande\nonore e ricca preda, in vergogna de\u2019 tiranni di Milano, si ritorn\u00f2\ncatuna gente a\u2019 suoi signori senza trovare alcuno contasto.\nCAP. X.\n_Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato col prefetto._\nDel mese di febbraio del detto anno, i Chiaravallesi di Todi per\nprovvisione del comune tornarono a\u2019 loro beni, e potendo colle loro\npersone usare la cittadinanza, cercavano, come mal contenti, trattato\ncol prefetto di Roma di metterlo in Todi per farlone signore; e non\npotendo menare eglino questo perch\u00e8 erano sospetti, il feciono menare\na un messer Andrea giudice di Todi loro confidente. Il trattato\nsi scoperse, e al giudice fu tagliata la testa. I Chiaravallesi\navvedendosi che il comune di Todi per questo prendea di loro maggiore\nsospetto, temendo di non essere corsi un d\u00ec a furore, da capo uscendo\ndella citt\u00e0, presono il castello di Toscina l\u2019aprile seguente, e\nrubellaronlo al comune.\nCAP. XI.\n_Come mor\u00ec messer Pietro Sacconi de\u2019 Tarlati._\nEssendo messer Pietro Sacconi de\u2019 Tarlati d\u2019Arezzo in et\u00e0 decrepita\nintorno al centinaio degli anni, e malato a morte, in questi d\u00ec si\ndisse pubblico, ch\u2019e\u2019 pens\u00f2 di non volere morire che non ordinasse\nprima alcuno nobile fatto del suo antico mestiere: e ordin\u00f2 con Marco\nsuo figliuolo, dicendo: Ora, che si crede che tu sia imbrigato intorno\nalla mia malattia, e che altri non prender\u00e0 guardia di te, procaccia\ndi furare Gressa al vescovo d\u2019Arezzo e agli Ubertini. Il figliuolo\nubbid\u00ec al consiglio del padre, e molto segretamente accolse gente, e di\nfurto entr\u00f2 nel castello di Gressa, ma essendovi gli Ubertini forti,\nper forza ne lo pinsono fuori; e forse per dolore che messer Pietro\nn\u2019ebbe s\u2019avacci\u00f2 la sua dispettosa e non contenta morte, lasciando\nnuova guerra tra\u2019 suoi Tarlati e gli Ubertini per questo furto. Pro\u2019 e\nvalente uomo fu e avvisato, in fatti di guerra, ma pi\u00f9 in operazioni di\ntrattati, e di furti e di subite cavalcate, che in campo o in aperta\nguerra; e\u2019 fu fortunato contro agli altri suoi nemici, e infortunato\ncontro al comune di Firenze, e per animosit\u00e0 di parte ghibellina non\nseppe tener fede.\nCAP. XII.\n_Come scur\u00f2 tutto il corpo della luna._\nMarted\u00ec notte alle ore quattro, a d\u00ec 16 di febbraio anno 1355,\ncominci\u00f2 la scurazione della luna nel segno dell\u2019Aquario, e alle\ncinque ore e mezzo fu tutta scurata, e bene dello spazio d\u2019un\u2019altra\nora si pen\u00f2 a liberare. E non sapendo noi per astrologia di sua\ninflenza, considerammo gli effetti di questo seguente anno, e vedemmo\ncontinovamente infino a mezzo aprile serenissimo cielo, e appresso\ncontinove acque oltre all\u2019usato modo il rimanente d\u2019aprile e tutto il\nmese di maggio, e appresso continovi secchi e stemperati caldi insino a\nmezzo ottobre. E in questi tempi estivali e autunnali furono generali\ninfezioni, e in molte parti malattie di febbri e altri stemperamenti\ndi corpi umani, e singularmente malattie di ventre e di pondi con\nlungo duramento. Ancora avvenne in quest\u2019anno un disusato accidente\nagli uomini, e cominciossi in Calavria a Fiume freddo e scorse fino\na Gaeta, e chiamavano questo accidente male arrabbiato. L\u2019effetto\nmostrava mancamento di celabro con cadimenti di capogirli con diversi\ndibattimenti, e mordeano come cani e percoteansi pericolosamente,\ne assai se ne morivano, ma chi era provveduto e atato guariva. E fu\nnel detto anno mortalit\u00e0 di bestie dimestiche grande. E in quest\u2019anno\nmedesimo furono in Fiandra, e in Francia e in Italia molte grandi e\ndiverse battaglie, e nuovi movimenti di guerre e di signorie, come\nleggendo si potr\u00e0 trovare. E nel detto anno fu singulare buona e\ngran ricolta di pane, e pi\u00f9 vino non si sperava, perch\u00e8 un freddo\nd\u2019aprile l\u2019uve gi\u00e0 nate secc\u00f2 e arse, e da capo molte ne rinacquono\ne condussonsi a bene, cosa assai strana. E da mezzo ottobre a calen\ndi gennaio furono acque contino ve con gravi diluvi, e perdessene il\nterzo della sementa, ma il gennaio vegnente fu s\u00ec bel tempo, che la\nperduta sementa si racquist\u00f2. I frutti degli alberi dimestichi tutti\nsi perderono in quest\u2019anno. Non ne avremmo stesa questa memoria se la\nscurazione predetta non vi ci avesse indotto.\nCAP. XIII.\n_Come la gran compagnia presono Venosa._\nLa compagnia del conte di Lando ch\u2019avea avuta la prima paga dal re\nLuigi, e dovea attendere l\u2019altre paghe in Puglia senza far danno a\u2019\npaesani, vernava di l\u00e0, e non faceva guerra; ma la fede, vedendosi il\ndestro, non seppe per promessa o saramento ch\u2019avessono fatto osservare:\ne per\u00f2 entrarono in Rapolla, e presa la terra la spogliarono d\u2019ogni\nsustanza, e consumarono colle persone e co\u2019 cavalli ci\u00f2 che da vivere\nvi trovarono; e appresso, del mese di febbraio predetto, per aguato di\nfurto presono la citt\u00e0 di Venosa, e fecionne il simigliante. E questa\n\u00e8 la fede delle compagnie, che ogni cosa fanno licito alla corrotta\nvolont\u00e0 della preda, e per\u00f2 \u00e8 folle chi alle loro promissioni si fida.\nCAP. XIV.\n_Come il legato band\u00ec la croce contro al capitano di Forl\u00ec._\nIn questo tempo del verno, messer Gilio cardinale di Spagna legato\ndi santa Chiesa, avendo prosperamente racquistato a santa Chiesa il\nPatrimonio, la Marca d\u2019Ancona, e \u2019l ducato di Spoleto, e la maggior\nparte della Romagna, restavagli a racquistare Forl\u00ec e Faenza, e le\nterre vicine e de\u2019 loro distretti, le quali tenevano occupate per\nloro tirannie Francesco degli Ordilaffi capitano di Forl\u00ec, e messer\nGiovanni di messer Ricciardo Manfredi; e non trovando il detto legato\nconcordia con loro, ordin\u00f2 contro a\u2019 detti suo processo, e seguitollo\nfino alla sentenza, perocch\u00e8 tornare non vollono all\u2019ubbidienza. E\npubblicata per Italia la loro dannazione, e fattili scomunicare, avendo\ndal papa lettere d\u2019indulgenza con piena remissione de\u2019 peccati e della\npena a chi fosse contrito e confesso, fece bandire la croce contro\nFrancesco Ordilaffi tiranno di Forl\u00ec, e di Forlimpopoli e di Cesena, e\ncontro a Giovanni e Rinieri de\u2019 Manfredi tiranni di Faenza, condannati\nper eretichi e ribelli di santa Chiesa, potendo il cavaliere e il\npedone partecipare in due anni il servigio d\u2019un anno in arme contro\na loro. Ordinati furono i predicatori, e\u2019 collettori delle provincie\ne delle citt\u00e0, e incontanente l\u2019avarizia de\u2019 cherici cominci\u00f2 a fare\nl\u2019uficio suo, e allargarono colla predicazione l\u2019indulgenza oltre alla\ncommissione del papa, e cominciarono a non rifiutare danaio da ogni\nmaniera di gente, compensando i peccati e i voti d\u2019ogni ragione con\ndanari assai o pochi come gli poteano attrarre; e per non mancare alla\nloro avarizia, sommoveano nelle citt\u00e0 e ne\u2019 castelli e nelle ville\nogni femminella, ogni povero che non avea danari, e dare panni lini e\nlani, e masserizie, grani e biada, niuna cosa rifiutavano, ingannando\nla gente con allargare colle parole quello che non portava la loro\ncommissione; e cos\u00ec davano la croce, e spogliavano le ville e le\ncastella pi\u00f9 che non poteano fare le citt\u00e0, ma nelle citt\u00e0 le donne e\nle femmine valicavano tutta l\u2019altra gente, e per questa maniera davano\nla croce: e \u2019l termine della guerra cominciava in calen di maggio gli\nanni 1356. Della citt\u00e0 di Firenze e del contado un frate de\u2019 Romitani\nvescovo di Narni trasse grandissimo tesoro, del quale non potendo il\ncardinale avere diritto conto, lungo tempo tenne in prigione il detto\nvescovo in un suo castello nella Marca, guardato alle spese del detto\nvescovo.\nCAP. XV.\n_Come il conte Paffetta fu da\u2019 Pisani messo in prigione._\nEgli \u00e8 assai utile cosa agli uomini considerare contro alla malizia e\nalla superbia de\u2019 grandi cittadini, quando possono far male e abbattere\ngli altri, ch\u2019e\u2019 medesimi sono sottoposti a quella medesima calamit\u00e0\ne fortuna; ma provarlo per esperienza gli ne fa pi\u00f9 certi, e a quelli\nc\u2019hanno a venire ne rimane migliore esempio. Detto abbiamo come la\nmalizia di messer Paffetta conte di Montescudaio cittadino di Pisa,\ncolla perversa operazione fece morire e cacciare i Gambacorti di Pisa,\ne s\u00e8 fece il maggiore di quella citt\u00e0; avvenne che gli altri cittadini,\ncui egli avea rimessi al governamento del comune, parendo loro che\nmesser Paffetta fosse troppo grande, si legarono e feciono setta\ncontro a lui segretamente, e un d\u00ec, essendo messer Paffetta andato\nagli anziani, come ordinato era, gli anziani mandarono di subito a\nfare pigliare certi cittadini caporali della sua setta e stretti suoi\nconfidenti, e altri di suo seguito intorno di cinquanta, e di presente\nli mandarono a\u2019 confini, facendoli uscire della citt\u00e0, e messer\nPaffetta con alcuno altro mandarono in prigione nell\u2019Agosta a Lucca;\ne messolo in carcere sotto buona guardia, rivocarono i confini agli\naltri e fecionli ritornare, senza fare altra novit\u00e0 o mutazione di loro\nstato. Parve a tutti rimanere pi\u00f9 sicuri, e in migliore essere nella\ncittadinanza, che in prima; e questo fu all\u2019entrata del mese d\u2019aprile,\ne ancora non era compiuto l\u2019anno ch\u2019egli avea abbattuti i Gambacorti\ne gli altri buoni cittadini di Pisa. Era in Pisa il vicario sostituto\ndel vicario dell\u2019imperadore, il quale consent\u00ec a tutto, essendoli fatto\nintendere che messer Paffetta volea con certo trattato dare Pisa a\u2019\nsignori di Milano: grande loro amico era, ma altro vero non se ne pot\u00e8\ntrovare; e stato alquanto in prigione, per tema che l\u2019imperadore non lo\nne facesse trarre, o i signori di Milano, di veleno, o d\u2019altra violente\nmorte, celatamente lo feciono morire in prigione.\nCAP. XVI.\n_Come gli Aretini riposono certe fortezze._\nGli Aretini sentendo morto messer Piero Sacconi de\u2019 Tarlati loro\nnemico, il quale lungo tempo gli avea tenuti in guerra e in gran paura,\ncontro al quale non s\u2019ardivano a muovere vivendo, incontanente dopo\nla sua morte, del detto mese di febbraio del detto anno, uscirono a\noste, e riposono una tenuta contro al castello di Gaerina, e un\u2019altra\ncontro a Bibbiena, e una sopra Pietramala, e tanto stettono a campo,\nche tutte e tre furono fortificate e fornite, acciocch\u00e8 i Tarlati\nnon potessono correre sopra loro a loro volont\u00e0, com\u2019erano usati di\nfare. E per la baldanza presa per la morte d\u2019un decrepito vecchio,\nnon avendo avuto ardire di farlo a sua vita, ordinarono tra nella\ncitt\u00e0 e nel contado tremila uomini a corazze, e trecento balestrieri\ne centocinquanta barbute, per potere mantenere il loro contado pi\u00f9\nsicuro, e guerreggiare i nemici. Abbianne fatta memoria per una cosa\nassai nuova, considerando che un uomo vecchio tenesse in freno e in\npaura cos\u00ec antica e gran citt\u00e0, che non pensavano in fatti di guerra\npotere resistere alla sua persona.\nCAP. XVII.\n_Di nuove rivolture della gran compagnia._\nStando la compagnia del conte di Lando a vernare in Puglia con grande\nabbondanza d\u2019ogni bene da vivere, aspettando dal re Luigi la moneta\npromessa, per lo patto ch\u2019avea di doversi partire al maggio prossimo\ne uscire del regno, una parte di loro con certi conestabili intorno\ndi cinquecento barbute, contentandosi male d\u2019aversi a partire del\npaese, senza tenere promessa al re o fede all\u2019altra compagnia si\nrubellarono da essa, e accostati al conte di Minerbino detto Paladino,\nse n\u2019andarono per sua condotta in terra d\u2019Otranto, ove per lunghi tempi\npassati non era sentita guerra, e di presente presono due castella nel\npaese piene di molta vittuaglia, e preda quanta ne poterono guardare\ndi bestiame grosso e minuto, del quale poterono avere l\u2019uso, ma non\ndanari. Il conte di Lando si dolse al re Luigi del tradimento fatto per\ncostoro, e offerse s\u00e8 e l\u2019altra compagnia al servigio del re contro a\nque\u2019 ribelli, e contro a tutti i baroni che non volessono ubbidire alla\ncorona. Il re, e il suo consiglio, e il gran siniscalco, credendosi\nfare meno male, accettarono la profferta, e una parte della compagnia\ncon certa condotta de\u2019 suoi uficiali mand\u00f2 in Abruzzi per fare ubbidire\nalquanti comuni e baroni, i quali cos\u00ec rubavano e predavano il paese\ncome se fossono nel servigio della compagnia e non in quello del re,\ne tanto pi\u00f9 sicuramente, perch\u00e8 niuno s\u2019era provveduto contro a loro:\ne quelli ch\u2019erano rimasi col conte di Lando volevano pur vivere largo\nall\u2019altrui spese. E cos\u00ec nella concordia, come nella guerra, erano\nd\u2019ogni parte i regnicoli mal trattati.\nCAP. XVIII.\n_Di grandi gravezze fatte dal re di Francia nel suo reame._\nIn questo verno, vedendosi il re di Francia la guerra degl\u2019Inghilesi\naddosso, e spogliare da\u2019 forestieri il reame, come gi\u00e0 abbiamo narrato,\npensando avere a moltiplicare la spesa, oltre alle colte de\u2019 feudi\ndelle citt\u00e0 del reame e de\u2019 baroni, e oltre alle gravezze dell\u2019usate\nreve, e del gran danno fatto a\u2019 sudditi del reame di cambiare le\nbuone monete d\u2019oro e d\u2019argento in ree contro all\u2019usanza di quel\nregno, ordin\u00f2, e pose per modo di gabelle, ch\u2019ogni mercatanzia che si\ncomperasse o vendesse nel reame dovesse pagare agli uficiali ordinati\nsopra ci\u00f2 danari otto per catuna lira. La qual cosa grav\u00f2 tanto i\nmercatanti, che abbandonarono in gran parte il reame e il trafficare in\nquello, e quasi tutto il peso rimase a\u2019 baroni e a\u2019 paesani, della qual\ngravezza forte si conturbarono inverso il loro signore, e desideravano\nil suo male; e alquante citt\u00e0 per questa cagione si recarono a reggere\nper loro, e non voleano ricevere gli esecutori e gli uficiali del re di\nFrancia, come per innanzi leggendo si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XIX.\n_Come i Pisani facevano simulata guerra._\nLa materia ch\u2019ora seguita non era degna di memoria per lo fatto,\nch\u2019assai fu lieve, ma il modo, c\u2019ha poi generate pi\u00f9 gravi cose, ci\nscusa. I Pisani, innanzi a questo tempo di pi\u00f9 anni, per loro maliziosa\nindustria, avendo buona e leale pace co\u2019 Fiorentini, contro a\u2019 patti\ndi quella aveano fatto fare il castello di Sovrana, il quale il comune\ndi Firenze tenea per li patti della pace, e fecionlo torre a certi\nghibellini usciti di quel paese, e il comune di Pisa sotto nome di\ncostoro si tenea la terra, e mantenievi soldati che tribolavano tutto\nil paese e le terre d\u2019intorno del comune di Firenze; essendo i Pisani,\noltre alla pace, in singulare compagnia e lega col nostro comune,\nfaceano queste coperte con grande ambizione. I Fiorentini lungamente\ndissimularono mostrando di non se n\u2019avvedere, ma moltiplicandosi il\nmale, e scoprendosi ogni d\u00ec pi\u00f9 l\u2019uno che l\u2019altro, il nostro comune\nprese di gastigarli in quella contrada con quella malizia ch\u2019eglino\navevano insegnata. E del mese di febbraio del detto anno ordinarono\nco\u2019 Pistoiesi che si lasciarono torre Calumao, una fortezza sopra\nSovrana, a certi caporali di buoni masnadieri, i quali con aspra e\ncontinova guerra in breve tempo uccisono tutti i caporali di Sovrana,\ne presono masnade ch\u2019e\u2019 Pisani mandavano per guastare la Sambuca, e\nfeciono grande guerra nel paese. E per questo tutti i ghibellini di\nValdinievole erano mal condotti, ch\u2019avendo pace vivevano in continua\nguerra per la cominciata malizia pisanesca. Ma aggiugnendo malizia a\nmalizia, per vendicare loro onta sbandirono loro soldati, e mandarono\ntrecento barbute e gran popolo agli usciti ghibellini di Valdinievole,\ni quali cavalcarono infino alla Pieve a Nievole, e arsono intorno a\nquella, e feciono quel danno che poterono; e appresso si dirizzarono\na Castelvecchio, e ordinatamente il combatterono, ma nol vinsono. Il\ncomune di Firenze sentendo questo fece cavalcare i suoi cavalieri in\nValdinievole, e raunati i paesani, cercavano d\u2019abboccarsi co\u2019 nemici,\nma eglino non attesono; e non potendo tornare per la via ond\u2019erano\nandati, per altra via pi\u00f9 aspra, ma a loro pi\u00f9 sicura, in fretta si\nritornarono a Pisa, e furono ribanditi.\nCAP. XX.\n_Come il capitano della Chiesa assedi\u00f2 Cesena._\nIl legato del papa, oltre alla gente ch\u2019attendea de\u2019 crociati avea\nda s\u00e8 a soldo duemila barbute, e confidandosi de\u2019 Malatesti, fece\ngonfaloniere di santa Chiesa e capitano della sua gente d\u2019arme messer\nGaleotto da Rimini, e con mille cavalieri e con gran popolo del mese\ndi febbraio del detto anno il mand\u00f2 a oste sopra la citt\u00e0 di Cesena;\nil quale in prima corse il paese predando d\u2019intorno, e appresso visi\npose ad assedio, e strettosi alla terra, vi stette infino che il\nconte di Lando venne del Regno in Romagna, come innanzi al suo tempo\nracconteremo.\nCAP. XXI.\n_Come il conte da Battifolle assedi\u00f2 Reggiuolo._\nAvendo il conte Ruberto da Battifolle ricevuto ingiuria nel suo\ncontado di cavalcate e di prede fatte per Marco figliuolo di messer\nPiero de\u2019 Tarlati, contro a\u2019 patti della pace fatta con gli aderenti\nde\u2019 signori di Milano, accolta sua gente e\u2019 suoi fedeli in arme,\nall\u2019entrata del mese d\u2019aprile anni 1356, essendo per nevi e per venti\nsmisurato freddo, se n\u2019and\u00f2 al castello di Reggiuolo, il quale era\nallora del detto Marco, e cinselo d\u2019assedio, e fece a\u2019 suoi fare case\ndi legname per ripararsi dal freddo, e rizz\u00f2 trabocchi e manganelle\nche tribolavano il castello e coloro che dentro il guardavano, e\naggiungendo al continovo forza avea s\u00ec stretti gli assediati, che pi\u00f9\nnon si poteano difendere. Vedendo Marco che \u2019l castello non si potea\npi\u00f9 tenere, mand\u00f2 a richiedere il comune di Firenze per li patti della\npace, che non lasciassono al conte seguitare l\u2019impresa. Il conte venne\na Firenze, e mostr\u00f2 al comune come Marco era stato movitore della\nguerra, e pi\u00f9 che non avea voluto approvare n\u00e8 ratificare per carta\nalla pace secondo i patti. Ma nondimeno il comune di Firenze, per non\npotere essere calunniato a diritto o a torto d\u2019avere lasciato a\u2019 suoi\naderenti rompere la pace, diliber\u00f2, che \u2019l conte si dovesse partire\ndall\u2019assedio. Il conte non ostante l\u2019ingiuria ricevuta, e la spesa\nfatta, e la ferma speranza d\u2019avere il castello, per ubbidire al comune\ndi Firenze lasci\u00f2 l\u2019impresa, e a d\u00ec 18 d\u2019aprile del detto anno si torn\u00f2\nin Casentino.\nCAP. XXII.\n_Come il conticino da Ghiaggiuolo racquist\u00f2 Ghiaggiuolo._\nDi questo mese di maggio 1356, il conticino da Ghiaggiuolo con alcuna\ngente del legato cavalc\u00f2 nelle terre che il capitano di Forl\u00ec gli avea\ntolte; e stando nella contrada molto baldanzoso, fece correre boce\nche Forl\u00ec s\u2019era renduto al legato, e che il capitano era preso. E per\nmostrare la cosa ben certa, si fece venire un frate con lettere che\ncontavano le novelle molto verisimili, e rec\u00f2 l\u2019ulivo palese, e fu\nricevuto con grande festa. E incontanente si strinse a Ghiaggiuolo,\ne fece vedere le lettere al castellano, e poi gli disse, che se\nincontanente non li rendesse il castello, che lui e\u2019 compagni farebbe\nmorire senza niuna misericordia. La cosa avea sembianza di verit\u00e0, e\nil castellano era di poco intendimento, e pauroso e vile, e per\u00f2 gli\nrend\u00e8 il castello, ch\u2019era forte e bene fornito, e andossene colla sua\ncompagnia a salvamento con vergogna, e non senza infamia di tradimento.\nCAP. XXIII.\n_Come i Visconti assediarono Pavia._\nAvendo nel principio di questo sesto libro narrato il sospetto preso,\ne la discordia tra\u2019 signori di Milano e il marchese di Monferrato,\ne quelli da Beccheria di Pavia, e accresciuta la mala voglia per le\nrubellioni fatte in Piemonte, messer Bernab\u00f2 e messer Galeazzo Visconti\nvolendosi vendicare sopra i loro parenti e prossimani vicini, con\ngrande moltitudine di cavalieri e di popolo, del mese di maggio del\ndetto anno, valicarono il Tesino e strinsonsi alla citt\u00e0 di Pavia, e\nvi poson l\u2019assedio d\u2019ogni parte, con intendimento di non levare l\u2019oste\nse prima non avessono la citt\u00e0 al loro comandamento, e cos\u00ec si credette\nper tutta Italia, perocch\u00e8 la citt\u00e0 \u00e8 presso a Milano a venti miglia di\npiano, e la potenza de\u2019 tiranni era sopra modo grande a quella impresa.\nMa perocch\u00e8 non procede dalla volont\u00e0 umana la potenza divina, le cose\nsuccedono spesso ad altro fine che gli uomini non divisano, e cos\u00ec\navvenne di quest\u2019assedio, come seguendo nostro trattato dimostreremo.\nCAP. XXIV.\n_Come il re di Francia prese il re di Navarra._\nAvendo racconto addietro come il re Giovanni di Francia avea renduto\npace al re di Navarra, e perdonatagli la morte del conestabile e agli\naltri baroni ch\u2019erano stati con lui, e come accomandato gli avea il\nDelfino suo figliuolo, seguit\u00f2, che in questo tempo, essendo loro\ncommesso dal re la provvisione della guardia di Guascogna, insieme\ncavalcavano la provincia, provvedendo a quello ch\u2019era di bisogno alla\ndifesa del paese, e ancora andavano prendendo loro diporto; ed essendo\nnella citt\u00e0 di Ruen, il re di Francia il sent\u00ec, e mossesi da Parigi\nquasi sconosciuto con poca compagnia e cavalc\u00f2 ad Orliens, e l\u00e0 tenne\na battesimo un fanciullo nato di quelli d\u2019Artese, e parente stretto\ndel conestabile di Francia che fu morto, a cui il re secondo il volgo\navea portato disordinato amore: avvenne, o che la morte del suo diletto\namico per lo fanciullo parente li rivenisse nella mente, o che altra\ncagione il movesse al presente fatto, niuna certezza se ne pot\u00e8 avere,\nma di subito armato a modo di cavaliere, con sessanta cavalieri armati\ndi sua famiglia cavalc\u00f2 a Ruen; e giunto senza arresto alla citt\u00e0,\nmand\u00f2 un cavaliere innanzi a s\u00e8, il quale dicesse in segreto al Delfino\nsuo figliuolo, che di cosa ch\u2019avvenisse non prendesse turbazione n\u00e8\npaura; e seguendo il re co\u2019 suoi cavalieri armati entr\u00f2 nel palagio\nov\u2019era il re di Navarra, e il Delfino, e il conte di Ricorti con\nquattro cavalieri banderesi di Normandia, e aveano a desinare con\nloro altri baroni e cavalieri del paese. Ed essendo giunto innanzi il\ncavaliere, e appena compiuto di favellare al Delfino, il re di Francia\narmato colla barbuta in testa e co\u2019 suoi cavalieri fu in sulla sala, e\ntrovandoli alla mensa, comand\u00f2 che alcuno non si movesse; e avviatosi\nverso il re di Navarra, il chiam\u00f2 traditore della corona, e andogli\naddosso con uno stocco ignudo per ucciderlo di sue mani: ripreso e\nritenuto da\u2019 suoi, dicendo che a re non si convenia tanto fallo, il\nfece prendere e imprigionare, e detto fu che alquanto il punse dello\nstocco; e fece pigliare il conte di Ricorti, e i quattro cavalieri\nnormandi, chiamandoli traditori, i quali si scusavano, dicendo ch\u2019erano\ndiritti e leali; ma il re mosso da furiosa tempesta d\u2019animo giur\u00f2 di\nnon mangiare, prima che di loro avesse fatto secondo la sua intenzione\npiena giustizia.\nCAP. XXV.\n_Come il re di Francia fece decapitare il sire di Ricorti e altri\nquattro cavalieri normandi._\nAvendo preso il re di Navarra, di presente il mand\u00f2 a incarcerare a un\nforte castello che si chiama Castel Gagliardo: e in quello stante il\nre di Francia fece mettere in su una carretta il sire di Ricorti e i\nquattro cavalieri normandi per farli decapitare, innanzi che volesse\ndesinare. E quelli della citt\u00e0 per la subita tempesta del re vedendo\ntanta novit\u00e0, e non sapendo che vi fosse la persona del re di Francia,\ntraevano in piazza per aiutare i baroni presi. Il re conoscendo il\npericolo del popolo commosso, si trasse la barbuta di testa e fecesi\nconoscere; e sparta la voce che ivi era la persona del re loro signore\ncatuno stette cheto. Allora il re, per mostrare al popolo e agli altri\nmaggiori che v\u2019erano che \u2019l suo furioso movimento a tanto fatto non era\nsenza gran cagione, si trasse dal lato un brieve con molti suggelli,\nnel quale si contenea, come il re di Navarra col sire di Ricorti, e con\nquattro cavalieri normandi, e con altri che in quello si nominavano,\naveano trattato col re d\u2019Inghilterra d\u2019uccidere il re di Francia e \u2019l\nDelfino suo figliuolo, e di fare re di Francia il detto re di Navarra,\nil quale fatto re, dovea rendere la Guascogna e la Normandia al re\nd\u2019Inghilterra. E questo brieve, vero o simulato che fosse, continovo\nfino alla morte fu negato per lo sire di Ricorti e per i quattro\ncavalieri normandi; nondimeno nella presenza del re tranati in sulla\npiazza furono decapitati, e i corpi loro legati con catene, senza\nconcedere loro sepoltura, furono appesi. Altri dissono, che doveano\ndare prigione il Delfino al re d\u2019Inghilterra, ma poca fede si diede\nall\u2019una cagione e all\u2019altra, ma pi\u00f9 che ci\u00f2 fosse fatto per vendetta\ndella morte del conestabile. E appresso fu mandato il re di Navarra\nprigione in Castelletto, parendo a molti, che egli, egli altri ch\u2019erano\nstati decapitati fossono senza colpa di quella infamia.\nCAP. XXVI.\n_D\u2019un grosso badalucco fu a Pavia._\nEssendo l\u2019oste de\u2019 signori di Milano sopra la citt\u00e0 di Pavia, del\nmese di maggio del detto anno, uscirono cavalieri della terra, e\ncominciarono giostre e badalucchi con quelli del campo; e venendo\na poco a poco crescendo l\u2019assalto e la gente da catuna parte, vi\ns\u2019allign\u00f2 un\u2019aspra battaglia di pi\u00f9 di mille cavalieri di catuna\ngente, tutti i pi\u00f9 pro\u2019 e i pi\u00f9 arditi, che di grande volont\u00e0 per\nfare d\u2019arme si metteano in quello stormo. Infine per lo superchio de\u2019\ncavalieri che messer Galeazzo sollecitava di mandarvi, quelli di Pavia\nnon poterono sostenere, e per forza convenne che dessono le reni, e\nfuggendo, alquanti ne furono presi; gli altri per campare si tornarono\nnel borgo della citt\u00e0, ed essendo fortemente incalciati da\u2019 nemici\nche li seguivano, con loro insieme si misono follemente nel borgo, ove\nracchiusi, si trovarono prigioni per troppa sicura gagliardia, e ben\nquattrocento se ne rassegnarono a bottino, per li quali quelli di Pavia\nriebbono tutti i loro prigioni; e guadagnati i cavalli e l\u2019arme, tutti\ngli lasciarono andare alla fede, secondo l\u2019usanza de\u2019 Tedeschi.\nCAP. XXVII.\n_Come i Visconti assediarono Borgoforte._\nDi questo mese di maggio, i signori di Milano, non ostante ch\u2019avessono\nl\u2019oste a Pavia, e mandata gran gente in Piemonte contro al marchese di\nMonferrato, mandarono duemila cavalieri e gran popolo con molto navilio\nad assediare Borgoforte in sul Mantovano, e ivi si posono ad assedio\nper acqua e per terra, facendo nel P\u00f2 grandi palizzati, acciocch\u00e8\nlevassono al castello ogni fornimento e soccorso che venire gli potesse\nper lo fiume del Po, e con bertesche, e con guardie, e con navili il\nchiusono, e per acqua e per terra l\u2019assediarono strettamente.\nCAP. XXVIII.\n_Come i Visconti feciono contro a\u2019 prelati di santa Chiesa._\nAvvenne in questi d\u00ec, che \u2019l papa mand\u00f2 un valente prete in Lombardia\na predicare la croce, guardandosi i maggiori prelati di non volere la\ngrazia di quell\u2019uficio. E la croce si bandiva e predicava, come detto\n\u00e8, contro al capitano di Forl\u00ec e al signore di Faenza. Il valente\nsacerdote se n\u2019and\u00f2 a Milano, e ivi favoreggiato dal vescovo di Parma,\ncominci\u00f2 sollicitamente a fare l\u2019uficio che commesso gli era dalla\nsanta Chiesa. Come messer Bernab\u00f2 ebbe notizia di questo servigio,\nsenza vietarglielo, o ammonirlo che questo fosse contro alla sua\nvolont\u00e0, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di ferro\ntonda a modo d\u2019una botte, l\u00e0 dentro vi fece mettere il sacerdote, e\naccesovi sotto il fuoco come si fa a uno arrosto, e facendolo volgere,\ncrudelmente il fece morire a grande vitupero, non tanto per la sua\npersona ch\u2019era prete sagrato, quanto per lo dispregio e irreverenza\nche per lui si mostr\u00f2 fatto a santa Chiesa che l\u2019avea mandato. E per\narrogere al mal fatto aggiunse, che al vescovo di Parma fece torre\nil vescovado, e delle rendite di quello invest\u00ec altrui, e contradi\u00f2\nalla predica della croce. E acciocch\u00e8 il capitano si potesse difendere\ndal legato li mand\u00f2 subitamente dieci bandiere di cavalieri, dandogli\nsperanza di maggiore aiuto, e avendoli presso il castello di Luco, che\ntenea tra Bologna e la Romagna, senza contasto li vi mise dentro.\nCAP. XXIX.\n_Come i Visconti feciono tre bastite a Pavia._\nDel mese di maggio 1356, i signori di Milano volendo vincere per\nassedio la citt\u00e0 di Pavia, feciono edificare attorno alla terra tre\ngrandi bastite, le quali feciono armate di bertesche e di steccati, e\nmolto afforzare con buoni e larghi fossi, e l\u2019una strinsono alla citt\u00e0\ndi l\u00e0 dal Tesino, e l\u2019altra di verso Milano, il Tesino in mezzo; e\nin sul fiume feciono un largo ponte di legname per lo quale l\u2019un\u2019oste\npotea soccorrere all\u2019altra, e l\u2019altra bastita posono dall\u2019altra parte\ndella terra. E per non tenervi tanta gente impedita a tenervi campo\naperto, misono in queste bastite cavalieri e pedoni assai, i quali\nfaceano aspra guerra, e teneano la citt\u00e0 s\u00ec stretta, che vittuaglia\nniuna o gente non grossa vi poteva entrare, e grande speranza aveano\ndi vincere la citt\u00e0, se fortuna l\u2019avesse conceduto alla loro volont\u00e0:\nma non sempre agli appetiti de\u2019 potenti tiranni acconsente la divina\ndisposizione, come leggendo innanzi si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XXX.\n_Come i Turchi con loro legni feciono gran danno in Romania._\nIn questi medesimi tempi, i Turchi avendo settanta legni armati, e\nmolte barche imborbottate, valicarono in Romania, ricettati da un\nbarone di quelli che rimase nel paese dell\u2019antica compagnia, uomo di\nperversa condizione; e per far male a\u2019 suoi paesani, dava a\u2019 Turchi\nrinfrescamento e porto a\u2019 loro navili, ed eglino quando per mare\nquando per terra correvano il paese predando uomini e bestiame e roba\nsenza trovare da\u2019 paesani contasto, e al barone, che gli ritenea e\nfavoreggiava, di tutta la preda davano la decima parte. E cos\u00ec seguendo\ntutta la state feciono in Grecia grandissimi danni, e poi senza\ncontasto si tornarono in Turchia carichi di servi greci e di molta\nroba.\nCAP. XXXI.\n_Come gl\u2019Inghilesi guerreggiarono, il reame di Francia._\nNon essendo per li legati di santa Chiesa potuto trovare in tutto\nil verno passato pace o tregua tra il re di Francia e quello\nd\u2019Inghilterra, ma piuttosto aggravato l\u2019animo del re di Francia\ne de\u2019 suoi Franceschi per l\u2019ingiurie ricevute dagl\u2019Inghilesi; e\ngl\u2019Inghilesi montati in maggiore audacia e baldanza aveano tanto a\nvile i Franceschi, che non pensavano potere perdere abboccandosi con\nloro: e per\u00f2 essendo tornato il re d\u2019Inghilterra nell\u2019isola per lo\nfatto degli Scotti, come detto \u00e8, da capo s\u2019apparecchiarono il valente\nduca di Guales, e \u2019l pro\u2019 e ardito conte di Lancastro, e tra loro\ndivisono il paese ove doveano guerreggiare nel reame di Francia, e\ncatuno prese tremila cavalieri e molti arceri, e da capo cominciarono\na correre il paese. E \u2019l conte entr\u00f2 in Brettagna facendo nel paese\naspra guerra, ardendo, e guastando e predando senza trovare contasto, e\n\u2019l duca se n\u2019entr\u00f2 in Guascogna scorrendo il paese, e valicando insino\na Nerbona, guastando e predando il Nerbonese e \u2019l paese d\u2019intorno\nsenza trovare avversari in campo. Catuno si tenea alla guardia delle\nmura e delle fortezze, per modo che niuna terra vi pot\u00e8 acquistare. E\nin questo modo gl\u2019Inghilesi stettono il maggio e \u2019l giugno del detto\nanno, facendo assai danno e vergogna al re di Francia e a\u2019 sudditi\ndel suo reame. Il re di Francia non avendo riparato infino a qui\nall\u2019audacia degl\u2019Inghilesi, vedendoli tanto montare in sua vergogna\ne in danno del paese, s\u2019apparecchi\u00f2 con ogni sollecitudine che pot\u00e8\ndi tutta sua forza di cavalieri e di sergenti e d\u2019arme, a intenzione\nd\u2019andare a trovare i nemici, e di combattere con loro, e cacciarli\ndel reame a suo podere. Ma i due baroni colle due osti, si tornarono\na Bordello in Guascogna colle loro prede, per ordinarsi insieme de\u2019\nnuovi assalti che intendeano fare nel reame, e per provvedersi contro\nall\u2019apparecchiamento che sentivano fare al re di Francia. Come le cose\nseguirono, leggendo appresso per li loro termini si potranno trovare.\nCAP. XXXII.\n_Come gl\u2019Inghilesi furarono un forte castello._\nEssendo un forte castello nel mezzo della contea della Marcia\nchiamato...., ove si facea grandi mercati certi d\u00ec per li circostanti\npaesani, gl\u2019Inghilesi feciono prendere a pi\u00f9 loro cavalieri abito di\nmercatanti, i quali sapeano la lingua francesca, e mostrando d\u2019andare\na fare loro investite al mercato, a due a due giugnendo al castello\nprendevano albergo; ed essendovene entrati una buona compagnia, facendo\nvista d\u2019attendere il mercato per lo seguente d\u00ec, faceano grandi e\nlarghe spese e cortesie, e diportandosi per lo castello verso la\nrocca, il castellano che non si prendea guardia de\u2019 mercatanti fu da\nloro morto. E morto il castellano, entrarono nella fortezza, e quella\ntennono tanto, che gl\u2019Inghilesi che stavano per\u00f2 attenti n\u2019ebbono\nla novella, e cavalcaronvi di subito quattrocento cavalieri e altri\narceri; e giugnendo alla terra, avendo l\u2019entrata, senza uccisione vi\ns\u2019entrarono e afforzaronvisi dentro, e feciono in quello loro ridotto,\nguerreggiando tutto il paese d\u2019intorno, con fare danno grave a\u2019\npaesani. E questo avvenne del mese di giugno predetto.\nCAP. XXXIII.\n_Come il zio del conte di Ricorti si rubell\u00f2 al re di Francia._\nDappoich\u00e8 il re di Francia ebbe morto il conte di Ricorti e gli altri\ncavalieri normandi, come gi\u00e0 \u00e8 detto, mand\u00f2 in Normandia un suo barone,\ne fecelo giustiziere in quel paese. Costui cavalc\u00f2 nel paese, e faceva\nsenza contasto l\u2019uficio del suo baliato, ubbidito da tutti i paesani.\nAvvenne che una terra della contea di Ricorti era nel giustiziato del\nsuo uficio; il balio vi cavalc\u00f2 con tutta sua famiglia per tenervi\nragione, come facea in tutte l\u2019altre terre. Il zio carnale del conte\ndi Ricorti ch\u2019era morto, con sua forza prese il detto balio e\u2019 suoi\nfamigli, e in dispetto del re di Francia, a lui e a\u2019 diciassette suoi\ncompagni, per ricordanza di quello ch\u2019era stato fatto al nipote sire\ndi Ricorti, fece tagliare le teste, e quella terra e l\u2019altre della\ncontea di Ricorti fece rubellare al re di Francia; e allegatosi col\nre d\u2019Inghilterra forn\u00ec le sue terre, e ricettando gl\u2019Inghilesi, faceva\ngrande guerra a\u2019 Normandi.\nCAP. XXXIV.\n_Come messer Filippo di Navarra si rubell\u00f2 al re di Francia._\nAppresso alla detta rubellione, sentendo messer Filippo di Navarra\nfratello del re, come il re Giovanni in persona sconciamente avea a\nRuen voluto uccidere il re di Navarra suo fratello, e appresso l\u2019avea\nvillanamente imprigionato, e come avea morto il conte di Ricorti,\ndisperandosi della salute del fratello e della sua, incontanente\nrubell\u00f2 tutte le terre di Navarra al re di Francia; e cavalcando per\ntutte le terre accogliendo a parlamento gli uomini del reame, si dolea\ndel grande tradimento fatto per lo re di Francia al loro signore, e\ninanimandoli contro al re di Francia, gli confort\u00f2 alla difesa del\npaese, e ordin\u00f2 e forn\u00ec tutte le buone ville; e fatto questo, colla\nsua persona si mise nel forte e nobile castello posto in sulla marina,\nche si chiama...., e ivi si fortific\u00f2, per potere dare l\u2019entrata in\nNavarra agl\u2019Inghilesi e a cui volesse, senza potere essere impedito.\nE messovi buona e confidente guardia, si part\u00ec del reame e andossene\nal re d\u2019Inghilterra, e fece lega e compagnia con lui. E poi seguit\u00f2\ncoll\u2019aiuto e in compagnia degl\u2019Inghilesi a fare grande guerra al re di\nFrancia, come seguendo nostra materia si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XXXV.\n_Come il popolo di Pavia prese le bastite, e liberossi dall\u2019assedio._\nEssendo con tre grandi e forti bastite assediata la citt\u00e0 di Pavia\nda\u2019 signori di Milano, confidandosi nelle grandi fortezze, ne\ntrassono de\u2019 cavalieri e de\u2019 masnadieri per sovvenire all\u2019altre loro\nimprese; e avvedendosene quelli da Beccheria che governavano la citt\u00e0,\nprocacciarono d\u2019avere segretamente aiuto dal marchese di Monferrato.\nEra in quella stagione in Pavia un frate Iacopo Bossolaro de\u2019 romitani,\nin cui gli uomini e le donne di Pavia aveano grande divozione: costui\ncolle sue prediche avea confortato molto il popolo alla sua franchigia\ncontro alla potente tirannia di quelli di Milano; e avendo avuta gente\ndal marchese, la quale v\u2019era entrata di notte chetamente, essendosi\nprovveduti della bastita ch\u2019era loro pi\u00f9 di presso, che rispondea a\nquella di l\u00e0 dal Tesino, dato il d\u00ec ordine a\u2019 cavalieri e al popolo, e\napparecchiate scale e argomenti di legname da entrare nella bastita,\nper modo che i loro nemici non n\u2019ebbono alcuno sentimento, e dato\nl\u2019ordine dell\u2019assalto a\u2019 caporali, sicch\u00e8 catuno sapea ci\u00f2 che s\u2019aveva\na fare, e da qual parte avea a fornire la sua battaglia, s\u2019andarono\nla sera a posare: e nella mezza notte s\u2019armarono e guernirono d\u2019ogni\ncosa; e poi, come ordinato era, in s\u00f9 l\u2019aurora, a d\u00ec 28 di maggio del\ndetto anno, uscirono della citt\u00e0, e il buono frate Iacopo Bossolaro\ncon loro. Cominciarono l\u2019assalto d\u2019ogni parte alla bastita, e fecionlo\ns\u00ec contamente, ch\u2019elli sprovveduti dentro del subito assalto perderono\nogni facondia di consiglio e d\u2019aiuto alla loro difesa; e\u2019 cavalieri\ntedeschi che dentro v\u2019erano, vedendosi d\u2019ogni parte assaliti, non\nebbono cuore alla difesa, e stavano smarriti a vedere come se fossimo\nconsenzienti, e ci\u00f2 non era vero: ma per loro natura rinchiusi non\nsanno combattere, n\u00e8 resistere come in aperto campo. E per\u00f2 quelli di\nPavia con poca resistenza entrarono nella bastita, e presonla, facendo\ngrande uccisione de\u2019 loro nemici, e la maggiore parte ne presono; gli\naltri che poterono fuggire non furono perseguitati, e camparono. Presa\nla prima bastita, di presente si dirizzarono al ponte, e presonlo, e\nfedironsi nell\u2019altra bastita di l\u00e0 dal Tesino. I capitani di quella\nimpauriti della sconfitta de\u2019 loro compagni, e della perdita della\nforte bastita, non ebbono cuore di mettersi alla difesa, ma alla fuga,\nchi meglio il seppe fare, ma non s\u00ec che assai non ne rimanessono morti\ne presi. E vinta, e messo fuoco alla seconda bastita, si dirizzarono\nalla terza ch\u2019era dall\u2019altra parte della citt\u00e0, e quella vinsono per\nsimigliante modo. E come saviamente per loro era ordinato, seicento de\u2019\nloro fanti a pi\u00e8 forniti di seghe, e d\u2019altri argomenti da tagliare,\ne da svegliere palizzati e rompere catene, furono mandati per acqua\nal navilio di Piacenza ch\u2019era raunato in Po, e alquanti cavalieri per\nterra in loro aiuto, i quali valorosamente feciono il servigio: e per\nforza presono il navilio, e arsonne la maggiore parte, e alquanto ne\nritennono, e quelli che v\u2019erano alla guardia ne mandarono in rotta.\nE cos\u00ec maravigliosamente, come a Dio piacque, quella franca gente\nassediata lungamente dalla gran potenza de\u2019 signori di Milano, in\nuno d\u00ec se ne liber\u00f2 vittoriosamente, dando abbassamento alla superba\npotenza de\u2019 grandi tiranni.\nCAP. XXXVI.\n_Il movimento del re d\u2019Ungheria per assediare Trevigi._\nSopravvenendo nuova guerra a raccontare alla nostra materia, cos\u00ec\ncominciamo. Avendo Lodovico re d\u2019Ungheria per lungo tempo molte volte\nrichiesto a\u2019 Veneziani la citt\u00e0 di Giara e l\u2019altre terre, che del suo\nregno teneano occupate in Schiavonia, e non trovando modo con loro di\nriaverle con pace, di questo mese di maggio del detto anno, si mosse\ndalla citt\u00e0 di Buda in persona con trenta compagni, e misesi a cammino\ndirizzandosi in Schiavonia alla citt\u00e0 di Sagabria, ch\u2019\u00e8 in Dalmazia,\ne innanzi che quivi fosse giunto, si trov\u00f2 con cinquecento cavalieri.\nE giunto in Sagabria, in pochi d\u00ec vi vennono tutti i baroni del reame\ne del suo distretto, e catuno colla gente d\u2019arme del debito servigio,\nla quale era tanta che non la comportava il paese; per la qual cosa\nfu costretto il re di parlare a uno a uno, e dir loro la gente ch\u2019e\u2019\nvolea in quel servigio, e tutti gli altri fece rimandare addietro in\nUngheria. A Sagabria vennono a lui ambasciadori del comune di Vinegia\ni quali addomandavano la sua pace, offerendoli danari quanti pi\u00f9\npotessono, per rimanere in concordia con lui. Il re rispose che non\ncercava i loro danari, perocch\u00e8 n\u2019avea assai, ma s\u2019eglino avevano in\nmandato dal loro comune di renderli le sue terre, per questo poteano\navere la sua concordia e la sua pace. Gli ambasciadori risposono,\nche ci\u00f2 non aveano in commissione. Il re disse, che per altro non si\ntravagliassono: onde gli ambasciadori si tornarono addietro al loro\ncomune. Il re stando in Sagabria ordin\u00f2 di fare la sua guerra, come\nappresso la diviseremo. La boce che usciva si spandea per diversi\nluoghi; i pi\u00f9 credeano che a Giara si facesse la gran punga, come altra\nvolta era fatta, altri nell\u2019Istria, altri a Trevigi, e \u2019l certo non si\npotea sapere; e per questo i Veneziani aveano pi\u00f9 a pensare, e maggiore\nspesa a provvedere alle loro terre in diverse parti: e incontanente,\nnon curando la spesa, dando grandi e disordinati soldi, fornirono\nGiara, e l\u2019altre terre di Schiavonia e dell\u2019Istria, e provvidono e\nfornirono la citt\u00e0 di Trevigi di gente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8 con\ngrande spesa.\nCAP. XXXVII.\n_Come per l\u2019avvenimento del re d\u2019Ungheria si temette in Italia._\nSentendosi per tutta Italia, che il re d\u2019Ungheria con grande\nmoltitudine d\u2019Ungheri e d\u2019altri suoi sudditi infedeli s\u2019apparecchiava\nper passare sopra i Veneziani, aggiugnendosi alla novella, che\nl\u2019imperadore e \u2019l duca d\u2019Osteric tenea mano con lui, e che l\u2019imperadore\ndovea creare re in Lombardia e re in Toscana, non senza sospetto\nstettono tutti i tiranni d\u2019Italia, e ancora i popoli di catuna parte\nsospesi, e massimamente i tiranni di Lombardia. E per questa cagione\ns\u2019accostarono a parlamento insieme, e ordinarono loro leghe, e di\nconcordia li mandarono ambasciadori per sapere la sua intenzione de\u2019\nfatti loro; e avuta da lui amichevole risposta, catuno rimase senza\npaura della sua impresa, salvo il comune di Vinegia, contro a cui egli\nmanifestamente s\u2019apparecchiava.\nCAP. XXXVIII.\n_Come la cavalleria del re Luigi sconfissono i nemici, e furono vinti._\nDi questo mese di maggio, essendo il conte Paladino in ribellione del\nre Luigi, e avendo con seco due grandi conestabili con cinquecento\nbarbute, ch\u2019egli avea tratte della compagnia contro alla volont\u00e0\ndel conte di Lando, come addietro abbiamo narrato, e avendone messi\nquattrocento in una sua terra di Puglia che guerreggiavano il paese,\nil re, avendo concordia col conte di Lando, mand\u00f2 in Puglia ottocento\ncavalieri per ristrignere quelli del conte nella terra, e poi\ncoll\u2019aiuto de\u2019 paesani assediativi dentro. Ma gli avvisati Tedeschi\nnon si vollono rinchiudere tra le mura, e partire non si sarebbono\npotuti senza loro grande danno e vergogna. E per\u00f2, come uomini di\ngrande ardire, uscirono della terra, e sentendo nel paese la gente\ndel re, vennono loro incontro, e misonsi in aguato, e appressatasi\nla cavalleria del re, per modo che quelli dell\u2019aguato non si poteano\ncoprire, si schierarono e ordinarono a battaglia, e mandarono a\nrichiedere i cavalieri del re di battaglia, ch\u2019erano ivi cinquecento\ncavalieri bene armati, e montati tutti in buoni cavalli; i quali\nsentendo la richiesta, e avendoli in dispregio, senza fare altra\nrisposta, accoltisi insieme e dato il nome, s\u2019addirizzarono contro a\u2019\nnemici, e percossongli per tale virt\u00f9, ch\u2019al primo assalto gli ruppono\ne sbarattarono; e cacciandoli per avere in preda, si cominciarono a\nsciogliere della loro massa con mala provvedenza, e chi cacciarono qua\ne chi l\u00e0. L\u2019uno de\u2019 due conestabili con pochi de\u2019 suoi si ridusse in\nalcuno vantaggio di terreno e fece testa, e degli altri che fuggivano,\nvedendo ferma quella bandiera, per loro scampo si riduceano ad essa,\ne ingrossavano la sua forza. La gente del re vittoriosa, avendo morti\ne presi de\u2019 loro nemici, vedendo che alquanti aveano fatto testa\nsotto quella bandiera, s\u2019addirizzarono a loro con pi\u00f9 baldanza che\nbuon ordine. Il conestabile avvisato di guerra, conoscendo la sciocca\nvenuta de\u2019 suoi avversari, confort\u00f2 i suoi di ben fare, e stretto co\u2019\nsuoi pochi s\u00ec percosse tra gli assai male ordinati, e ruppegli pi\u00f9 per\nmaestria di guerra che per forza ch\u2019egli avesse; e coloro ch\u2019erano\nvincitori, per la stolta baldanzosa tratta rimasono vinti in questa\nparte, e il conestabile, per lo savio accorgimento e buona condotta,\nessendo prima vinto e fuggito del campo, rimase vincitore, e tanti\nprese de\u2019 suoi avversari, quanti i suoi cavalieri ne poterono menare\nprigioni, tra\u2019 quali furono certi baroni e alcuni cavalieri di Napoli e\naltri Toscani, tutti ricchi prigioni; e senza arresto, quanto i cavalli\ndi buono andare li poterono menare si partirono, e condussonli senza\ncercare pi\u00f9 altra fortuna in sul campo a salvamento. E nondimeno della\nloro compagnia ne rimasono morti assai, e pi\u00f9 presi che quelli ch\u2019e\u2019\nne menarono in buona quantit\u00e0, ma de\u2019 loro poco si curarono: di quelli\nch\u2019aveano presi eglino ebbono danari assai, e per mala condotta la\nbella vittoria condussono a vergognoso fine.\nCAP. XXXIX.\n_D\u2019appelli fatti per lo conte di Lando di tradigione._\nQuello che seguita non \u00e8 cosa che meriti memoria, se non per dimostrare\ncon esempio del fatto la matta follia degli oltramontani. Il conte\ndi Lando era lungamente stato colla sua compagnia a nimicare con\noperazioni latrocine e infedeli il Regno, e con lui i sopraddetti due\nconestabili alamanni. Avvenne, che fatta la sopraddetta battaglia, il\nconte di Lando appell\u00f2 di tradimento i detti due conestabili, dicendo,\nche contro al loro saramento s\u2019erano partiti della compagnia. E\u2019\nconestabili dall\u2019altre parte appellavano lui per traditore, dicendo,\nche contro al suo saramento avea rotti loro i patti. L\u2019antica pazzia\noltramontana per l\u2019usanza del loro appello li rec\u00f2 in giudicio, e\ncommisonsi nel re Luigi; e appresentandosi l\u2019una parte e l\u2019altra in\ngiudicio nella sua corte, non senza giusto pericolo delle loro persone,\nessendo prencipi di manifesti ladroni senza alcuna fede, nondimeno il\nre guard\u00f2 alla liberalit\u00e0 ch\u2019e\u2019 nemici ebbono confidandosi alla sua\npersona, e fedelmente commise a disputare la loro questione, facendo\nloro assessore il suo gran siniscalco, e d\u2019ogni parte per lungo\npiato furono i savi ad allegare. Ma in fine, o ragione o torto che si\nfosse, il re, avuta la relazione dal suo consiglio, liber\u00f2 il conte,\ne i due conestabili condann\u00f2 per traditori, e ritenneli per prigioni\nalla volont\u00e0 del conte. E per questo modo forse fece in parte la sua\nvendetta per la capitosa follia tedesca.\nCAP. XL.\n_Come i Sanesi per paura ricorsono a\u2019 Fiorentini._\nAvvedutosi alquanto il comune di Siena, che l\u2019essere strano dal comune\ndi Firenze gli potea tornare a pericoloso danno, e massimamente\nsentendosi male forniti, e che la compagnia del Regno era gi\u00e0 in\nAbruzzi per valicare nella Marca e appresso in Toscana, elesse de\u2019\nsuoi maggiori cittadini grandi e popolani, e accompagnati da molta\nfamiglia pomposamente alla loro maniera, a d\u00ec 16 di giugno del detto\nanno vennero a Firenze. E fatti adunare i collegi e gli altri buoni\ncittadini di Firenze, con parole di grande reverenza cominciarono\nloro sermone, chiamando padri del loro comune il popolo e \u2019l comune di\nFirenze, e come figliuoli al padre a loro si raccomandavano, offerendo\nil loro comune apparecchiato di non partirsi dal reverente consiglio\ne ubbidienza del comune di Firenze, dicendo, ch\u2019erano apparecchiati\nad entrare nella lega e compagnia gi\u00e0 provveduta e ordinata per lo\ncomune di Firenze, e di pigliare la loro taglia, e di fare quanto\nil detto comune volesse comandare in questo e nell\u2019altre cose. I\ngovernatori della nostra citt\u00e0, non guardando alli sconvenevoli falli\nper addietro commessi pe\u2019 Sanesi contro al nostro Comune, li riceverono\ngraziosamente in compagnia e in lega, e promisono, dov\u2019eglino volessono\nessere uniti e in fede al nostro comune, d\u2019aiutarli e difenderli come\ncari e diletti fratelli amichevolemente.\nCAP. XLI.\n_Come l\u2019oste si lev\u00f2 da Borgoforte._\nTornando a nostro conto all\u2019assedio di Borgoforte in sul Mantovano,\nil quale i signori di Milano molto si sforzarono per acquistare,\ne\u2019 ruppono e svelsono i grandi palizzati che v\u2019erano per difesa del\ncastello, e per molte battaglie e gravi assalti tentarono d\u2019averlo, e\nsarebbe venuto fatto, se non fosse il grande e buono aiuto ch\u2019ebbono\nda Mantova e da Reggio, e per questo si difesono francamente. Vedendo i\ncapitani dell\u2019oste che a quella pugna si perdea il tempo senza frutto,\ne sapendo che Reggio per soccorrere Borgoforte era sfornito della\ngente d\u2019arme, si levarono subito, e cavalcarono a Reggio; e trovando\nla citt\u00e0 sprovveduta dei loro subito avvenimento, di poco fall\u00ec che\nnon entrarono nella terra, ma quella poca gente che v\u2019era si mise\nfrancamente a guardare le mura e le porte, per la qual cosa l\u2019oste\ncorse danneggiando il contado, e appresso vi si misono ad assedio,\ne stettonvi pi\u00f9 d\u00ec; ed ebbono novelle, come gente del marchese di\nMonferrato s\u2019era ingrossata a Pavia, per la qual cosa temendo i signori\ndi ricevere vergogna in sul Milanese, feciono partire l\u2019oste da Reggio,\ne all\u2019uscita di luglio del detto anno con poco onore si tornarono a\nMilano.\nCAP. XLII.\n_Principio della guerra da\u2019 Fiamminghi a\u2019 Brabanzoni._\nSopravvenendo in questi d\u00ec alla nostra materia grande e non pensata\nguerra, e volendone dimostrare la cagione, ci conviene alquanto tornare\naddietro nostra materia. Certa cosa fu, che per antico la villa e\ngli uomini di Mellina in Brabante erano della chiesa cattedrale di\nLegge, ma essendo nella provincia di Brabante e tra\u2019 Brabanzoni, erano\nusati di fare lega col duca di Brabante per essere pi\u00f9 sicuri e pi\u00f9\nriguardati, e per antica costuma con ogni novello duca di Brabante\nfacevano l\u2019usata lega e compagnia, e ne\u2019 patti tra loro era che \u2019l duca\nli dovea difendere e aiutare in tutte le loro brighe, e la comune di\nMellina dovea servire il duca in tutte le loro guerre, essendo i primi\nche venissono al servigio e gli ultimi che si partissono. Avvenne,\nche un duca di Brabante ebbe guerra col vescovo di Legge e fece oste\nsopra le sue terre, nella quale due di Mellina furono in arme contro\nal loro signore; per la qual cosa, finita la guerra, il vescovo and\u00f2\na corte di Roma a Avignone a papa Benedetto sesto, e tanto procacci\u00f2,\nch\u2019egli ebbe di licenza dal papa sotto la sua bolla ch\u2019e\u2019 potesse\nvendere Mellina, e convertire i danari in altre possessioni a utilit\u00e0\ndella chiesa di Legge, il quale di presente si mise in cerca, e venne\na concordia segretamente col conte di Fiandra per dugento migliaia\ndi reali d\u2019oro; e trovato a ci\u00f2 il sussidio de\u2019 Fiamminghi, pag\u00f2 il\nvescovo innanzi ch\u2019avesse la possessione della citt\u00e0, pensando, ma non\nsaviamente, non avere contasto. Ma incontanente che quelli di Mellina\nsentirono il fatto, andando il conte per la tenuta serrarono le porte,\ne presono l\u2019arme alla difesa e non lo vi lasciarono entrare, e misonsi\na procacciare di fare ritrattare la vendita; e non potendolo fare,\nricorsono al duca di Brabante, richieggendolo per li patti della lega e\ncompagnia ch\u2019aveano con lui che li dovesse aiutare e difendere, ed egli\nil fece, e fecelo volentieri, parendoli che la villa dovesse essere\nsua, ma non l\u2019avea voluta comperare. Per questa ingiuria il conte\nrichiese il re di Francia, il quale avendo conceputo contro al duca di\nBrabante per li fatti del re d\u2019Inghilterra, prese ad aiutare il conte\ndi Fiandra. E allora fu fatto grande sommovimento di Tedeschi e di\nFranceschi contro al duca di Brabante, e il conte di Fiandra co\u2019 suoi\nFiamminghi, per modo che il duca fu recato a grave e pericoloso partito\ndi perdere tutta la duchea, e fatto li venia, se non fosse che il conte\ndi Bari con tutta sua forza il franc\u00f2 a quella volta, come trovare\nsi pu\u00f2 nella Cronica di Giovanni Villani nostro antecessore. Per\nquesto sdegno preso per lo duca contro al re di Francia incontanente\nsi colleg\u00f2 col re d\u2019Inghilterra contro al re di Francia, onde grande\nmale ne seguit\u00f2 a\u2019 Franceschi. Poi morto il duca predetto niella\ngenerale mortalit\u00e0 lasci\u00f2 quattro figliuole femmine, che la maggiore\nfu moglie di messer..... fratello uterino di Carlo di Boemia eletto\nre de\u2019 Romani, la seconda fu moglie del conte di Fiandra, la terza del\nduca di Giulieri, la quarta del duca di Ghelleri. E non essendovi reda\nmaschio, il conte domand\u00f2 di volere parte della duchea di Brabante per\nla legittima della moglie; e non potendola avere, perch\u00e8 si tenne che\nall\u2019anzianit\u00e0 rimanesse la successione del ducato, mosse di rivolere\nMellina, come sua propria terra comperata dal vescovo di Legge, come\ndi sopra \u00e8 detto, ed essendoli dal nuovo duca dinegata, ne seguirono in\nbreve tempo gran cose, come appresso racconteremo.\nCAP. XLIII.\n_Come il conte di Fiandra and\u00f2 su quello di Brabante._\nDi questo mese di giugno 1356, il conte di Fiandra avendo raddomandato\nal cognato duca di Brabante la villa di Mellina che di ragione era\nsua, e non volendogliela rendere, fece bandire per tutta la contea, di\nFiandra il torto che il duca di Brabante e\u2019 Brabanzoni faceano loro, e\nche catuno s\u2019apparecchiasse d\u2019arme, per seguitare la sua persona contro\na\u2019 Brabanzoni in Brabante, e in pochi d\u00ec ebbe, con apparecchiamento\nfatto di molta vittuaglia e di gran carreaggio, centocinquanta migliaia\nd\u2019uomini armati, quasi tutti a modo di cavalieri, e con essi ebbe\ndi suo sforzo e di sua amist\u00e0 seimila cavalieri; e con questo grande\nesercito, e coll\u2019animo acceso di tutti per l\u2019ingiuria de\u2019 Brabanzoni,\nuscirono di Fiandra, ed entrarono in Brabante per combattersi co\u2019\nBrabanzoni.\nCAP. XLIV.\n_Come si fece accordo sul campo da\u2019 Fiamminghi a\u2019 Brabanzoni._\nIl duca di Brabante, ch\u2019era Alamanno, accolse dall\u2019imperadore e da\naltri baroni d\u2019Alamagna molti cavalieri, e apparecchi\u00f2 in arme i\nBrabanzoni a pi\u00e8 e a cavallo per comune; e sentendosi venire addosso il\nconte di Fiandra co\u2019 Fiamminghi, si fece loro incontro con diecimila\ncavalieri, e con centodieci migliaia di Brabanzoni a pi\u00e8 bene armati.\nEd essendo accampati l\u2019uno presso all\u2019altro, e cercando di combattere\ninsieme pi\u00f9 per altiera miccianza che per guerra che tra\u2019 cognati\nfosse, alquanti baroni di catuna parte si mossono per trattare tra\nl\u2019una parte e l\u2019altra accordo, acciocch\u00e8 a s\u00ec grande e pericolosa\nbattaglia non si mettessono, e infine vennero a questa concordia:\nche catuno eleggesse quattro buoni uomini di sua parte, e uomini\nd\u2019autorit\u00e0; e fatta la lezione, fu loro commesso di concordia delle\nparti che dovessono vedere le ragioni che \u2019l conte di Fiandra avea\nsopra la villa di Mellina e quelle del duca di Brabante, e veduta\nla verit\u00e0 del fatto, incontanente obbligati per loro saramento,\nricevuto solennemente in presenza di molti baroni, che levato via\nogni cavillazone o non vere ragioni, e\u2019 giudicherei bono a cui la\nvilla di Mellina dovesse rimanere per loro sentenza. I baroni e\u2019\npopoli promisono stare e osservare quello per loro fosse giudicato,\ne gli arbitri giurarono ancora in fra \u2019l termine loro assegnato avere\nterminata e renduta la loro sentenza. E presa la detta concordia tra\nle parti, catuno dolcemente senz\u2019altro movimento o segno d\u2019alcuna\narroganza, mansuetamente si ritornarono i Fiamminghi in Fiandra, e\u2019\nBrabanzoni in Brabante, catuno alle sue ville, del mese di giugno del\ndetto anno. Lasceremo ora le novit\u00e0 di Fiandra e di Brabante, tanto che\ntorni il tempo ove fu abbattuta la superbia del Tedesco e la baldanza\nde\u2019 Brabanzoni, e torneremo alle italiane novit\u00e0 che prima ci occorrono\na divisare.\nCAP. XLV.\n_Come la citt\u00e0 d\u2019Ascoli s\u2019arrend\u00e8 al legato._\nIl valente cardinale legato del papa, avendo duemila barbute a soldo\ndella Chiesa, oltre ai molti crociati ch\u2019avea in Romagna, avendo inteso\ncome la compagnia ch\u2019usciva del Regno volea passare d\u2019Abruzzi nella\nMarca d\u2019Ancona inverso la citt\u00e0 d\u2019Ascoli, s\u2019ingross\u00f2 di gente d\u2019arme\na pi\u00e8 e a cavallo in quelle contrade. Gli Ascolani temendosi della\ncompagnia, perch\u00e8 non erano ancora in accordo col legato, si disposono\ndi rendersi a fare la volont\u00e0 del legato. Il cardinale fu loro benigno\ne mansueto, facendo assai di quello ch\u2019e\u2019 voleano, e del mese di giugno\ndel detto anno ricevettono la signoria del legato, e la sua cavalleria\nnella citt\u00e0 a ubbidienza di santa Chiesa. E in questi medesimi giorni\nprese il legato accordo col signore di Fabriano, ch\u2019era stato ribello\na santa Chiesa per animo tirannesco e ghibellino; e col vescovo di\nFuligno, che tenea la terra per lo detto modo, ogni cosa dissimulava\ncon molta provvisione, secondo che \u2019l tempo glie la richiedea.\nCAP. XLVI.\n_Come il legato procacci\u00f2 tenere il Tronto alla compagnia._\nAvuto che il legato ebbe la citt\u00e0 d\u2019Ascoli a\u2019 suoi comandamenti,\nsentendo la compagnia del conte di Lando in Abruzzi a\u2019 confini della\nMarca, e che i danari che \u2019l re Luigi dovea dare loro perch\u2019elli\nuscissono del Regno veniano, temendo che valicato che avesse il Tronto\ne\u2019 non si stendesse in troppo danno de\u2019 suoi Marchigiani, con grande\nanimo raun\u00f2 al Tronto gran parte della sua cavalleria e il popolo del\npaese, e fece fare in sulla riva del Tronto fossi di grande lunghezza,\ne fortificare con steccati, e faceva continovo di d\u00ec e di notte\nguardare i passi, acciocch\u00e8 la compagnia non entrasse sopra le sue\nterre, e nondimeno tenea col conte capitano della compagnia trattato\nd\u2019accordarsi con lui a suo vantaggio.\nCAP. XLVII.\n_Come i Pisani ruppono la franchigia a\u2019 Fiorentini._\nAvvegnach\u00e8 gi\u00e0 per noi addietro sia narrato, come la non domata\nastuzia de\u2019 Pisani avea fatto fare a\u2019 Fiorentini rubellare Sovrana e\nCoriglia, e quelle faceano guardare e fare guerra a\u2019 loro soldati, i\nquali diceano essere loro sbanditi, rompendo per indiretto modo la\npace a\u2019 Fiorentini, e il comune di Firenze dissimulando l\u2019ingiuria\nper non turbare il tranquillo della pace, ed eglino multiplicando in\nsuperbia, confidandosi che per cagione del loro porto i Fiorentini\nportassono ogni soma, avendo rivolto lo stato e il reggimento della\ncitt\u00e0 come addietro \u00e8 contato, volendo manifestamente rompere i patti\ndella pace a\u2019 Fiorentini, e mostrare che ci\u00f2 non fosse, ordinarono,\nche per cagione che la mercatanzia venisse e stesse sicura nel porto\ne in quel mare, pagasse due danari per lira di ci\u00f2 che la mercatanzia\nvalesse, alla stima de\u2019 loro uficiali ordinati sopra ci\u00f2. E sapendo che\nper i patti della pace i Fiorentini doveano essere liberi e franchi\ndelle loro mercatanzie, e persone e cose nella loro citt\u00e0, e porto e\ndistretto, non glie ne feciono esenti, ma i primi a cui staggirono e\narrestarono la mercatanzia per la detta gabella furono i Fiorentini.\nIl comune di Firenze sentendo la novit\u00e0 ch\u2019e\u2019 Pisani faceano di torre\ncontro a\u2019 patti della pace la franchigia a\u2019 suoi cittadini, vi mand\u00f2\nsolenni ambasciadori, richieggendo e pregando quello comune che non\ndovesse torre la franchigia debita per gli ordini della pace a\u2019 suoi\ncittadini. La risposta fu, ch\u2019elli erano sotto il governo del loro\nsignore messer l\u2019imperadore, e questo era sua fattura, per volere che\n\u2019l porto e \u2019l mare stesse guardato e sicuro. E non potendosi trarre\naltro da loro, il comune mand\u00f2 all\u2019imperadore in Boemia a sapere,\nse suo ordine era, e se volea ch\u2019e\u2019 Pisani sotto l\u2019imperiale titolo\nrompessono loro la pace, togliendo la franchigia a\u2019 suoi cittadini.\nL\u2019imperadore udita la novella, gli dispiacque: e incontanente riscrisse\nal nostro comune, che ci\u00f2 non era fatto di suo volere n\u00e8 di suo\nsentimento, e che la sua volont\u00e0 era ch\u2019e\u2019 Pisani mantenessero a\u2019\nFiorentini la loro franchigia e buona e leale pace; e cos\u00ec riscrisse al\ncomune di Pisa per sue lettere, ma poco il curarono, e per\u00f2 poco valse.\nE avuta la risposta dall\u2019imperadore, pi\u00f9 pertinacemente tennono fermo\nquello ch\u2019aveano incominciato, e necessit\u00e0 fu a\u2019 mercatanti fiorentini\na cui era staggita la loro mercatanzia di pagare il dazio, e rompere\nla franchigia, se rivollono la loro mercatanzia. Questo fu il primo\ncominciamento del mese di giugno predetto; come le cose montarono poi\na grande sdegno, e poi a incitazione di grave turbazione di guerra,\nappresso ne\u2019 tempi come occorsono si potr\u00e0 trovare, e massimamente nel\ncominciamento dell\u2019undecimo libro della nostra compilazione.\nCAP. XLVIII.\n_Come i Fiorentini deliberarono partirsi da Pisa e ire a Talamone._\nVedendo i Fiorentini la pertinacia de\u2019 Pisani in non volersi rimuovere\ndall\u2019impresa, conoscendo manifestamente che venivano contro a\u2019 patti\ndella pace con due maliziosi rispetti; il primo, che non sapeano\nvedere, e non poteano pensare, che per quella lieve gravezza i\nFiorentini si dovessono sconciare della comodit\u00e0 ch\u2019aveano del loro\nporto per le proprie mercatanzie, e per quelle degli altri mercatanti\nstrani da cui aveano a comperare, trovandole in Pisa a una giornata\npresso alla loro citt\u00e0, e trovando in Pisa da\u2019 Pisani la civanza delle\nscritte e della loro credenza; e perocch\u00e8 partendosi di l\u00e0 la spesa\ne lo sconcio era sformato, non voleano pensare ch\u2019e\u2019 Fiorentini non\ns\u2019acconciassono a consentire questo cominciamento: e quando ci\u00f2 fosse\nrecato in pratica e in usanza, aveano intenzione di venire crescendo\nil dazio a utilit\u00e0 del loro comune, e a servaggio di quello di\nFirenze. L\u2019altro peggiore pensiere si era, se per questo i Fiorentini\nsi movessono a guerra, lo stato di coloro che nuovamente reggeano,\nil quale era debole per i molti buoni cittadini cui eglino aveano\nabbattuti dello stato, si fortificherebbe per la guerra de\u2019 Fiorentini,\ne sarebbono seguitati e pi\u00f9 ubbiditi dal loro popolo. I Fiorentini\nconoscendo la loro malizia, non vollono per\u00f2 rompere la pace, ma\ntennero pi\u00f9 consigli, e trovarono i loro cittadini tutti acconci di\nportare ogni gravezza, e ogni spesa e interesso che incorrere potesse\nall\u2019arti e alla mercatanzia, innanzi che volessono comportare un danaio\ndi dazio o di gabella da\u2019 Pisani contro alla loro franchigia. E per\u00f2\ndi presente ordinarono per riformagione penale, che catuno cittadino,\no contadino, o distrettuale di Firenze, infra certo tempo giusto dato\nloro, catuno si venisse spacciando e ritraendo per modo, ch\u2019al termine\ndato catuno si potesse partire da Pisa senza suo danno: e sopra ci\u00f2\ne sopra trovare modo d\u2019avere porto altrove fu fatto un uficio di\ndieci buoni cittadini, due grandi e otto popolani con grande bal\u00eca, e\nchiamaronsi i dieci del mare; della quale provvisione seguirono gran\ncose, come innanzi al suo tempo diviseremo.\nCAP. XLIX.\n_Come fu disfatta la citt\u00e0 di Venafri in Terra di Lavoro._\nIl re Luigi avendo lungamente avuto addosso la compagnia e certi de\u2019\nsuoi baroni ribelli, non avea potuto resistere a\u2019 ladroni, e per questo\nerano in ogni parte multiplicati i malfattori, e i baroni si teneano\nin loro fortezze, e davano pi\u00f9 rifugio e favore a\u2019 rei che a\u2019 buoni;\ne per tanto il paese era nella forza di chi male volea fare, per tale,\nch\u2019uno conestabile tedesco, ch\u2019avea nome Currado Codispillo, si rubell\u00f2\nal re essendo al suo soldo, e con ottanta barbute e cento masnadieri\nera entrato nella citt\u00e0 di Venafri, e tormentava le strade e\u2019 cammini\ne tutto il paese d\u2019intorno, cavalcando in prede e in ruberie infino\nad Aversa, e ritornavasi in Venafri; e per questo erano assediate le\nstrade e\u2019 cammini, ch\u2019e\u2019 mercatanti non poteano andare n\u00e8 mandare le\nmercatanzie per lo Regno. Sapendo il re che la compagnia era per uscire\ndel Regno, fece di subito sua raunata, e in persona cavalc\u00f2 a Venafri,\ne sopraggiunti li sprovveduti ladroni, combatt\u00e8 la terra ch\u2019avea\npoca difesa, e vinsela, e\u2019 forestieri si fuggirono per la montagna, e\nsalvaronsi. Il re nel caldo del suo furore, non pensando che la citt\u00e0\nera sua e antica nel Regno, la fece ardere e disfare, perch\u00e8 pi\u00f9 non\npotesse essere ridotto di ladroni suoi ribelli, e del detto mese si\nritorn\u00f2 a Napoli, cominciando a essere pi\u00f9 ubbidito e temuto che non\nera prima.\nCAP. L.\n_Come l\u2019oste del re d\u2019Ungheria cominci\u00f2 a venire a Trevigi._\nAvendo contato poco addietro il movimento del re d\u2019Ungheria, seguita,\nche a d\u00ec 28 del mese di giugno del detto anno, messer Currado Lupo,\nil conte d\u2019Aquilizia, Ilbano di Bossina con quattromila cavalieri\ntedeschi, friolani e ungari vennono sopra la citt\u00e0 di Trevigi, la quale\nera a quel tempo sotto la guardia e libera signoria de\u2019 Veneziani; i\nquali avendo poco dinanzi avuta per li loro ambasciadori tornati dal\ndetto re risposta della sua intenzione, aveano presa temenza ch\u2019e\u2019 non\nvenisse sopra loro a Trevigi, e per\u00f2 in fretta intesono a fornire la\ncitt\u00e0 di gente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8 per la difesa, e d\u2019altre cose\nnecessarie, ma tanto giunsono tosto i nemici, che a compimento non lo\npoterono fare; nondimeno per levare il ridotto a\u2019 loro avversari arsono\nle villate d\u2019intorno, e i borghi del castello di Mestri. Giunto messer\nCurrado Lupo incontenente colle sue masnade tedesche corse il paese, e\ncavalc\u00f2 infino a Marghera presso di Vinegia a tre miglia di mare in sul\ncanale ch\u2019andava a Trevigi, nel quale trovarono pi\u00f9 barche cariche di\nvittuaglia e d\u2019arme ch\u2019andavano a Trevigi, le quali prese, e gli uomini\nfece impiccare, e la roba conducere al campo. Costoro cominciarono a\nporre l\u2019assedio alla citt\u00e0, e il re era rimaso addietro a Sigille con\npi\u00f9 di quaranta migliaia d\u2019Ungari a cavallo, per venire appresso al\ndetto assedio.\nCAP. LI.\n_De\u2019 parlamenti che per questo si feciono in Lombardia._\nNell\u2019avvenimento della gente del re d\u2019Ungheria a Trevigi, da capo\npresono sospetto tutti i signori lombardi, e quelli di Milano andarono\nin persona a messer Cane Grande, e con lui s\u2019accozzarono al lago di\nGarda a un suo castello, e ivi fermarono tra loro lega e compagnia.\nE alla citt\u00e0 di Bologna si ragunarono tutti gli altri collegati\ncontro al signore di Milano, e da capo rifermarono loro lega, e di\ncomune concordia catuna gente per s\u00e8 mand\u00f2 da capo ambasciadori al re\nd\u2019Ungheria, a volere sapere se egli intendea con tanto grande esercito\nquant\u2019egli avea seco fare altra novit\u00e0 in Italia che contro alla citt\u00e0\ndi Trevigi; e saputo da lui che non venia per altro che per procacciare\nle sue terre dal comune di Vinegia, rimasono per contenti. E Ilbano\ndi Bossina e messer Currado Lupo andarono al signore di Padova che\nvicinava col Trivigiano, e da parte del loro signore gli offersono\namist\u00e0 e buona pace e sicurt\u00e0 del suo paese, pregandolo ch\u2019allargasse\nla sua mano di dare all\u2019oste del re vittuaglia per li loro danari, la\nqual cosa fu promessa con certo ordine a\u2019 detti baroni. E tutte queste\ncose furono mosse e fatte in pochi d\u00ec, all\u2019entrare del mese di luglio\ndel detto anno.\nCAP. LII.\n_Come il re d\u2019Ungheria ebbe Colligrano._\nColligrano \u00e8 un grande e forte castello in Trevigiana presso a\nTrevigi a sedici miglia, e in sul passo del Frioli. Questo castello\naveano ben fornito i Veneziani di gente d\u2019arme per impedire il passo\nal re. In questi d\u00ec il re venia con grande esercito verso Trevigi,\ne giunto a Colligrano, vedendolo forte e in sul passo, quanto che\npotesse ben passare per forza della sua cavalleria, non lo si volle\nlasciare addietro, e per\u00f2 mise in ordine gli Ungheri, ch\u2019erano pi\u00f9\ndi quarantamila per fare combattere la terra, con intenzione di non\npartirsene ch\u2019e\u2019 l\u2019arebbe. I terrazzani vedendo la moltitudine che\ncopriva la terra intorno intorno parecchie miglia, tutti con gli archi\ne colle saette, temendo il pericolo della battaglia, s\u2019arrenderono\nalla persona del re innanzi che battaglia si cominciasse. Ed egli\nin persona, senza lasciare fare loro alcuno male, v\u2019entr\u00f2 dentro con\nquella gente ch\u2019e\u2019 volle, a d\u00ec 12 di luglio del detto anno, e prese la\nsignoria in nome dell\u2019imperadore, e fornitolo di suoi cavalieri e d\u2019uno\nconfidente capitano, si mise innanzi col suo esercito in verso la citt\u00e0\ndi Trevigi.\nCAP. LIII.\n_Come il re d\u2019Ungheria venne a oste a Trevigi._\nEssendo il detto re in cammino, prese un\u2019altro castello che si chiama\nAsille, e altre tenute d\u2019intorno senza arrestarsi ad esse, ed ebbele\na\u2019 suoi comandamenti. E cavalcando innanzi, a d\u00ec 14 del detto mese\ngiunse nel campo a Trevigi con pi\u00f9 di quarantamila Ungheri e Schiavi\na cavallo, oltre a quelli che prima erano venuti co\u2019 suoi baroni. E\ncon questo grande esercito prese tutto il paese intorno a Trevigi, e\nassedi\u00f2 la citt\u00e0 e pi\u00f9 altre castella in Trevigiana ivi d\u2019intorno; e \u2019l\nsuo proponimento era di non partirsi dall\u2019assedio ch\u2019egli avrebbe la\ncitt\u00e0 al suo comandamento. Ma le cose alcuna volta non succedono alla\nvolont\u00e0 umana, e per\u00f2 con tutta la smisurata potenza non pot\u00e8 adempiere\nsuo proponimento, come leggendo appresso dimostreremo.\nCAP. LIV.\n_Come si reggeano gli Ungheri in oste._\nE\u2019 pare cosa maravigliosa agl\u2019Italiani ne\u2019 nostri d\u00ec, a udire la\nmoltitudine de\u2019 cavalieri che seguitano il re d\u2019Ungheria quando cavalca\nin arme contro i suoi nemici. E per\u00f2, avvegnach\u00e8 gli antichi fossono di\nqueste cose pi\u00f9 sperti, per lo lungo trapassamento di quella memoria\nqui ne rinnoveremo alcuna cosa, per levare l\u2019ammirazione de\u2019 moderni.\nGli Ungheri sono grandissimi popoli, e quasi tutti si reggono sotto\nbaronaggi, e le baronie d\u2019Ungheria non sono per successione n\u00e8 a vita,\nma tutte si danno e tolgono a volont\u00e0 del signore: e hanno per loro\nantica consuetudine ordinate quantit\u00e0 di cavalieri, de\u2019 quali catuno\nbarone, e catuno comune hanno a servire il loro re quando va o manda\nin fatti d\u2019arme, sicch\u00e8 il numero e \u2019l tempo del servigio catuno sa\nche l\u2019ha a fare. E perocch\u00e8 alla richiesta del signore subitamente\nsenza soggiorno o intervallo conviene che sieno mossi, per questo quel\ncomune e quello barone ha diputato quelli che a quel servigio debbino\ncontinovo stare apparecchiati di doppi cavalli, e chi di pi\u00f9, e di loro\nleggieri armi da offendere, cio\u00e8 l\u2019arco colle frecce ne\u2019 loro turcassi,\ne una spada lunga a difensione di loro persone. Portano generalmente\nfarsetti di cordovano, i quali continovano per loro vestimenta, e\ncom\u2019\u00e8 bene unto, v\u2019aggiungono il nuovo, e poi l\u2019altro, e appresso\nl\u2019altro, e per questo modo gli fanno forti e assai difendevoli. La\ntesta di rado armano, per non perdere la destrezza del reggere l\u2019arco,\nov\u2019\u00e8 tutta la loro speranza. Gli Ungheri hanno le gregge de\u2019 cavalli\ngrandissime, e sono non grandi, e co\u2019 loro cavalli arano e governano\nil lavorio della terra, e tutte loro some sono carrette, e tutti gli\nnudriscono a stare stretti insieme, e legati per l\u2019uno de\u2019 piedi,\nsicch\u00e8 in catuna parte con uno cavigliuolo fitto in terra li possono\ntenere, e il loro nudrimento \u00e8 l\u2019erba, fieno e strame con poca biada;\nmassimamente quando usano d\u2019andare verso levante, e valicare i lunghi\ndiserti. E andando verso que\u2019 paesi, usano selle lunghe a modo di\nbarde, congiunte con usolieri; e quando sono in que\u2019 cammini disabitati\ne ne\u2019 loro eserciti, l\u2019uomo e \u2019l cavallo in sul campo a scoperto cielo\nfanno un letto senz\u2019altra tenda, e in tempo sereno aprono le bande\ndelle loro selle a modo di barda, e fannosene materasse, e sopr\u2019esse\ndormono la notte; e se \u2019l tempo \u00e8 di piova, che di rado avviene, o\ndell\u2019una parte o d\u2019amendue si fanno coperta, e\u2019 loro cavalli usi a ci\u00f2\nnon si curano di stare al sereno e alla piova, e non hanno danno in\nque\u2019 paesi che di rado vi piove; altrove non \u00e8 cos\u00ec, ma pure comportano\nmeglio i disagi; e molti ne castrano, che si mantengono meglio, e\nsono pi\u00f9 mansueti. Di loro vivanda con lieve incarico sono ne\u2019 diserti\nben forniti, e la cagione di ci\u00f2 e la loro provvisione \u00e8 questa; che\nin Ungheria cresce grande moltitudine di buoi e di vacche, i quali\nnon lavorano la terra, e avendo larga pastura, crescono e ingrassano\ntosto, i quali elli uccidono per avere il cuoio, e \u2019l grasso che\nfanno ne fanno grande mercatanzia, e la carne fanno cuocere in grandi\ncaldaie; e com\u2019ell\u2019\u00e8 ben cotta e salata la fanno dividere dall\u2019ossa,\ne appresso la fanno seccare ne\u2019 forni o in altro modo, e secca, la\nfanno polverezzare e recare in sottile polvere, e cos\u00ec la serbano; e\nquando vanno pe\u2019 deserti con grande esercito, ove non trovano alcuna\ncosa da vivere, portano paiuoli e altri vasi di rame, e catuno per\ns\u00e8 porta uno sacchetto di questa polvere per provvisione di guerra, e\noltre a ci\u00f2 il signore ne fa portare in sulle carrette gran quantit\u00e0;\ne quando s\u2019abbattono alle fiumane o altre acque, quivi s\u2019arrestano,\ne pieni i loro vaselli d\u2019acqua la fanno bollire, e bollita, vi\nmettono suso di questa polvere secondo la quantit\u00e0 de\u2019 compagni che\ns\u2019accostano insieme; la polvere ricresce e gonfia, e d\u2019una menata o di\ndue si fa pieno il vaso a modo di farinata, e d\u00e0 sustanza grande da\nnutricare, e rende gli uomini forti con poco pane, o per se medesima\nsenza pane. E per\u00f2 non \u00e8 maraviglia perch\u00e8 gran moltitudine stieno\ne passino lungamente per li diserti senza trovare foraggio, che i\ncavalli si nutricano coll\u2019erbe e col fieno, e gli uomini con questa\ncarne martoriata. Ma ne\u2019 nostri paesi, ove trovano il pane e \u2019l vino\ne la carne fresca, infastidiscono il loro cibo, il quale per dolce\nusano ne\u2019 deserti; e per\u00f2 mutano costume, e non saprebbono vivere di\nquell\u2019impastata vivanda, e per\u00f2 non potrebbono in tanto numero ne\u2019\nnostri paesi durare, che le citt\u00e0 e le castella sono forti, e i campi\nstretti e le genti provvedute; e per\u00f2 avviene, che quanti pi\u00f9 in numero\ndi qua ne passano, pi\u00f9 tosto per necessit\u00e0 di vita si confondono. La\nloro guerra non \u00e8 in potere mantenere campo, ma di correre e fuggire e\ncacciare, saettando le loro saette, e di rivolgersi e di ritornare alla\nbattaglia. E molto sono atti e destri a fare preda e lunghe cavalcate,\ne molto magagnano colle saette gli altrui cavalli e le genti a piede, e\nper tanto sono utili ove sia chi possa tenere campo, perocch\u00e8 di fare\nguerra in corso e tribolare i nemici d\u2019assalto sono maestri, e non\nsi curano di morire, e per\u00f2 si mettono a ogni gran pericolo. E quando\nle battaglie si commettono, sempre gli Ungheri si tengono per loro, e\ncombattono, partendosi a dieci o quindici insieme, chi a destra e chi a\nsinistra, e corrono a fedire dalla lunga con le loro saette, e appresso\nin su\u2019 loro correnti cavalli si fuggono, e solieno andare senza insegna\no alcuna bandiera, e senza stromento da battaglia, e a certa percossa\ndi loro turcassi s\u2019accoglievano insieme. Abbianne forse oltre al\ndovere stesa nostra materia, ma perch\u00e8 in questo nostro tempo si sono\ncominciati a stendere nelle italiane guerre, non \u00e8 male a sapere loro\ncondizione.\nCAP. LV.\n_Come l\u2019oste si mantenea a Trevigi._\nStando il re d\u2019Ungheria all\u2019assedio di Trevigi, venne a lui messer Gran\nCane della Scala con cinquecento barbute di fiorita gente d\u2019arme, e\nricevuto dal re graziosamente stette a parlamentare con lui in segreto,\ne tornossi a Verona, lasciati al servigio del re que\u2019 cavalieri che\nmenati avea con seco, avvegnach\u00e8 il re, avendo troppa gente della sua,\nnon gli arebbe voluti, ma per cortesia gli ritenne. Messer Bernab\u00f2 di\nMilano gli mand\u00f2 cinquecento balestrieri, i quali gli furono assai\na grado; e incontanente il re fece strignere l\u2019oste intorno alla\ncitt\u00e0, e rizzarvi da diverse parti da diciotto difici, e cominciava\na volere fare cave per abbattere le mura, ma di quello quelli della\ncitt\u00e0 poco si torneano, perocch\u2019ell\u2019\u00e8 posta in piano, ed \u00e8 quel piano\ns\u00ec abbondante d\u2019acqua viva, che non si pu\u00f2 cavare braccia due in\nprofondo, che da catuna parte l\u2019acqua surge abbondante e bella. Quelli\nche dentro v\u2019erano alla guardia della citt\u00e0 per i Veneziani, vedendo\nl\u2019oste strignersi alle mura della citt\u00e0, francamente si mostrarono\napparecchiati alla difesa, e contro a\u2019 trabocchi aveano fatti terrati\ne altri utili ripari. Il re e \u2019l suo consiglio avendo provveduto la\nterra intorno, conobbono che non era cosa possibile a volerla vincere\nper battaglia, avendo difensori come la sentivano fornita, perocch\u00e8 le\nmura erano forti e alte, e molto bene provvedute e armate, e i fossi\nlarghi e pieni d\u2019acqua viva. E per tanto non era da potere sperare\nvittoria, se non per lungo assedio, e a questo si disponea la volont\u00e0\nreale, ma la moltitudine de\u2019 suoi Ungheri bestiali e baldanzosi\ngenerava confusione, che non si poteano reggere n\u00e8 tenere ordine; e\nper\u00f2 avvenne, non ostante che il re col signore di Padova avesse pace e\nconcordia (per la quale mandava ogni d\u00ec grande quantit\u00e0 di pane cotto\nall\u2019oste in molte carra, e quattro carrette di vino per mantenere in\ndovizia l\u2019oste, senza quella vittuaglia che le singulari persone del\nsuo contado vi portavano) e in patto era che il suo contado e distretto\ndovea essere salvo e sicuro da tutto l\u2019esercito del re, che non ostante\nle dette promesse gli Ungheri cavalcavano di loro movimento in sul\nPadovano, uccidendo ardendo e rubando, e facendo preda come sopra i\nnemici; onde il signore si turb\u00f2, e non mand\u00f2 pi\u00f9 nel campo l\u2019ordinata\nvittuaglia, e\u2019 paesani per non essere rubati si rimasono di portarvene,\nper la qual cosa il grande esercito cominci\u00f2 a sentire difetto, e\nsformata carestia delle cose da vivere oltre all\u2019usato modo. Lasceremo\nalquanto questa materia, per dare all\u2019altre cose che occorsono alla\nfine di questo assedio il loro debito.\nCAP. LVI.\n_Come la gran compagnia pass\u00f2 nella Marca._\nAll\u2019uscita del mese di luglio del detto anno, il conte di Lando colla\nsua compagnia usc\u00ec del Regno per la via della marina di san Fabiano.\nLa forza del legato ch\u2019era in sul Tronto non si pot\u00e8 tanto stendere\nche la compagnia inverso la marina non valicasse il fiume, e valicati\nsenza contasto, si dirizzarono verso Fermo, e tra la citt\u00e0 d\u2019Ascoli e\ndi Fermo posono loro campo; nel quale si trovarono duemilacinquecento\nbarbute ben montati e bene in arme, e gran quantit\u00e0 di cavallari e di\nsaccomanni in ronzini e in somieri, e mille masnadieri, e barattieri,\ne femmine di mondo, e bordaglia da carogna bene pi\u00f9 di seimila.\nEssendosi accampati, sentirono come il legato era forte di gente d\u2019arme\ne apparecchiato a tenerli stretti dalle gualdane, e per\u00f2 cercarono\naccordo con lui, e vennero a\u2019 patti, che promisono in dodici d\u00ec essere\nfuori della Marca d\u2019Ancona, senza fare prede o danno al paese, e che\nprenderebbono derrata per danaio, e\u2019 paesani doveano apparecchiare la\nvittuaglia al loro trapasso. Seguirono i patti, ma non del termine, e\ndovunque tenevano campo non poteano fare senza grave danno de\u2019 paesani;\ne a d\u00ec 10 del mese d\u2019agosto furono passati in Romagna.\nCAP. LVII.\n_De\u2019 fatti dell\u2019isola di Cicilia._\nIn questi tempi nell\u2019isola di Cicilia avvenne, che essendo morto\nLodovico che si faceva dire re, e un suo fratello, ch\u2019erano in guardia\ndella setta de\u2019 Catalani, l\u2019altra parte della setta degl\u2019Italiani,\nond\u2019erano capo i conti della casa di Chiaramonte, i quali s\u2019erano\naccostati col re Luigi di Puglia, presono pi\u00f9 ardire, e\u2019 Catalani e\u2019\nloro seguaci n\u2019abbassarono; e per questo avvenne, che messer Niccola\ndi Cesaro con alquanti grandi cittadini di Messina i quali erano\nstati cacciati di Messina vi ritornarono; e questo messer Niccola\nessendo cacciato della terra, s\u2019era ridotto di volont\u00e0 del re Luigi\nnel castello di Melazzo, e fatto capitano de\u2019 cavalieri del detto re\nLuigi per guardare il castello e guerreggiare i Messinesi. Costui\nritornato in Messina co\u2019 suoi consorti e con altri di suo seguito,\nmolto segretamente si cominci\u00f2 a intendere co\u2019 caporali di Chiaramonte,\ne all\u2019entrata di luglio del detto anno, provveduto a\u2019 suoi segreti,\nfece muovere certi di sua setta, i quali cominciarono mischia con\nquelli cittadini ch\u2019erano avversari di messer Niccola, e che l\u2019aveano\ntenuto fuori di Messina. Essendo per questa novit\u00e0 la terra a romore,\ncome ordinato era, messer Niccola ebbe di subito da Melazzo dugento\ncavalieri che v\u2019erano del re Luigi e quattrocento fanti, i quali mise\nnella citt\u00e0, e con loro e con suo seguito di cittadini corse la terra,\ne caccionne fuori diciannove famiglie de\u2019 suoi avversari, e tutti\ngli fece rubare, e fecesene signore, non per titolo, ma come maggiore\ngovernava il reggimento di quella. E cos\u00ec in tutte le parti dell\u2019isola\nerano dissensioni e brighe per le maladette sette, ma l\u2019una calava e\nl\u2019altra montava con continove uccisioni e guastamento del paese; e gi\u00e0\nper terre che \u2019l re Luigi v\u2019avesse o per sua forza di gente, che ve ne\nmanteneva poca per povert\u00e0 di moneta, lievemente montava al fatto. La\ndivisione de\u2019 paesani mutava la loro fortuna, come seguendo nel loro\ntempo si potr\u00e0 vedere.\nCAP. LVIII.\n_Come il conte di Lancastro cavalc\u00f2 fino a Parigi._\nDel mese di luglio del detto anno, il conte di Lancastro con\ndue fratelli del redi Navarra, con quattromila cavalieri e molti\narcieri inghilesi, per fare maggiore onta al re di Francia, sentendo\ns\u2019apparecchiava di molta baronia, si misono a cammino, scorrendo i\npaesi inverso la citt\u00e0 di Parigi, facendo col fuoco gran danno alle\nvillate di fuori e predando in ogni parte, e misonsi tanto innanzi,\nche a una giornata s\u2019appressarono a Parigi. Sentendo che \u2019l re\ns\u2019apparecchiava di venire contro a loro con diecimila cavalieri e\ngrande popolo, diedono la volta girando il paese, e facendo continovi\ndanni e gravi si ridussono in Normandia a un castello che si chiamava\nBertoglio, innanzi al quale fermarono loro campo per difenderlo,\navvisando che \u2019l re di Francia il dovesse fare assediare, perocch\u00e8\ntribolava col ricetto degl\u2019Inghilesi tutta Normandia.\nCAP. LIX.\n_Come il re di Francia and\u00f2 in Normandia._\nIl re di Francia infocato di sdegno pi\u00f9 contro a messer Filippo di\nNavarra che gli era venuto addosso, che contro al duca di Lancastro,\nsentendo che s\u2019era ridotto nel Castello di Bertoglio sotto la guardia\ndegl\u2019Inghilesi, di presente in persona si mosse da Parigi con quella\ncavalleria ch\u2019avea accolta, lasciando d\u2019essere seguito dagli altri,\ne dirizzossi in Normandia verso Bertoglio; e trovandosi con pi\u00f9 di\ndiecimila cavalieri, e con grande moltitudine di sergenti, si mise\na campo presso a\u2019 suoi nemici, a intenzione di combattere con loro.\nIl conte di Lancastro avvisato guerriere, sentendosi il re appresso\ncon molto maggior forza che la sua, ebbe un suo avvisato scudiere e\nben parlante, il quale mand\u00f2 al re di Francia, e fecelo richiedere di\nbattaglia. Il re allegramente ricevette il gaggio della battaglia,\nfacendo allo scudiere larghi doni; il quale volendo dimostrare\nch\u2019avesse amore al re, in sul partire gli disse, che la venuta del\nconte alla battaglia sarebbe innanzi d\u00ec, dicendogli, che per tempo si\ndovesse apparecchiare. Il re mucciando gli disse, che di ci\u00f2 non si\ncurava; venisse quando volesse, pure che venisse alla battaglia; ma le\nparole dello scudiere furono molto piene di malizia, perocch\u00e8 sapendo\nche \u2019l conte la notte si dovea partire, disse questo acciocch\u2019e\u2019\nFranceschi sentendo il movimento credessono che ci\u00f2 fosse apparecchio\ndi battaglia e non di fuga, e cos\u00ec avvenne, che \u2019l conte di Lancastro,\ne messer Filippo di Navarra in quella notte, facendo fare gran vista\nnel campo e gran romore, chetamente si ricolsono, e partirono colla\nloro gente. Il re la mattina scoperto il baratto degl\u2019Inghilesi si\nmise a oste al castello con proponimento di lasciare gli altri assalti\ndegl\u2019Inghilesi, e attendere a racquistare le terre che rubellate gli\nerano in Normandia. In questo tempo il duca di Guales faceva alle terre\ndel re di Francia grandi guerre in Guascogna, ma per\u00f2 il re non si\nvolle partire dall\u2019assedio di Bertuglio infino a tanto che l\u2019ebbe a\u2019\nsuoi comandamenti, arrenduti al re salve le persone, e cos\u00ec fu fatto;\navendo il re vittoria d\u2019avere cacciati con vergogna i nemici, e vinto\nil castello.\nCAP. LX.\n_Come il papa e l\u2019imperadore diedono titolo al re d\u2019Ungheria._\nIn questi tempi mostravano il papa e\u2019 cardinali grande affezione al\nre d\u2019Ungheria, o che fosse procaccio del detto re, che spesso avea in\ncorte suoi ambasciadori, o che motivo fosse della Chiesa per fargli\nonore, a d\u00ec quattro del mese d\u2019agosto del detto anno, il papa e i\ncardinali di concordia in consistoro il pronunziarono e dichiararono\ngonfaloniere di santa Chiesa contro agl\u2019infedeli. In questo medesimo\ntempo, essendo il detto re all\u2019assedio di Trevigi, l\u2019imperadore il fece\nsuo vicario nella guerra de\u2019 Veneziani, ed egli lev\u00f2 nel campo la sua\ninsegna, e tutte le terre che per lui s\u2019acquistavano riceveva in nome\ndell\u2019imperadore.\nCAP. LXI.\n_Come i Fiorentini s\u2019accordarono di fare porto a Talamone._\nAvemo narrato addietro, come il comune di Firenze per lo torto\nch\u2019e\u2019 Pisani faceano a\u2019 suoi cittadini, d\u2019avere levata loro la\nfranchigia contro a\u2019 patti della pace, essendo venuto il termine che\ni mercatanti s\u2019erano partiti da Pisa, e ritrattone le mercatanzie e\u2019\ndanari, del presente mese d\u2019agosto del detto anno, avendo i dieci del\nmare lungamente trattato col comune di Siena di volere far porto a\nTalamone, recato l\u2019acconciamento del porto e del ridotto in terra,\ne della guardia, che da loro parte era a fare, e del dirizzamento\ndel cammino, e dell\u2019albergherie, e appresso di quello che per dazio\ne gabelle la mercatanzia de\u2019 Fiorentini avesse a pagare, in piena\nconcordia, per riformagioni de\u2019 consigli di catuno comune, si ferm\u00f2\nper dieci anni di fare i Fiorentini porto l\u00e0 e ridotto a Siena, e i\nSanesi di conservare i patti promessi. \u00c8 vero, che tra gli altri patti\nera promesso di sbandire le strade da Siena a Pisa per divieto d\u2019ogni\nmercatanzia, ma questo non osservarono i Sanesi, anzi correa il cammino\ndall\u2019una citt\u00e0 all\u2019altra in grande acconcio de\u2019 Pisani. Avvedendosene\ni Fiorentini, se ne dolsono, ma \u2019l reggimento del comune di Siena non\nse ne movea. Vedendo de\u2019 cittadini che voleano s\u2019attenesse la fede al\ncomune di Firenze, e che i loro rettori non lo faceano, ordinarono,\nche certi sbanditi loro cittadini rompessono e rubassono la strada e\nla mercatanzia, e forse fu d\u2019assentimento de\u2019 rettori per coprirsi\nal comune di Pisa. Costoro feciono volentieri il servigio per modo\nche \u2019l cammino al tutto per terra fu loro tolto. E i Pisani sopra gli\naltri Toscani saputi e maliziosi, a questa volta si trovarono presi\nnella loro malizia; perocch\u00e8 incontanente che i Fiorentini presono\nporto a Talamone e ridotto a Siena, tutti gli altri mercatanti d\u2019ogni\nparte abbandonarono il porto e la citt\u00e0 di Pisa, e votarono la citt\u00e0\nd\u2019ogni mercatanzia, e le case dell\u2019abitazioni, e \u2019l mestiere delle\nloro mercerie, e gli alberghi de\u2019 mercatanti e de\u2019 viandanti, e\u2019\ncammini de\u2019 vetturali, e \u2019l porto delle navi, per modo che in brieve\ntempo s\u2019avvidono, che la loro citt\u00e0 era divenuta una terra solitaria\ncastellana; e nella citt\u00e0 n\u2019era contro a\u2019 loro rettori grande repetio.\nAllora s\u2019accorsono senza suscitamento di guerra quanto guadagno tornava\nal loro comune per avere rotta la pace e la franchigia a\u2019 Fiorentini.\nAllora cominciarono a cercare ogni via e modo, con ogni vantangio che\nvolessono i Fiorentini, di ritornarli a stare in Pisa; ma i Fiorentini,\nsdegnati della fede rotta pe\u2019 Pisani cotante volte al loro comune, non\npoterono essere smossi del fermo proposito di fare col fatto conoscenti\ni Pisani, che i Fiorentini poteano ben fare le mercatanzie per terra\ne per mare senza loro, ed eglino male usare il porto, e\u2019 mercatanti,\ne la mercatanzia, e l\u2019arti, e\u2019 mestieri a utilit\u00e0 de\u2019 loro cittadini,\ne l\u2019entrate del loro comune senza i Fiorentini. E perch\u00e8 per indietro\nnon si potessono atare, si fece divieto in tutto il distretto di\nFirenze d\u2019ogni mercatanzia o roba ch\u2019andasse o venisse verso Pisa,\nsenza rompere il cammino a\u2019 viandanti. E di questo seguitarono appresso\nmaggiori cose per mare e per terra, come leggendo innanzi per li tempi\nsi potr\u00e0 trovare,\nCAP. LXII.\n_Come messer Bruzzi cerc\u00f2 di tradire il signore di Bologna._\nMesser Bruzzi, figliuolo non legittimo che fu di messer Luchino signore\ndi Milano, essendo per sospetto de\u2019 signori di Milano cacciato di\nquella, e per sue cattive operazioni stato in ribellione pi\u00f9 tempo,\nvedendosi messer Giovanni da Oleggio molto solo di confidenti nella sua\nsignoria, e conoscendo messer Bruzzi pro\u2019 e ardito, e bene avvisato in\nguerra e di gran consiglio, il rec\u00f2 a s\u00e8, parendogli potersi confidare\ndi lui, e assegnogli larga provvisione, e facevagli onore, e tutte le\nmaggiori cose di fatti d\u2019arme li commettea; e oltre a ci\u00f2 in camera\nl\u2019avea a\u2019 suoi segreti consigli, e mostravagli tanto amore, ch\u2019e\u2019\nBolognesi temevano, che se messer Giovanni morisse costui non rimanesse\nsignore; ma l\u2019animo tirannesco affrettando l\u2019ambizione della signoria\nli gravava d\u2019attendere, e per\u00f2 cercava di fornirlo pi\u00f9 tosto, e tratt\u00f2\ndi torre la signoria a messer Giovanni, ma non seppe fare il trattato\ns\u00ec coperto che a messer Giovanni, ch\u2019era maestro di buona guardia e di\nsavia investigagione, non li venisse palese. E tornando messer Bruzzi\ndi fuori con molta gente d\u2019arme in Bologna con grande pompa, messer\nGiovanni mand\u00f2 per lui, e avendolo in camera, li ramment\u00f2 l\u2019onore\ne \u2019l beneficio che gli avea cominciato a fare, e l\u2019animo ch\u2019avea di\nfarlo grande; e appresso li mostr\u00f2 il trattato ch\u2019e\u2019 tenea per torli\nla signoria di Bologna s\u00ec aperto, ch\u2019e\u2019 non glie lo pot\u00e8 negare: ma\nper amore della casa de\u2019 Visconti, dond\u2019era nato, gli disse, che li\nperdonava la morte; ma per vendetta dello sconoscimento dell\u2019onore che\ngli avea fatto trovandolo traditore il fece spogliare in giubbetto, e\ncacciare a pi\u00e8 fuori di suo distretto incontanente, e diede congio a\ntutta sua famiglia, e ritenne l\u2019arme gli arnesi e i cavalli.\nCAP. LXIII.\n_Come i Veneziani cercarono accordo col re d\u2019Ungheria._\nDi questo mese d\u2019agosto del detto anno, vedendo i Veneziani essere\nrecati a mal partito nella guerra col re d\u2019Ungheria, signore di cos\u00ec\ngran potenza, e pensando che per lo cominciamento della guerra i loro\ncittadini erano per le spese loro premuti dal comune infino al sangue,\npensarono ch\u2019altro scampo non era per loro se non di procacciare la sua\npace; e per\u00f2 elessono parecchi de\u2019 maggiori e de\u2019 pi\u00f9 savi cittadini\ndi Vinegia, e mandaronli al re nel campo a Trevigi con pieno mandato,\ninformati dell\u2019intenzione e volont\u00e0 del loro comune, e giunti al re, da\nlui furono ricevuti onorevolemente; ed essendo a parlamento con lui,\ngli offersono da parte del comune di Vinegia, come quando potessono\navere da lui buona pace, che \u2019l comune lascerebbe la citt\u00e0 di Giara,\ncon patto ch\u2019ella dovesse rimanere nel primo stato in sua libert\u00e0,\ne che renderebbono liberamente certe terre nomate della Schiavonia\na sua volont\u00e0, e certe altre voleano ritenere e riconoscere da lui,\ncon quello convenevole censo a dare ogn\u2019anno al re ch\u2019a lui piacesse,\ne offerendoli di ristituire per tempo ordinato quella quantit\u00e0 di\npecunia per suoi interessi e spese che fosse convenevole, e di che egli\ngiustamente si potesse contentare. Al re parve strano ch\u2019e\u2019 volessono\ntrarre Giara del suo reame e metterla in libert\u00e0, e che per patto li\nconvenisse lasciare le sue terre al comune di Vinegia a censo; e questo\nriputava in vergogna della sua corona, e per\u00f2 non volle consentire\na questa pace, n\u00e8 a questo accordo, se liberamente non gli fossono\nrestituite le terre del suo reame. Molti di questo biasimarono il re,\nparendo ch\u2019egli dovesse avere preso questo accordo con suo vantaggio,\nper quello ch\u2019appresso ne seguit\u00f2 di suo poco onore, ma chi riguarder\u00e0\nal fine e alla potenza reale non li dar\u00e0 biasimo della sua alta\nrisposta.\nCAP. LXIV.\n_Come il signore di Bologna scoperse un altro trattato contro a s\u00e8._\nMesser Bernab\u00f2 di Milano, avendo sopra all\u2019altre cose cuore a\u2019 fatti\ndi Bologna, come avea ordinato l\u2019uno trattato contro al signore di\nBologna, e era scoperto, cos\u00ec avea ricominciato l\u2019altro: apparve cosa\nmaravigliosa, che tutti si scoprivano per s\u00e8 stessi per non pensati n\u00e8\nprovveduti modi. Avea in questi d\u00ec messer Giovanni da Oleggio fatto\npodest\u00e0 di san Giovanni in Percesena, e datali provvisione in altre\nterre circustanti, un Milanese, in cui avea grande e antica confidanza.\nTanto seppe adoperare messer Bernab\u00f2, che corruppe questo podest\u00e0\nmilanese, e corruppe il suo cancelliere, il quale dovea fare lettere\nda parte del signore per certo modo come volea il detto podest\u00e0; e gi\u00e0\nogni cosa era recata in opera per modo, ch\u2019era mossa la cavalleria che\ndovea entrare nelle castella sotto il titolo delle lettere del signore\ndi Bologna, e mand\u00f2 messer Bernab\u00f2 un suo fidato messaggere innanzi\nal podest\u00e0 di san Giovanni colle sue lettere. Avvenne che in quel d\u00ec,\nalcune ore innanzi che \u2019l fante giugnesse al castello di san Giovanni,\nil podest\u00e0 era ito a Bologna; il fante li tenne dietro, e cominci\u00f2\ninfra s\u00e8 a dubitare delle lettere che portava, perocch\u00e8 sentiva della\ncagione perch\u2019egli andava; e giunto a Bologna, trovo che \u2019l podest\u00e0\nera col signore, e allora li mont\u00f2 pi\u00f9 il sospetto, immaginando\nche \u2019l trattato fosse scoperto, e per campare s\u00e8, tanto fu forte la\nsua immaginazione ch\u2019e\u2019 si mise ad andare al signore, e con grande\nimprontitudine fece d\u2019avere udienza da lui, e allora li manifest\u00f2 il\nfatto; e per provare la verit\u00e0 li di\u00e8 le lettere di messer Bernab\u00f2\nch\u2019e\u2019 portava al podest\u00e0, per le quali fu manifesto che san Giovanni,\ne Nonantola e altre castella, in uno d\u00ec doveano essere date per lo\ntrattato del podest\u00e0 alla gente di messer Bernab\u00f2, il quale era ancora\nin casa del signore; messer Giovanni vedute quelle lettere e disaminato\nil fante, fece ritenere il podest\u00e0 e il cancelliere, \u00e8 ritrovata\ncon loro la verit\u00e0 del fatto, e colpevoli, di presente provvide alla\nguardia delle terre, e costoro con anche dieci di loro seguito fece\nmorire.\nCAP. LXV.\n_Di certa novit\u00e0 che gli Ungheri feciono nel campo a Trevigi._\nLa disordinata moltitudine de\u2019 cavalieri ungheri, che a modo di\ngente barbara non sanno osservare la disciplina militare, n\u00e8 essere\nubbidienti a\u2019 loro conducitori, come detto \u00e8 poco addietro, aveano\nscorso il Padovano, perch\u00e8 la vittuaglia che di l\u00e0 solea venire non\nvenia, e la carestia montava nel campo. Per la qual cosa al primo\nfallo n\u2019arrosono uno maggiore, e presono riotta co\u2019 cavalieri tedeschi\nche v\u2019erano con messer Currado Lupo e con gli altri conestabili\ntedeschi che fedelmente servivano il loro signore, e per arroganza\nli villaneggiavano; e fatto questo, corsono con furore alla camera\ndove il re avea ordinato il fornimento della vittuaglia e dell\u2019altre\ncose per conservare l\u2019oste, e rubaronla; e cos\u00ec in pochi d\u00ec ebbono a\ntanto condotta l\u2019oste, sconciando l\u2019ordine che la mantenea, che per\nnecessit\u00e0 fu costretto il re di partirsi dall\u2019assedio, come appresso\ndiviseremo: verificandosi quel detto del filosofo il quale disse: che\nle sopragrandi cose reggere non si possono, e quelle che reggere non si\npossono, lungamente durare non possono.\nCAP. LXVI.\n_Come il re d\u2019Ungheria si lev\u00f2 da oste da Trevigi._\nIl re d\u2019Ungheria vedendo l\u2019oste sua sconcia per la sfrenata baldanza\ndella moltitudine de\u2019 suoi Ungheri, e che i difetti della vittuaglia\nerano senza rimedio, si pent\u00e8 di non avere presa la concordia\nche potuta avea prendere con suo onore co\u2019 Veneziani; ed essendo\nnaturalmente di subito movimento, senza deliberare con altro consiglio,\nimprovviso a tutti, a d\u00ec 23 del mese d\u2019agosto del detto anno si\npart\u00ec dall\u2019assedio di Trevigi, ov\u2019era con pi\u00f9 di trecento migliaia di\ncavalieri, \u00e8 pass\u00f2 la Piave raccolta tutta sua gente a salvamento;\nperocch\u00e8 quelli della citt\u00e0 n\u00e8 segno n\u00e8 avviso n\u2019ebbono ch\u2019e\u2019 si\ndovesse partire, e alcuni d\u00ec stettono innanzi che pienamente si potesse\ncredere la loro partita. A Colligrano fu la loro raccolta, e in quella\nterra lasci\u00f2 duemila cavalieri ungari alla guardia della terra per\nfare guerra a Trevigi, ed egli con tutto l\u2019altro esercito si torn\u00f2 in\nUngheria con poco onore della sua impresa a questa volta.\nCAP. LXVII.\n_Raccoglimento di condizioni, e movimento del re._\nQuesto re d\u2019Ungheria, per quella verit\u00e0 che sapere ne potemmo, \u00e8 uomo\ndi gran cuore, pro\u2019 e ardito di sua persona, e nelle prosperit\u00e0 di\ngrandi imprese molto animoso, rigido e fiero in quelle, e molto si fa\ntemere a\u2019 suoi baroni, e vuole avere presti i loro debiti servigi; \u00e8\ngrande impigliatore senza debita provvedenza; e a sua gente in fatti\nd\u2019arme \u00e8 pi\u00f9 abbandonato e baldanzoso che provveduto, per la soperchia\nfidanza, che havea in loro ed eglino in lui, perocch\u00e8 molto \u00e8 cortese\na tutti e di buona aria; assai volte ha mostrati esempi di subiti e\nlievi movimenti nelle grandi cose, e l\u2019avverse sa meglio abbandonare,\npartendosi da esse, che stando con virt\u00f9 resistere a quelle.\nCAP. LXVIII.\n_Come la gente della lega di Lombardia sconfisse il Biscione a Castel\nLione._\nEssendo lungamente stato assediato il forte Castel Leone de\u2019 Mantovani\ndalla forza de\u2019 signori di Milano, e recato a stretto partito, i\nsignori di Mantova coll\u2019aiuto del marchese di Ferrara e del signore\ndi Bologna raunate subitamente, all\u2019uscita d\u2019agosto anno detto, mille\ndugento barbute e grande popolo per soccorrere il castello, s\u2019avviarono\nmolto prestamente verso il campo de\u2019 nemici, i quali vedendosi venire\nimprovviso addosso i Mantovani si levarono dall\u2019assedio, e ordinarono\nuna grossa schiera alla loro riscossa e innanzi che la gente de\u2019\nMantovani giugnesse al campo, si ridussono a uno castello ivi presso\nde\u2019 loro signori di Milano; ma la schiera fatta per la riscossa fu\nsoppressa dalla gente de\u2019 Mantovani e sconfitta, e morti e presi la\nmaggior parte, e \u2019l castello liberato dall\u2019assedio; e rifornito di\nnuova gente e di molta vittuaglia con vittoria si tornarono al loro\nsignore, avendo vituperata la gente de\u2019 signori di Milano di quella\nloro lunga impresa.\nCAP. LXIX.\n_Trattati de\u2019 Ciciliani._\nDetto abbiamo addietro, come certi potenti cittadini della citt\u00e0 di\nMessina nominati que\u2019 di Cesare cacciarono della citt\u00e0 altri cittadini\nloro avversari, e rimasi i maggiori, s\u2019accostarono co\u2019 baroni di\nChiaramonte, i quali teneano col re Luigi del Regno. Nondimeno perch\u00e8\na loro parea essere nell\u2019isola i maggiori, eziandio senza l\u2019aiuto del\ndetto re, e\u2019 cercarono di riducere a loro Federigo loro legittimo\nsignore, e trarlo delle mani de\u2019 Catalani, e conducerlo a Messina\ne farlo coronare dell\u2019isola. E per dimostrare che eglino avessono\naffezione al loro signore naturale dell\u2019isola, messer Niccola di Cesaro\nin persona, a cui il re Luigi avea accomandata la terra di Melazzo,\nand\u00f2 l\u00e0 con gente d\u2019arme, e fece per pi\u00f9 di combattere coloro che\nper lo re guardavano la rocca, tanto che l\u2019ebbe. Per la qual cosa i\nMessinesi presono molta confidanza di messer Niccola, e don Federigo\nmedesimo prese speranza e diede intenzione di venire a Messina, e per\ntutto si divolg\u00f2 che l\u2019accordo di Cicilia era fatto. Ma o che questo\ntrattato fosse fatto ad ingegno di malizia, come si credette, o che\nla setta de\u2019 Catalani non si fidasse, la cosa si ruppe tra\u2019 Ciciliani,\ne seguitonne la chiamata a Messina del re Luigi, come appresso al suo\ntempo, conseguendo nostra materia, diviseremo.\nCAP. LXX.\n_Come la compagnia stette sopra Ravenna._\nVenuta la compagnia del conte di Lando del Regno in Romagna, il\nlegato per tema de\u2019 baratti di quella gente senza fede si ritrasse\ndall\u2019assedio di Cesena, e dalla cominciata guerra contro al capitano\ndi Forl\u00ec, pensando saviamente i pericoli che occorrere li poteano.\nIl capitano a quella compagnia dava il mercato, e a\u2019 capitani e\na\u2019 maggiori conestabili facea doni per avere il loro aiuto: e la\nmoltitudine di quello esercito si stava in sul contado di Ravenna\nfacendo danno di prede, e minacciando di dargli il guasto, se \u2019l loro\nsignore messer Bernardino da Polenta non desse loro danari. Ma egli,\nessendo molto ricco di moneta, chiam\u00f2 a consiglio i Cittadini di\nRavenna; e con loro ordin\u00f2 il modo dell\u2019ammenda del guasto, e volle in\nquesto caso, come valoroso tiranno, innanzi sodisfare il danno a\u2019 suoi\ncittadini, che sottomettersi al tributo della compagnia. Onde molto\nfu commendato da\u2019 savi; perocch\u00e8 del guasto la compagnia fa danno a s\u00e8\nsenza trarne alcun frutto, e il trarre danari da\u2019 signori e da\u2019 comuni\n\u00e8 un accrescere baldanza e favore a mantenere le compagnie e servaggio\nde\u2019 popoli.\nCAP. LXXI.\n_Come i Fiorentini ordinarono di fare balestrieri._\nSentendo i Fiorentini la gran compagnia in Romagna, e che \u2019l termine\npromesso per quella di non gravare i Fiorentini compieva, si provvidono\nd\u2019alquanti cavalieri, e mandaronli in Mugello per contradire i passi\ndell\u2019alpe, e feciono eletta nella citt\u00e0 e nel contado di balestrieri, e\ndel mese di luglio del detto anno feciono mostra di duemilacinquecento\nbalestrieri sperti del balestro, tutti armati a corazzine, e mandaronne\na\u2019 passi dell\u2019alpe, e senza arresto, ne compresono appresso fino\nin quattromila, tutti con buone corazzine, della qual cosa le terre\nvicine ghibelline, e guelfe di Toscana, che allora viveano in sospetto,\nstavano in gelosia e in guardia, e la compagnia medesima ne cominci\u00f2 a\ndottare. Nondimeno il comune, per savia e segreta provvidenza, mand\u00f2\nalcuni cittadini per ambasciadori alla compagnia, i quali teneano\nragionamento di trattato, e passavano tempo, e tentavano con ispesa\ndi trarre de\u2019 caporali della compagnia e conducergli a soldo; e per\nquesto modo temporeggiando co\u2019 conducitori di quella, tanto che il\ngrano e i biadi del nostro contado fu fuori de\u2019 campi, e \u2019l comune\nfortificato di cavalieri, e masnadieri, e balestrieri, e presi i passi\nin tutta l\u2019alpe, ove potea essere il passo alla compagnia, si ruppono\ndal trattato, e tornaronsi a Firenze. La compagnia, sentendo il comune\ndi Firenze provveduto contro a s\u00e8, con accrescimento di sdegno perd\u00e8\nla speranza d\u2019entrare a fare la ricolta tributaria in Toscana, e per\u00f2\ntenne co\u2019 Lombardi suo trattato, il quale forn\u00ec, come innanzi al suo\ntempo racconteremo.\nCAP. LXXII.\n_L\u2019ordine ch\u2019e\u2019 Fiorentini presono per mantenere i balestrieri._\nPiacendo a\u2019 Fiorentini molto il nuovo trovato de\u2019 balestrieri, il\nfermarono con ordine, e nella citt\u00e0 n\u2019elessono ottocento, tutti\nbalestrieri provati, partendoli per gonfalone, e a venticinque davano\nun conestabile, e le balestra e le corazze di catuno inarcavano del\nmarco del comune, e per simile modo n\u2019elessono nel contado, dandone\nsecondo l\u2019estimo cotanti per cento, e appresso nel distretto ne\nfeciono scegliere a catuna comunanza, terra o castello quelli che si\nconveniano, tanti che in tutto n\u2019ebbono quattromila; e ordinarono\nper li loro soldi certa entrata del comune, e che catuno de\u2019 detti\nbalestrieri, non andando al servigio del comune, standosi a casa\nsua avesse ogni mese soldi venti di provvisione dal comune, e \u2019l\nconestabile soldi quaranta, e dovessono stare apparecchiati a ogni\nrichiesta del comune; e quando il comune li mandasse o tenesse in suo\nservigio, dovessono avere il mese fiorini tre di soldo, e ogni capo di\ntre o di quattro mesi erano tenuti a volont\u00e0 degli uficiali deputati\nsopra loro, ch\u2019erano due cittadini per catuno quartiere, colle loro\nbalestra e colle corazze marcate del marco del comune. E oltre a ci\u00f2,\na ogni rassegnamento gli uficiali facevano fare per ogni gonfalone\nun bello e nobile balestro e tre ricche ghiere, il quale poneano in\npremio e in onore di quel balestriere della compagnia del gonfalone,\nche tre continovi tratti saettando a berzaglio vinceva gli altri; e\nancora cos\u00ec faceano ne\u2019 comuni del contado per esercitare gli uomini,\nper vaghezza dell\u2019onore, a divenire buoni balestrieri; e fu cagione di\ngrande esercitamento del balestro, tanto che tra s\u00e8 nella citt\u00e0 e nel\ncontado ogni d\u00ec di festa si ragunavano insieme i balestrieri a farne\nloro giuoco e sollazzo per singulare diporto.\nCAP. LXXIII.\n_Come i Trevigiani furono soppresi dagli Ungheri con loro grave danno._\nTornando un poco nostra materia, a\u2019 fatti di Trevigi, avendo veduto\ncoloro ch\u2019erano per i Veneziani alla guardia di Trevigi la subita\npartita del re d\u2019Ungheria e del suo grande esercito, cominciarono a far\ntornare i lavoratori nel contado, e conducervi il bestiame, e sparti\nper le contrade. Gli Ungheri ch\u2019erano rimasi a Colligrano e per le\nterre vicine, sentendo il paese pieno di preda, mandarono scorrendo di\nloro Ungheri fino presso a Trevigi intorno di quattrocento cavalli, i\nquali raunarono d\u2019uomini e di bestiame una grande preda; i cavalieri\ne\u2019 balestrieri ch\u2019erano in Trevigi con loro capitani veneziani, per\nrisquotere la preda gagliardamente uscirono fuori pi\u00f9 di cinquecento\ncavalieri e assai masnadieri, i quali di presente s\u2019aggiunsono con\ngli Ungheri; ed eglino si cominciarono a difendere andando verso i\nnemici, e voltando e appresso ritornando; e continovo si ritraevano,\nove sapevano ch\u2019era l\u2019aguato della loro gente, non facendone alcuno\nsembiante; e cos\u00ec continuando, e perseguitandoli i Trevigiani, gli\nebbono condotti dov\u2019erano riposti in aguato ottocento de\u2019 loro Ungheri,\ni quali di subito uscirono addosso a\u2019 Trevigiani, e rinchiusi tra loro,\npi\u00f9 di dugento n\u2019uccisono in sul campo, e presonne pi\u00f9 di trecento, e\nmenaronsene i prigioni e la preda, avendo pi\u00f9 danno fatto a\u2019 Veneziani\ne a quelli del paese in questa giornata, che il re nell\u2019assedio con\ntutto il suo esercito; e questo fu a d\u00ec 23 del mese d\u2019agosto anno\ndetto.\nCAP. LXXIV.\n_Come il Regno era d\u2019ogni parte in guerra._\nEssendo, come detto abbiamo poco innanzi, uscita la compagnia del\nreame, il re rimaso povero d\u2019avere e di gente d\u2019arme non potea riparare\nalla forza de\u2019 ladroni che per tutto scorrevano il reame, ricettati da\u2019\nbaroni ch\u2019erano scorsi a mal fare, e partivano le ruberie e le prede\ncon loro; e di verso le parti di Campagna centocinquanta cavalieri,\nch\u2019erano rimasi della compagnia, tribolavano tutto il paese d\u2019intorno,\ne rubavano e rompevano le strade e\u2019 cammini, e cos\u00ec gli altri caporali\nde\u2019 ladroni facevano in principato e in Terra di Lavoro; e in Puglia il\npaladino col favore del duca di Durazzo, faceva il simigliante, e con\nottocento barbute avea assediato Sanseverino, scorrendo e rubando tutto\nil piano di Puglia; e per questo il Regno era in maggiore tempesta che\nquando v\u2019era la gran compagnia, e niuno cammino v\u2019era rimaso sicuro;\ncatuna parte del Regno era corrotta a mal fare, fuori che le buone\nterre, per gran colpa della mala provvedenza del re loro signore, che\nfuori de\u2019 suoi diletti poco d\u2019altro si mostrava di curare.\nCAP. LXXV.\n_Come i collegati condussono la compagnia al loro soldo._\nLa compagnia del conte di Lando stando lungamente sopra il contado di\nRavenna, e premendo per via d\u2019aiuto gravemente i Forlivesi, conosciuto\nche per lo riparo e provvedenza del comune di Firenze a loro era\nmalagevole e pericoloso entrare in Toscana, s\u2019accordarono d\u2019andare\na servire i collegati contro a\u2019 signori di Milano in Lombardia; e\ncondotti per quattro mesi per quelli della lega, promisono di stare\nil detto tempo sopra le terre de\u2019 signori di Milano guerreggiando il\npaese a loro utilit\u00e0; e a d\u00ec 18 del mese di settembre anni Domini 1356\nsi partirono di Romagna, e presono loro cammino in Lombardia, e tra\nBologna e Modena attesono l\u2019altra forza de\u2019 collegati e \u2019l capitano\nch\u2019appresso diviseremo.\nCAP. LXXVI.\n_De\u2019 fatti de\u2019 collegati di Lombardia._\nErano in questo tempo collegati contro a\u2019 signori di Milano il signore\ndi Mantova, il marchese di Ferrara e \u2019l signore di Bologna, nominati\ncaporali, avvegnach\u00e8 assai degli altri tacitamente teneano con loro; e\navendo procacciato d\u2019avere la compagnia al loro servigio, come detto \u00e8,\ntrattarono coll\u2019imperadore d\u2019avere capitano da lui a quell\u2019impresa, e\nl\u2019imperadore avendo l\u2019animo contro a\u2019 signori di Milano, i quali avea\ntrovati molto potenti, avendo in Pisa per suo vicario messer Astorgio\nMarcovaldo vescovo d\u2019Augusta, uomo valoroso in arme e di grande\nautorit\u00e0, per non volersi scoprire manifestamente contro a\u2019 tiranni,\nconcedette la libert\u00e0 al vescovo, e in segreto l\u2019ordin\u00f2 suo vicario,\ne a ci\u00f2 li concedette tacitamente suoi privilegi, commettendoli che\nci\u00f2 non manifestasse se non quando sopra loro si vedesse in gran\nprosperit\u00e0, sicch\u00e8 con onore dell\u2019imperio il potesse fare, altrimenti\nnol facesse, ma mostrasse da s\u00e8 fare quell\u2019impresa. Costui chiamato\ndalla lega de\u2019 Lombardi si part\u00ec da Pisa e venne a Firenze, ove li\nfu fatto grande onore; e senza soggiorno se n\u2019and\u00f2 alla compagnia, e\nfu fatto loro conduttore, e dell\u2019altra gente de\u2019 Lombardi collegati;\nil quale valentemente s\u2019ordin\u00f2 contro a\u2019 tiranni, e fece grandi cose,\ncome appresso narreremo; ma richiedendoci innanzi alcune cose grandi\nconviene che prima abbiano il debito della nostra penna.\nCAP. LXXVII.\n_Come i Brabanzoni ruppono i patti a\u2019 Fiamminghi._\nAvendo poco innanzi narrato la concordia che si prese in luogo\ndell\u2019apparecchiata battaglia tra\u2019 Fiamminghi, e\u2019 Brabanzoni per lo\nfatto di Mellina, seguita, che gli otto albitri eletti, quattro da\ncatuna parte, sotto la fede del loro saramento, aveano diligentemente\nvedute, e disaminate le ragioni di catuna parte; e trovando di\nconcordia tutti gli albitri la ragione della villa di Mellina essere\ndel conte di Fiandra, e cos\u00ec essere acconci di sentenziare per\nosservare il loro saramento; il duca di Brabante, rompendo la fede\npromessa, mand\u00f2 per fare pigliare i quattro suoi Brabanzoni ch\u2019erano\nalbitri, acciocch\u00e8 non potessono dare la sentenza, e due ne presono, e\ndue se ne fuggirono. Per questa cosa il conte di Fiandra, e\u2019 Fiamminghi\nsi tennono traditi da\u2019 Brabanzoni e dal loro duca, e di presente\nmossono guerra nel paese. Ed essendo alquanti cavalieri fiamminghi\nentrati in Brabante guerreggiando, i Brabanzoni si misono con maggiore\nforza contro a loro, e rupponli, e uccisono ottanta cavalieri, e pi\u00f9\naltri ne imprigionarono. E aggiunto alla prima ingiuria il secondo\ndanno e vergogna de\u2019 Fiamminghi, s\u2019infiammarono tutti di tanto sdegno,\nche per comune tutti diedono luogo a\u2019 loro mestieri, e intesono ad\napparecchiarsi in arme per andare contro a\u2019 Brabanzoni, onde uscirono\nnotabili cose come appresso racconteremo.\nCAP. LXXVIII.\n_Come il conte di Fiandra and\u00f2 sopra Brabante._\n\u00c8 da sapere, per meglio intendere quello che seguita, che non per nuovo\naccidente, ma per antica virt\u00f9, e continovata ambizione, il popolo\nFiammingo era pi\u00f9 pro\u2019 e pi\u00f9 sperto e audace in fatti d\u2019arme che il\npopolo brabanzone, e i cavalieri brabanzoni pi\u00f9 sperti e pi\u00f9 atti in\nfatti d\u2019arme ch\u2019e\u2019 cavalieri fiamminghi. Ma recando a s\u00e8 il popolo\nfiammingo l\u2019ingiuria ricevuta da\u2019 Brabanzoni, nell\u2019impeto del furore\ndel suo animo, come un uomo, s\u2019accolsono insieme pi\u00f9 di centocinquanta\nmigliaia d\u2019uomini, tutti armati a modo di cavalieri, e con loro il\nconte loro signore con quattromila cavalieri, e raccolto grandissimo\ncarreaggio carico di vivanda, e d\u2019armadura a d\u00ec 9 d\u2019agosto anno detto\npresono loro cammino per entrare in Brabante, e a d\u00ec 12 del detto mese\nsi trovarono sopra la gran citt\u00e0 di Borsella, presso a mezza lega, e\nivi fermarono loro campo, scorrendo il paese d\u2019intorno, e facendo assai\ndanno a\u2019 paesani.\nCAP. LXXIX.\n_Come il duca di Brabante si f\u00e8 incontro a\u2019 Fiamminghi._\nIl duca di Brabante, il quale era Tedesco, fratello uterino di Carlo\ndi Boemia imperadore, avendo in animo di non volere, Mellina al conte\nrendere attendendo la guerra, avea richiesto d\u2019aiuto l\u2019imperadore,\ne molti altri principi della Magna, e a questo punto si trov\u00f2 da\ndiecimila o pi\u00f9 buoni cavalieri tedeschi e brabanzoni, e tutto il\npopolo di Brabante si mise in arme, e trovossi il duca a questo bisogno\ncento migliaia di Brabanzoni a pi\u00e8 bene armati. E vedendosi i nemici\nall\u2019uscio, a d\u00ec 17 del detto mese d\u2019agosto uscirono a campo fuori della\nvilla di Borsella, e misonsi a campo a rimpetto de\u2019 Fiamminghi presso\na un mezzo miglio: e cominciarono a ordinare la loro gente, e disporla\nper battaglie a pi\u00e8, e a cavallo; perocch\u00e8 ben conosceano che l\u2019impresa\nera tale, che non riceveva altro termine che la vittoria della\nbattaglia a cui Iddio la concedesse. In questo ordinare stettono dalla\nmattina a nona; mezzani non si poteano in questo fatto tramettere per\nla fede altra volta rotta pe\u2019 Brabanzoni, catuna parte s\u2019acconciava di\ncombattere, e tanto era presso l\u2019un\u2019oste all\u2019altra, che battaglia non\nvi potea mancare.\nCAP. LXXX.\n_Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni._\nI Fiamminghi, ch\u2019erano infocati per l\u2019ingiurie ricevute, vedendosi i\nnemici cos\u00ec di presso, e sentendo tra loro gran romore, avvisandosi\nche per discordia si dovessono partire, senza attendere che venissono\nschierati al campo, valicata l\u2019ora della nona, si misono ad assalirgli.\nE cominciato un grido tutti insieme a loro costuma, che trapassava\nil cielo vincendo ogni tonitruo, e giugnendo a\u2019 nemici, i quali\naveano incominciata alcuna discordia tra\u2019 Tedeschi e\u2019 Brabanzoni, gli\nassalirono con grande ardimento; e cominciata tra loro la battaglia,\navvenne per caso, e non per operazione de\u2019 nemici, che l\u2019insegna del\nduca di Brabante si vide abbattuta. Veduto questo i Brabanzoni a piede\nin prima si misono alla fuga, e i cavalieri appresso volsono le reni\na\u2019 nemici senza fare alcuna resistenza, e intesonsi a salvare nella\ncitt\u00e0 ch\u2019era loro presso; i Fiamminghi affannati per la corsa al\nprimo assalto, e carichi d\u2019arme, non li poterono seguire, e per questa\ncagione pochi ne morirono in sul campo, ma pi\u00f9 n\u2019annegarono, gittandosi\na passare il fiume coll\u2019armi indosso; ma tra tutti i morti in sul\ncampo e annegati nel fiume appena aggiunsono al numero di cinquecento,\nche fu di cos\u00ec grande esercito gran maraviglia, e de\u2019 Fiamminghi non\nmor\u00ec alcuno di ferro, cosa quasi, incredibile a raccontare, ma cos\u00ec fu\nper la grazia di Dio, che non assent\u00ec tra loro maggiore effusione di\nsangue.\nCAP. LXXXI.\n_Come il conte di Fiandra ebbe Borsella._\nIl duca di Brabante fuggendo co\u2019 suoi cavalieri tedeschi entr\u00f2 in\nBorsella, e tanta paura gli entr\u00f2 nell\u2019animo per la fede rotta a\u2019\nFiamminghi, che non ebbe cuore di ritenersi in Borsella, ma di presente\nsenza ordinarla a difesa o a guardia se ne part\u00ec, e andossene in\nLoano. Il conte, avendo vittoriosamente rotti e cacciati del campo i\nsuoi nemici, vedendo i suoi Fiamminghi per la vittoria baldanzosi e di\ngrande volont\u00e0 a seguire innanzi, di presente in quel giorno se n\u2019and\u00f2\na Borsella. I gentili uomini e i grandi borgesi di quella villa aveano\nper addietro ordinato, che tutti gli artefici de\u2019 mestieri stessono\nfuori della citt\u00e0 in grandi borghi che v\u2019erano, per novit\u00e0 che v\u2019erano\ndi loro riotte alcuna volta avvenute in pericolo della villa, e in\nquesta rotta non gli aveano lasciati rifuggire dentro. I borghi erano\ngrandi a maraviglia cresciuti per li mestieri, ed erano pieni e forniti\nd\u2019ogni bene. Il conte avendo in fuga i suoi nemici senza contasto\ns\u2019entr\u00f2 ne\u2019 borghi facendo alcuna uccisione, e comincionne ad affocare\nuno, e disse, che tutti gli arderebbe se la terra non facesse i suoi\ncomandamenti. Gli artefici ch\u2019abitavano ne\u2019 borghi, e aveano di fuori\ne nella villa di loro gente, e avendo gi\u00e0 in loro bal\u00eca l\u2019una delle\nporte, dissono a\u2019 borgesi, che non intendeano essere diserti colle loro\nfamiglie per loro, e che se di presente non facessono i comandamenti\ndel conte, che per forza il metterebbono nella villa. Per la qual\ncosa vedendosi i borgesi dentro a mal partito, elessono di concordia\ndi volere innanzi essere all\u2019ubbidienza del conte, che di lasciarsi\nprendere per forza da\u2019 Fiamminghi e da\u2019 loro propri cittadini, e\nguastare la citt\u00e0 di sangue e di ruberia; e di presente elessono\nambasciadori, e mandaronli ne\u2019 borghi al conte, che voleano ubbidire\na\u2019 suoi comandamenti, promettendo salvarli d\u2019uccisione e di ruberie,\ne cos\u00ec fu fatto; e di presente furono aperte le porte, ed entrovvi il\nconte e chi volle de\u2019 Fiamminghi, ricevuti con grande onore da tutta\nla villa, e apparecchiato loro come ad amici ci\u00f2 che era di bisogno,\nil conte ne prese la signoria dolcemente, e ordinovvi il reggimento e\nla guardia come a lui parve; e rinfrescata la sua gente, il terzo d\u00ec\ncoll\u2019empito della sua prospera fortuna si mosse da Borsella co\u2019 suoi\nFiamminghi, e and\u00f2 a Villaforte, la quale come che molto fosse forte e\ndifendevole a battaglia, sentendo che Borsella s\u2019era renduta, e che il\nloro signore si fuggiva e non facea riparo, per non tentare maggiore\nfortuna s\u2019arrend\u00e8 a\u2019 comandamenti del conte, il quale la ricevette\nbenignamente. E la villa di Mellina, per cui era stato la cagione della\nguerra, senza attendere che l\u2019oste v\u2019andasse s\u2019arrenderono al conte,\ne ricevettonlo per loro signore, e ordinaronsi per tutto a fare i suoi\ncomandamenti.\nCAP. LXXXII.\n_Come il conte di Fiandra ebbe tutto Brabante a suo comandamento._\nIl duca di Brabante, vilmente abbattuto per la sua corrotta fede,\ne poco amato perch\u00e8 era Tedesco, avendo sentito come Borsella e\nVillaforte aveano fatto i comandamenti del conte, non si fid\u00f2 in\nLoana n\u00e8 in alcuna terra di Brabante, ma colla moglie, e colla sua\nfamiglia, e co\u2019 suoi arnesi s\u2019usc\u00ec di tutta la provincia di Brabante\ne ridussesi in Alamagna, abbandonando cos\u00ec ricco e nobile paese per\nsua codardia. Il conte sentendo partito il duca, crebbe in ardire\nco\u2019 suoi Fiamminghi, e dirizzossi verso Anversa: quelli d\u2019Anversa\nfeciono vista di volersi difendere: il conte non volle quivi fare sua\npruova, e lasciata Anversa, se n\u2019and\u00f2 a Loano, affrettandosi prima che\npotessono mettere consiglio alla loro difesa. Quelli di Loano vedendosi\nabbandonati dal duca loro signore, e male provveduti alla subita\nguerra, e che l\u2019altre buone ville di Brabante s\u2019erano arrendute al\nconte, e che da lui erano bene trattati, per non ricevere il guasto n\u00e8\nmaggiore danno s\u2019arrenderono al conte, e con pace il misono nella citt\u00e0\ncon gran festa ed onore; ed entrato in Loano, incontanente Anversa,\ne tutte le buone ville e castella della provincia di Brabante, si\nmisono all\u2019ubbidienza del conte e feciono i suoi comandamenti; e cos\u00ec\nin pochi giorni del rimanente del mese d\u2019agosto del detto anno, dopo\nla sconfitta de\u2019 Brabanzoni, fu il conte di Fiandra messer Lodovico\nsignore a cheto di tutta la ducea di Brabante; e dato ordine a loro\nreggimento, e fatti uficiali in tutte le terre, e messovi quella\nguardia ch\u2019a lui parve a conservagione del paese, e fornito Mellina con\npi\u00f9 sua fermezza e guardia, perch\u00e8 era propria villa di suo dominio,\ncon allegra e piena vittoria, di letizia e non di sangue, co\u2019 suoi\nFiamminghi si torn\u00f2 in Fiandra, accresciuto altamente il suo onore e la\nfama de\u2019 suoi Fiamminghi.\nCAP. LXXXIII.\n_Perch\u00e8 si mosse guerra dagli Spagnuoli a\u2019 Catalani._\nEra in questi d\u00ec il re Petro di Castella giovane, e pi\u00f9 pieno di\ndissolute volont\u00e0 che d\u2019oneste virt\u00f9, e molto era stemperato nella\nconcupiscenza delle femmine; e dilettandosi con una sopra l\u2019altre, non\nbastandogli le grandi camere e\u2019 nobili verzieri a suo diletto, si mise\na diporto con lei in mare in su un legno armato non di gran difesa;\ne andandosi sollazzando in alto mare, una galea armata di Catalani\npassava per quella marina, e vedendo il legno armato, si dirizz\u00f2 a lui,\ne domandava di cui fosse il legno e la mercatanzia che su v\u2019era carica:\nil re per isdegno non volea che risposta si facesse; per la qual cosa\ni Catalani pi\u00f9 si sforzavano di volerlo sapere, e non potendone avere\nrisposta, s\u2019appressarono al legno, e cominciarono a saettare; e vedendo\nda presso che gli uomini erano Spagnuoli, senza mettersi pi\u00f9 innanzi si\npartirono, e seguirono loro viaggio. Il re rimase di questo con grande\nsdegno; e poco appresso avvenne, che in Sibilia arrivarono galee armate\ndi Catalani, i quali aveano guerra co\u2019 Genovesi, e trovando nel porto\nalquanti mercatanti di Genova, li presono, e raddomandandoli il re di\nSpagna, non li vollono rendere. E questa cagione pi\u00f9 giusta infiamm\u00f2\npi\u00f9 l\u2019animo del re per modo, che immantinente per mare e per terra\ncominci\u00f2 a\u2019 Catalani nuova guerra; e incontanente fece armare dodici\ngalee, e mand\u00f2 scorrendo le marine fino nel porto di Maiolica, ardendo\ne mettendo in fuoco quanti legni di Catalani poterono trovare per tutta\nla riviera di Catalogna. E in questi d\u00ec, le quindici galee bandeggiate\ndi Genova per la presura di Tripoli, avendo per uscire di bando a\nguerreggiare tre mesi i Catalani, feciono in Catalogna e nell\u2019isola\ndi Maiolica danno assai. E \u2019l re di Castella per terra con gran forza\ndi suoi cavalieri venuto alle frontiere di Catalogna improvviso a\u2019\nCatalani, fece loro d\u2019arsioni e di prede danno grande. Per la qual\ncosa d\u2019ogni parte s\u2019apparecchi\u00f2 grande sforzo di gente d\u2019arme, e catuno\nrichiese gli amici per conducersi a battaglia, come seguendo appresso\nnel suo tempo racconteremo.\nCAP. LXXXIV.\n_Di gran tremuoti furono in Ispagna._\nIn questo anno 1356 all\u2019uscita del mese di settembre, e alquanti d\u00ec\nall\u2019entrata d\u2019ottobre, furono in Ispagna grandissimi terremuoti, i\nquali lasciarono in Cordova e in Sibilia grandi e gravi ruine di molti\ndificii in quelle due grandi citt\u00e0, e nelle loro circustanze, nelle\nquali perirono uomini, e femmine, e fanciulli in grandissimo numero,\nfacendo sepoltura delle loro case. E questi medesimi tremuoti feciono\nnella Magna grandi fracassi, che quasi tutta Basola, e un\u2019altra citt\u00e0\nfeciono rovinare con grande mortalit\u00e0 de\u2019 loro abitanti. In Toscana in\nquesti medesimi d\u00ec si sentirono, ma piccoli e senza alcuno danno.\nLIBRO SETTIMO\nCAPITOLO PRIMO.\n_Il Prologo._\nChi potrebbe con intera mente nel futuro ricordare i falli, e gli\norribili peccati che si commettono per la sfrenata licenza de\u2019 principi\ne de\u2019 signori mondani (lasciando le minori e le mezzane cose che\nper loro spesso senza giustizia si fanno) se la brevit\u00e0 del tempo\ndell\u2019umana vita non togliesse l\u2019esperienza, che per giustizia si\ndimostra nel mondo? Si maravigliano eziandio i savi quando avvenire\nveggono traboccamenti di potentissimi re e d\u2019altri grandi signori,\nde\u2019 quali avendo memoria de\u2019 commessi mali non ammendati per tempo\nconceduto dalla divina grazia, ma piuttosto aggravati da que\u2019 medesimi\nsignori e da\u2019 loro successori per disordinata presunzione, non\nrecherebbono a maraviglia quello ch\u2019avviene, ma a misericordievole\ngastigamento dalla divina mansuetudine e giustizia, che per non perdere\nl\u2019anime eternalmente, temporalmente percuote e flagella, acciocch\u00e8\nper le loro rovine, e pe\u2019 loro trabocchevoli casi si riconoscano,\ne correggano e ammendino. E apparecchiandosi al nostro trattato\nil cominciamento del settimo libro, alcuna particella di quello\ntorneremo addietro, per dimostrare esempio delle cose qui narrate,\nper la successione che seguita a raccontare del grave caso occorso al\nre Filippo di Francia e al suo reame, e appresso al re Giovanni suo\nfigliuolo.\nCAP. II.\n_Come il re di Francia prese la croce per fare il passaggio._\nNon \u00e8 nascoso in antica memoria a\u2019 viventi del nostro tempo, che per\nl\u2019operazioni inique e crudeli, nate da invidia e da somma avarizia de\u2019\nreali di Francia dello stocco anticato nella successione reale, onde\nfu il re Filippo dinominato il Bello, coll\u2019aggiunta della sfrenata\nlibidine delle loro donne, che a Dio piacque di porre termine a\nquello lignaggio. Rimasene sola la reina d\u2019Inghilterra madre del\nvaloroso re Adoardo di quell\u2019isola, per la cui successione il detto\nre d\u2019Inghilterra fece la guerra co\u2019 Franceschi, come per lo nostro\nanticessore nella sua cronica, e appresso per noi in questa \u00e8 in gran\nparte raccontato. Essendo venuti meno tutti i reali, messer Filippo,\nfigliuolo che fu di messer Carlo di Valois detto Carlo Senza terra,\nprese la signoria, e fecesi coronare re di Francia. E trovandosi re\ndi cos\u00ec grande ricco e potentissimo reame, e senza alcuna guerra, e\ntrovandosi in grande amore del sommo pontefice e de\u2019 cardinali di santa\nChiesa, il detto re Filippo, simulando singulare affezione di volere\nimprendere e fare il santo passaggio d\u2019oltremare per acquistare la\nterra santa, di suo movimento prese con molti baroni di suo reame la\ncroce in pubblico parlamento, e sommosse a pigliarla altri re, prenzi,\nduchi e baroni, conti e gran signori, e per esempio di loro molti\naltri fedeli cristiani presono la croce con animo di seguire il detto\nre; e per tutta la cristianit\u00e0, ed eziandio tra\u2019 saracini, si divolg\u00f2\nla novella di questo passaggio; e dando vista il detto re di grande\napparecchiamento, avvenne, che negli anni 1334 il detto re di Francia\nmand\u00f2 a corte di Roma a Avignone per suoi ambasciadori l\u2019arcivescovo di\nRuen con altri grandi baroni a papa Giovanni di Caorsa vigesimosecondo\ne a\u2019 suoi cardinali, il quale arcivescovo fu poi papa Clemente sesto,\ne in pubblico concestoro avendo fatto l\u2019arcivescovo predetto un bello\ne alto sermone sopra la materia del santo passaggio, e confortato\nil sommo pontefice, e\u2019 prelati di santa Chiesa, e tutto il popolo\ncristiano che si manifestassono a dare consiglio e aiuto al serenissimo\nre di Francia, il quale si movea per zelo della fede di Cristo a cos\u00ec\nalta impresa, per seguire e fare e per accrescere la sicurt\u00e0 a\u2019 fedeli\ncristiani, giur\u00f2 nell\u2019udienza di tutti nella maest\u00e0 divina, al santo\npadre, e alla Chiesa di Roma, e a tutta la cristianit\u00e0, nell\u2019anima\ndel detto re di Francia, che l\u2019agosto prossimamente seguente, gli anni\n1335, e\u2019 sarebbe uscito fuori del suo reame in via colla sua potenza,\ne con gli altri principi del suo reame crociati per andare oltremare al\nsanto passaggio; e per questo impetr\u00f2 da santa Chiesa le decime del suo\nreame per molti anni, e altre promissioni del tesoro di santa Chiesa, e\nquante altre cose domand\u00f2 per parte del detto re al papa di tutte ebbe\nda lui piena grazia; e io scrittore, fui presente nel detto consistoro,\ne udii fare il saramento, come detto a verno.\nCAP. III.\n_Le parole disse frate Andrea d\u2019Antiochia al re di Francia._\nEssendo divolgata la novella di questo passaggio in Egitto e in Soria,\ni cristiani del paese che sono sottoposti al giogo de\u2019 saracini,\ned eziandio i viandanti mercatanti ch\u2019allora erano in quelli paesi,\nricevettono gravi oppressioni e diversi tormenti, e molti ne furono\nmorti da\u2019 signori saracini, e tolto il loro avere sotto false cagioni\nd\u2019essere trattatori del passaggio; per la qual cosa un valente\nreligioso italiano, il quale era chiamato frate Andrea d\u2019Antiochia,\nin fervore del suo animo dolendosi dell\u2019ingiuria che riceveano\ngl\u2019innocenti cristiani, si mosse di Soria e venne a corte di Roma a\nAvignone; e l\u00e0 giunse, quando il re Filippo di Francia era tornato\ndi pellegrinaggio da Marsilia a Avignone, passato di lungo il termine\ndella sua promessa, e non essendo di ci\u00f2 n\u00e8 dal papa n\u00e8 da\u2019 cardinali\nripreso; e gi\u00e0 avea presa la licenza dal santo padre, e avea valicato\nil Rodano, e desinato nel nobile ostiere di sant\u2019Andrea, il quale\navea fatto edificare messer Napoleone degli Orsini di Roma a fine di\nricevervi il re di Francia e gli altri reali, il re era gi\u00e0 montato\na cavallo per prendere suo cammino verso Parigi, il valoroso frate\nAndrea, avendo accattato dagli scudieri de\u2019 cardinali che l\u2019atassono\nconducere al freno del cavallo del re, com\u2019egli usc\u00ec dell\u2019ostiere cos\u00ec\nli fu condotto al freno. Il religioso avea la barba lunga e canuta, e\nparea di santo aspetto, e per la reverenza di lui il re si sostenne,\ne frate Andrea disse: Se\u2019 tu quello Filippo re di Francia, c\u2019hai\npromesso a Dio e a santa Chiesa d\u2019andare colla tua potenza a trarre\ndelle mani de\u2019 perfidi saracini la terra, dove Cristo nostro salvatore\nvolle spandere il suo immaculato sangue per la nostra redenzione? Il\nre rispuose di s\u00ec; allora il venerabile religioso gli disse: Se tu\nquesto hai mosso, e intendi di seguitare con pura intenzione e fede,\nio prego quel Cristo benedetto che per noi volle in quella terra\nsanta ricevere passione, che dirizzi i tuoi andamenti al fine di piena\nvittoria, e intera prosperit\u00e0 di te e del tuo esercito, e che ti presti\nin tutte le cose il suo aiuto e la sua benedizione, e t\u2019accresca ne\u2019\nbeni spirituali e temporali colla sua grazia, sicch\u00e8 tu sii colui,\nche colla tua vittoria levi l\u2019obbrobrio del popolo cristiano, e\nabbatti l\u2019errore dell\u2019iniquo e perfido Maometto, e purghi e mondi il\nvenerabile luogo di tutte l\u2019abominazioni degl\u2019infedeli, in tua per\nCristo sempiterna gloria. Ma se tu questo hai cominciato e pubblicato,\nla qual cosa resulta in grave tormento e morte de\u2019 cristiani che in\nquel paese conversano, e non hai l\u2019animo perfetto con Dio a questa\nimpresa seguitare, e la santa Chiesa cattolica da te \u00e8 ingannata, sopra\nte e sopra la tua casa, e i tuoi discendenti e \u2019l tuo reame venga l\u2019ira\ndella divina indegnazione, e dimostri contro a te e\u2019 tuoi successori,\ne in evidenza de\u2019 cristiani, il flagello della divina giustizia, e\ncontro a te gridi a Dio il sangue degl\u2019innocenti cristiani, gi\u00e0 sparto\nperla boce di questo passaggio. Il re turbato nell\u2019animo di questa\nmaladizione disse al religioso: Venite appresso di noi; e frate Andrea\nrispose: Se voi andaste verso la terra di promissione in levante, io\nv\u2019anderei davanti; ma perch\u00e8 vostro viaggio \u00e8 in ponente, vi lascer\u00f2\nandare, e io torner\u00f2 a fare penitenza de\u2019 miei peccati in quella terra,\nche voi avete promesso a Dio di trarre delle mani de\u2019 cani saracini.\nCAP. IV.\n_Molte laide cose fece il re di Francia._\nDa questo tempo innanzi cominciarono le commozioni del re d\u2019Inghilterra\ngi\u00e0 narrate per lo nostro antecessore; e prima il detto re di Francia\nvedendo sommuovere gl\u2019Inghilesi contro a s\u00e8, con grande armata si mise\nin arme contro a loro, e di trentadue migliaia d\u2019uomini che reggeano\nil suo navilio, perduto il navilio, ventotto migliaia d\u2019uomini di\nsua gente furono morti dagl\u2019Inghilesi. E poi appresso venuto il\nre d\u2019Inghilterra in Francia con piccolo numero di gente, rispetto\ndella moltitudine de\u2019 cavalieri e di sergenti ch\u2019avea seco il re di\nFrancia a seguitarlo, fu sconfitto, come narrato abbiamo addietro; e\ncampata la sua persona con pochi per grazia della notte, e tornato a\nParigi, avendosi veduto nel giudicio di Dio, non ricorse alla virt\u00f9\ndell\u2019umilt\u00e0, ma aggiugnendo male a male, per avere moneta assai, in\ncui era la sua fidanza, licenzi\u00f2 e sicur\u00f2 tutti gli usurai del suo\nreame, dando loro licenza di prestare pubblicamente, pagando alla\ncorte cinque per cento di quello che catuno era tassato dagli uficiali\ndel re ogni anno. E aggiugnendo alla sua avarizia, fece battere nuova\nmoneta d\u2019oro e d\u2019argento per tutto suo reame di molto meno valuta che\nquella che prima correa, e subitamente la fece correre per buona, e\nla buona fece disfare, in gran danno e confusione de\u2019 suoi baroni, e\ndi tutti i paesani e de\u2019 mercatanti ch\u2019aveano a ricevere mercatanzie\nnel suo reame; e dopo questo, con ordine dato a\u2019 suoi ministri, per\ntutto il reame in una notte fece prendere in persona e arrestare\nl\u2019avere a tutti gli usurieri del reame; e aggiugnendo male a male,\nfece gridare per tutto, che chi avesse accattato sopra pegno l\u2019andasse\na riscuotere per lo capitale, stando del capitale al suo saramento,\ne cos\u00ec dell\u2019accattato a carta; per la qual cosa coloro ch\u2019aveano\naccattato, per la larga licenza, vinti da avarizia, si spergiurarono,\ne pochi furono secondo la fama che stessono in fede; e tutto ci\u00f2 che\npagavano di capitale s\u2019appropri\u00f2 alla corte, che fu grandissimo tesoro,\nin disertagione di molte famiglie, ch\u2019ogni cosa s\u2019appropri\u00f2 alla corte,\ndicendo, ch\u2019aveano forfatto di aver messi pi\u00f9 danari a usura che\nnon doveano. Appresso, dopo la sua affrettata morte per disordinata\nlussuria, essendo di tempo, e dilettandosi nella sua giovane e bella\ndonna, seguitarono pi\u00f9 gravi persecuzioni di guerra nel suo reame, in\nfine il re Giovanni suo figliuolo e uno de\u2019 suoi figliuoli furono presi\nnella grande battaglia ch\u2019appresso racconteremo; conchiudendo, che\ncome a inganno fu presa la croce, e promesso il santo passaggio per lo\nre di Francia, cos\u00ec nel suo reame fu passato per divino giudicio da\u2019\nsuoi nemici, e com\u2019egli volle arricchire il suo reame indebitamente\nde\u2019 beni di santa Chiesa, e degli altri stranieri mercatanti e usurieri\ndel suo reame, cos\u00ec per giusta retribuzione impover\u00ec il re, e il reame\nconsumato da\u2019 soldi e dalle prede; e volendosi per ambizione esaltare\nsopra gli altri signori della cristianit\u00e0, veduti furono entrare in\nservaggio di prigione, vinti maravigliosamente da pi\u00f9 impotenti di\nloro, secondo la forza e \u2019l numero della gente.\nCAP. V.\n_Come il re di Francia usc\u00ec di Parigi con suo sforzo, e and\u00f2 in\nNormandia._\nSeguita, tornando a nostra materia, che \u2019l re di Francia vedendo\nassalire il suo reame ora dal conte di Lancastro con quelli di Navarra,\nora dal duca di Guales coll\u2019aiuto de\u2019 Guasconi, e che per soperchia\nbaldanza aveano preso sopra lui e sopra la gente francesca; vedendo\nal presente il conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ridotti\nin Normandia a Bertoglio, come poco innanzi abbiamo narrato, si\npropose in animo di perseguitarli, e di tutto il reame raun\u00f2 a Parigi\ni suoi baroni e tutto il fiore della sua cavalleria, ed eziandio i\nricchi borgesi di Parigi e dell\u2019altre buone ville, i quali tutti si\nsforzarono di comparire bene in arme per accompagnare la persona del\nre; il quale era gi\u00e0 ito in Normandia, e fatto fuggire di notte il\nconte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ch\u2019erano in Normandia a\nBertoglio, e il re, come detto \u00e8 poco addietro, avea vinto il castello,\ne cacciati i nemici del paese. E stando in Normandia, i baroni, e\u2019\ncavalieri e\u2019 borgesi del reame che smossi erano traevano d\u2019ogni parte a\nlui, e all\u2019entrata del mese di settembre si trov\u00f2 pi\u00f9 di quindicimila\narmadure di ferro ben montati e bene acconci a\u2019 servigi del re, e\ncon esso gran novero di sergenti in arme. E vedendosi aver vinto il\ncastello, e avviliti i nemici, e cresciuta la sua forza, prese speranza\ndi cacciare gl\u2019Inghilesi al tutto del suo reame innanzi che ritornasse\na Parigi. E con tutta questa cavalleria stava alle frontiere de\u2019 suoi\nnemici per non lasciarli scorrere per tutte le sue terre al modo usato,\ne per prendere sopra loro suo vantaggio, stando apparecchiato alla\nfronte de\u2019 suoi avversari.\nCAP. VI.\n_Quello faceva il prenze di Guales._\nIl valente duca di Cornovaglia prenze di Guales, primogenito del re\nd\u2019Inghilterra, il quale avea in sua parte per guereggiare tremila buoni\ncavalieri bene montati, tra Inghilesi e Guasconi, e da duemila arceri\ninghilesi a cavallo, e altri masnadieri a pi\u00e8 da quattromila tra con\narchi e altre armadure, tutti bene capitanati; avendo sentito che \u2019l\nconte di Lancastro colla sua parte di gente d\u2019arme avea cavalcata\nla Normandia ed entrato nel reame presso a Parigi a sedici leghe,\nparendogli avere vergogna se non facesse dalla sua parte, si mosse di\nGuascogna e vennesene in Berr\u00ec, ardendo e divorando con ferro e con\nfuoco ci\u00f2 che innanzi gli si parava. E gi\u00e0 avea fatta smisurata preda,\nperocch\u00e8 assai ville di cinquecento e di mille fuocora, e di pi\u00f9 e di\nmeno, avea vinte, e rubate e arse senza trovare contasto; seguitando\nappresso avea costeggiato il fiume dell\u2019Era infino ad Orliens, e\nfattole intorno grave danno, pass\u00f2 a Pettieri; e trovandosi presso alla\ngrande oste del re di Francia, fu costretto di fermarsi ivi tra le due\nfiumora coll\u2019oste e colla preda che raccolta avea, che di quel luogo,\navendo di presso la gente del re di Francia ch\u2019andava contro a lui, a\nsalvamento non si potea partire n\u00e8 con suo onore.\nCAP. VII.\n_Come il re di Francia pose il campo presso al prenze._\nIl re Giovanni di Francia, ch\u2019era presso colla sua grande oste, e\nbaldanzoso per lo duca di Lancastro che l\u2019avea fuggito, e per la\nvittoria del castello, sentendo il duca ristretto tra le due fiumare,\nche l\u2019una tramezzava a volere andare a lui, di presente si mosse con\ntutta la sua gente e appressossi a\u2019 nemici, e pose il campo suo di\ncosta a Berr\u00ec, e\u2019 nemici erano dall\u2019altra parte, la fiumara in mezzo,\ne\u2019 ponti erano i pi\u00f9 rotti, e alcuno ve n\u2019avea rimaso in guardia\nde\u2019 Franceschi: il duca non potea passare innanzi a prendere suo\nvantaggio di terreno, e \u2019l tornare addietro di lungo viaggio, per\nlo stretto de\u2019 loro nemici, e avendo chi gli perseguitasse, non se\nne potea pensare alcuna salute, e per\u00f2 la necessit\u00e0 gli accrescea in\nquel luogo l\u2019ardire. Il coraggioso duca di Guales vedendosi a questo\nstretto partito, non dimostr\u00f2 a\u2019 suoi segno d\u2019alcuna paura n\u00e8 vilt\u00e0,\nma francamente provvide il suo campo, e mostrossi a tutta sua gente,\nconfortandoli che non dovessono temere di quella gente cui eglino tante\nvolte avevano fatta ricredente, e ammaestrandoli di buona e sollecita\nguardia il d\u00ec e la notte, dicendo, come tosto avrebbono in loro aiuto\nil valente conte di Lancastro con tutta la sua gran forza. Gl\u2019Inghilesi\ne\u2019 Guasconi presono gran conforto della valentria e buona voglia del\nloro signore, e intesono a fortificare loro campo, e a fare buona e\nsollecita guardia il d\u00ec e la notte. E questo fu a d\u00ec 17 di settembre\nanno detto.\nCAP. VIII.\n_Due conti del re di Francia rimasono presi da un aguato._\nSaputo che \u2019l re ebbe la condizione de\u2019 suoi nemici, e come il loro\ncampo stava, segretamente con alquanti de\u2019 pi\u00f9 confidenti baroni prese\nconsiglio di valicare alla mezza notte, venendo il sabato, per un ponte\ndella riviera, che gli dava pi\u00f9 certo il cammino ad aggiugnersi co\u2019\nnemici, e pi\u00f9 atto il cammino alla gran gente che l\u2019avea a seguitare.\nIl duca di Guales, o che sapesse il segreto del re, o che per avviso\ndi guerra avesse che cos\u00ec dovesse seguire, la notte medesima venne\ncon sua gente eletta, e misesi in un bosco presso al cammino che \u2019l re\ndovea fare, e veniagli fatto d\u2019avere il re con buona parte della sua\ncompagnia per lo presto avviso. Il re si mosse con duemila cavalieri,\ne con quelli baroni a cui s\u2019era manifestato: e appressandosi al passo\ndel bosco, mand\u00f2 innanzi dieci cavalieri sperti e bene montati a\nprovvedere se aguato vi fosse. I detti cavalieri scopersono il guato,\ne di presente ritornarono al re, il quale conoscendo il pericolo prese\nuna volta, e dilungossi da quel passo, e gir\u00f2 verso Pittieri, e valic\u00f2\na salvamento con tutta sua cavalleria: ma addietro non mand\u00f2 all\u2019altra\nsua gente che \u2019l seguiva ad avvisarli di quello aguato, onde avvenne,\nche seguitandolo il conte d\u2019Alzurro, e quello di Clugn\u00ec con altri\nbaroni e cavalieri, avendo sentita la sua subita partita, non per\u00f2 con\ntutta l\u2019oste, ma colle loro masnade facendo la via che dovea fare il re\ndel bosco, credendo che per quella fosse andato, gl\u2019Inghilesi maestri\ndi baratti avendo mandati cavalieri de\u2019 loro a ingegno che tornassono\nla notte per quel cammino, e dimostrandosi essere de\u2019 Franceschi che\nseguissono il re, come se per quel cammino fosse passato, e scorgendo i\nconti questi cavalieri, e facendoli domandare, risposono in Francesco\nche seguivano monsignor lo re, e per\u00f2 con pi\u00f9 sicurt\u00e0 si misono a\ncammino; ed entrati nell\u2019aguato senza ordine, essendo d\u2019ogni parte\nassaliti, non v\u2019ebbe resistenza altro che del fuggire e del campare chi\npotea; il conte d\u2019Alzurro valente barone, e quello di Clugn\u00ec rimasono\npresi con quattrocento compagni di buona gente, e menati prigioni nel\ncampo, il duca e tutta la sua oste ne presono assai conforto: e questo\nfu il sabato a d\u00ec 17 di settembre del detto anno.\nCAP. IX.\n_Puose il re di Francia il campo suo presso agl\u2019Inghilesi._\nValicato il re di Francia con duemila cavalieri a Pettieri, e scoperto\nl\u2019aguato degl\u2019Inghilesi, come detto abbiamo, di presente tutta l\u2019altra\noste de\u2019 Franceschi seguirono il loro re per lo sicuro cammino, e\ngiunti a lui, si trovarono pi\u00f9 di quattordicimila cavalieri e molti\nsergenti, e non v\u2019era per\u00f2 tutta la sua forza, che al continovo vi\ncrescea gente a cavallo e a pi\u00e8, sperando avere degl\u2019Inghilesi buon\nmercato; e misonsi a campo presso al campo del duca a meno di due leghe\nparigine, in parte che gl\u2019Inghilesi non si poteano allargare; ed erano\nper venire in pochi d\u00ec in gran soffratta di vittuaglia, e ancora erano\ncondotti in parte, che \u2019l conte di Lancastro non li potea venire a\nsoccorrere per lo campo preso per i Franceschi, avvegnach\u00e8 troppo era\ndi lungi a quel paese; per la qual cosa al re di Francia pareva avere\nla vittoria in mano, e cos\u00ec era per ragione di guerra, ove fortuna\ne mala provvedenza non avesse mutata la condizione del fatto, come\nseguendo immantinente racconteremo.\nCAP. X.\n_I legati cercarono accordo tra\u2019 due signori._\nCome addietro avemo narrato, in questa guerra la Chiesa di Roma\ncontinovo tenea suoi legati che trattassono la concordia e la pace\ntra\u2019 due re, e al presente era nella compagnia del re il cardinale\ndi Bologna suo confidente, e il cardinale di Pelagorga confidente\ndel duca e degl\u2019Inghilesi, i quali continovo cercavano di recarli a\npace; e vedendo la cosa a questo stremo condotta e ultimo partito,\nacciocch\u00e8 tra questi due signori de\u2019 maggiori della cristianit\u00e0 non\nsi venisse a mortale battaglia, di concordia furono con lo re di\nFrancia, mostrandoli quanto erano vari e non sicuri gli uscimenti\ndelle battaglie, pregandolo, che dove con suo onore potesse venire a\nbuona pace, non volesse ricercare per vantaggio ch\u2019avere li paresse\nil dubbioso fine delle battaglie. Il re diede udienza al savio\nconsiglio; e per\u00f2 incontanente il cardinale di Pelagorga cavalc\u00f2 al\nduca nel suo campo; e ricevuto da lui graziosamente, con savie parole\ngli mostr\u00f2 il pericolo dov\u2019era egli e tutta la sua oste, e ricordogli\nle grandi ingiurie per lo suo padre, e per lo suo zio, e per lui\nfatte alla corona di Francia, e conchiudendo disse, che acciocch\u00e8 Dio\nnon giudicasse la sua causa per disordinata presunzione e superbia\nin cotanto pericolo quanto egli era di s\u00e8 e di tutta la sua gente,\nch\u2019e\u2019 volea ch\u2019e\u2019 si dichinasse a volere restituire e rendere al\nre di Francia il suo onore e le terre ch\u2019avea occupate delle sue, e\nl\u2019ammenda del danno che fatto gli avea nel suo reame, acciocch\u00e8 buona\ne ferma pace si fermasse tra loro. Il giovane duca, conoscendo il\nforte caso dove la fortuna l\u2019avea condotto, e avendo reverenza a santa\nChiesa, avvegnach\u00e9 \u2019l suo animo fosse fermo e sicuro di grande sdegno,\nacconsent\u00ec innanzi di pigliare concordia, che tentare la pericolosa\nparte della battaglia; e data speranza al legato, il fece ritornare al\nre di Francia, per ordinare i patti e le convenenze della concordia.\nCAP. XI.\n_I patti che si trattarono e quasi conchiusono._\nTornato il cardinale al re di Francia, il re fece raunare il suo\nconsiglio, per fare assentire a tutte l\u2019offerte che \u2019l cardinale avea\nportate al re da parte del duca per avere buona pace; e l\u2019offerta\nera, ch\u2019e\u2019 volea restituire al re di Francia tutte le terre prese per\ngl\u2019Inghilesi e\u2019 Guasconi nel suo reame ne\u2019 tre anni prossimi passati,\ne che renderebbe liberi tutti i prigioni, e che per ammenda de\u2019 danni\nfatti darebbe al re di Francia dugento migliaia di nobili, che valeano\ncinquecento migliaia di fiorini d\u2019oro; e domandava per fermezza di\nbuona pace per moglie la figliuola del re di Francia, quando a lui\npiacesse, e per dote la duchea d\u2019Anghiemem facendosi suo uomo, e a\nquesto non si fermava oltre alla volont\u00e0 del detto re; e in preghiera\ndomandava, che \u2019l re di Navarra fosse lasciato e restituito nel suo\nreame. A queste cose il re e il consiglio s\u2019acconciavano assai bene,\ne conosceano senza pericolo il loro vantaggio. \u00c8 vero che queste cose\nnon si poteano fermare senza la volont\u00e0 del re Adoardo d\u2019Inghilterra\nsuo padre, ma il duca impromettea in termine di pochi d\u00ec fargliele\nattenere e confermare; e andato e rivenuto pi\u00f9 volte il cardinali per\nrecare a fine di buona pace questo trattato, e avendo ogni libert\u00e0 dal\nduca che domandare si seppe, e che per lui si potea fare, avendo che la\nconcordia fosse fatta, ritorn\u00f2 al re di Francia; ma la cosa ebbe tutto\naltro fine che non si sperava, come incontanente racconteremo.\nCAP. XII.\n_Come il vescovo di Celona sturb\u00f2 la pace._\nEssendo venuto con pieno mandato il cardinale al re di Francia, il re\navendo veduto per esperienza i pericoli della battaglia, e parendogli\nvenire a convenevole ammenda dell\u2019ingiuria ricevuta, si disponea alla\npace, e per darle compimento, fece raunare i baroni e \u2019l suo consiglio:\ntra gli altri quegli in cui il consiglio del re pi\u00f9 si posava per piena\nconfidanza era il vescovo di Celona; costui udite le convenenze e\u2019\npatti della pace raccontati per lo cardinale di Pelagorga, e come il\nre d\u2019Inghilterra gli avea infra certi giorni a confermare, stigato dal\npeccato non purgato n\u00e8 ammendato da\u2019 Franceschi si lev\u00f2 in parlamento,\ne molto arditamente disse al re di Francia: Sire, se io mi ricordo\nbene, il re d\u2019Inghilterra e \u2019l duca ch\u2019\u00e8 qui presso suo figliuolo,\ne \u2019l conte di Lancastro suo cugino, v\u2019hanno fatto lungamente grande\nonta e sconvenevole oltraggio a tutto vostro reame per molte riprese,\nsconfiggendo in campo vostro padre con perdita di re, e di gran baroni,\ne in mare hanno tagliate le vostre forze, e arso e dipopolato il vostro\nreame in diverse parti; ditemi sire, che vendetta v\u2019avete voi fatta,\nche senza vostra onta, e di tutto vostro reame, questa pace si faccia?\nAvendo voi qui il vostro corporale nemico, con gran parte de\u2019 baroni\ne de\u2019 cavalieri inghilesi e guasconi c\u2019hanno contra voi e contro al\nvostro reame fatti tutti i grandi mali, e oltre a quelli ch\u2019io v\u2019ho\ncontati, e ora gli ha Iddio ridotti e rinchiusi nelle vostre mani per\nmodo, ch\u2019addietro non possono tornare, n\u00e8 a destra n\u00e8 a sinistra si\npossono allargare. Da vivere hanno poco, e soccorso non attendono: voi\nsiete signore di fare altamente la vostra vendetta, e veggovi trattare\ndi lasciarli andare; ed eziandio per non certa fede o fermezza delle\nloro promesse, ma piene d\u2019aguati e d\u2019inganni, come \u00e8 loro antica\nusanza, che sotto i patti di fare confermare la pace al re, intende\ndi subito avere il suo soccorso e quello del conte di Lancastro, ch\u2019\u00e8\napparecchiato con grande oste, come tutti quanti sapete; e se questo\navviene, chi v\u2019accerta che la vostra vittoria non possa tornare in mano\nde\u2019 vostri nemici, con vituperoso inganno della vostra reale maest\u00e0?\nE per\u00f2 consiglio, che a\u2019 vinti non si dia pi\u00f9 dilazione, e che la\nvendetta delle vostre ricevute offese e la piena vittoria, che Iddio\nv\u2019ha apparecchiata, non vi scampi per tardamento de\u2019 vostri trattati e\nde\u2019 vostri consigli. Le parole dell\u2019ardito prelato feciono cambiare la\nvolont\u00e0 del re e di tutti i baroni del consiglio, e catuno s\u2019inanim\u00f2\nalla battaglia, e al cardinale fu risposto precisamente che pi\u00f9 non si\ntravagliasse della concordia; e deliberato fu di strignere il duca alla\nbattaglia la mattina vegnente, e questo consiglio fu preso domenica\na d\u00ec 18 di settembre anno detto; operando fortuna, per lo franco\nconsiglio di quel prelato, la materia dell\u2019occulto giudicio di Dio\ncontro al detto re di Francia.\nCAP. XIII.\n_Diceria che fece il prenze di Guales a\u2019 suoi._\nIl cardinale di Pelagorga avuta la risposta dal re di Francia e\ndal suo consiglio contradia al suo trattato e alla sua opinione,\navendo singulare affezione al giovane duca, in cui avea trovato\nmolta liberalit\u00e0, parendogli sconvenevole se colla sua bocca non gli\nrispondesse, il d\u00ec medesimo valic\u00f2 nel suo campo: ed essendo innanzi\nal duca ch\u2019attendea la fermezza della pace, il cardinale gli disse:\nSire, io ho assai travagliato per poterti recare pace, ma non ho\npotuto per alcuna maniera; e per\u00f2 a te conviene procacciare d\u2019essere\nvalente prenze, e pensare alla tua difesa colla spada in mano, perocch\u00e8\nalla battaglia ti conviene venire co\u2019 Franceschi, rimossa ogni altra\nsperanza d\u2019accordo o di pace. Udendo questa parola il magnanimo duca,\nnon perd\u00e8 in atto o in segno sua virt\u00f9, anzi disse: Voi ci potete\nessere testimonio, che dalla nostra parte non \u00e8 mancata la concordia\nalla quale con pura fede ci recavamo; ora che da\u2019 nostri avversari\nmanca, prendiamo fidanza che Iddio sia dalla nostra parte. E dato\ncon reverenza congio al cardinale, di presente ebbe i suoi baroni e\u2019\nsuoi capitani de\u2019 cavalieri e degli arcieri inghilesi e guasconi, e\nmanifest\u00f2 loro l\u2019intenzione del re di Francia e del suo consiglio,\ne come al mattino attendessono la battaglia, con franche e signorili\nparole dicendo, come Iddio e la ragione era dalla loro parte, e che\nper\u00f2 catuno prendesse cuore e ardire, e inanimasse s\u00e8 e\u2019 suoi a ben\nfare; e ricordassonsi come i Franceschi vinti e sconfitti pi\u00f9 volte\nda loro, non avrebbono cuore di sostenere la battaglia. E oltre a ci\u00f2\ndisse: Signori e compagni, non dimenticate il luogo ove fortuna ci\nha inchiusi, nel quale se noi vogliamo stare alla difesa, avendo la\nforza de\u2019 nemici nostri a petto, in breve ci manca la vittuaglia, e di\nniuna parte ci pu\u00f2 venire, perch\u00e8 noi e\u2019 nostri cavalli verremo meno di\nfame, e saremo vilissima preda a\u2019 nostri nemici. E nel partire non si\nvede salvamento, avendo al fuggire lungo il cammino per le terre de\u2019\nnostri nemici d\u2019ogni parte, e cos\u00ec gran forza qui, e de\u2019 nemici alle\nspalle, anzi possiamo essere molto certi, che dando loro le reni, ci\nfaranno morire a gran tormento; e per\u00f2 niuna speranza di salute rimane\ndalla nostra parte, se non di combattere francamente, e procurare colla\nvirt\u00f9 dell\u2019indurata fortezza delle nostre braccia abbattere la delicata\ne apparente pompa de\u2019 nostri avversari; e quanto la loro potenza e\nnumero di cavalieri e di sergenti \u00e8 maggiore, tanto conviene in noi\npi\u00f9 accendere l\u2019animo a dimostrare nostra virt\u00f9: e se fortuna ci pur\nvolesse abbattere, facciamo s\u00ec ch\u2019a\u2019 nostri nemici rimanga dolorosa\nvittoria, e a noi eterno nome di valorosa cavalleria. E confortata\ne inanimata la sua gente, comand\u00f2 ch\u2019al mattino tutta la preda loro\ndelle cose grosse fosse recata nel campo, e messa fuori tra loro e\u2019\nnemici, e fattone tre monti, e che la notte stessono in buona guardia,\ne confortassono loro e\u2019 loro cavalli, sicch\u00e8 al mattino si trovassono\nforti e acconci alla battaglia;\nCAP. XIV.\n_Come i Franceschi s\u2019apparecchiarono alla battaglia._\nAvendo il re di Francia preso per partito nel consiglio di combattere\nla mattina vegnente, fece il d\u00ec raunare tutti i suoi baroni e\u2019 capitani\ndella sua cavalleria e dei sergenti, e con allegra faccia manifest\u00f2\nloro il consiglio di combattere la mattina vegnente gl\u2019Inghilesi e\u2019\nGuasconi, i quali erano pochi alla loro comparazione, i quali tutti si\nmostrarono allegri, stimando che non li dovessono attendere conoscendo\nil soperchio, e che si dovessono fuggire come fatto avea poco innanzi\nil conte di Lancastro. E diedono ordine alle loro schiere, e la gente\nche in catuna dovesse essere, e quale andasse prima ad assalire i\nnemici e quale appresso, e chi fosse nella schiera grossa del re. E\navvisato catuno capitano della sua gente e di quello ch\u2019al mattino avea\na fare, tutti intesono per quello resto della giornata a provvedere\nle loro armi e\u2019 loro cavalli, per essere presti la mattina innanzi il\ngiorno alla battaglia.\nCAP. XV.\n_Le schiere e gli ordini de\u2019 Franceschi._\nVenuto il luned\u00ec mattina, il maliscalco di Dina, a cui toccava il\nprimo assalto, fece per tempo la sua schiera co\u2019 cavalieri di Spagna\ne d\u2019altri circustanti a quella lingua, ch\u2019erano venuti e condotti al\nservigio del re, e a questa schiera vi s\u2019aggiunsono masnadieri italiani\ne spagnuoli, sperti delle battaglie, e buoni assalitori. A costoro fu\ncommesso d\u2019assalire prima i nemici, ed essendo apparecchiati in sul\ncampo, e le spianate fatte, appresso a lui fu fatta la schiera del\nconestabile di Francia, ch\u2019era il duca d\u2019Atene, e in sua schiera ebbe\nmolti valenti baccellieri di Francia, provenzali e normandi, e questa\nschiera dovea percuotere appresso i feditori. Dopo questa il Dalfino\ndi Vienna figliuolo primogenito del re di Francia, e \u2019l duca d\u2019Orliens\nfratello del re, furono fatti conduttori della terza schiera, ove\naveano pi\u00f9 di cinquemila cavalieri franceschi e del reame, e questa\ndovea fedire appresso al duca d\u2019Atene. La quarta e ultima schiera era\nquella del re di Francia, nella quale avea pi\u00f9 di seimila cavalieri\ncon molti grandi baroni, e questa era per fermezza e riscossa di tutte\nl\u2019altre. Avendo i Franceschi cos\u00ec fornite e ordinate le loro schiere:\nessendo lungo spazio di terreno tra loro e\u2019 nemici, innanzi che\ns\u2019aggiungano alla battaglia, ci conviene narrare l\u2019ordine che prese il\nduca di Guales nella sua gente.\nCAP. XVI.\n_L\u2019ordine degl\u2019Inghilesi con le loro schiere._\nAvendo il duca di Guales fatto, come detto \u00e8, raunare fuori del\ncampo innanzi al suo carreggio, verso la frontiera de\u2019 Franceschi\nper buono spazio, in tre monti tutto il grosso della loro preda, vi\nfece aggiugnere legname la mattina innanzi d\u00ec e mettervi entro fuoco,\nacciocch\u00e8 l\u2019avarizia della preda non impedisse l\u2019animo a\u2019 suoi, e\nnon fosse speranza agli avversari di racquistarla. E fatti i fuochi\ngrandi tra loro e\u2019 nemici, i fummi occuparono la pianura a modo d\u2019una\ngrossa nebbia, sicch\u00e8 i Franceschi non poteano scorgere quello che\ngl\u2019Inghilesi si dovessono fare. E in questo tempo il duca e \u2019l suo\nconsiglio feciono due parti de\u2019 loro arcieri, che n\u2019aveano intorno\ndi tremila, e nascosonli in boschi e in vigne, a destra e a sinistra\ninverso dove i Franceschi potessono venire per assalirli, sicch\u00e8 al\nbisogno d\u2019ogni parte potessono ferire la gente di Francia e\u2019 loro\ncavalli colle saette; e ordinarono fuori del loro campo innanzi al\ncarreggio una schiera, che sostenesse il primo assalto, e \u2019l duca con\ntutta l\u2019altra cavalleria in un fiotto erano armati, e schierati nel\ncampo dentro al loro carreggio, per provvedere il portamento de\u2019 loro\nnemici. E in questo modo fu apparecchiata l\u2019una e l\u2019altra oste di\nvenire alla battaglia.\nCAP. XVII.\n_La battaglia tra il re di Francia, e il prenze di Guales._\nIl maliscalco di Dina colla sua schiera de\u2019 feditori, come poco\navveduto e assai baldanzoso, vedendo i fuochi che gl\u2019Inghilesi\nfacevano, pens\u00f2 che ardessono il campo, e che per paura se ne\nfuggissono, e per questa folle burbanza, non attendendo d\u2019avere\nappresso la seconda e terza schiera, levato un grido, se ne vanno\ncon matto ardimento, e avacciarono il loro assalto, e dilungaronsi\nsubitamente tanto dall\u2019altre schiere, che per lo lungo terreno non\npoterono essere veduti da loro, e con grande ardire si misono ad\nassalire la schiera degl\u2019Inghilesi, ch\u2019era di fuori del carreggio, e\nfedironli per tal virt\u00f9, che li feciono rinculare a dietro, e perdere\nassai terreno. Il duca e\u2019 suoi, che conobbono la mala condotta che\naveano fatta gli Spagnuoli, e che non aveano la riscossa appresso,\nmandarono per costa millecinquecento cavalieri de\u2019 loro, e inchiusonli,\ncombattendoli dinanzi e di dietro, e sbarattaronli, facendone grande\nuccisione in poca d\u2019ora. Seguendo appresso l\u2019altra pi\u00f9 grossa schiera\ndel duca d\u2019Atene conestabile di Francia, gli arcieri ch\u2019erano riposti\nuscirono d\u2019ogni parte per costa a saettare a questa schiera, e\nsollecitando le loro saette, molti uomini e cavalli fedirono e assai\nn\u2019uccisono; e \u2019l duca di Guales, vedendo questa schiera gi\u00e0 impedita\ne magagnata dagli arcieri, usc\u00ec loro addosso colla baldanza della\nprima vittoria, e dopo non grande resistenza furano tutti morti e\npresi, innanzi che \u2019l re ne sapesse la novella. Il Delfino di Vienna,\ne \u2019l duca d\u2019Orliens, che aveano pi\u00f9 di cinquemila cavalieri, e il re\nappresso con seimila in sua compagnia, avendo sentita la rotta delle\ndue prime schiere, come vilissimi e codardi, avendo ancora due tanti e\npi\u00f9 di cavalieri e di baroni freschi e ben montati, ed essendo i nemici\nstanchi per le due battaglie, tanta paura entro ne loro animi rimessi e\nvili, che potendo ricoverare la battaglia, non ebbono cuore di fedire\na\u2019 nemici, n\u00e8 vergogna d\u2019abbandonare il re, ch\u2019era presso di loro sul\ncampo, n\u00e8 l\u2019altra baronia di Francia, e senza ritornarsi a dietro a\nfar testa col re insieme, e senza essere cacciati, si fuggirono del\ncampo, e andaronsene verso Parigi, abbandonando il padre e\u2019 fratelli\nnel pericolo della grave battaglia; degni non di titoli d\u2019onore, ma di\ngravi pene, se giustizia avesse forza in loro.\nCAP. XVIII.\n_La sconfitta del re di Francia e sua gente._\nAvendo il valoroso duca di Guales gi\u00e0 sbarattate le due prime schiere\nde\u2019 nemici, e veduto che la terza schiera, ov\u2019era il figliuolo e \u2019l\nfratello del re con cinquemila cavalieri, per paura s\u2019erano fuggiti\nsenza dare o ricevere colpo, prese speranza dell\u2019incredibile vittoria,\ne con molta baldanza tutti in uno drappello fatto s\u2019addirizzarono ad\nandare a combattere la grossa schiera del re. Il quale re, avendosi\nmesse innanzi l\u2019altre schiere, si pens\u00f2, per ritenere pi\u00f9 ferma la\nbaronia, di scendere a pi\u00e8, e cos\u00ec fece. E vedendosi venire addosso\ngl\u2019Inghilesi e\u2019 Guasconi con gran baldanza, e avendo saputa la fuga\ndel figliuolo e del fratello non invil\u00ec, ma virtuosamente confortando\ni suoi baroni che gli erano di presso, si fece innanzi a\u2019 nemici per\nriceverli alla battaglia coraggiosamente. Il duca co\u2019 suoi franchi\ncavalieri, e sperti in arme a quel tempo pi\u00f9 ch\u2019e\u2019 Franceschi, e\ncresciuti nella speranza della vittoria, si fedirono aspramente nella\nschiera del re. Quivi erano di valorosi baroni e di pro\u2019 cavalieri;\ne sentendovi la persona del re, faceano forte e aspra resistenza, e\nmantennono francamente lo stormo, abbattendo, tagliando e uccidendo\ndi loro nemici; ma perocch\u00e8 fortuna favoreggiava gl\u2019Inghilesi, molti\nFranceschi come poteano ricoverare a cavallo si fuggivano, senz\u2019essere\nperseguitati; che la gente del duca non si snodava, e la schiera del\nre al continovo mancava; e \u2019l re medesimo, conoscendo gi\u00e0 la vittoria\nin mano de\u2019 suoi nemici, non volendo per vilt\u00e0 di fuga vituperare\nla corona, fieramente s\u2019addur\u00f2 alla battaglia, facendo grandi cose\nd\u2019arme di sua persona; ma sentendosi allato messer Gianni suo piccolo\nfigliuolo, comand\u00f2 che fosse menato via e tratto della battaglia; il\nquale per comandamento del re essendo montato a cavallo con alquanti\nin sua compagnia, e partito un pezzo, il fanciullo ebbe tanta onta\ndi lasciare il padre nella battaglia che ritorn\u00f2 a lui, e non potendo\nadoperare l\u2019arme, considerava i pericoli del padre, e spesso gridava:\nPadre, guardatevi a destra, o a sinistra o d\u2019altra parte, come vedea\ngli assalitori; ed essendo appresso del re messer Ruberto di Durazzo\ndella casa reale di Puglia, ch\u2019avea aoperate sue virt\u00f9 come paladino,\ne lungamente con altri baroni difesa la battaglia, e morti e magagnati\nassai di quelli ch\u2019a loro si strigneano, in fine abbattuti e morti\nintorno al re, il re fu intorniato dagl\u2019Inghilesi e da\u2019 Guasconi, e\ndomandato fu che si dovesse arrendere; ed egli vedendosi intorneato\nde\u2019 suoi baroni e nimici morti e de\u2019 nemici vivi, e fuori d\u2019ogni\nsperanza di potere pi\u00f9 sostenere la battaglia, s\u2019arrend\u00e8 per sua voce\na\u2019 Guasconi, e lasci\u00f2 l\u2019arme sotto la loro guardia: e \u2019l suo piccolo\nfigliuolo di corpo, e grande d\u2019animo, non si voleva arrendere, ma\npregato, e ricevuto comandamento dal padre che s\u2019arrendesse, cos\u00ec fece;\ne questo fu il fine della disavventurata battaglia per li Franceschi, e\nd\u2019alta gloria per gl\u2019Inghilesi.\nCAP. XIX.\n_Racconta molti morti e presi nella battaglia._\nIn questa battaglia furono morti il duca di Borbona della casa di\nFrancia, il duca d\u2019Atene, il maliscalco di Chiaramonte, messer Rinaldo\ndi Ponzo, messer Giuffr\u00e8 di Ciarn\u00ec, il conte di Galizia, messer Ruberto\ndi Durazzo de\u2019 reali del regno di Cicilia, il sire di Landone, il sire\ndi Crotignacco, messer Gianni Martello, messer Guglielmo di Montaguto,\nmesser Gramonte di Cambelli, il vescovo di Celona, cagione di questo\nmale, il vescovo d\u2019Alzurro, tutti alti e gran baroni; e furono morti\nin sul campo oltre a costoro pi\u00f9 di milledugento altri cavalieri a\nsproni d\u2019oro, e banderesi, e cavalieri di scudo e borgesi, tutta nobile\ncavalleria, perocch\u00e8 non v\u2019erano quasi soldati; tutti erano famigli\ndi gran signori, e uomini ch\u2019erano venuti al servigio del loro re. I\npresi furono messer Giovanni re di Francia, messer Giovanni suo piccolo\nfigliuolo, il maliscalco da Udinam, messer Iacopo di Borbona, il conte\ndi Trincia villa, il conte di Monmartino, il visconte di Ventador, il\nConte di Salembrucco Alamanno, il sire di Craone, il sire di Montaguto,\nil sire di Monfreno, messer Brucicolto, messer Bremont della volta,\nmesser Amelio del Balzo, e \u2019l castellano d\u2019Amposta, messer Gianni e\nmesser Carlo d\u2019Artese, l\u2019arcivescovo di Sensa, il vescovo di Lingres, e\nmolti altri baroni che qui non si nominano; e oltre a questi caporali,\nvi rimasono presi pi\u00f9 di duemila cavalieri franceschi tutti uomini\ndi pregio, e grandi e ricchi borgesi, e scudieri e gentili uomini.\nQuesta battaglia fu fatta luned\u00ec la mattina, a d\u00ec 18 di settembre, gli\nanni 1356, presso a Pittieri a due leghe, in una villa che si chiama\nTrecceria, la quale per questo caso piuttosto conferm\u00f2 il suo nome che\naltra mutazione le desse.\nCAP. XX.\n_Come il re di Francia n\u2019and\u00f2 preso in Guascogna._\nSeguita, che vedendosi il giovane duca s\u00ec altamente vittorioso, non\nne mont\u00f2 in superbia, e non volle come potea mettersi pi\u00f9 innanzi\nnel reame, che lieve gli era a venirsene fino a Parigi, ma avendo la\npersona del re a prigione. e \u2019l figliuolo, e tanti baroni e cavalieri,\nper savio consiglio diliber\u00f2 di non volere tentare pi\u00f9 innanzi la sua\nfortuna; e per\u00f2 raccolta la preda e tutta la sua gente, e fatto fare\nsolenne uficio per li morti, e rendute grazie a Dio della sua vittoria,\nsi part\u00ec del paese, e senz\u2019altro arresto se ne torn\u00f2 in Guascogna alla\ncitt\u00e0 di Bordello. E giunto l\u00e0, fece apparecchiare al re nobilemente\nil pi\u00f9 bello ostiere, ove largamente tenea lui e \u2019l figliuolo, facendo\nloro reale onore, e spesse volte la sua persona il serviva alla\nmensa. \u00c8 vero che lo volle al cominciamento menare in Inghilterra per\npi\u00f9 sua sicurt\u00e0, ma i Guasconi, a cui il re s\u2019era accomandato, non\nacconsentirono, e per\u00f2 si rimase in Guascogna alcun tempo innanzi che\ncondotto fosse in Inghilterra, che si fece con grande ingegno, come\ninnanzi racconteremo.\nCAP. XXI.\n_I modi tenne il re d\u2019Inghilterra sentendo la novella di s\u00ec gran\nvittoria._\nCorsa la fama dell\u2019incredibile vittoria in Inghilterra, e avendo il\nre Adoardo di ci\u00f2 lettere dal figliuolo che li contavano il pericolo\ndov\u2019egli con tutta la sua oste era stato, e l\u2019alta e la grande vittoria\nche Iddio gli avea data, il savio re contenente nella faccia e negli\natti, senza mostrare vana allegrezza, di presente fece raunare i suoi\nbaroni e \u2019l suo consiglio, e con belle e savie parole dimostr\u00f2 a tutti\nche questo non era avvenuto per virt\u00f9 n\u00e8 operazione di sua gente, ma\nper singulare grazia di Dio, e comand\u00f2 a tutti che niuna vana gloria o\nfesta se ne mostrasse; ma per suo dicreto fece ordinare e mandare per\ntutta l\u2019isola, che in catuna buona terra, castello e villa, otto d\u00ec\ncontinovi si facesse in tutte le chiese ogni mattina solenne sacrificio\nper l\u2019anime de\u2019 morti nella battaglia, e che si rendesse a Dio grazia\ndella vittoria ricevuta. E fuori di questi esequi non si ud\u00ec n\u00e8\nvide alcuna festa in tutta l\u2019isola, strignendo catuna l\u2019esempio e il\ncomandamento del re. La quale mansuetudine fu al re maggiore laude, che\nal figliuolo la non pensata vittoria.\nCAP. XXII.\n_Battaglia fra due cavalieri, e perch\u00e8._\nFu vero, avvegnach\u00e8 non in questi d\u00ec ma poi, che due grandi e valorosi\ncavalieri, l\u2019uno Guascone e l\u2019altro Inghilese, vennero a quistione,\nperocch\u00e8 catuno si vantava ch\u2019avea preso il re. E venne tanto montando\nla loro riotta, che s\u2019appellarono per questo a battaglia, la quale con\ngrande pompa e riguardo feciono a Calese, e il Guascone fece ricredente\nl\u2019Inghilese. E al Guascone ch\u2019ebbe la vittoria furono fatti gran doni\ndal re di Francia e dal prenze di Guales, ma poco appresso gl\u2019Inghilesi\nper invidia il feciono morire. Avendo raccontate l\u2019oltramontane\nfortune, le italiane con sollecitudine addomandano il debito alla\nnostra penna.\nCAP. XXIII.\n_Processo fatto contro a\u2019 signori di Milano per lo vicario\ndell\u2019imperadore._\nNarrato abbiamo nel sesto libro, come messer Marcovaldo vescovo\naugustinese vicario in Pisa per l\u2019imperadore, era fatto capitano della\ncompagnia, e dell\u2019altra oste de\u2019 Lombardi ch\u2019erano collegati contro\na\u2019 signori di Milano; ed essendo raunati tutti in Lombardia e acconci\nd\u2019andare verso Milano, il vescovo fece esaltare nell\u2019oste l\u2019insegna\nimperiale ne\u2019 campi di Modena, e ivi dichiar\u00f2 a tutti, com\u2019egli era\nvicario dell\u2019imperadore, e form\u00f2 un processo sotto il titolo del\nvicariato contro a messer Bernab\u00f2 e a messer Galeazzo signori di\nMilano, il quale in effetto contenea: come in derisione e in contento\ndella santa Chiesa e\u2019 davano l\u2019investiture de\u2019 beneficii ecclesiastici\na cui voleano, togliendoli a cui la santa Chiesa gli avea investiti, e\na\u2019 legati del papa non lasciavano in tutta loro tirannica giurisdizione\nfare uficio, e alquanti n\u2019aveano fatti morire crudelmente; e come\naveano trattato con messer Palletta da Montescudaio di tradire\nl\u2019imperadore, e di torgli la citt\u00e0 di Pisa, e come per loro violenta\ntirannia aveano occupate le citt\u00e0 e\u2019 popoli di Lombardia pertinenti al\nsanto imperio, e come in vergogna della maest\u00e0 imperiale, tornandosi\nl\u2019imperadore in Alamagna, valicando per Lombardia, gli feciono serrare\nle porte delle citt\u00e0 e castella di loro distretto, e guardare le mura\ncon gente d\u2019arme, come da loro nemico, avendo titolo di suoi vicari;\ne formato il processo, mand\u00f2 per sue lettere a richiedere i tiranni,\nche a d\u00ec 11 del presente mese d\u2019ottobre del detto anno comparissono\npersonalmente dinanzi da lui a scusarsi del detto processo, altrimenti\nnon ostante la loro contumace contro a loro pronunzierebbe giusta\nsentenza. E di quella, coll\u2019aiuto di Dio, e del santo imperio e del suo\npotente esercito, tosto intendea fare piena esecuzione.\nCAP. XXIV.\n_Risposta fatta per li signori di Milano al vicario._\n\u00abAvendo per alcuni nostri fedeli notizia delle tue superbe e pazze\nlettere, colle quali noi, come fanciulli, col tuo ventoso intronamento\ncredi spaurire, noi, avvegnach\u00e8 dell\u2019et\u00e0 giovani, molte cose avendo\ngi\u00e0 vedute, al postutto il mormorio delle mosche non temiamo. Tu\nimmerito del preclarissimo nome del santo imperio ti fai vicario, dei\nquale noi fedeli vicari ci confessiamo. Contro dunque a te non vicario\ndell\u2019imperio, ma capo de\u2019 ladroni, e guida di fuggitivi soldati, infra\u2019\nl termine che ci hai assegnato, acciocch\u00e8 non t\u2019affatichi venendo\nsopra il milanese, piagentino ovvero parmigiano tenitorio, pe\u2019 nostri\nprecussori idonei, acciocch\u00e8 non ti vanti ch\u2019a tua volont\u00e0 le nostre\npersone abbi mosse, co\u2019 tuoi guai, forse ti risponderemo. Noi adunque\npromettiamo a te, che con nefaria mano di ladroni a depopolare e ardere\ni nostri pacifichi confini con pazzo campo se\u2019 mosso, non come vescovo\nma come uomo di sangue, se la fortuna ministra, della giustizia nelle\nnostre mani ti conducer\u00e0, non altrimenti che come famoso ladrone, e\nincendiario ti puniremo.\u00bb\nCAP. XXV.\n_Risposta fatta, per lo vicario, alla detta lettera._\n\u00abRallegriamo delle lettere che mandate ci avete, quali mostrano la\nsuperbia della quale voi vi gloriate. Della nostra ingiuria intendiamo\nsoprassedere, ma della bugia scritta nelle vostre lettere non ci\npossiamo contenere. Scriveste dunque, che co\u2019 vostri precursori,\ninnanzi ch\u2019entrassimo nel vostro tenitorio, ci rispondereste\nminacciandone di battaglia. E ora con la grazia di Dio e col suo\naiuto, nel quale solo \u00e8 la nostra speranza, non occultamente a modo di\npredoni, ma palesi, passati Parma, siamo in sul campo presso a cinque\nmiglia a Piacenza, e col detto divino aiutorio intendiamo procedere\ninnanzi, e co\u2019 vostri precursori non ci avete ovviati, in vituperio\ndella vostra vana superbia. Data a Ponte miro, a d\u00ec 10 d\u2019ottobre.\u00bb\nCAP. XXVI.\n_Come i soldati de\u2019 tiranni non vollono venire contro all\u2019insegna\ndell\u2019imperadore._\nEra in questo mezzo avvenuto, ch\u2019e\u2019 signori di Milano, temendo\nl\u2019avvenimento de\u2019 sopraddetti loro avversari, aveano mandato a Parma\nil marchese Francesco con quattromila barbute di gente tedesca e\nBorgognoni ivi raunati altri cavalieri e gran popolo per uscire a\ncampo, e non lasciare i nemici entrare sul terreno de\u2019 signori di\nMilano, e di combattere con loro. Quando il marchese volle uscire\nfuori a campo, i conestabili de\u2019 Tedeschi e de\u2019 Borgognoni tutti di\nconcordia dissono al marchese loro capitano, che contro al vicario\ndell\u2019imperadore e alla sua insegna non anderebbono, n\u00e8 in campo non\nfarebbono resistenza contro al loro signore. Questo fu il titolo della\nscusa, ma pi\u00f9 li mosse non volere fare resistenza alla compagnia,\nperocch\u00e8 aveano parte in quella non istandovi, e il refugio e il soldo\nquand\u2019erano cassi in altre parti; ma dissono, ch\u2019erano apparecchiati di\nstare alla guardia delle citt\u00e0 e delle castella lealmente. I signori\nsentendo l\u2019intenzione de\u2019 soldati, ch\u2019acconsentivano d\u2019essere cassi\ninnanzi che uscire contro al vicario dell\u2019imperadore, pensarono che a\ncassarli era aggiugnere forza a\u2019 loro nemici, e pericolo di loro stato:\ne per\u00f2 dissimularono con loro, e ritrassonli a Milano, lasciando in\nParma e in Piacenza buona guardia per difendere le mura.\nCAP. XXVII.\n_Come il vicario puose campo._\nIl vescovo d\u2019Augusta, ch\u2019era prod\u2019uomo in fatti d\u2019arme e bene avveduto,\nsentendo ch\u2019e\u2019 soldati de\u2019 signori di Milano non erano per uscire in\ncampo contro a lui, con pi\u00f9 ardire valic\u00f2 Parma, cavalcando con tutta\nsua oste presso alle porti, e cos\u00ec Cremona, e ristette alquanto in sui\nPiacentino, ove fece la risposta della lettera sopraddetta. E predando\nil paese d\u2019intorno per alcuno d\u00ec, si part\u00ec di l\u00e0, ed entr\u00f2 sul contado\ndi Milano; e facendo in quello grandissime prede, trovando la gente\nmale provveduta, si mise a fermare suo campo a una grossa villa che si\nchiama Rosario, presso a Milano a quattordici miglia di piano, intorno\nalla quale a due, e a tre, e quattro miglia sono altre grosse villate,\nraccolte a modo di casali, piene di molta vittuaglia e bestiame, e\nper l\u2019abbondanza l\u2019oste vi stette a grande agio; e indi cavalcarono\nper tutto il Milanese, facendo danno grave a\u2019 paesani, che per lungo\ntempo non aveano sentito che guerra si fosse; e con tutta la forza de\u2019\nsignori di Milano, niuna resistenza trovarono in campo in molti giorni:\ne per\u00f2 lasceremo alquanto questa materia, tanto che le grandi cose che\nne seguirono abbiano il tempo loro, non partendoci per\u00f2 dall\u2019italiane\ntempeste, che prima si vogliono raccontare.\nCAP. XXVIII.\n_Ordine del re d\u2019Ungheria alla guerra con i Veneziani._\nTornato il re in Ungheria, avvisato che la moltitudine degli Ungheri\nnon si pu\u00f2 mantenere in Italia come ne\u2019 diserti, ebbe suo consiglio, ed\nelesse trenta suoi grandi baroni per capitani, ciascuno di cinquemila\nUngheri a cavallo, con ordine che catuno il servisse tre mesi, come\nsono tenuti per omaggio. E per questo modo deliber\u00f2 di continovare\nla guerra a\u2019 Veneziani, succedendo l\u2019uno barone all\u2019altro di due in\ndue mesi, perocch\u00e8 \u2019l terzo aveano per la venuta e pel ritorno. E a\nd\u00ec 15 d\u2019ottobre del detto anno giunse l\u2019uno de\u2019 baroni a Colligrano\ncon quattromila Ungheri, i quali di presente si misono a scorrere e a\npredare il paese infino a Trevigi. In campo non trovavano contasto,\nperocch\u00e8 come questo signore era sopra Trevigi, cos\u00ec altri signori\nerano a Giara e nella Schiavonia sopra le terre de\u2019 Veneziani, sicch\u00e8 i\nVeneziani aveano tanto a fare a guardare le mura delle loro terre, che\nnon sapeano come pur quello si potessono fornire, sicch\u00e8 gli Ungheri al\ntutto signoreggiavano i campi di Trevigiana, e assediavano le castella.\nCAP. XXIX.\n_L\u2019aguato misono gli Ungheri a gente de\u2019 Veneziani._\nIl doge di Vinegia col suo consiglio, vedendo la soperchia baldanza\ndegli Ungheri, per tenerli pi\u00f9 a freno si sforzarono di conducere un\ngran barone della Magna con seicento cavalieri tedeschi, per mandarli a\nTrevigi, e pagaronlo per quattro mesi innanzi; e datogli a compagnia un\ngentile uomo di Vinegia, all\u2019uscita d\u2019ottobre li mandarono a Trevigi,\ne per loro la paga per gli altri soldati a cavallo e a pi\u00e8 ch\u2019erano\na Trevigi. Costoro con poca provvedenza de\u2019 loro nemici faceano la\nvia per lo Vicentino. Gli Ungheri da Colligrano sentirono la via che\ncostoro faceano; e di subito eletti mille Ungheri, li feciono cavalcare\nla notte contro a\u2019 Tedeschi; e venne loro si contamente fatto, che\ninnanzi ch\u2019e\u2019 Tedeschi avessono novella di loro, gli ebbono addosso\nnel cammino; ed essendo male armati, chi si mise a difendere fu morto,\ngli altri tutti ebbono a prigioni, e tolti loro i danari, e l\u2019arme, e\u2019\ncavalli; e le robe, in camicia gli rimandarono a Vinegia. Per questo\ni Veneziani perderono molto vigore, e a\u2019 nemici baldanza grande ne\ncrebbe, e quasi come paesani sicuravano i villani, e faceano lavorare\nle terre per la nuova sementa.\nCAP. XXX.\n_Come il re Luigi tratt\u00f2 d\u2019avere Messina in Cicilia._\nAddietro avemo fatta memoria nel quarto libro, come messer Niccola di\nCesaro rientr\u00f2 in Messina e caccionne i suoi nemici, e con assentimento\ndel re Luigi riprese Melazzo, e fecesene maggiore, ma non tanto\nch\u2019avesse ardire di scoprirsi a\u2019 Messinesi, se non si sentisse pi\u00f9\nforte. E per\u00f2 s\u2019accost\u00f2 alla setta di que\u2019 di Chiaramonte, e fece\ntornare da Firenze a Messina certi cavalieri ch\u2019erano stati cacciati\nquando fu cacciato egli. E vedendo morto colui che dovea essere loro\nre, si mise in trattato col gran siniscalco del re Luigi di dargli\nMessina, e per questa cagione il re Luigi, e la reina Giovanna andarono\nin Calavria, e stettono parecchi mesi a Reggio, innanzi che l\u2019accordo\navesse il suo effetto. E facendo suo sforzo d\u2019avere galee armate a\nquesto servigio, con gran fatica ve n\u2019erano sette, e alquanti legni\narmati in questo tempo. Lasceremo al presente questa materia tanto\nche venga a perfezione, e seguiremo quello che prima ci occorre a\nraccontare.\nCAP. XXXI.\n_Come si tratt\u00f2 pace fra il conte di Fiandra e i Brabanzoni._\nI Brabanzoni vedendosi sottoposti al conte di Fiandra e a\u2019 Fiamminghi,\ncosa molto strana al loro costume, non potendo pi\u00f9 sostenere il giogo,\ne non volendosi rimettere in guerra, che n\u2019erano mal capitati e mal\ndestri, per savio avvisamento presono consiglio tutte le comuni di\nBrabante, fuori che la villa di Mellina ch\u2019appartenea al conte, che la\nduchessa, ch\u2019era cognata carnale del conte, tornasse in Brabante: e\nfattala venire, la ricevettono in Loano, affinch\u00e8 tra lei e \u2019l conte\nsi trovasse accordo. E per questa cagione, niuna vista o sentimento\nmostrarono di pigliare arme: e \u2019l conte, sentendo tornata la cognata\nin Brabante, non ne prese turbazione come avrebbe fatto del duca. E di\npresente che la duchessa fu in Brabante, si levarono baroni e amici di\ncatuna parte, a trattare tra loro concordia per riposo de\u2019 Fiamminghi\ne Brabanzoni. Per lo quale trattato, avvegnach\u00e8 durasse lungamente,\nin fine, come trovare si potr\u00e0 appresso nel suo tempo, vennero a final\npace e concordia; ma questo principio fu del mese d\u2019ottobre del detto\nanno.\nCAP. XXXII.\n_Come i Fiorentini si partirono da Pisa, e andarono a Siena con le\nmercatanzie._\nSeguita, per non lasciare in silenzio lo sdegno preso pe\u2019 Fiorentini\ncontro a\u2019 Pisani, i quali, come narrato \u00e8 addietro, aveano loro rotta\nla pace, togliendo a\u2019 Fiorentini la franchigia, della quale appresso\nseguit\u00f2 grande materia di guerra, come leggendo per li tempi si potr\u00e0\ntrovare. I Fiorentini avendo ritratta la loro mercatanzia e\u2019 danari,\nin calen di novembre anno detto, tutti i cittadini e distrettuali di\nFirenze furono partiti di Pisa; e come questo fu fatto, e le strade\nsbandite per divieto fatto a tutte le mercatanzie, arnese e roba, i\nGenovesi, e\u2019 Provenzali, e\u2019 Catalani, e tutti altri mercatanti se ne\npartirono, e rimase la citt\u00e0 di Pisa ne\u2019 luoghi della mercatanzia\nsolitaria; e allora si cominciarono a avvedere i Pisani che non\naveano fatta buona impresa, e grande repetio ebbe nella citt\u00e0 de\u2019\nloro maggiori nel reggimento, che dato avea a intendere, che per\ngravezze ch\u2019e\u2019 facessono a\u2019 Fiorentini non se ne partirebbono, tant\u2019era\nl\u2019agiamento del porto, e la comodit\u00e0 del cammino e dell\u2019altre cose,\ne\u2019 non pensavano che lo sdegno dell\u2019ingiuria ponderasse contro alla\nloro comodit\u00e0. La cosa and\u00f2 tutto per altro modo. I Fiorentini presono\nporto a Talamone, e pertinacemente si disposono a volere vedere se fare\npotessono la mercatanzia senza i Pisani. Per questo i Pisani ch\u2019erano\namici di Simone Boccanegra doge di Genova, si misono a fare lega con\nlui, e armare galee, per impedire che la mercatanzia non ponesse a\nTalamone. Onde seguitarono non piccole e disusate novit\u00e0, come leggendo\ninnanzi a loro tempo si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XXXIII.\n_Come il capitano di Forl\u00ec si provvide._\nEssendo la compagnia valicata in Lombardia, il legato intendea a\nriprendere la guerra contro al capitano di Forl\u00ec il signore di Faenza,\ne apparecchiavasi d\u2019assediare la citt\u00e0 di Forl\u00ec. Il capitano ch\u2019era\ncoraggioso e avvisato, innanzi che l\u2019assedio gli venisse addosso,\nebbe trecento suoi cavalieri e cinquecento masnadieri, e di subito e\nimprovviso a\u2019 Malatesti cavalc\u00f2 con questa gente a Rimini, e accolse\nuna grande preda d\u2019uomini, e d\u2019arnesi, e di bestiame, e data la\nvolta, senza contasto con tutta la preda si torn\u00f2 in Forl\u00ec; e fatto\nquesto, fece ardere e disfare tutti i casali e terre da non potersi\nbene difendere, e intese a votare la terra di tutta la gente disutile\nalla guerra, e a fornirsi copiosamente di vittuaglia, acciocch\u00e8 pi\u00f9\nlungamente potesse fare sua difesa contro al legato, ch\u2019era per farlo\nassediare, come appresso avvenne, ma pi\u00f9 tardi ch\u2019e\u2019 non s\u2019avvisava.\nCAP. XXXIV.\n_Come Faenza s\u2019arrend\u00e8 al legato, e\u2019 patti._\nMesser Giovanni di messer Ricciardo de\u2019 Manfredi signore di Faenza,\nconoscendo la sua forza debole a resistere a santa Chiesa, si mise\na trattare accordo col legato, mediante gli ambasciadori del re\nd\u2019Ungheria, che a stanza di messer Giovanni se ne travagliavano, e in\nfine del mese di Novembre anno detto, a d\u00ec 10, vennero a questi patti:\nche al legato si dovesse rendere liberamente la signoria di Faenza, e\ndelle castella e del contado, e messer Giovanni dovesse avere tutto suo\npatrimonio salvo, e la terra di Bagnacavallo. E per attenere i patti\ndiede due suoi figliuoli stadichi, e mandolli co\u2019 detti ambasciadori\nalla guardia del signore di Padova. E appresso, del mese di dicembre\nvegnente, il legato attesi d\u2019ogni parte i patti, fece prendere la\ntenuta della citt\u00e0 di Faenza e di tutte le castella. E innanzi che\nla terra si desse al legato, il tiranno fece a\u2019 cittadini gravi\noppressioni, e tolse loro molti danari, e di quelli cui egli odiava\nper sospetto fece uccidere. E a questo modo prese fine la tirannia di\nmesser Giovanni sopraddetto, la quale per lo suo principio fu cagione,\ncome addietro avemo contato, di molti mali avvenuti in Italia.\nCAP. XXXV.\n_Che fece la gente della lega de\u2019 Lombardi in questo tempo._\nTornando a\u2019 fatti di Lombardia, essendo stato lungamente il vicario\ndell\u2019imperadore colla gente della lega e della compagnia a oste in\nsul contado di Milano senza avere trovato contasto, si ridussono a\nuna villa chiamata Margotto in sul Tesino, e ivi si rassegnarono\ntremilacinquecento cavalieri bene armati e bene a cavallo, senza\nl\u2019altra cavalleria da saccomanno, e seimila masnadieri: costoro\nprendeano molta fidanza, non temendo ch\u2019e\u2019 soldati tedeschi e\nborgognoni venissono contro a loro. Il marchese di Monferrato trasse\ndell\u2019oste cinquecento cavalieri per un trattato ch\u2019egli avea tenuto\ndella citt\u00e0 di Novara, e a d\u00ec 9 di novembre anno detto entr\u00f2 nella\nterra, e presela, e assedi\u00f2 il castello, ch\u2019era grande e forte e\nbene fornito di gente alla difesa, e di molta vittuaglia da potere\nlungamente attendere il soccorso, e francamente manteneano la difesa.\nCAP. XXXVI.\n_Della materia medesima._\nAvvenne, che presa Novara per lo marchese prosperamente, avendo egli e\nmesser Azzo da Correggio un altro trattato in Vercelli, si sforzarono\nd\u2019avacciare la cavalcata, e per tema di riparo che pensavano vi si\nmetterebbe per esempio di Novara; e per questo messer Azzo trasse\ndell\u2019oste anche settecento barbute di buona gente, e andando per\nentrare in Vercelli, a d\u00ec 11 di novembre detto, quelli che v\u2019erano\ndentro per lo signore di Milano avendo udita la novit\u00e0 di Novara\nripararono alla guardia di Vercelli, sicch\u00e8 la cavalcata fu invano.\nNondimeno pensando il marchese e messer Azzo che da Milano non potesse\nvenire loro soccorso, vi si misono a oste, ove stettono pi\u00f9 d\u00ec; e in\nquesto mezzo fortuna cambi\u00f2 la faccia a coloro che troppo si fidavano,\ncome spesso avviene in fatti di guerra, che fa vinti i vincitori avere\na schifo il suo nemico.\nCAP. XXXVII.\n_Come l\u2019oste della lega fu rotta dalla gente di Milano._\nI signori di Milano che riceveano cotanto oltraggio per la malizia de\u2019\nloro soldati, non si ruppono da loro, ma carezzaronli in vista e in\nopere, e massimamente certi conestabili pi\u00f9 confidenti, e tanto seppono\nfare, che una parte ne recarono a loro volont\u00e0; e nondimeno per tutte\nloro citt\u00e0 raccolsono arme de\u2019 soldati de\u2019 loro sudditi e degli altri\nItaliani intorno di quattromila cavalieri, e altrettanti n\u2019ebbono\nde\u2019 loro soldati; e questo fu fatto per modo, che poco avvisamento\nn\u2019ebbono i loro nemici. E sentendo tratti dell\u2019oste del vicario\nmilledugento barbute per lo fatto di Novara e di Vercelli, subitamente\nfeciono capitano messer Loderigo de\u2019 Visconti valente cavaliere, ma\ndi grande et\u00e0. Costui usc\u00ec subito con bene seimila cavalieri e molto\ngran popolo di Milano, e andatosene verso i nemici, ch\u2019erano col loro\ncampo a Margotto in sul Tesino, puosesi a campo a d\u00ec 12 di novembre\npredetto, presso a\u2019 nemici a tre miglia, e mand\u00f2 a richiedere il\nvescovo di battaglia, la quale richiesta il vicario mostr\u00f2 d\u2019accettare\nallegramente, e \u2019l termine fu per la domenica mattina vegnente, a d\u00ec\n13 del mese. Ma vedendosi il vescovo sfornito il campo di milledugento\nbuoni cavalieri, si provvide la notte di fare valicare il Tesino a\ntutta la sua oste, a fine di riducersi con essa presso a Pavia, per\navere il sussidio della citt\u00e0, che troppo gli parea avere grande\ndisavvantaggio. In questo movimento prigioni si fuggirono ch\u2019avvisarono\nmesser Loderigo del fatto: il quale di subito la notte mand\u00f2 messer\nVallerano Interminelli, figliuolo che fu di Castruccio, con trecento\ncavalieri, e comandogli che si strignesse co\u2019 nemici francamente,\nsicch\u2019egli impedisse la partita loro, tanto ch\u2019e\u2019 giugnesse colla sua\noste, della quale incontanente ordin\u00f2 le battaglie, e seguit\u00f2 appresso.\nMesser Vallerano fece coraggiosamente il suo servigio, e innanzi\nd\u00ec assal\u00ec il campo ora dall\u2019una parte ora dall\u2019altra, per li quali\nassalti molto imped\u00ec il valico del Tesino alla gente del vicario. Ma\nschiarito il giorno, per lo soperchio della gente del vicario fu preso\ncolla maggiore parte de\u2019 suoi cavalieri. Nondimeno il carreggio del\ncampo, e la salmeria, e \u2019l popolo, e parte de\u2019 cavalieri valicavano\ncontinovamente, e di qua alla riscossa erano rimasi col vicario\ndell\u2019imperadore il conte di Lando capitano della compagnia, e messer\nDondaccio di Parma, e messer Ramondino Lupo, e quasi tutti i migliori\nconestabili dell\u2019oste con millecinquecento barbute e co\u2019 sopraddetti\nprigioni. E avendosi messa innanzi tutta l\u2019altra oste, innanzi che\npotessono conducersi al passo, messer Loderigo colla sua cavalleria,\ntutti schierati e ordinati alla battaglia, fu loro addosso la mattina\nal chiaro d\u00ec. I cavalieri del vicario, ch\u2019erano uomini di gran virt\u00f9\nin fatti d\u2019arme, vedendosi allo stretto partito, tutti s\u2019annodarono\ninsieme, e feciono testa, e ricevettono l\u2019assalto de\u2019 nemici\nfrancamente, non lasciandosi di serrare, facendo d\u2019arme gran cose\ncontro al soperchio ch\u2019aveano addosso: e combattendo continovamente\nper spazio di tre ore sostennero l\u2019assalto d\u2019ogni parte, danneggiando\nmolto i nemici loro. Infine la fatica e \u2019l soperchio della moltitudine\nde\u2019 loro avversari li ruppe. Allora molti, che temettono pi\u00f9 la paura\nche la vergogna, si misono alla fuga e camparono. In sul campo ne\nrimasono presi seicento e pi\u00f9, tra\u2019 quali fu il vescovo gi\u00e0 detto,\nvicario dell\u2019imperadore, e \u2019l conte di Lando, e messer Ramondino Lupo,\ne messer Dondaccio. \u00c8 vero che \u2019l conte venne a mano de\u2019 Tedeschi,\nche \u2019l celarono e camparono, e due cavalieri tedeschi camparono messer\nDondaccio, e fuggironsi con lui, e fidaronsi alle sue promesse, e per\ndiversi cammini il condussono a Firenze, e poi in Lombardia. Tutta\nl\u2019altra oste, che avea valicato Tesino, sani e salvi si ricolsono in\nPavia con tutto il carreaggio e l\u2019altro arnese. E questa fu la fine\ndella nuova impresa del nuovo vicario dell\u2019imperadore, ma non de\u2019 fatti\ndella lega.\nCAP. XXXVIII.\n_Il consiglio prese il capitano di Forl\u00ec._\nVeduto che Francesco degli Ordelaffi ebbe, che Faenza, e tutta l\u2019altra\nRomagna, e la Marca, e \u2019l Ducato era venuta all\u2019ubbidienza di santa\nChiesa, e che al legato ch\u2019avea gran potenza di danari e d\u2019uomini\nd\u2019arme, non restava a fare altra guerra che contro a lui, ragun\u00f2 a\nconsiglio tutti i buoni uomini di Forl\u00ec, e domand\u00f2 consiglio da loro\ndi quello ch\u2019avesse a fare. Costoro consigliati insieme, di concordia\nfeciono dire al capitano in quel consiglio, che la fede e l\u2019amore\nch\u2019e\u2019 Forlivesi aveano sempre portato alla sua casa e a lui non era\nin loro mancata; e come altre volte de\u2019 loro propri beni nelle fortune\nloro gli aveano atati e mantenuti, tanto ch\u2019elli erano ritornati nella\nsignoria; cos\u00ec intendeano di fare quando il bisogno incorresse, di che\nIddio il guardasse. Nondimeno conoscendo al presente la gran forza\ndella Chiesa contro a lui solo, e niuno soccorso, consigliavano che\ncol legato si trattasse accordo il migliore che avere si potesse. E\ndi questo avverrebbe, ch\u2019eglino suoi amici non perderebbono i loro\nbeni, e potrebbonlo sovvenire e atare. Quando egli ebbe udito il loro\nconsiglio, disse: Ora voglio che voi udiate la mia intenzione. Io\nnon intendo fare accordo colla Chiesa, se Forl\u00ec e l\u2019altre terre ch\u2019io\ntengo non mi rimangono, e quelle intendo mantenere e difendere fino\nalla morte. E prima Cesena, e le castella di fuori, e Forlimpopoli,\ne appresso perdute quelle, le mura di Forl\u00ec, e perdute le mura,\ndifendere le vie e le piazze, all\u2019ultimo questo mio palazzo, e in fine\nl\u2019ultima torre di quello, innanzi che per suo assentimento alcuna\nn\u2019abbandonasse; e per\u00f2 volea che tutti sapessono in palese la sua\nintenzione, pregandoli con minacciamento di gravi minacce che catuno li\nfosse fedele amico e leale: e di presente mand\u00f2 la moglie e\u2019 figliuoli\ncon buona compagnia di gente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8, e raccomandolle\nla guardia di Cesena; e forn\u00ec di vantaggio tutte le castella, e di\nForl\u00ec trasse da capo femmine e fanciulli, e gente disutile in tempo\nd\u2019assedio, e soldati mise nelle case e masserizie di certi cittadini\nmeno confidenti; e cos\u00ec disposto, intendea a difendersi dal legato.\nCAP. XXXIX.\n_Messer Niccola prese Messina per lo re Luigi._\nTornando nostra materia a\u2019 fatti di Messina, essendo il re Luigi a\nReggio, messer Niccola di Cesaro avea procurato d\u2019avere in sua guardia\nil castello di Sansalvadore in sulla marina, e aggiuntosi i cavalieri\ndi sua setta, ch\u2019avea fatti ritornare da Firenze, si provvide che non\nera sicuro a fare sua impresa col re Luigi, s\u2019e\u2019 non avesse il castello\ndi Mattagrifone sopra Messina, che era fortissimo, e dava l\u2019entrata e\nl\u2019uscita della citt\u00e0 per la montagna; questo procacci\u00f2 per ingegno,\nche per forza non avea luogo. Il castellano non prendea guardia de\u2019\nsuoi cittadini, e\u2019 cavalieri tornati da Firenze erano amici, e per\nmodo d\u2019andarlo a vicitare con alquanti loro famigli, furono con festa\nricevuti da lui; e tenendolo in novelle, com\u2019era ordinato, messer\nNiccola sopravvenne con altri suoi compagni, e non gli fu contradetta\nl\u2019entrata per mala provvisione del castellano; e trovandosi dentro\nforte, cortesemente ne trasse il castellano, ch\u2019era male provveduto\nalla difesa. Fornito questo messer Niccola vi mise il castellano e le\nguardie a suo modo; e avendo fermo il trattato col re Luigi, il re del\nmese di novembre vi mand\u00f2 messer Niccola Acciaiuoli da Firenze ch\u2019avea\nmenato questo trattato, con sette galee e un legno armato cariche di\ngrano, e con lui cinquanta cavalieri e trecento masnadieri di Toscana;\ne giunti a Messina, furono ricevuti da messer Niccola di Cesaro e da\u2019\nsuoi seguaci a grande onore; e \u2019l popolo ch\u2019avea necessit\u00e0 grande di\nvittuaglia, sentendo le galee cariche di grano, fu molto contento, e\nincontanente per sicurt\u00e0 del re fu consegnato al gran siniscalco la\nguardia di Sansalvadore, ch\u2019\u00e8 la forza del porto, e Mattagrifone, ch\u2019\u00e8\nla guardia della citt\u00e0; e fatto questo, e lasciato in catuno masnadieri\ne balestrieri alla guardia, fu condotto il gran siniscalco e l\u2019altra\nsua gente d\u2019arme all\u2019abitazione del re, ove trov\u00f2 due figliuole del\nre Petro, le quali ritenute cortesemente mand\u00f2 poi al re e alla reina\nch\u2019erano a Reggio, e da loro furono ricevute graziosamente, come\nappresso racconteremo, e la reina le ritenne con seco onorevolemente.\nQui si desti la memoria della reale eccellenza del re Ruberto: qui\ns\u2019agguagli la sua sollecitudine, la sua grande potenza, l\u2019armata di\ncento, e di centosessanta, e di dugento galee per volta, e di molte\narmate colla forza grande de\u2019 suoi baroni, e della sua cavalleria e\ndelle sue osti, per acquistare alcuna terra nell\u2019isola di Cicilia non\nche Messina, ch\u2019\u00e8 la corona dell\u2019isola, e non potutolo fare, acciocch\u00e8\nper esempio si raffreni l\u2019impotente ambizione degli uomini, e non si\nstimi alcuna cosa per forza avere fermezza, n\u00e8 potere fuggire a tempo\nle calamit\u00e0 innate nelle mortali e cadevoli cose del mondo.\nCAP. XL.\n_Come si ribell\u00f2 Genova a que\u2019 di Milano._\nSeguitasi, che in questi d\u00ec i Genovesi, i quali di natura sono altieri,\nvedendosi s\u00ec vilmente sottoposti a\u2019 tiranni di Milano, e che vendicati\ns\u2019erano de\u2019 Veneziani e de\u2019 Catalani, per la cui fortuna s\u2019erano\nsottoposti al tirannesco giogo, avendo sentito che \u2019l marchese di\nMonferrato avea rubellato a\u2019 tiranni Asti in Piemonte, e che i signori\ndi Pavia s\u2019erano accostati con lui, e \u2019l vicario dell\u2019imperadore\nera colla gente della lega e colla compagnia a oste in sul Milanese,\ninnanzi che sapessono della sconfitta del vicario, parendo loro avere\ntempo da rubellarsi senza pericolo, a d\u00ec 15 di novembre anno detto, il\npopolo si lev\u00f2 a romore, e prese l\u2019arme, e corse la terra, gridando:\nViva libert\u00e0, e muoiano i tiranni; e corsi al palagio, dov\u2019era il\nvicario de\u2019 signori, senza contasto furono messi dentro, e trassonne il\nvicario e tutta sua famiglia, e tutte le masnade de\u2019 soldati a cavallo\ne a pi\u00e8 con lui misono fuori della citt\u00e0 e del loro distretto, senza\nfare loro villania o altro male. E incontanente mandarono a Pisa per\nmesser Simone Boccanegra, ch\u2019era prima stato doge di Genova, il quale\nessendo molto amico de\u2019 Pisani, e avendo secondo l\u2019opinione di molti\ntrattata questa rivoltura, coll\u2019aiuto de\u2019 cavalieri di Pisa e per loro\nconsiglio si mise per terra, e and\u00f2 a Genova, e prese la signoria dal\npopolo. E per questo modo fu libera la citt\u00e0 di Genova dalla signoria\nde\u2019 Visconti di Milano, della qual cosa i signori di Milano rimasono\nindegnati contro al comune di Pisa, aggiugnendo allo sdegno, ch\u2019aveano\ndato aiuto al vicario dell\u2019imperadore quando and\u00f2 contro a loro, e la\nmorte di messer Paffetta loro confidente amico; ma tutto comporta nel\ntempo l\u2019animo della parte.\nCAP. XLI.\n_Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo._\nEra la chiesa di santo Romolo in sulla piazza de\u2019 priori, e impedia\nmolto la piazza; entr\u00f2 un uficio al priorato ch\u2019aveano poco a fare, e\nper\u00f2, come fu loro messo innanzi di rallargare e dirizzare la piazza,\npreso di concordia tra loro il partito, subitamente la sera e la\nnotte feciono mettere in puntelli la chiesa e le case sue, e a d\u00ec 20\ndi novembre tutto feciono rovinare, e ivi presso volgendo le loggie\nverso la piazza, ordinarono che si redificasse maggiore e pi\u00f9 bella,\ne ordinaronvi i danari, e fu fatto. Costoro, a d\u00ec 3 di dicembre del\ndetto anno, volendo fare una gran loggia per lo comune in sulla via di\nVacchereccia, non bene provveduti al beneficio del popolo, subitamente\nfeciono puntellare e tagliare da pi\u00e8 il nobile palagio e la torre della\nguardia della moneta, dov\u2019era la zecca del comune, ch\u2019era dirimpetto\nall\u2019entrata del palagio de\u2019 priori in sulla via di Vacchereccia, e\nquella abbattuta, e fatta la stima delle case vicine fino al chiasso\nde\u2019 Baroncelli e de\u2019 Raugi (biasimati dell\u2019impresa, e che loggia si\nconvenia a tiranno e non a popolo) vi rimase la piazza de\u2019 casolari, e\nla moneta assai debole e vergognosa a cotanto comune. Questo medesimo\nuficio comper\u00f2 da\u2019 Tornaquinci la grande e bella torre ch\u2019aveano sul\ncanto di mercato vecchio e in sul corso del palio, la quale strignea\ne impediva la via del corso; questa feciono abbattere e cadere in sul\nmercato all\u2019uscita del loro uficio; e fu molto a grado a\u2019 cittadini, e\nutile alla via e al mercato.\nCAP. XLII.\n_Quello fece messer Filippo di Taranto e di Vercelli._\nEra in questi d\u00ec a corte di Roma a Avignone messer Filippo di\nTaranto fratello carnale del re Luigi, il quale aspettava che \u2019l papa\ndispensasse con lui e con la moglie che s\u2019avea tolta, sirocchia della\nreina Giovanna, quella che fu moglie del duca di Durazzo e appresso di\nRuberto del Balzo, ed era sua nipote, figliuola del fratello carnale;\ne \u2019l papa, per l\u2019irreverenza ch\u2019ebbono al sagramento matrimoniale\ndi copularsi prima ch\u2019avessono la dispensagione, tardava di farla,\ne mostrava di non volerla fare: e in questo aspetto messer Filippo\nsommosse certi baroni e cavalieri provenzali, e raun\u00f2 quattrocento\nbarbute, e tenne segreta la sua cavalcata, avendo boce ch\u2019andava in\naiuto a\u2019 signori di Milano o al marchese; ma egli ch\u2019avea suo trattato\ncavalc\u00f2 a Carasco in Piemonte, e ripresesi la terra, e lasciolla\nin ordine di guardia, e se ne torn\u00f2 a Avignone del detto mese di\nnovembre. In questo medesimo mese, non ostante la sconfitta del vicario\ndell\u2019imperadore, il marchese di Monferrato, e messer Azzo da Correggio,\ne \u2019l conte di Lando, ch\u2019era lasciato, accolsono tutto il rimanente\ndella loro gente, e que\u2019 di Milano, avendo la vittoria, ne cassarono,\ne assediarono di fuori il castello di Novara, e anche dalla parte della\ncitt\u00e0, e assediarono Vercelli, e tutto il verno mantennero gli assedi,\ntanto che vinsono la punga del castello di Novara, come seguendo nostro\ntrattato al suo tempo diviseremo.\nCAP. XLIII.\n_Come si fugg\u00ec di Milano la donna che fu di messer Luchino col\nfigliuolo._\nDi messer Luchino Visconti tiranno di Milano era rimaso uno figliuolo\nnudrito per la madre, ch\u2019era di quelli dal Fiesco di Genova. I tiranni\ndi Milano, per tema della signoria, l\u2019aveano assottigliato delle\npossessioni e del tesoro che \u2019l padre gli avea lasciato, e il giovane\ncrescea in aspetto d\u2019essere valoroso e in amore de\u2019 cittadini, e questo\ngravava l\u2019animo a\u2019 signori per gelosia dal loro stato. La madre, ch\u2019era\nsavia e accorta, temea forte che messer Bernab\u00f2 e messer Galeazzo nol\nfacessono morire, i quali teneano lui e lei in guardia, ch\u2019uscire non\npoteano di Milano. La donna ordin\u00f2 molto saviamente con danari e con\ngrandi promesse, con certi conestabili di cavalieri ch\u2019aveano a fare\nla guardia, che \u2019l d\u00ec ch\u2019ella disse loro la donna fu provveduta, e\nmontata in su buoni cavalli, e con parte di loro tesoro furono tratti\ndi Milano, e avviati con cavalieri in verso Pavia. La cosa fu tosto\nmanifestata a\u2019 signori; i quali li feciono perseguitare insino presso\na Pavia, e arebbonli ritenuti, se non che gente usc\u00ec di Pavia, e\nricevettonli, e tutti condussonli sani e salvi nella citt\u00e0 di Pavia.\nCAP. XLIV.\n_Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina._\nDappoich\u00e8 per la gente del re Luigi fu presa la tenuta delle fortezze\ndella citt\u00e0 di Messina e del porto, i cittadini ordinarono di comune\nconsiglio di mandare per lo re e per la reina a Reggio, acciocch\u00e8\nvenissono in Messina a ricevere il saramento e la reverenza come loro\nsignori; ed elessono undici cittadini i maggiori per ambasciadori,\ni quali tutti si vestirono di scarlatto foderato di vaio, e con le\ndue figliuole di don Petro valicarono a Reggio, del mese di dicembre\nanno detto; e giunti l\u00e0, e fatta la reverenza al re e alla reina,\nfurono da loro ricevuti con grande allegrezza e festa; e sposta la\nloro ambasciata, e pregato il re e la reina che dovessono andare a\nMessina, incontanente mandarono a far tornare le loro galee: e ricevute\nle damigelle a grande onore, la reina l\u2019ordin\u00f2 di sua compagnia,\ntrattandole caritatevolmente in tutte le cose; e venute le galee, il re\ne la reina e le damigelle vi montarono suso con tutti gli ambasciadori,\ne valicarono a Messina, a d\u00ec 24 di dicembre la vigilia di Natale,\nove furono ricevuti con grande solennit\u00e0 di festa, fatta per tutti i\ncittadini, e collocati nelle case reali: e fatta la solenne festa del\nNatale, ricevettono il saramento e l\u2019omaggio da tutti i cittadini, e\na richiesta de\u2019 cittadini promise il re di risedere colla corte di l\u00e0,\ncosa che poi non attenne.\nCAP. XLV.\n_Come fu murato il borgo di Fegghine._\nRicordandosi i cittadini di Firenze, come in tutte le gravi guerre\nch\u2019al loro comune erano sopravvenute, il borgo di Fegghine ricevea\nle percosse, e veggendo quanto il porto di quel luogo era utile al\nfornimento della citt\u00e0, per la grande abbondanza della vittuaglia\nche a quello mercato continovamente venia, diliberarono che \u2019l borgo\nsi murasse di grosse mura e di buone torri, e facessevisi una grossa\nterra alle spese del comune con l\u2019aiuto delle circustanti vicinanze;\ne dato l\u2019ordine del mese di dicembre del detto anno, e chiamati gli\nuficiali del mese di gennaio, cominciarono a fare i fossi e le porte\nprincipali, e appresso a fondare le mura e le torri. Penossi a compiere\nquesta terra lungamente, ma fornita fu d\u2019essere circundata di mura da\ndifesa l\u2019anno 1363, e compiuta e perfetta del mese di.....: Furono le\nmura in fondamento grosse braccia .... e sopra terra grosse braccia\n... e alte con merli braccia ... con un corridoio dentro in beccatelli\nlargo braccia ... e con torri alte braccia .... senza le porte, catuna\nalta sopra le mura braccia ... E con due porte maestre, l\u2019una verso\nFirenze chiamata porta fiorentina, e l\u2019altra verso castello Sangiovanni\nchiamata porta aretina, catuna Con gran torri, alte sopra le mura\nbraccia ... la faccia delle mura di verso Firenze \u00e8 per lunghezza\nbraccia ... e diverso l\u2019Arno \u00e8 braccia ... e quella verso castello\nSangiovanni \u00e8 braccia ... e quella di verso il poggio \u00e8 braccia ...\nE cos\u00ec in tutto girano le mura di quella terra braccia ... E innanzi\nche la terra fosse murata, fu ripiena di molte case nuove edificate\nda\u2019 cittadini di Firenze, e da\u2019 paesani d\u2019intorno. Cost\u00f2 al comune\ndi Firenze fiorini .... e a\u2019 terrazzani e circustanti fiorini....\nE in questo medesimo tempo ne fece porre il comune una di nuovo al\nPontassieve di costa ove si dice Filicaia, la quale \u00e8 pi\u00f9 per ridotto\nd\u2019una guerra, che per abitazione o per mercato che vi si potesse\nallignare.\nCAP. XLVI.\n_D\u2019un parlamento fece l\u2019imperadore in Alamagna._\nL\u2019imperadore Carlo convocati i prelati e\u2019 baroni d\u2019Alamagna alla festa\ndella nativit\u00e0 di Cristo a Mezza nello Reno, vi si trov\u00f2 con bene\nventimila cavalieri, e in abito della maest\u00e0 imperiale fu servito\na mensa dal duca di Brandimborgo, e dagli altri baroni ordinati per\nconsuetudine a quel servigio. E a quella festa vennero ambasciadori\ndel re d\u2019Inghilterra, e due figliuoli del re di Francia per trattare\npace intra \u2019l re di Francia e \u2019l re d\u2019Inghilterra, ma gli Alamanni\npoco vi seppono trovare modo, ma trattovvisi la concordia, che poi ebbe\ncompimento, tra \u2019l conte di Fiandra e \u2019l duca di Brabante per l\u2019opera\ndi Mellina. In quella festa fu molto ubbidito e reverito l\u2019imperadore\nda\u2019 prencipi d\u2019Alamagna, e con tutti si mostr\u00f2 in buona pace. In\nquesti medesimi d\u00ec, a d\u00ec 23 di dicembre, papa Innocenzio sesto fece\npi\u00f9 cardinali di suo movimento, fra\u2019 quali fu il vescovo di Firenze,\nch\u2019avea nome messer Andrea da Todi valente uomo, il cancelliere di\nParigi uomo di grande autorit\u00e0, e il generale de\u2019 frati minori e quello\nde\u2019 predicatori, che niuno l\u2019avea procurato.\nCAP. XLVII.\n_Come il marchese di Monferrato ebbe il castello di Novara._\nIl Marchese Francesco di Monferrato, come narrato abbiamo addietro,\navea assediato il castello di Novara, ma per via d\u2019assedio o per forza\nnon si potea avere, ch\u2019era inespugnabile e fornito per molti anni:\nma il valente marchese avea presi e facea guardare i passi del Tesino\nper modo, che \u2019l soccorso pi\u00f9 volte mandato pe\u2019 signori di Milano pi\u00f9\nvolte ributt\u00f2 addietro, e la rocca fece cavare; e avendo gli assediati\nrecati a partito, che le mura erano in puntelli nella maggiore parte,\ne non attendeano altro che d\u2019arrendersi o di mettervi entro il fuoco;\nla gente de\u2019 signori di Milano pass\u00f2 Tesino, per andare a soccorrere\nquelli del castello. Il marchese colla sua gente francamente si fece\nloro incontro, e nella prima affrontata gli mise in rotta, e fece\nloro danno ma non grande. E tornato colla vittoria, fece vedere a\nquelli del castello le cave e le mura tagliate, e il loro soccorso\nsconfitto: e per\u00f2, a d\u00ec 21 di gennaio s\u2019arrenderono al marchese,\nsalve le persone, e diedongli il castello fornito d\u2019armadura, e di\nsaettamento, e d\u2019ogni bene da vivere maravigliosamente. Ed \u00e8 da notare,\nnon senza ammirazione, come la famosa potenza de\u2019 signori di Milano,\nessendo vittoriosi, come avemo contato, in termine di due mesi e mezzo\nnon poterono soccorrere il castello di Novara; e tutto avvenne per\nla franca e buona sollicitudine del buono marchese. Di questo mese,\na d\u00ec 22, in sull\u2019ora della terza trapass\u00f2 di verso settentrione in\nmeriggio un grande bordone di fuoco, e valicato per l\u2019aria alla vista\nde\u2019 nostri occhi, essendo il tempo chiaro e cheto, s\u2019ud\u00ec a modo d\u2019un\ntuono tremolante avvisato dal movimento del grosso vapore. Videsi la\nstate singulare e grandissimo caldo, e lungamente secco e sereno, e\nmolte terzane nell\u2019arie grosse e presso alle fiumare, con seguito di\nmorti oltre al consueto modo; altro non ne sapemmo notare se da lui\nprocedette.\nCAP. XLVIII.\n_Come messer Bernab\u00f2 volle uccidere messer Pandolfo Malatesti._\nMesser Pandolfo figliuolo di messer Malatesta da Rimini giovane\ncavaliere, franco e ardito e di grande aspetto, era andato per\nesperimentare in arme sua virt\u00f9 a Milano, fatto capitano di tutta\nla cavalleria di messer Galeazzo Visconti: ed era venuto tanto nel\npiacere del suo signore, che tutto il consiglio e la confidanza di\nmesser Galeazzo riposava in messer Pandolfo. Avvenne di questo mese di\ngennaio, essendo messer Galeazzo malato di podagre e d\u2019altro, comand\u00f2\na messer Pandolfo che cavalcasse per Milano colla sua cavalleria, e\nmesser Pandolfo fece come comandato gli fu dal suo signore. Questa\ncosa parve che generasse sdegno a messer Bernab\u00f2, ma non lo volle\ndimostrare contro al fratello; ma ivi a pochi d\u00ec mand\u00f2 per messer\nPandolfo, il quale di presente and\u00f2 a lui e per reverenza gli\ns\u2019inginocchi\u00f2 davanti. Messer Bernab\u00f2, avendo in mano una spada dentro\nalla guaina, il percosse con essa senza dirgli la cagione: il giovane\nsostenne alquanto, ma menandogli sopra la testa, par\u00f2 il braccio, e\nin quella percossa il fodero della spada usc\u00ec del ferro; e rimase il\nferro ignudo nelle mani del tiranno, incrudel\u00ec forte, e menogli un\ncolpo di punta, che l\u2019avrebbe passato dall\u2019uno lato all\u2019altro (e fu\nbene l\u2019intenzione del tiranno d\u2019ucciderlo) ma per schifare il colpo,\nil giovane cavaliere si lasci\u00f2 cadere in terra, e \u2019l colpo and\u00f2 in\nvano. Intanto la moglie di messer Bernab\u00f2, ch\u2019era presente, con gli\naltri circostanti cominciarono a riprenderlo, dicendo, che non era\nsuo onore in casa sua colle sue mani volere uccidere un gentile uomo.\nE per questo si ritenne, e fecelo prendere e legare, e comand\u00f2 che\nfosse decapitato. Messer Galeazzo sentendo il furore del fratello,\nmand\u00f2 a lui prima la moglie, e appresso due suoi cavalieri, pregandolo\nche gli rimandasse il suo capitano. Allora disse messer Bernab\u00f2: Dite\nal mio frate, che questi ha offeso lui come me, e io gliel rimando,\nacciocch\u00e8 ne faccia giustizia, e non perdoni a costui la nostra onta.\nCome messer Galeazzo il riebbe, senza alcuno arresto in quell\u2019ora il\nfece accompagnare per le sue terre, e rimandollo in suo paese. La\ncagione che messer Bernab\u00f2 disse palese della sua ingiuria fu, che\n\u2019l giovane dovea usare con una donna colla quale usava egli, e che\nconobbe a messer Pandolfo in dito un suo anello. La cagione segreta, a\nche pi\u00f9 si diede fede, fu, perch\u00e8 gli parea che costui facesse troppo\nmontare il suo fratello nella consorte signoria. Pochi d\u00ec appresso\nsi mostr\u00f2 di ci\u00f2 un altro segno; che essendo venuti a parole due\nscudieri, l\u2019uno di messer Bernab\u00f2, e l\u2019altro di messer Galeazzo, e\ndalle parole a mischia, ove fu fedito il famiglio di messer Bernab\u00f2,\ne quello di messer Galeazzo rifuggito in casa il suo signore, di\npresente messer Bernab\u00f2 vi cavalc\u00f2 in persona; e vedendo il fratello\nalle finestre, gli disse, che gli mandasse gi\u00f9 quello scudiere che\navea fedito il suo. Messer Galeazzo glie le mand\u00f2; e lo scudiere gli\nsi gett\u00f2 a\u2019 piedi domandandogli misericordia. La misericordia che\ngli fece fu, che negli occhi del fratello il fece tutto stampanare,\ne lasciolli il corpo senza anima cos\u00ec forato all\u2019uscio, e tornossi a\ncasa. Avvenne ancora in questi d\u00ec, che un giovane di buona famiglia\ndi Bergamo, essendo richiesto da uno messo per la signoria, il prese\nper la barba, e confessato in giudicio il fallo suo, fu condannato in\nventicinque libbre. Sentendolo messer Bernab\u00f2, scrisse al potest\u00e0 che\ngli facesse tagliare la mano. E avendolo il potest\u00e0 preso per seguire\nil comandamento, i buoni cittadini della citt\u00e0 comparenti del giovane,\nparendo loro troppa dura cosa questo giudicio, operarono tanto con il\npotest\u00e0, che sostenne l\u2019esecuzione tanto ch\u2019eglino andassono per avere\ngrazia dal signore. Come il tiranno sent\u00ec per questi ambasciadori ch\u2019al\ngiovane non era tagliata la mano, comand\u00f2 che al giovane le due, e al\npotest\u00e0 l\u2019una fossono tagliate, e a fare questo vi mand\u00f2 gli esecutori.\nLa potest\u00e0 sentendo il crudele comandamento, col giovane ch\u2019avea\npreso si fuggirono in uno castello ribello al tiranno. E non molto\ndi lungi da questi d\u00ec uno lavoratore uccise con una mazza una lepre,\nche gli occorse per caso tra le mani, e portolla all\u2019oste suo, ch\u2019era\ngrande cittadino di Milano, e dimestico di messer Bernab\u00f2. Vedendola\ncostui sformatamente grande e grassa la present\u00f2 a messer Bernab\u00f2; il\nquale veduta la lepre, si maravigli\u00f2, e domand\u00f2 ov\u2019ell\u2019era nudrita:\nfugli detto, ch\u2019ell\u2019era stata presa per lo cotale lavoratore. Mand\u00f2\nper lui, e domandollo come l\u2019avea presa. Il lavoratore lietamente\ngli raccont\u00f2 il caso intervenuto. Il tiranno, perch\u00e8 avea comandato\nche il salvaggiume non si pigliasse con alcuno ingegno, fuori che co\u2019\ncani o uccelli, non avendo compassione alla semplicit\u00e0 del villano, n\u00e8\nal caso occorso, incrudel\u00ec contro al semplice; e mandato per li suoi\ncani alani, nella sua presenza il fece morire e dilacerare a quelli.\nLe crudelt\u00e0 sono poco degne di memoria, ma alquanto ci scusa averne\nraccontate delle molte alcune, per esempio del pericolo che si corre\nsotto il giogo della sfrenata tirannia.\nCAP. XLIX.\n_Come i Genovesi racquistarono Savona._\nMesser Simone Boccanegra doge di Genova, avendo ripresa la signoria\nper lo popolo, mand\u00f2 per avere tutte le terre e castella della riviera\ndi levante e di ponente e fra terra, e in breve tutti feciono i suoi\ncomandamenti, fuori che Savona, Ventimiglia, e Monaco; i quali essendo\nin forza de\u2019 Grimaldi, e d\u2019altri gentili uomini di Genova, non vollono\nubbidire il doge. E per\u00f2 il doge commosse il popolo, e per mare e per\nterra fece assediare Savona, e strignerla per modo, che tosto venne\nin soffratta; e quelli che la teneano avendola di poco rubellata\nal Biscione, non erano provveduti a potere avere soccorso, e per\u00f2\ntrattarono certi patti, e del mese di febbraio del detto anno feciono\ni comandamenti del doge, e ricevettono la sua signoria e del popolo di\nGenova.\nCAP. L.\n_Guerra dal re di Castella a quello d\u2019Araona._\nPella guerra incominciata, come addietro \u00e8 narrato, tra \u2019l re di\nCastella e quello d\u2019Araona, il re di Castella essendo apparecchiato\ncon sua gente, improvviso al suo avversario cavalc\u00f2 sopra le terre\ndi quello d\u2019Araona, e danneggi\u00f2 assai il paese, e per forza vinse e\nprese la citt\u00e0 di Saragozza, e arse la terra, e ritennesi la rocca, e\nmisevi gente alla guardia. Di questo nacque l\u2019abboccamento che appresso\nne seguit\u00f2 de\u2019 due re con tutto loro sforzo, come seguendo al tempo\nracconteremo. E questo avvenne del mese di febbraio del detto anno.\nCAP. LI.\n_Come messer Filippo di Navarra cavalc\u00f2 presso a Parigi._\nMesser Filippo fratello carnale del re di Navarra, ch\u2019era preso dal re\ndi Francia, si mise in compagnia del conte di Lancastro, e con molti\ncavalieri e arcieri cavalcarono verso Parigi, scorrendo e predando il\npaese, senza trovare in campo alcuno contasto, e accostaronsi presso a\nParigi a quindici leghe, e di l\u00e0 elesse messer Filippo mille cavalieri\nFranceschi, navarresi e normandi, e con essi cavalc\u00f2 all\u2019uscita di\ngennaio del detto anno infino presso a Parigi a tre leghe, ardendo\nville casali e manieri in grande quantit\u00e0, e uccidendo e predando bene\nalla disperata; e s\u00ec avea in quell\u2019ora in Parigi cinquemila cavalieri\narmati, e non ebbono ardire d\u2019uscire della citt\u00e0, tanto erano inviliti.\nE avendo per questo modo danneggiato il paese, e fatto onta e vergogna\nal vilissimo Delfino, raccolta sua preda, con tutta sua gente sano e\nsalvo si torn\u00f2 al conte, e di l\u00e0 tutti insieme carichi degli arnesi e\nde\u2019 beni de\u2019 Franceschi, e di loro prigioni si tornarono, senza vedere\nviso di nemico, in loro paese. In questi d\u00ec il Delfino s\u2019era rimesso\nnel consiglio e nelle mani di certi borgesi, i quali erano stati\neletti per comune consiglio del popolo di Parigi, e avea giurato nelle\nloro mani di fare pace e guerra come per loro si diliberasse. E molti\nstimarono che questa fosse la cagione perch\u00e8 non usc\u00ec contro a messer\nFilippo di Navarra, potendolo fare con molta maggiore forza per numero\ndi cavalieri che non avea egli.\nCAP. LII.\n_Come si cominci\u00f2 le mulina del comune di Firenze._\nDel mese di marzo, anno 1356 all\u2019entrante, diliber\u00f2 il comune di\nFirenze di far fare la gran pescaia in Arno sopra la citt\u00e0, dalla\ntorre del Renaio alla porta di san Niccol\u00f2, e \u2019l canale che prende\ndi sopra a san Niccol\u00f2 infino al Ponte rubaconte da san Gregorio, nel\nquale ordinarono e poi fornirono due case a traverso al canale, l\u2019una\ndi sopra e l\u2019altra di sotto, catuna con sei palmenta per lo comune\nmolto bene edificate, e ancora per ordine vi se ne dovea fare quattro\npenzole. Provvide questo il comune per fatti delle guerre di fuori,\nche faceano alcuna volta venire di farina la citt\u00e0 in gran soffratta,\ne queste vengono nella guardia dentro alle mura della citt\u00e0, e spesso\nhanno d\u2019acqua grande abbondanza.\nCAP. LIII.\n_Come il reame di Francia ebbe gran divisione._\nDetto abbiamo poco addietro come i borgesi di Parigi doveano guidare\nil Delfino e \u2019l reame, ma il mestiere di tanto fascio non era loro;\ne per la presura del re Giovanni, e per la codardia del Delfino suo\nfigliuolo, l\u2019ordine del consueto corso del reame era rotto, e\u2019 baroni\ne\u2019 popoli si governavano a loro senno, e\u2019 borgesi di Parigi non poteano\nn\u00e8 sapeano riparare. Gl\u2019Inghilesi tennono con loro trattati d\u2019accordo,\ne a mano a mano gli cavalcavano, facendo loro gran danni; e per\u00f2,\ncredendosi potere meglio riparare, ordinarono di comune concordia del\nreame che la bal\u00eda e \u2019l consiglio del reggimento in quelle fortune\nfosse di tre prelati, e di tre baroni, e di tre borgesi, con piena\nbal\u00eda di potere fare pace e guerra, e leggi e comandamenti come a loro\nparesse; e convenne che \u2019l Delfino acconsentisse a questo reggimento, e\npromettesse reggersi per loro consiglio. Dall\u2019altra parte tutti quelli\ndi Linguadoca feciono loro conducitore il conte d\u2019Ormignac, dandoli\ndue altri cavalieri per suo consiglio per certo termine, e \u2019l Delfino\nconvenne che glie le confermasse; della qual cosa nacque lo sdegno del\nconte di Fuc\u00ec, che fu poi cagione di gran guerra tra loro, come innanzi\nsi potr\u00e0 trovare. Nel principio di questo nuovo reggimento al tutto si\nmostrarono strani di non volere udire trattato di pace, e cominciarono\na dare ordine d\u2019accogliere danari per fornirsi di cavalieri soldati,\ne parve in questi principii dovessono fare gran cose; ma in poco di\ntempo, come catuno ebbe fornite sue spezialit\u00e0 per virt\u00f9 dell\u2019uficio,\nlasciarono in abbandono il consiglio del comune reggimento, e senza\nordine trascorsono alla figura della ruina dello sviato regno. I\nPiccardi prima avvedendosi di questo, presono da loro di reggersi per\ns\u00e8, e non conferire n\u00e8 ubbidire alle colte, n\u00e8 agli ordini de\u2019 detti\nuficiali, e cos\u00ec feciono molte altre provincie e ville del reame; e\ndi questo nacquono poi cose di gravi danni di tutto il reame, come\nseguendo nostra materia si potr\u00e0 trovare.\nCAP. LIV.\n_Morte del conte Simone di Chiaramonte in Cicilia._\nEssendo il re Luigi in Messina, vi venne il conte Simone di\nChiaramonte; e parendogli avere fatto al detto re gran cose, perocch\u00e8\nera principale cagione d\u2019avergli fatto avere Messina, e l\u2019altre terre\ne castella dell\u2019isola, parendogli dovere avere dal re ogni grazia,\ngli addomand\u00f2 di volere per moglie dama Bianca una delle figliuole di\ndon Petro che fu re di Cicilia, e oltre a ci\u00f2 si mostrava in atto e\nnel suo parlare pi\u00f9 superbo che altiero. Al re e al suo consiglio non\nparve convenevole la sua domanda, che tant\u2019era come dargli il regno, e\nper\u00f2 entr\u00f2 in trattato con lui di volergli dare la figliuola del duca\ndi Durazzo. E in questo stante al conte venne male, che in sette d\u00ec si\ntrov\u00f2 morto. Sospetto fu, che \u2019l consiglio del re avesse aoperato nella\nsua morte, per tema ch\u2019e\u2019 non movesse novit\u00e0 grandi nell\u2019isola, come\npotea, non avendo dal re la sua intenzione. Se natural fu, assai fu a\ngrado al re e al suo consiglio. E questo avvenne di marzo, anno detto\nCAP. LV.\n_Come si liber\u00f2 il Borgo a Sansepolcro da tirannia._\nFrancesco di Nieri da Faggiuola essendo come tiranno signore del\nBorgo a Sansepolcro, e per tenere quello avea perdute certe delle\nsue proprie castella, e vedendosi debole in quello reggimento, tratt\u00f2\nco\u2019 terrazzani d\u2019avere da loro seimila fiorini d\u2019oro, e lasciarli in\nlibert\u00e0; e avendone gi\u00e0 avuti tremila, e data la fortezza a guardia\nde\u2019 terrazzani, certi Boccognani, ch\u2019erano in bando di Perugia e\nriparavansi con lui, il ripresono di vilt\u00e0, e dissono che nol dovea\nfare, ma se avarazia di danari il movea, elli gli farebbono dare\nquindicimila fiorini in tre d\u00ec al comune di Perugia dando loro\nla terra. Costui stretto dalla cupidigia della moneta di\u00e8 il suo\nconsentimento a que\u2019 Perugini. Ed egli avea ancora il titolo della\nsignoria, e le masnade de\u2019 forestieri a pi\u00e8 da poter mettere i\nPerugini nella terra, s\u2019e\u2019 borghigiani non se ne fossono accorti, ma\nsentirono il fatto; e senza attendere il d\u00ec, la notte furono tutti\nsotto l\u2019arme, e per forza trassono Francesco e tutti i soldati del\nBorgo, e accompagnandoli, gli ebbono condotti in sul terreno di Citt\u00e0\ndi Castello. Ivi il lasciarono co\u2019 suoi soldati, i quali il ritennono\ntanto, ch\u2019e\u2019 tremila fiorini ch\u2019avea avuto da\u2019 borghigiani vennono\nnelle loro mani; e avuti i danari, e de\u2019 suoi arnesi, il lasciarono\nandare povero e mendico, com\u2019egli avea meritato. I borghigiani usciti\ndelle mani del tiranno ghibellino si riformarono a popolo e a parte\nguelfa, tenendo di fuori tutti i Boccognani ghibellini ch\u2019aveano\ntradita la loro terra, come addietro contammo, e\u2019 loro seguaci.\nCAP. LVI.\n_Come l\u2019abate di Clugn\u00ec succedette al cardinale di Spagna._\nAvea, come si pu\u00f2 vedere addietro, il cardinale di Spagna legato del\npapa con prospera fortuna racquistato a santa Chiesa tolte le terre,\nch\u2019erano state occupate lungamente a santa Chiesa nel Patrimonio, nella\nMarca, nel Ducato e in Romagna, salvo quelle che tenea il signore di\nForl\u00ec, e contro a quelle s\u2019era apparecchiato di vincerle. In questo il\npapa, o che fosse movimento suo o de\u2019 cardinali, o fatto a richiesta\no a motiva del legato, la Chiesa mand\u00f2 successore a fornire le guerre,\nche restavano, e a mantenere le ragioni di santa Chiesa in Italia, per\nsuccessore del valoroso cardinale di Spagna l\u2019abate di Clugn\u00ec con piena\nlegazione; il quale giunse a Faenza all\u2019entrante d\u2019aprile anni 1357. E\ncome l\u2019abate fu giunto, la gente della Chiesa in una cavalcata fatta\nsopra Forl\u00ec, alla quale il capitano usc\u00ec incontro per riscuotere la\npreda, e\u2019 cadde in un aguato ove perd\u00e8 da cento uomini di suo i pi\u00f9 a\ncavallo. E come il nuovo legato fu posato, il legato fece venire a Fano\ntutti i maggiori caporali del Patrimonio, e del Ducato, e della Marca\ne di Romagna, e ambasciadori delle comunanze, e in quel parlamento il\ncardinale fece suo sermone, commendando coloro ch\u2019avea trovati fedeli e\nleali a santa Chiesa, e ammon\u00ec e preg\u00f2 tutti generalmente che dovessono\nstare in ubbidienza e in fede di santa Chiesa, e a servire il nuovo\nlegato lealmente come aveano fatto lui, commendando largamente in tutte\nle virt\u00f9 il suo successore, e dicendo come sua intenzione era di voler\ntornare a corte di Roma di presente; e questo fu a d\u00ec 27 d\u2019aprile del\ndetto anno. I savi uomini ch\u2019erano in quel parlamento, che conoscevano\nil pericolo che correa il paese ancora in guerra partendosi il legato\ncardinale, ch\u2019avea l\u2019amore di tutti e le cose aperte nelle mani, il\npregarono di comune consiglio che non si dovesse partire del paese\ninsino al settembre prossimo: l\u2019abate medesimo con ogn\u2019istanza per\nsua parte e per beneficio di santa Chiesa il ne richiese: ond\u2019egli\nconoscendo la necessit\u00e0, affinch\u00e8 l\u2019acquisto fatto per lui prendesse\npi\u00f9 fermezza, acconsent\u00ec di stare alle loro preghiere questo tempo. E\nquello che principalmente pi\u00f9 l\u2019indusse, fu l\u2019impresa ch\u2019avea ordinata\ncontro all\u2019aspra rubellione del capitano di Forl\u00ec, che per vantaggio\nche \u2019l cardinale gli avesse voluto fare, non volea a santa Chiesa\nrestituire in pace le citt\u00e0 di Forl\u00ec e di Cesena.\nCAP. LVII.\n_Come il re di Francia fu menato in Inghilterra._\nTornando nostra materia a\u2019 fatti del re di Francia, ch\u2019era in prigione\na Bordello in Guascogna, i Guasconi, a cui e\u2019 s\u2019era accomandato, non\nvolendo acconsentire al re d\u2019Inghilterra di mandarglielo nell\u2019isola\ncom\u2019e\u2019 volea, si pens\u00f2 il re di fare per ingegno quello che per sua\nautorit\u00e0, senza indegnazione de\u2019 Guasconi co\u2019 quali avea vinta la\nsua guerra, nol potea fare. E per\u00f2 fece venire i legati al figliuolo\nin Guascogna, e mandovvi i maggiori de\u2019 suoi baroni a trattare la\npace colla persona del re e co\u2019 legati. E recata la cosa per lungo\ndibattimento a concordia, per dare pi\u00f9 fede al fatto, fu ordinata e\nbandita nell\u2019uno reame e nell\u2019altro triegua per due anni; e\u2019 patti\ndella pace recati in iscritture private, con patto, che per fare onore\nal re d\u2019Inghilterra, e per maggior bene della pace, il re dovesse\nandare nell\u2019isola, e con lui i legati di santa Chiesa e tutti i baroni\nch\u2019erano presi, acciocch\u00e8 la pace nella presenza de\u2019 due re e de\u2019\nlegati avesse la sua intera e piena fermezza. E per questo ingegno,\nacconsentendo i Guasconi alla volont\u00e0 del re e de\u2019 legati, fu il re\ndi Francia e gli altri baroni liberati al duca di Guales, i quali\ncon gran compagnia di baroni e di cavalieri inghilesi gli condussono\nin Inghilterra, dove furono ricevuti con quella festa e onore ch\u2019al\nsuo tempo innanzi diviseremo: e questa partita da Bordello fu fatta\nd\u2019aprile del detto anno.\nCAP. LVIII.\n_Come la gente della Chiesa entr\u00f2 in Cesena._\nDappoich\u00e8 il cardinale legato ebbe preso partito di rimanere a fornire\nla guerra di Romagna, come detto \u00e8, ordin\u00f2 la sua gente d\u2019arme a\ncavallo e a pi\u00e8, e tutti i sudditi richiese d\u2019aiuto; e fece pubblicare\nla sentenza contro al capitano di Forl\u00ec e contro a chi gli desse\naiuto o favore, e a d\u00ec 24 d\u2019aprile anno detto fece scorrere la sua\ngente intorno a Forl\u00ec, e presono Castelvecchio, e predarono il paese\nfacendo assai danno, e il capitano a questa volta si stette dentro\nalle mura. Avea, come detto \u00e8, Francesco Ordelaffi, detto capitano,\nmandato alla guardia di Cesena la valente sua donna madonna Cia,\nfigliuola di Vanni da Susinana degli Ubaldini, con dugento cavalieri\ne con assai masnadieri, e comandato a tutti che l\u2019ubbidissono come\nla sua persona; e per suo consiglio l\u2019avea dato Sgariglino di....\nsuo intimo amico. Questa mantenea la guardia della citt\u00e0 con grande\nsollecitudine: ma i cittadini sentendo la molta gente d\u2019arme ch\u2019avea\nil legato, e che contro a loro s\u2019apparecchiavano le percosse, e non si\nvedeano potenti alla difesa, quasi in subito movimento ordinarono di\nricevere nella terra di sotto la gente del legato; il quale subitamente\nvi mand\u00f2 millecinquecento cavalieri, e senza contasto furono messi pe\u2019\nterrazzani nelle prime cinte delle mura. La donna colla sua forza per\nl\u2019improvviso caso non pot\u00e8 riparare a\u2019 nemici, ma ridussesi in quella\nparte pi\u00f9 alta della terra che si chiama la murata e nella rocca,\nall\u2019uscita d\u2019aprile predetto, con tutte le sue masnade da pi\u00e8 e da\ncavallo. E presi tre cittadini ch\u2019erano stati al trattato, in sulla\nmurata li fece decapitare e gittarli di sotto a\u2019 nemici; e con animo\nardito e franco pi\u00f9 che virile prese la difesa del minore cerchio e\ndella rocca con sollecita guardia di d\u00ec e di notte, mostrando di poco\ntemere cosa ch\u2019avvenuta le fosse.\nCAP. LIX.\n_Come il legato con sua forza and\u00f2 a Cesena._\nCome il legato ebbe la sua gente in Cesena, di presente mand\u00f2 tutta\nl\u2019altra sua cavalleria e fanti a pi\u00e8 a Cesena per assediare la donna e\nla sua gente nella murata e nella rocca, innanzi ch\u2019ella potesse avere\naltro soccorso, e fece pigliare un monistero ch\u2019era in un colle al pari\ndella rocca, e fecevi stare gente a cavallo e a pi\u00e8 s\u00ec forte, che da\nquella parte la rocca non potesse essere soccorsa, e nella terra di\nsotto provvide d\u2019afforzarsi per modo che maggior forza che la sua non\ngli potesse nuocere: e\u2019 soldati del cardinale avendo contro a\u2019 patti\nrubati i terrazzani, avea fatto cambiare loro gli animi, per la qual\ncosa la guardia della terra convenia essere grande e forte, e in questo\nper tenerli forniti ebbe il legato somma sollecitudine. La valente\nmadonna Cia dalla sua parte facea francamente d\u00ec e notte buona guardia,\ntenendosi in grande ordine alla difesa.\nCAP. LX.\n_Abboccamento e triegua fatta dal re di Spagna al re d\u2019Araona._\nDel mese d\u2019aprile anno detto, il re di Castella avendo oltraggiato\nin mare e in terra quello d\u2019Araona, come abbiamo contato, temendo\nche il re d\u2019Araona non venisse sopra le sue terre colla sua oste,\ns\u2019avacci\u00f2, e accolse tra Spagnuoli, e infedeli Giannetti, e Mori,\ncinquemila cavalieri e grandissimo popolo, e vennesene in sulle terre\nd\u2019Araona; e pose campo intorno a Samona, la quale poco innanzi avea\ntolta a\u2019 Catalani, e ivi attese il re d\u2019Araona affine di combattersi\ncon lui. Il re d\u2019Araona avea fatto suo sforzo, e venne contro a lui con\ntremilacinquecento cavalieri catalani, e con moltitudine di mugaveri\na pi\u00e8 con loro dardi, e pose il suo campo assai presso a quello degli\nSpagnuoli; e catuno s\u2019ordinava per venire alla battaglia. E perch\u00e8\nil re d\u2019Araona non avesse tanta gente a cavallo quanta il re di\nSpagna, non avea minore speranza nella vittoria, perocch\u00e8 avea buoni\ncavalieri, e tutti d\u2019una lingua, e animosi contro gli Spagnuoli, e\ndove abboccati si fossono, non era senza effusione di sangue grande,\nma, come a Dio piacque, baroni di catuna parte si misono in mezzo, e\nmostrarono a\u2019 signori come di lieve cagione non si convenia a\u2019 due re\nessere operatori di tanto male, e presono ordine di trattare la pace,\ne in quello stante feciono fare loro due anni di triegua; e del mese di\nmaggio del detto anno catuno si torn\u00f2 addietro con tutta sua gente nel\nsuo reame.\nCAP. LXI.\n_Come Rezzuolo si diede a\u2019 Fiorentini._\nI terrazzani del castello di Rezzuolo, dappoich\u00e8 furono liberati\ndall\u2019assedio del conte Ruberto da Battifolle per comandamento del\ncomune di Firenze, s\u2019intesono insieme, e recaronsi in guardia e\nubbidiano male Marco di messer Piero Sacconi, perch\u00e8 si pensava non\npoterlo tenere. Nondimeno vi mand\u00f2, gente d\u2019arme per guardare la rocca,\ndando boce che \u2019l volea dare al comune di Firenze, perch\u00e8 sentiva della\nvolont\u00e0 de\u2019 terrazzani; ma quelli del castello non li vollono ricevere,\nma feciono loro sindaco con pieno mandato, a darsi liberamente e\nfarsi contadini di Firenze, e Marco mand\u00f2 ancora suo procuratore a\nFirenze colle ragioni ch\u2019avea nel castello per darle al comune. I\nFiorentini presono prima le ragioni di Marco, e appresso quelle degli\nuomini del castello, e questo fu fatto a d\u00ec 29 d\u2019aprile anno detto. E\nrecato Rezzuolo col suo contado a contado di Firenze, e aggiunto colla\nmontagna fiorentina con cui confinava, e gi\u00e0 per questo Marco non si\nfece amico de\u2019 Fiorentini, n\u00e8 i Fiorentini, di lui.\nCAP. LXII.\n_Come i Pisani vollono torre Uzzano a\u2019 Fiorentini._\nI Pisani veggendosi privati del porto, e della mercatanzia, e de\u2019\nmercatanti forestieri, della qual cosa seguitava alla loro citt\u00e0\nmancamento delle rendite del comune, e incomportabile danno agli\nartefici e a\u2019 mercatanti, e scandalo e riprensione tra\u2019 cittadini,\ncoloro che reggeano lo stato con grande astuzia pensavano di trovare\nmodo con loro vantaggio, ch\u2019e\u2019 Fiorentini si movessono contro a loro\nin guerra, stimando, se guerra si movesse, i cittadini di Pisa, che\nsono animosi contro a\u2019 Fiorentini, dimenticherebbono ogni altra cosa\ndi mercatanzia e di loro mestieri; e per\u00f2 cominciarono certo trattato\nin Uzzano di Valdinievole per torlo al comune di Firenze, non avendo\nil detto comune per tutta l\u2019ingiuria della franchigia tolta a\u2019 loro\ncittadini voluta rompere la pace. Il trattato si scoperse, e Uzzano e\ntutte l\u2019altre terre si rifornirono pe\u2019 Fiorentini di migliore guardia,\ne presesi per consiglio di dissimulare l\u2019ingiuria. \u00c8 oltre a questo\nusarono un altro scalterimento. Il doge di Genova era singulare loro\namico, e sotto la sua baldanza mandarono ambasciadori a Genova, i\nquali fermarono compagnia e lega col doge per un anno, e co\u2019 Genovesi,\na tenere certe galee in mare per non lasciare andare mercatanzia a\nTalamone, ma farla scaricare in Porto pisano; e dierono a intendere\na\u2019 Genovesi, che quest\u2019era di volont\u00e0 de\u2019 Fiorentini ch\u2019aveano voglia\ndi tornarsi a Pisa, ma non voleano mancare a\u2019 Sanesi per loro fatto\nla promessa del porto di Talamone. E fornita la lega, con moltitudine\ndi stromenti la feciono bandire, e nel bando dire, che i Fiorentini\npotessono colle persone e colle loro mercatanzie andare, stare, e\nnavicare, e mettere e trarre del loro porto, e della citt\u00e0 e distretto,\nsani e salvi, e franchi e liberi d\u2019ogni dazio, e gabella e dirittura.\nE con questa loro provvisione credettono levare i Fiorentini dalla loro\nimpresa di Talamone, ma trovaronsi ingannati, come appresso diviseremo.\nCAP. LXIII.\n_Come i Pisani armarono galee per impedire il porto._\nI Fiorentini sentendo i maliziosi agnati de\u2019 Pisani, infinsono, come\ndetto \u00e8 il fatto d\u2019Uzzano, e mandarono ambasciadori a Genova per\navvisare il consiglio e il popolo di quella citt\u00e0 l\u2019inganno col quale i\nPisani gli aveano indotti a fare lega contro al comune di Firenze. Il\ndoge per la singolare amist\u00e0 ch\u2019avea co\u2019 Pisani non lasci\u00f2 avere loro\nil consiglio, sicch\u00e8 non poterono fare quello perch\u00e8 andati v\u2019erano,\ne tornaronsi addietro non senza mormorio de\u2019 cittadini che \u2019l seppono\ncontro al doge. I Fiorentini conoscendo quanto danno tornava a\u2019 Pisani\nil perdimento del porto e della mercatanzia pi\u00f9 l\u2019un d\u00ec che l\u2019altro,\naggravarono l\u2019ordine del divieto, e aggiungono, che chi consigliasse,\no procurasse o trattasse, o in segreto o in palese, che a Pisa si\ntornasse, fosse condannato nell\u2019avere e nella persona; e mandarono in\nProenza a fare armare galee per conducere la mercatanzia, e\u2019 mercatanti\nsi procacciarono cammino di Fiandra a. Vinegia ed a Avignone per terra,\nnon curandosi, di maggior costo, e ogni cosa comportavano lietamente,\nacciocch\u00e8 \u2019l comune mantenesse l\u2019impresa. I Pisani si sforzarono tanto\nch\u2019ebbono sei galee armate, e pi\u00f9 volte cercarono di prendere e ardere\nTalamone; la cosa si rimase in questi termini lungamente, tanto, ch\u2019e\u2019\nFiorentini, procurarono di ributtarli in mare.\nCAP. LXIV.\n_L\u2019aiuto mand\u00f2 messer Bernab\u00f2 al capitano di Forl\u00ec._\nIl capitano di Forl\u00ec, sentendo le masnade del legato in Cesena, e\nposta la bastita alla rocca, e racchiusa la moglie e i figliuoli\nnella murata, mand\u00f2 per soccorso a messer Bernab\u00f2 signore di Milano\nin cui riposava tutta sua speranza, il quale incontanente intese ad\napparecchiarli il soccorso. Ma perch\u00e8 scoprire non si volea allora\nnemico di santa Chiesa, tratt\u00f2 col conte di Lando caporale della\ncompagnia, e segretamente si convenne con lui per li suoi danari;\ne fece servigio a se del levargli a\u2019 nemici, e mandogli in Romagna\ncontro al legato, perch\u00e8 atassono il capitano di Forl\u00ec suo amico. E\ninnanzi che la compagnia si partisse, per dare speranza agli amici,\ne raffrenare le imprese del legato, mand\u00f2 in sul Modenese duemila\nbarbute della sua propria cavalleria, e ivi si stavano senza fare\nguerra, tenendo in sospetto i Lombardi e \u2019l legato. In questo tempo il\nlegato si studiava di strignere e forte quelli della murata di Cesena,\ndando loro il d\u00ec e la notte gravi assalti, e rittivi pi\u00f9 trabocchi,\ngli fracassava d\u2019ogni parte; e oltre a ci\u00f2, tentava con trattati e con\nspendio d\u2019avere la murata innanzi che la compagnia venisse. Di questo\nnacque, che madonna Gi\u00e0 avendo alcuno sentore, che senza sua saputa\nl\u2019antico amico del capitano, il quale era in sua compagnia, Sgariglino,\ntrattava alcuno accordo col legato per salvezza di tutti gli assediati,\ndi presente il fece prendere e tagliargli la testa, del mese di maggio\nanno detto. Ella sola rimase guidatore della guerra e capitana de\u2019\nsoldati, e il d\u00ec e la notte coll\u2019arme indosso difendea la murata dagli\nassalti della gente del legato s\u00ec virtuosamente, e con cos\u00ec ardito e\nfiero animo, che gli amici e\u2019 nemici fortemente la ridottavano, non\nmeno che se la persona del capitano fosse presente.\nCAP. LXV.\n_Come il conte d\u2019Armignacca da Tolasana per gravezze fu cacciato._\nDi questo mese di maggio, essendo venuto il conte d\u2019Armignacca capitano\ndi quelli dei reame di Francia di Linguadoca, ed essendo venuto alla\ncitt\u00e0 di Tolosa, e trattando di fare gravezze per accogliere danari\nper la comune bisogna della guerra, il popolo si lev\u00f2 a romore e furore\ncontro al conte, dicendo, ch\u2019egli era sturbatore della pace, e voleali\nmettere in disusate gravezze; e corsono al palagio ov\u2019egli abitava,\ne non potendovi entrare per forza, l\u2019assediarono, e cominciarono\nad affocare le porte. E soprastando la difesa, i gentili uomini di\nTolosana si misono in mezzo, e feciono promettere e giurare al conte,\nche non renderebbe mal merito al popolo di Tolosa di ci\u00f2 ch\u2019aveva fatto\ncontro a lui, e che non farebbe alcuna gravezza alla villa. E fatti i\npatti, il conte s\u2019assicur\u00f2 nelle mani de\u2019 gentili uomini: e quetato il\npopolo, sano e salvo il condussono in suo paese colla sua gente.\nCAP. LXVI.\n_Conta dell\u2019onore fatto al re di Francia in Inghilterra._\nAvendo il duca di Guales e gli altri baroni d\u2019Inghilterra condotto\nil re di Francia, e \u2019l figliuolo, e gli altri baroni presi nella\nbattaglia, nell\u2019isola d\u2019Inghilterra, feciono assapere al re Adoardo\nla loro venuta. Il re di presente fece assembrare in Londra di tutta\nl\u2019isola baroni, e cavalieri d\u2019arme, e gran borgesi per volere fare\nsingulare festa in onore del re di Francia per la sua venuta; e fece\nch\u2019e\u2019 cavalieri si vestissono d\u2019assisa, e li scudieri e\u2019 borgesi,\ne per piacere al loro re catuno si sforz\u00f2 di comparire orrevole e\nbello; e ordinato fu che tutti andassono incontro al re di Francia,\ne facessongli reverenza, e onore, e compagnia, e \u2019l re Adoardo in\npersona vestito d\u2019assisa, con alquanti de\u2019 suoi pi\u00f9 alti baroni, avendo\nordinata sua caccia a una foresta in sul cammino fuori di Londra,\nsi mise l\u00e0 co\u2019 detti suoi baroni; e mandato innanzi incontro al re\ndi Francia tutta la sopraddetta cavalleria, com\u2019egli s\u2019approssim\u00f2\nalla foresta, il re d\u2019Inghilterra uscito dalla foresta per traverso\ns\u2019aggiunse col re di Francia in sul cammino, e avvallato il cappuccio,\ninchinatolo con reverenza, gli disse salutandolo: Bel caro cugino,\nvoi siate il ben venuto nell\u2019isola d\u2019Inghilterra. E \u2019l re avvallato il\nsuo cappuccio gli rispose, che ben foss\u2019egli trovato. E appresso il re\nd\u2019Inghilterra l\u2019invit\u00f2 alla caccia, ed egli lo merci\u00f2 dicendo che non\nera tempo: e \u2019l re disse a lui: Voi potete e a caccia e riviera ogni\nvostro diporto prendere nell\u2019isola. Il re di Francia glie ne rend\u00e8\ngrazie. E detto, addio bel cugino, si ritorn\u00f2 nella foresta alla sua\ncaccia, e \u2019l re di Francia con tutta la compagnia degl\u2019Inghilesi con\ngran festa fu condotto nella citt\u00e0 di Londra, essendo montato in sul\nmaggiore destriere dell\u2019isola spagnuolo adorno realmente, e guidato\nda\u2019 baroni al freno e alla sella, con dimostramento di grande onore fu\nguidato per tutte le buone vie della citt\u00e0, ordinate e parate a quello\nreale servigio, acciocch\u00e8 tutti gl\u2019Inghilesi piccoli e grandi, donne\ne fanciulli il potessono vedere. E con questa solennit\u00e0 fu condotto\nfuori della terra all\u2019abitazione reale; e ivi apparecchiata la desinea\ncon magnifico paramento d\u2019oro, e d\u2019arnesi, e di argento, e di nobili\nvivande, fu ricevuto e servito alla mensa realmente, e tutti gli\naltri baroni, e il figliuolo del re, ch\u2019erano prigioni, furono onorati\nconseguentemente in questa giornata, che fu a d\u00ec 24 di maggio del detto\nanno. Per questa singolare allegrezza e festa si diede pi\u00f9 piena fede\nche la pace fosse ferma e fatta; ma chi vuole riguardare la verit\u00e0 del\nfatto, conoscer\u00e0 in questo processo accresciuta la miseria dell\u2019uno re\ne esaltata la pompa dell\u2019altro, e quello che si nascose nella simulata\nfesta si manifest\u00f2 appresso ne\u2019 fatti che ne seguirono, come seguendo,\nne\u2019 tempi racconteremo.\nCAP. LXVII.\n_Trattato tenuto per li Fiorentini in accordare il capitano di Forl\u00ec\ncon il legato._\nIn questi medesimi d\u00ec, vedendo i Fiorentini la durezza del capitano\ndi Forl\u00ec, e temendo che l\u2019avvenimento della compagnia e d\u2019altra nuova\ngente d\u2019arme in Romagna non rimbalzasse in loro dannaggio, mandarono\nambasciadori allegato, i quali voleano essere mezzani a trovare accordo\ne pace intra lui e \u2019l capitano di Forl\u00ec; e intesisi col legato, il\ntrovarono grazioso per amore de\u2019 Fiorentini alla concordia, e con\nbuona speranza andarono al capitano di Forl\u00ec, il quale li ricevette\nonorevolmente; e udita l\u2019ambasciata, ringrazi\u00f2 gli ambasciadori, e\ndisse ch\u2019era contento d\u2019avere pace col legato e con santa Chiesa,\nrimanendo egli signore di Forl\u00ec, e di Cesena, e di tutte le terre che\ntenea, volendole riconoscere da santa Chiesa, e per omaggio pagare ogni\nanno quel censo alla Chiesa che fosse convenevole; per altro modo non\nvoleva che se ne parlasse, e a questo era fermo; e per questo modo si\ntornarono a Firenze senza frutto alcuno.\nCAP. LXVIII.\n_Come il legato ebbe la murata di Cesena._\nTrapassate le parole del trattato, il legato, ch\u2019avea l\u2019animo sollecito\na vincere sua punga, innanzi che \u2019l soccorso giugnesse a\u2019 nemici,\na d\u00ec 28 di maggio anno detto, ordinata sua gente e molti dificii da\ncombattere la murata, fece d\u2019ogni parte cominciare la battaglia aspra\ne forte, e avendo provveduto alcuna parte del muro si poteva per cave\nabbattere, il fece rovinare, e que\u2019 dentro subitamente ripararono\ncon steccati; e aggravando la battaglia d\u2019ogni parte, rinfrescandosi\nspesso per quelli di fuori nuovi combattitori, e dove il muro era\ncaduto, quivi senza arresto si continova va s\u00ec aspra battaglia, che\nquelli ch\u2019erano alla difesa, per lo soperchio affanno di loro corpi,\nsenza potere avere rinfrescamento, conobbono di non potere sostenere, e\nl\u2019altre parti erano ancora s\u00ec strette da\u2019 combattitori che non poteano\nsoccorrere alle pi\u00f9 deboli parti; e vedendosi non potere pi\u00f9 resistere,\nbench\u00e8 assai avessono morti e fediti e magagnati de\u2019 loro avversari,\ndiedono segno tra loro, e abbandonarono la murata, e ridussonsi nella\nrocca, e la gente del legato di presente vittoriosamente la si prese.\nMadonna Cia avendo fatto maravigliosamente d\u2019arme e di capitaneria alla\ndifesa, si ridusse con quattrocento tra cavalieri e masnadieri nella\nrocca, acconci a\u2019 comandamenti della donna per singulare amore infino\nalla morte.\nCAP. LXIX.\n_De\u2019 fatti di madonna Cia donna del capitano di Forl\u00ec._\nRacchiusa madonna Cia nella rocca con Sinibaldo suo giovane figliuolo,\ne con due suoi nipoti piccoli fanciulli, e con una fanciulla grande da\nmarito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano e cinque damigelle,\ned essendo cinta stretta d\u2019assedio, e combattuta da otto dificii che\ncontinovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo sentimento\nd\u2019alcuno soccorso, e sapendo che le mura della rocca e delle torri\ndi quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si teneva,\natando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa durezza,\nVanni da Susinana degli Ubaldini suo padre, conoscendo il pericolo a\nche la donna si conducea, and\u00f2 al legato, e impetr\u00f2 grazia d\u2019andare a\nparlare colla figliuola, per farla arrendere al legato con salvezza\ndi lei e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre, e uomo di\ngrande autorit\u00e0, e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dei\ncredere ch\u2019io non sono venuto qui per ingannarti, n\u00e8 per tradirti del\ntuo onore. Io conosco e veggo, che tu e la tua compagnia siete agli\nstremi d\u2019irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro\nche di trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la\nrocca al legato. E sopra ci\u00f2 l\u2019assegn\u00f2 molte ragioni perch\u2019ella il\ndovea fare, mostrando, ch\u2019al pi\u00f9 valente capitano del mondo non sarebbe\nvergogna trovandosi in cos\u00ec fatto caso. La donna rispose al padre,\ndicendo: Padre mio, quando voi mi deste al mio signore, mi comandaste,\nche sopra tutte le cose io gli fossi ubbidiente, e cos\u00ec ho fatto\ninfino a qui, e intendo di fare infino alla morte. Egli m\u2019accomand\u00f2,\nquesta terra, e disse, che per niuna cagione io l\u2019abbandonassi, o ne\nfacessi alcuna cosa senza la sua presenza, o d\u2019alcuno segreto seguo\nche m\u2019ha dato. La morte, e ogni altra cosa curo poco, ov\u2019io ubbidisca\na\u2019 suoi comandamenti. L\u2019autorit\u00e0 del padre, le minacce degl\u2019imminenti\npericoli, n\u00e8 altri manifesti esempli di cotanto uomo poterono smuovere\nla fermezza della donna: e preso comiato dal padre, intese con\nsollicitudine a provvedere la difesa e la guardia di quella rocca che\nrimasa l\u2019era a guardare, non senza ammirazione del padre, e di chi ud\u00ec\nla fortezza virile dell\u2019animo di quella donna. Io penso, che se questo\nfosse avvenuto al tempo de\u2019 Romani, i grandi autori non l\u2019avrebbono\nlasciata senza onore di chiara fama, tra l\u2019altre che raccontano degne\ndi singulari lode per la loro costanza.\nCAP. LXX.\n_Novit\u00e0 fatte in Ravenna._\nEssendo venuta in Ravenna la novella, come la gente del legato aveano\nper forza vinta la murata di Cesena, il signore di Ravenna, ch\u2019allora\nera all\u2019ubbidienza del legato, comand\u00f2 che i cittadini ne facessono\nfesta di fuoco e di luminaria. E per\u00f2 domenica, a d\u00ec 28 di maggio,\ni cittadini si radunarono insieme per le contrade e per le piazze,\ne festeggiavano: e nelle loro radunanze cominciarono a mormorare\ncontro a messer Bernardino da Polenta loro signore per le gravezze che\nfaceva, perocch\u00e8 in breve tempo avea fatto pagare dell\u2019estimo loro\nin tre paghe libbre sette soldi dieci per libbra, onde generalmente\ni cittadini erano mal contenti. E cominciato il bollore negli animi,\nriscaldato col fuoco della festa, e facendosi alcuno caporale,\ncominci\u00f2 a gridare: Viva il popolo, e muoia l\u2019estimo, e le gabelle. E\ncrescendo la boce, e multiplicando la gente al romore, il popolo corse\nall\u2019arme, e cominciossi a riducere in sulla piazza, e multiplicare le\ngrida. Il signore sentendo le grida mand\u00f2 l\u00e0 due suoi famigli, l\u2019uno\nappresso l\u2019altro, i quali giunti alla piazza furono morti dal popolo.\nIl tiranno sentendo procedere la cosa da mala parte s\u2019arm\u00f2 con sua\nfamiglia, e montato a cavallo corse alla piazza. Il popolo si rivolse\ncoll\u2019arme contro a lui per modo, che per campare la persona si ritorn\u00f2\nnel castello; e accolto maggiore aiuto, da capo torn\u00f2 alla piazza per\nmodo di volere acquetare il popolo: ma crescendo pi\u00f9 il furore, fu\ncostretto per altra via ritornare a una postierla del castello; ma i\nvili servi di quello popolazzo, avendo la libert\u00e0 nelle proprie mani,\nnon la seppono per propria pigrizia seguitare, che al tutto erano\nsignori. E per\u00f2, come si venne facendo notte, senza ordine e senza\ncapo cominciarono ad abbandonare la piazza, e tornarsi a casa, come\nsi tornassono da uno giuoco, e pochi furono quelli che vi rimasono,\ne male provveduti. Per la qual cosa nella mezza notte uno fratello\nbastardo del signore con venticinque masnadieri s\u00ec fed\u00ec di subito in\nquel popolo stordito, e il signore con pochi a cavallo stava alla porta\ndel castello per riscuotere i suoi; ma i vili popolari, essendo ancora\nin grande numero, senza fare resistenza si lasciarono percuotere, e\nuccidere, e cacciare da que\u2019 pochi assalitori, e abbandonata la piazza,\nsi tornarono a casa. La mattina vegnente il signore mand\u00f2 per certi\ncittadini, i quali come usciti d\u2019ebriet\u00e0, e assicurati v\u2019andarono; e\navendo i primi, mand\u00f2 per anche, e raunonne in sua forza, centoventi e\npi\u00f9, i quali messi in prigione corse la terra; e appresso per diversi\nmodi gran parte ne fece morire, e degli altri fece danari. E da indi\ninnanzi fu pi\u00f9 fortemente dal suo popolo ubbidito, temuto, e ridottato.\nCAP. LXXI.\n_Novit\u00e0 di Grecia, e presura di loro signori._\nIn questo medesimo tempo, Orcam grande signore de\u2019 Turchi, avea\nlasciato in Gallipoli un suo figliuolo primogenito per guardare le\nterre dell\u2019imperio di Costantinopoli, ch\u2019egli avea acquistate quando\nfurono i grandi tremuoti nel paese. Il giovane prendendo vaghezza di\nvedere pescare, follemente si mise in una barca, e valicando legni\narmati di Greci, presono la barca; e conosciuto il figliuolo d\u2019Orcam,\nil condussono a Foglia vecchia, una terra che l\u2019imperadore avea data a\nun suo barone, e \u2019l figliuolo l\u2019avea tolta al padre; capitando questi\nGreci a lui, e sapendo cui eglino aveano preso, il ritenne a se, e a\u2019\nmarinai diede cinquemila perperi. L\u2019imperadore volle il prigione, e\nnon lo pot\u00e8 avere. E per\u00f2 prese accordo col Cerab\u00ec, uno de\u2019 signori\nde\u2019 Turchi, che \u2019l verno appresso venisse per terra con sua forza ad\nassediare la citt\u00e0 di Foglia, ed egli vi verrebbe per mare, con patto,\nche racquistata la terra l\u2019imperadore farebbe rendere a Orcam il suo\nfigliuolo che ivi era preso. Il Cerab\u00ec vi venne con grande oste, e\nl\u2019imperadore con sei galee e con assai legni armati. E stati lungamente\nall\u2019assedio, e non potendo vincere la terra, l\u2019imperadore per consiglio\ndi messer Francesco di.... di Genova suo cognato, a cui egli avea dato\nin dota l\u2019isola di Metelino, stando l\u2019imperadore in un\u2019isoletta che\nfa porto a Foglia, invit\u00f2 il Cerab\u00ec ed egli fidandosi dell\u2019imperadore\nand\u00f2 a lui; e trovandosi tradito, innanzi che altra novit\u00e0 gli fosse\nfatta, disse all\u2019imperadore: Io so ch\u2019io sono prigione, ma tu non fai\nquello che fare ti credi se tu non seguiti il mio consiglio. Se questo\ns\u2019intende tra\u2019 miei Turchi, uno mio fratello prender\u00e0 la signoria, e\nsar\u00e0 contento ch\u2019io sia prigione, e troppo pi\u00f9 ch\u2019io fossi morto; ed\nio so che tu hai bisogno di moneta, e per questo modo non avresti mai\nuna dobla. Ma fa\u2019 com\u2019io ti dir\u00f2, e arai la tua intenzione. Fa\u2019 palese\nch\u2019io abbi tolta la tua sirocchia per moglie, e facciamo di ci\u00f2 festa;\ne io mander\u00f2 per lo mio fratello e per otto miei grandi baroni, i quali\nsi sforzeranno di venire alla festa per farmi onore, e come ci saranno,\nterrai loro tanto ch\u2019io ti mandi i danari di che saremo in accordo. E\nfatta la convegna della moneta, l\u2019imperadore conoscendo ch\u2019e\u2019 diceva\nil vero, fece come il Cerab\u00ec il consigli\u00f2, ed ebbe di presente gli\nstadichi venuti sotto il titolo della festa del parentado, e lasciato\nil Cerab\u00ec, come fu nelle terre della sua signoria di presente mand\u00f2 la\nmoneta promessa, e liber\u00f2 il fratello e\u2019 suoi baroni dall\u2019imperadore,\ne per savio provvedimento liber\u00f2 se dal fortunevole caso di perdere la\nsua signoria, e per lo poco senno della sua confidanza, aggravando per\u00f2\nnondimeno la vergogna dell\u2019infedele imperadore.\nCAP. LXXII.\n_Come il re Luigi assedi\u00f2 Catania in Cicilia._\nEssendo il re Luigi a Messina, per attrarre a s\u00e8 gli animi de\u2019\npaesani, diede loro intendimento di dimorare nell\u2019isola sei anni, e\ndi tenervi la corte di tutto il Regno; e per dimostrare, coll\u2019opera\nquello che promettea colla bocca, richiese i baroni del Regno per\nvolere assediare il figliuolo di don Petro, ch\u2019era in Catania, per\nriducere tutta l\u2019isola in sua signoria, e prenderne la corona. I\nbaroni furono ubbidienti per modo, che del mese di maggio detto col\ndebito servigio de\u2019 suoi baroni si trov\u00f2 nell\u2019isola millecinquecento\ncavalieri, e commise la bisogna a messer Niccola Acciaiuoli di Firenze\nsuo grande siniscalco; il quale co\u2019 cavalieri e col popolo cavalc\u00f2\na Catania e misesi ad assedio, strignendola fortemente per modo, che\nsenza gran forze non potevano gli assediati per terra avere entrata o\nuscita d\u2019alcuna gente, e per mare fece stare nel porto quattro galee\narmate e due legni le quali assediavano la citt\u00e0 per mare, e nondimeno\nrecavano ogni d\u00ec rinfrescamento all\u2019oste, perocch\u00e8, per, terra non\nv\u2019era modo d\u2019andarvi la vittuaglia per lo cammino ch\u2019era lungo, e\u2019\npassi malagevoli e stretti. Nella terra avea centocinquanta cavalieri\ncatalani di buona gente d\u2019arme, i quali bene apparecchiati si stavano\nnella citt\u00e0 senza fare alcuna vista o sentore a\u2019 loro nemici di\nfuori. La gente del re Luigi non trovando contasto, baldanzosamente\ncavalcavano il paese, e mantenevano loro assedio.\nCAP. LXXIII.\n_Della materia medesima._\nStando l\u2019assedio di Catania in questo modo, occorse per caso non\nprovveduto che due galee di Catalani ch\u2019andavano in corso arrivarono\na Saragozza in Cicilia, e sentendo ivi come quattro galee e due legni\ndel re Luigi erano nel porto di Catania, come valenti uomini, e grandi\nmaestri de\u2019 baratti del mare, innanzi che lingua venisse di loro\na quelli dell\u2019oste, di subito feciono armare due legni ch\u2019erano in\nquel porto, e fornirli di trombe, e di trombette, e nacchere e altri\nstromenti pi\u00f9 che di gente da combattere, e fatta la notte si mossono,\ne improvviso con gran baldanza le due galee de\u2019 Catalani, lasciatosi\ndietro i due legni che facessono gran rumore e grande stormeggiata,\nentrarono nel porto, e con molto romore cominciarono ad assalire le\ngalee del re: le due ch\u2019erano del Regno, temendo del romore di fuori\nche non fossono assai galee, senza intendere alla difesa uscirono\ndel porto, e andaronsene a Messina, e l\u2019altre due ch\u2019erano genovesi\nstettono alla difesa; ma perocch\u2019e\u2019 non erano provveduti nel subito\nassalto furono vinte, e presi le galee e\u2019 legni; e questo fu la notte\ndella Pentecoste, a d\u00ec 29 di maggio del detto anno.\nCAP. LXXIV.\n_Come l\u2019oste del re Luigi si lev\u00f2 da Catania in isconfitta._\nL\u2019oste del re Luigi pi\u00f9 baldanzosa che provveduta, sentendo prese le\ndue galee e\u2019 legni, e l\u2019altre fuggite, per le quali veniva loro il\nfornimento della vittuaglia, ed essendo di lungi da Messina quaranta\nmiglia per terra, e i passi stretti in forza de\u2019 nemici, sbigottirono\nforte, e conobbono che se\u2019 soprastessono quivi tanto che i nemici\nmandassono gente a\u2019 passi elli erano senza rimedio tutti perduti; e\nvivanda non aveano da mantenere il campo, tanto che il re li potesse\nsoccorrere, e per\u00f2 diliberarono d\u2019abbandonare il campo e gli arnesi,\ne di campare le persone; e a d\u00ec 30 del detto mese si misono a cammino\nsenza ardere il campo, a fine di non essere da\u2019 cavalieri incalciati.\nI centocinquanta cavalieri catalani di presente uscirono fuori, e\navvrebbono avuto de\u2019 nemici ogni derrata, ma la cupidigia della preda\ndel campo li ritenne alquanto. I nemici che fuggivano avanzavano\nloro cammino per quella via ond\u2019erano venuti, nondimeno i Catalani\nli danneggiarono alquanto alla codazza. Ma quello che peggio fece\nloro furono i villani ridotti a\u2019 passi colle pietre, ch\u2019altr\u2019arme non\naveano. In questa caccia fu morto il figliuolo del conte di Sinopoli,\nche per l\u2019antichit\u00e0 del padre si dicea conte, e preso il conte\ncamarlingo, e morti da quaranta a cavallo e assai di quelli da pi\u00e8.\nIl gran siniscalco camp\u00f2 per lunga fuga sopra di un buono destriere,\nperduto grande tesoro di suoi gioielli e arnesi, e cos\u00ec tutti gli\naltri baroni e cavalieri, che molto v\u2019erano pomposi. E nota, come\nun\u2019oste reale di pi\u00f9 di millecinquecento cavalieri e gran popolo,\ncon quattro galee in mare e due legni armati, per troppa baldanza, e\nmala provvedenza intorno alle cose che si richieggono a un\u2019oste, dal\nprovveduto scalterimento di due corsali con due galee furono sconfitti\ne rotti, abbandonando il campo a\u2019 nemici vituperevolmente.\nCAP. LXXV.\n_Come la compagnia venne sul Bolognese._\nLa compagnia del conte di Lando mossa di Lombardia co\u2019 danari di\nmesser Bernab\u00f2 Visconti e con quelli del capitano di Forl\u00ec, per venire\nal soccorso di Cesena, a d\u00ec 18 di giugno del detto anno venne in sul\nBolognese con licenza del signore di Bologna, senza far danno al paese\ndi ruberie o di prede, ma prendeano derrata per danaio, e accampati al\nBorgo a Panicale, intendeano pi\u00f9 a\u2019 loro propri fatti che ad andare a\nsoccorrere la rocca di Cesena, perocch\u00e8 vi sentivano il legato forte\nda non potere vincere la punga; e stando quivi, accrescevano la loro\nbrigata, che secondo l\u2019usanza d\u2019ogni parte vi veniano uomini d\u2019arme a\nmettersi in quella per vaghezza della preda, e non di trovare nemici\nin campo, che quasi tutti i soldati d\u2019Italia v\u2019aveano parte; e stando\ncoperti di loro movimenti, feceano paura a tutti i popoli di Toscana e\ndell\u2019altre provincie circustanti, e attraevano a loro ambasciadori da\nquelli per prendere accordo; e cos\u00ec sospesi usavano la loro mercatanzia\nmolto sagacemente. E bench\u2019e\u2019 tiranni e\u2019 popoli d\u2019Italia avessono\nla compagnia in odio, tant\u2019era la divisione delle parti e la gelosia\nde\u2019 popoli contro a\u2019 tiranni, che catuno volea piuttosto ubbidire al\nservigio della compagnia co\u2019 suoi danari che contastare con quella, e\nper\u00f2 ora era condotta per l\u2019uno ora per l\u2019altro, rimanendo continovo\nl\u2019ordine della compagnia. E in questi d\u00ec era gi\u00e0 durata pi\u00f9 di quindici\nanni questa tempesta in Italia.\nCAP. LXXVI.\n_Come il comune di Firenze afforz\u00f2 lo Stale._\nI Fiorentini vedendo che la compagnia era in parte che in un d\u00ec potea\nvalicare l\u2019alpe ed entrare nel Mugello, per certa piaggia dell\u2019alpe\nassai aperta che si chiama la via dello Stale, richiesono gli\nUbaldini, i quali s\u2019impromisono d\u2019essere co\u2019 Fiorentini alla guardia\ndel passo; il comune vi mand\u00f2 di presente tremila balestrieri, e bene\naltrettanti fanti e ottocento cavalieri, e gli Ubaldini vi vennono\ncon millecinquecento fanti di loro fedeli, e diedono il mercato\nabbondantemente a tutta l\u2019oste, e co\u2019 capitani insieme de\u2019 Fiorentini\nfeciono fare una tagliata che comprendea i passi di quello Stale per\nspazio d\u2019un miglio e mezzo tra\u2019 due poggi, e sopra la tagliata feciono\nbarre di grandi e grossi faggi a modo di steccato, e vi feciono loro\nabitazioni, e stettonvi alla guardia de\u2019 passi mentre che la compagnia\ndimor\u00f2 sul Bolognese, desiderando ch\u2019ella si mettesse nell\u2019alpe per\nvolere passare, com\u2019erano le loro minacce, ma sentendo la provvisione\nde\u2019 Fiorentini, conceputo maggiore sdegno tennono altro cammino.\nCAP. LXXVII.\n_Come s\u2019arrend\u00e8 la rocca di Cesena al legato._\nSentendo il legato la compagnia soggiornare in sul Bolognese,\nabbandonato ogni altra cosa, con sommo studio si di\u00e8 a volere vincere\nla rocca di Cesena, facendola cavare per abbattere le mura e le\ntorri, e traboccarvi dentro grandi pietre con otto trabocchi, e\noltre a ci\u00f2 spesso la faceva assaggiare di battaglia; ma tanto era\nla severit\u00e0 di madonna Cia, e la sua sollecitudine di d\u00ec e di notte\nalla difesa, che per cosa che si facesse quell\u2019animo non si cambiava;\ne gi\u00e0 essendo per le cave caduto parte delle mura e l\u2019una delle\ntorri, la donna in persona facea riparare con isteccati e con fossi,\noltre alla considerazione de\u2019 pi\u00f9 fieri e de\u2019 pi\u00f9 valenti uomini\ndel mondo, non dimostrando alcuna paura. Ma i valenti conestabili\nch\u2019erano con lei, sapendo che la mastra torre della rocca si mettea in\npuntelli, e vedendo la pertinace costanza della donna, ebbono madonna\nCia a consiglio, e dissono: Madonna, e\u2019 si pu\u00f2 sapere e conoscere\nmanifestamente che per voi \u00e8 mantenuta la difesa della murata e della\nrocca infino agli ultimi stremi, e di noi avete potuto conoscere intera\ne pura fede, mentre che alcuna speranza s\u2019\u00e8 per voi e per noi potuta\nconoscere, ma ora non ne resta via da potere campare la sepultura de\u2019\nnostri corpi sotto la ruina di questa rocca. E perocch\u00e8 questo non\ndobbiamo comportare per alcuna ragione, siamo disposti, o di vostra\nvolont\u00e0, o contro al vostro volere, rendere la rocca per salvare le\nnostre persone. La valente donna per questo non cambi\u00f2 faccia, n\u00e8\nperd\u00e8 di sua virt\u00f9, e conobbe ch\u2019e\u2019 soldati aveano ragione di cos\u00ec\nfare, e per\u00f2 disse a\u2019 conestabili: Io voglio che lasciate fare a me\nquesto accordo; e i conestabili conoscendo il grande animo della donna,\ndissono che di ci\u00f2 erano contenti; e mandato al legato, e avuti da lui\nuditori con pieno mandato secondo la sua volont\u00e0, tratt\u00f2 che tutti\ni conestabili colle loro masnade, e tutti gli altri soldati fossono\nfranchi e liberi, e potessonne portare ci\u00f2 che volessono in su\u2019 loro\ncolli: ed ella rimanesse prigione del legato col figliuolo, e con una\nsua figliuola, e con due suoi nipoti madornali e uno bastardo, e con\ndue figliuole di Gentile da Mogliano, e cinque sue damigelle. Per s\u00e8\ne per la sua famiglia non cerc\u00f2 grazia, potendo salvare i soldati che\nlealmente l\u2019aveano atata. E fatti e fermi i patti, a d\u00ec 21 di giugno\ngli anni domini 1357 rend\u00e8 la rocca al legato, e fu signore di tutto\ncon gran gloria della sua punga, ma non con mancamento di chiara fama\ndel forte animo di quella donna: la quale per alcuno caso avverso,\nper alcuna intollerabile fatica, mentre ch\u2019era in sua libert\u00e0, mai non\ncambi\u00f2 faccia, o manc\u00f2 di consiglio o d\u2019ardire. E menata in prigione\ndov\u2019era il legato nel castello d\u2019Ancona, cos\u00ec contenne il suo animo non\nvinto e non corrotto, e in aspetto continente come se la vittoria fosse\nstata sua. E il legato maravigliandosi della costanza di questa donna,\nbench\u00e8 la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l\u2019alterezza del\ncapitano, assai la fece stare onestamente, e bene servire.\nCAP. LXXVIII.\n_De\u2019 fatti di Costantinopoli._\nL\u2019imperadore di Costantinopoli avendo perduta la speranza di vincere\nla citt\u00e0 di Foglia vecchia, mut\u00f2 consiglio, e tratt\u00f2 con quello Greco\nche la tenea, e confermogliele in feudo, e aggiunseli alla baronia,\ne diegli sessantamila perperi; e la primavera vegnente ebbe da lui\nil figliuolo d\u2019Orcam signore de\u2019 Turchi, il quale egli avea prigione,\ncome addietro abbiamo contato. E per costui l\u2019imperadore riebbe tutte\nle terre che Orcam gli avea tolte, e oltre a ci\u00f2 molti danari, e\nstadichi per mantenere la pace che feciono insieme quando gli rend\u00e8 il\nfigliuolo.\nCAP. LXXIX.\n_Come il legato prese Castelnuovo e Brettinoro._\nVinta la punga di Cesena, i cavalieri del legato baldanzosi per la\nvittoria di subito cavalcarono a Castelnuovo di Cesena, e trovandolo\nmale provveduto alla difesa, vi s\u2019entrarono dentro. E appresso si\ndirizzarono al nobile castello di Brettinoro, il quale era fornito\ndi suoi terrazzani, e d\u2019assai soldati a cavallo e a pi\u00e8, e di\nmolta vittuaglia, sicch\u00e8 poco se ne potea sperare o per forza o per\nassedio. Nondimeno la gente del legato vi s\u2019accamp\u00f2 intorno: e poco\nstante vi si cominci\u00f2 un badalucco tra quelli della terra e la gente\ndella Chiesa, della quale messer Galeotto Malatesta era capitano; il\nbadalucco dur\u00f2 molto, e per questo s\u2019ingross\u00f2 da ogni parte, e per\nlo soperchio della gente della Chiesa, quella del castello fu rotta.\nMesser Galeotto, ch\u2019era in ordine co\u2019 suoi cavalieri, perseguit\u00f2\nquelli che fuggivano verso la terra, e mescolossi con loro per modo,\nche giunti alle porte, entrarono con quelli del castello insieme,\ncombattendo continovamente; e avendo seguito presso de\u2019 loro cavalieri\ne masnadieri, presono la porta e le guardie di quella, per la qual\ncosa la loro gente vi s\u2019ingross\u00f2 di subito, e venne bene a bisogno,\nperocch\u00e8 tutti i terrazzani e\u2019 soldati che v\u2019erano francamente li\ncombatteano, e colle pietre delle case per difendere la terra. Ma il\nsoperchio che vince ogni cosa, dopo la lunga e aspra battaglia, essendo\nmultiplicata la gente della Chiesa, e molti morti dall\u2019una parte e\ndall\u2019altra, i terrazzani e i loro soldati furono costretti a fuggire\nnella rocca; e la gente del legato presa la terra e rubata, la tennero\nvittoriosamente, essendo tenuta grande maraviglia per la fortezza del\ncastello. Alcuni dissono, che tra\u2019 terrazzani ebbe divisione, che\nse fossono stati interi alla difesa non si potea perdere. E questo\nfu l\u2019ultimo d\u00ec di giugno detto. Presa la terra, il legato mand\u00f2 di\npresente molti dificii a tormentare la rocca, e cavatori per cavare\ne abbattere le mura, com\u2019altra volta avea fatto il capitano; ma avea\nmolto rafforzati i fondamenti con gran pietre, e molte stanghe e\ncinghie di ferro, ma poco valse, che in assai breve tempo quelli della\nterra feciono i comandamenti del legato, come appresso racconteremo.\nCAP. LXXX.\n_Di processi fatti contro la compagnia per lo legato._\nAvendo a questi d\u00ec la compagnia tentato di volere entrare in Toscana, e\ntrovati tutti i passi dell\u2019alpe occupati e in guardia de\u2019 Fiorentini, e\nil pi\u00f9 largo dello Stale afforzato da non mettersi a prova, con molto\nsdegno contro al comune di Firenze valicarono in Romagna, e a d\u00ec 6\ndi luglio furono a Villafranca a tre miglia di Forl\u00ec con quattromila\ncavalieri, i pi\u00f9 bene armati e bene montati, e milleseicento masnadieri\ne balestrieri, e grandissimo numero di ribaldi e di femmine al comune\nservigio, seguitando la carogna della compagnia, e ivi a pochi d\u00ec\nsi misono al ponte a Ronto e posono il campo e afforzarlo. Il legato\nvedendosi la compagnia presso, ristrinse tutta la sua gente in Cesena\ne in Brettinoro, senza mettersi a campo o fare assalto contro a loro.\nE per avere aiuto da\u2019 fedeli di santa Chiesa, fece sopra la compagnia\nil processo ch\u2019avea fatto sopra il capitano di Forl\u00ec come suoi fautori,\ne pronunziolli incorsi in quella medesima sentenza; e fece in Italia\nbandire la croce sopra loro con maggiore istanza, e con maggior mercato\ndell\u2019indulgenza, e con minore termine del servigio che dato avea\ncontro al capitano, e mand\u00f2 di nuovo i predicatori e gli accattatori a\nsommuovere i popoli, e fece grande commozione, e raun\u00f2 tesoro e gente\nassai, come al debito tempo racconteremo,\nCAP. LXXXI.\n_Della gravezza facea il tiranno a\u2019 Bolognesi._\nQuando la compagnia fu valicata in Romagna, i duemila cavalieri che\nmesser Bernab\u00f2 tenea sul Modenese, e appresso a Sassuolo in su quello\ndi Bologna, senza fare alcuna novit\u00e0 di guerra pur facea stare i\ncollegati in sospetto, e anche il legato, e per\u00f2 i Lombardi della\nlega accolsono gente, e \u2019l tiranno bolognese fece a\u2019 suoi Bolognesi,\nper avere danari, sconvenevoli gravezze sopra l\u2019usate. Perocch\u00e8 ogni\nmese volea da catuno de\u2019 suoi sudditi soldi cinque di bolognini per\nbocca di sale, e soldi quattro per macinatura la corba del grano,\noltre all\u2019usata mulenda, e per ogni tornatura di terra soldi venti\ndi bolognini l\u2019anno sopra l\u2019altre gabelle delle porti, e del vino, e\ndell\u2019altre cose ch\u2019entravano con some e con carra, che tutte erano\ngabellate, e per questo modo traeva loro delle coste e de\u2019 fianchi\nlibbre seicentomila di bolognini l\u2019anno. E oltre a ci\u00f2, avendo tolto\nloro l\u2019arme, in questo tempo mand\u00f2 bando, che chiunque l\u2019amava andasse\nnell\u2019oste. Il popolo sottoposto al duro giogo, per ubbidire il tiranno,\nsi mosse con bastoni e con lanciotti in mano, ch\u2019altr\u2019arme non avea,\ne and\u00f2 dove fu il comandamento del tiranno, e nel campo stette due d\u00ec\nsenza mercato di vittuaglia a grande stretta di loro vita, e non os\u00f2\nfiatare. La gente della lega era uscita fuori, e ingrossatasi, per\ncontastare la cavalleria di messer Bernab\u00f2, che si stava a Sassuolo,\navvenne, a d\u00ec 21 di luglio del detto anno, che trovandosi insieme parte\ndell\u2019una gente e dell\u2019altra per scontrazzo, si combatterono tra loro,\ne furono rotti quelli di messer Bernab\u00f2; gli altri suoi cavalieri,\nsentendo quella rotta, si partirono, e tornarsi sani e salvi a Milano.\nDappoich\u00e8 furono partiti si scoperse un trattato, che dovea essere data\nloro la porta del castello di Bologna, e furono presi i traditori, e\ngiustiziati.\nCAP. LXXXII.\n_Come i Veneziani domandarono pace al re d\u2019Ungheria._\nI Veneziani vedendo che il re d\u2019Ungheria gli guerreggiava in\nTrevigiana, e in Ischiavonia e in Dalmazia con grave guerra, e ch\u2019egli\navea preso ordine da poterla senza spesa e senza pericolo della\nmoltitudine degli Ungheri, usati di generare confusione, continuare,\nconobbono che a loro era cosa incomportabile; e per\u00f2 elessono solenni\nambasciadori, e mandarli al re per addomandare pace, volendosi ritenere\nGiadra, e renderli l\u2019altre terre della Schiavonia, e darli per tempi\ndanari assai per l\u2019ammenda; e fra l\u2019altre terre che dare gli voleano,\nnominarono Trau e Spalatro. I cittadini di quelle terre sentendo\nch\u2019e\u2019 Veneziani gli voleano dare al re d\u2019Ungheria per loro vantaggio,\nsi accolsono insieme, e presono per consiglio di volere accattare la\nbenivolenza del re, e non attendere ch\u2019e\u2019 Veneziani ne volessono fare\nloro mercatanzia; e per\u00f2 liberamente si diedono al re, e ricevettono la\nsua gente e\u2019 suoi vicari con grado in pace, e\u2019 rettori e la gente che\nv\u2019era pe\u2019 Veneziani rimandarono a Vinegia sani e salvi, e il re con gli\nambasciadori non volle accordo se non riavesse Giadra e l\u2019altre terre\ndel suo reame.\nCAP. LXXXIII.\n_Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro._\nIl legato, ch\u2019avea presa la terra di Brettinoro, e stretti quelli della\nrocca per modo che poco si poteano tenere per la molta gente che dentro\nv\u2019era racchiusa, non ostante che vedessono l\u2019oste della compagnia da\ncui attendeano soccorso presso a tre miglia, feciono accordo, e diedono\nstadichi, che se la domenica vegnente, a d\u00ec 23 di luglio anno detto, e\u2019\nnon fossono soccorsi, s\u2019arrenderebbono, salvo le persone, e l\u2019arme e\n\u2019l loro arnese. Il capitano che v\u2019era per lo legato, messer Galeotto,\nprovvide s\u00ec sollicitamente il d\u00ec e la notte che ci\u00f2 non si potesse\nfare, che non valse ingegno del capitano di Forl\u00ec, n\u00e8 forza ch\u2019avesse\nla compagnia, che fornire o soccorrere la potessono; e valicato\nil giorno, la sera medesima, ch\u2019era il termine, s\u2019arrenderono, con\nonorevole vittoria del legato, e abbassamento della fallace fama della\ncompagnia, e della pertinace superbia del capitano.\nCAP. LXXXIV.\n_Come si band\u00ec la croce contro la compagnia._\nSeguita, che per tema della compagnia, la quale ogni d\u00ec crescea, il\nlegato avea oltre al processo della croce bandita mandato a richiedere\naiuto contro alla compagnia a tutti i Toscani, e pi\u00f9 confidentemente\ndal comune di Firenze, e mandovvi suo legato un vescovo di Narni\nFiorentino chiamato frate Agostino Tinacci de\u2019 frati romitani, buono\nAltopascino; costui con grande solennit\u00e0 fece tre d\u00ec ogni mattina\nin Firenze processione, e acconsentitagli da\u2019 signori, per reverenza\ndella Chiesa sonate tutte le campane del comune a parlamento, in sulla\nringhiera de\u2019 priori fatta sua predica, pubblic\u00f2 il processo fatta\ncontro alla compagnia, e pronunzi\u00f2 l\u2019indulgenza a chi prendesse la\ncroce, e allarg\u00f2 che dodici uomini potessono concorrere al soldo d\u2019uno\ncavaliere, e raccorci\u00f2 il tempo del servigio in sei mesi ov\u2019era in\ndodici; e ancora pi\u00f9, che prenderebbe ci\u00f2 che gli uomini e le femmine\ngli volessono dare, e dispenserebbe con loro; e divolgato il fatto,\ntanto fu il concorso degli uomini e delle donne della nostra citt\u00e0, che\nsenz\u2019altra provvisione di suo mandato gli portavano i danari per modo,\nch\u2019e\u2019 non potea resistere di potere ricevere e di porre la mano in\ncapo: e trovossi di vero, ch\u2019e\u2019 ricevea per d\u00ec mille, e milledugento,\ne millecinquecento fiorini d\u2019oro, e in non molti d\u00ec raun\u00f2 pi\u00f9 di\ntrentamila fiorini d\u2019oro, i pi\u00f9 dalle donne e dalla gente minuta. Il\ncomune per s\u00e8 avea diliberato di volere mandare aiuto al legato, ma\navvedendosi tardi per gli suoi cittadini ch\u2019aveano gi\u00e0 piene le mani\nagli accattatori, vide co\u2019 savi, che \u2019l comune per tutto il popolo\npotea avere l\u2019indulgenza, volendo servire di prendere l\u2019aiuto della\nChiesa, per avere il beneficio dell\u2019indulgenza; e per\u00f2 convert\u00ec la\nsua gente a fare il servigio per tutto il comune, acciocch\u00e8 ogni uomo\navesse il perdono; e cos\u00ec fatto, il detto vescovo, a d\u00ec 26 di luglio\nanno detto, pronunzi\u00f2 il perdono a tutti i cittadini, e contadini e\ndistrettuali di Firenze, i quali fossono confessi e pentuti de\u2019 loro\npeccati, o che fra tre mesi avvenire si confessassono. E nota, che in\nnove anni tre volte si concedette questo perdono; nel 1343, quando fu\nla generale mortalit\u00e0, e l\u2019anno del cinquantesimo, e in questa guerra\nromagnuola.\nCAP. LXXXV.\n_Aiuti mandarono i Fiorentini al legato._\nIl comune di Firenze, a d\u00ec 20 di luglio anno detto, fatto capitano\nmesser Manno di messer Apardo de\u2019 Donati, e datogli il pennone del\ncomune, il mandarono in Romagna con settecento barbute di buona gente,\ne con ottocento balestrieri, affinch\u00e8 la battaglia si prendesse colla\ncompagnia; e oltre a ci\u00f2 v\u2019andarono singulari masnade di cittadini e\u2019\ncontadini crociati, che furono dugento a cavallo e duemila a pi\u00e8. E\ncontando la raccolta de\u2019 danari, e la spesa del comune e de\u2019 singulari\nuomini, pi\u00f9 di centomila fiorini cost\u00f2 la beffa al comune di Firenze a\nquesta volta. \u00c8 vero che \u2019l tutto s\u2019intendea a combattere la compagnia,\ne per\u00f2 vi mand\u00f2 il comune un confidente cittadino popolare, il quale in\nsegreto si dovesse strignere col legato, e con autorit\u00e0 di promettere\nventimila fiorini d\u2019oro per lo comune a\u2019 soldati se vincessono la\ncompagnia; ed era tanta la buona gente ch\u2019avea il legato, e quella\ndel comune di Firenze, e de\u2019 crociati che v\u2019erano di volont\u00e0, ch\u2019assai\nse ne potea sperare piena vittoria. Il legato n\u2019avea dato di prima al\ncomune buona speranza, e ancora poi il suo ambasciadore, ma appresso,\no che il legato invilisse, impaurisse di mettersi a partito, o che non\nsi confidasse de\u2019 soldati, dissimul\u00f2 il fatto, e tennelo pendente, e\nmantennesi in riguardo, dando ardimento agli avversari, e vilt\u00e0 alla\nsua parte che gli torn\u00f2 in poco onore.\nCAP. LXXXVI.\n_Come i Genovesi ebbono Ventimiglia._\nDi questo mese di luglio, tenendosi la citt\u00e0 di Ventimiglia per i\nfigliuoli e consorti di messer Carlo Grimaldi, e non ubbidivano il\ncomune n\u00e8 \u2019l doge di Genova, per la qual cosa il doge diede boce di\nvolere fare guerra a\u2019 Catalani, e per questo fece armare venti galee:\ne avendo alcuno trattato in Ventimiglia, costeggiando la riviera, come\nfurono a una punta di mare presso alla terra di Ventimiglia feciono\nscendere masnade e balestrieri con un capitano, il quale gli men\u00f2\ncopertamente sopra la citt\u00e0 da quella parte dove era il trattato, e\ndove non si prendea piena guardia, e le galee andarono per mare; e\ngiunte nel porto, volendo prendere una galea armata di quelli di Monaco\nche v\u2019era dentro, i terrazzani per difendere la galea tutti trassono\nalla marina; e in questo, l\u2019aguato de\u2019 Genovesi ch\u2019erano smontati sopra\nla terra scesono alla porta, e senza contasto entrarono nella citt\u00e0, e\npresono la guardia della porta, e feciono il cenno ordinato alle galee,\nle quali si strinsono alla terra. I cittadini di presente conobbono\nch\u2019alla difesa non avea riparo, e per\u00f2 ricevettono i Genovesi come\nmaggiori, ed eglino, senza alcuna novit\u00e0 fare nella citt\u00e0, presono la\nsignoria della terra per lo comune di Genova e per lo doge, e\u2019 Grimaldi\nche la teneano se n\u2019andarono colle persone e coll\u2019avere a Monaco, e le\ngalee si ritornarono a Genova.\nCAP. LXXXVII.\n_Come l\u2019arciprete con compagnia entr\u00f2 in Provenza._\nEssendo in alcuno sollevamento delle guerre il reame di Francia per\nla presura del re e de\u2019 baroni, molti uomini d\u2019arme non avendo soldi,\nper alcuna industria, secondo che la fama corse, del cardinale di\nPelagorga zio del figliuolo del duca di Durazzo, i quali erano dal re\nLuigi e da\u2019 suoi fratelli male stati trattati, essendo messer Filippo\ndi Taranto fratello del re Luigi in Provenza, mosse l\u2019arciprete di\nPelagorga, uomo bellicoso e di mala fama, il quale si fece capo d\u2019una\nparte de\u2019 Guasconi acconci a fare ogni male, e di volgo il nome di\nfare compagnia. E con lui s\u2019accost\u00f2 messer Amelio del Balzo e messer\nGiovanni Rubescello di Nizza, e molti uomini d\u2019arme ch\u2019aveano voglia\ndi rubare s\u2019accozzarono con loro, sicch\u00e8 in pochi d\u00ec accolsono ed\nebbono nelle contrade di Ponte di Sorga di l\u00e0 dal Rodano pi\u00f9 di duemila\ncavalieri, e stesonsi inverso Oringa e Carpentrasso, standosi per le\nvillate e a campo senza rubare o far danno al paese, ma per paura i\npaesani davano loro vittuaglia. Messer Filippo di Taranto, ch\u2019era in\nProvenza, volendo riparare che non entrassono nella Provenza del re\ndi qua dal Rodano, accolse suo sforzo di Provenzali, e fece, capo a\nOrgona, e stese la guardia sua su per lo fiume della Durenza. Ma la\nsua gente era poca, e mancava, e la compagnia cresceva, perch\u00e8 il\npapa e tutta la corte ne cominci\u00f2 forte a temere. Ma i capitani della\ncompagnia ammaestrati della corte medesima, mandarono ambasciadori al\npapa per assicurarlo, che contro della corte e alle terre della Chiesa\nnon intendeano fare alcuno male, e per sicurt\u00e0 offeriano i saramenti\nde\u2019 caporali, e stadichi, se gli volesse, ma la loro intenzione era\nd\u2019andare contro a messer Filippo di Taranto, il quale aveano per loro\nnemico, e di guerreggiare le sue terre e del re Luigi. E ivi a pochi\nd\u00ec valicarono il Rodano ed entrarono in Provenza, che messer Filippo,\nnon avea forza da campeggiare con loro, e cominciarono a correre il\npaese, e a guastarlo, e a uccidere e a predare in ogni parte; e presono\nLallona buona terra e piena d\u2019ogni bene, e poi andarono infino a san\nMassimino, e anche il presono, e pi\u00f9 altre castella. Le buone terre\ns\u2019armarono alla difesa, e \u2019l papa fece afforzare Avignone, e guardare\nla citt\u00e0, e d\u2019altro non s\u2019intramise: e cos\u00ec tutta la state consumarono\nquel paese.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come il conte di Fiandra rend\u00e8 Brabante alla duchessa facendo pace._\nNoi dicemmo poco addietro che la duchessa di Brabante era tornata, e\n\u2019l conte di Fiandra pazientemente l\u2019avea comportata, perocch\u00e8 era sua\ncognata, e perch\u00e8 sapea la natura de\u2019 Brabanzoni, che non si potrebbono\ntenere sotto la signoria de\u2019 Fiamminghi, e gi\u00e0 parecchi buone ville\naveano accomiatati gli uficiali del conte; e avvegnach\u00e8 fortuna\nl\u2019avesse fatto signore di Brabante, la sua intenzione non era di volere\naltro che Mellino, ch\u2019egli s\u2019avea comperata con giusto titolo. E per\u00f2,\nessendo trattato della pace nella festa che fece l\u2019imperadore, il conte\nsi dichin\u00f2 benignamente alla cognata, e rendelle la signoria di tutto\nBrabante, con patto, ch\u2019alcuno lieve omaggio ella ne facesse alla\ncompagna sua sirocchia, e che a lui rimanesse libera la signoria di\nMellino. E fermata la concordia, con gran piacere de\u2019 Fiamminghi e de\u2019\nbaroni si pubblic\u00f2 la pace del mese di luglio del detto anno.\nCAP. LXXXIX.\n_Come il legato s\u2019accord\u00f2 colla compagnia per danari._\nTornando a\u2019 fatti della compagnia, seguita a contare poco onore di\nsanta Chiesa e di due comuni di Toscana. Messer Egidio cardinale di\nSpagna legato avendo, com\u2019\u00e8 detto, da s\u00e8 molta buona gente d\u2019arme, e\naccoltane per l\u2019indulgenza della croce maggior quantit\u00e0, sicch\u00e8 assai\nsi trovava pi\u00f9 forte che non era la compagnia per poterla combattere,\ne promesso l\u2019avea alle comunanze di Toscana e nelle prediche della\ncroce, e se alla fortuna della battaglia non si volea abbandonare per\nsenno, almeno standosi a riguardo si conoscea manifesto, che dov\u2019elli\nerano poco poteano soggiornare che non aveano vivanda, e volendosi\npartire, avendo tanti nimici a petto, male il poteano fare senza\nloro gran danno. Tanto invil\u00ec la loro vista l\u2019animo del legato, che\ninfino allora era da pregiare sopra gli altri baroni, ch\u2019e\u2019 si mise\nin trattato col conte di Lando capitano della compagnia, e fecelo pi\u00f9\nvolte venire a s\u00e8: e in fine prese accordo, ch\u2019e\u2019 si dovesse partire\ncolla sua compagnia e tornarsene in Lombardia, e liberare tre anni le\nterre della Chiesa, e la citt\u00e0 di Firenze, di Pisa, di Perugia, e di\nSiena, avendo la compagnia dal legato e da\u2019 detti comuni cinquantamila\nfiorini d\u2019oro, e cominciasse il termine di calen di novembre 1357. Il\ncomune di Perugia e quello di Siena se ne feciono beffe, e non vollono\nattenere quello che il legato n\u2019avea ordinato. I Fiorentini furono\ncontenti, e pagarono per la loro rata sedicimila fiorini: e\u2019 Pisani\nanche s\u2019acconciarono, e pagarono la loro rata e il legato la sua. E\navuto il tributo della Chiesa, e de\u2019 maggiori comuni di Toscana, ove\nsi conoscevano essere a mal partito, baldanzosi e lieti si tornarono in\nLombardia, in grande abbassamento dell\u2019onore del legato; e se senno fu,\ntroppa codardia vi si nascose dentro.\nCAP. XC.\n_Ricominciamento dello studio in Firenze._\nDel mese d\u2019agosto del detto anno, i rettori di Firenze s\u2019avvidono,\ncome certi cittadini malevoli per invidia, trovandosi agli ufici,\naveano fatto gran vergogna al nostro comune, perocch\u00e8 al tutto aveano\nlevato e spento lo studio generale in Firenze, mostrando che la\nspesa di duemila cinquecento fiorini d\u2019oro l\u2019anno de\u2019 dottori dovesse\nessere incomportabile al comune di Firenze, che in un\u2019ambasciata e\nin una masnada di venticinque soldati si gittavano l\u2019anno parecchie\nvolte senza frutto e senza onore, e in questo si levava cotanto onore\nal comune; e per\u00f2 ordinarono la spesa, e chiamarono gli uficiali\nch\u2019avessono a mantenere lo studio; e bench\u00e8 fosse tardi, elessono i\ndottori, e feciono al tempo ricominciare lo studio in tutte le facolt\u00e0\ndi catuna scienza. E di questo mese nacquono in Firenze due leoni.\nCAP. XCI.\n_Come si trovarono l\u2019ossa di papa Stefano in Firenze._\nIn questo mese d\u2019agosto, cavandosi a lato all\u2019altare di san Zanobi\nnella chiesa cattedrale di Firenze, per fare uno de\u2019 gran pilastri per\nla chiesa nuova, vi si trov\u00f2 uno monumento verso tramontana, nel quale\nerano l\u2019ossa di papa Stefano nono nato di Lotteringia, e cos\u00ec diceano\nle lettere soscritte nella sua sepoltura; e in sul petto gli si trov\u00f2\nil fermaglio papale con pietre preziose e con lo stile dell\u2019oro, e\nla mitra in capo e l\u2019anello in dito; e raccolto ogni sua reliquia, si\nriserrarono appo i canonici per fargli al tempo onorevole sepoltura.\nQuesti sedette papa mesi dieci; e mor\u00ec gli anni 1088.\nCAP. XCII.\n_Leggi fatte sopra i medici._\nCominciossi di questo mese d\u2019agosto nel Valdarno di sotto, e in\nValdelsa, e in Valdipesa, e in molte parti del contado di Firenze e\nnel suo distretto, un\u2019epidemia d\u2019aria corrotta intorno alle riviere\nche gener\u00f2 molte malattie, le quali erano lunghe e mortali, e grande\nquantit\u00e0 d\u2019uomini e di femmine mise a terra, e assai cavalieri di\nFirenze stati in contado morirono, che fu singolare cosa, e dur\u00f2 fino\na mezzo ottobre; e in Firenze morirono assai uomini e donne, ma de\u2019\ncinque i quattro tornati di contado malati. Fece allora il comune\nper riformagione, che niuno medico dovesse andare a vicitare alcuno\nmalato da due volte in su, se il malato non fosse confessato, avendo\ndi ci\u00f2 degna testimonianza, sotto pena di libbre cinquecento, e che\ndi ci\u00f2 catuno medico dovesse fare ogni anno saramento alla corte\ndell\u2019esecutore. La legge fu buona, ma l\u2019avarizia de\u2019 medici e la\npigrizia de\u2019 malati, mescolata colla cattiva consuetudine, fece perdere\nl\u2019esecuzione di quella, che se fosse messa in pratica, e tornata in\nconsuetudine, era gran beneficio dell\u2019anime e santa de\u2019 corpi.\nCAP. XCIII.\n_Come i Genovesi ebbono Monaco._\nAvendo avuto il doge di Genova onore d\u2019avere racquistata la citt\u00e0 di\nVentimiglia, fece armata di quattordici galee, e sei ne mandarono\ni Pisani ch\u2019erano in lega col loro comune; e queste venti galee\nmisono nel porto ch\u2019\u00e8 sotto il castello, e sopra Monaco di verso la\nmontagna misono quattromila fanti armati, tra\u2019 quali avea di molti\nbalestrieri, che di notte guardavano i passi della montagna; e tenutolo\ncos\u00ec assediato un mese, e tentatolo con loro danno alcune volte di\nbattaglia, perocch\u2019era troppo forte, vi si stavano. I Grimaldi che\n\u2019l teneano pensarono che a lungo andare e\u2019 non potrebbono contastare\nal comune, ed essendo preso in Genova un figliuolo di messer Carlo\nGrimaldi, trattarono di volere dare il castello di Monaco al doge e\nal comune per danari, e riavere il figliuolo di messer Carlo libero\ndi prigione, ed essere ribanditi; e venuti a concordia, ebbono contati\nfiorini sedicimila d\u2019oro, e quattromila ne scontarono per la prigione,\ne renderono Monaco al comune di Genova; il quale aveano tenuto\ntrentadue anni in loro bal\u00eda, che rade volte aveano ubbidito al loro\ncomune, e sempre corseggiato e tribolato i navicanti di quel mare, e\nfatto del luogo spilonca di ladroni; e questo fu il d\u00ec di nostra Donna\na mezzo agosto del detto anno.\nCAP. XCIV.\n_Come il cardinale assedi\u00f2 Forl\u00ec._\nAvendo, come detto \u00e8, il cardinale fatta partire la compagnia di\nRomagna, e trovato il capitano di Forl\u00ec ostinato e indurato di non\nvolere venire all\u2019ubbidienza di santa Chiesa, e volendo il cardinale\ntornarsene a corte; innanzi la sua partita ordin\u00f2 coll\u2019altro legato,\nch\u2019era l\u2019abate di Giugni, d\u2019assediare la citt\u00e0 di Forl\u00ec, e all\u2019uscita\nd\u2019agosto vi posono il campo con duemila cavalieri e con gran popolo,\ne cominciarono a dare il guasto intorno alla citt\u00e0, e \u2019l capitano\ncon grande animo si ristrinse con pochi soldati a cavallo, e co\u2019\nsuoi cittadini alla guardia della terra, e provvedutosi delle cose\nbisognevoli alla vita, si mise francamente alla difesa: e spesso a\nsua posta usciva fuori con sua gente, e assaliva i nemici al campo e\ndanneggiavali, e per savia condotta si ricoglieva a salvamento. E a\nsuo diletto inducea i giovani garzoni all\u2019esercizio della guerra, e\ntornando nella terra, tutti li facea venire innanzi, e giocandosi con\nloro dicea delle loro valantrie, e raccontava com\u2019eglino avien fatto,\ne a quelli ch\u2019erano pi\u00f9 iti innanzi dava a catuno uno grosso, o due o\ntre bolognini. E per queste lusinghe, e per queste lievi provvisioni,\nmovea i giovani a seguitarlo senza richiesta di grande volont\u00e0, e per\nsperimentarli nell\u2019arme. E con questo si faceva tanto amare da loro,\nche non gli bisognava guardia per alcuno sospetto, e \u2019l tedio dell\u2019ozio\ndegli assediati mitigava con alcuno diletto del continovo esercizio;\ne guida vali s\u00ec saviamente, ed era s\u00ec ubbidito da loro, che niuno ne\nperdea, e poca speranza dava a\u2019 nemici di vincere la citt\u00e0.\nCAP. XCV.\n_Come il re d\u2019Inghilterra ruppe i patti della pace._\nTornando alquanto nostra materia al fatto de\u2019 due re, ed avendo\nnarrata la festa che fu fatta a Londra quando vi giunse il re di\nFrancia, credendosi per tutti che la pace fatta tra\u2019 legati e \u2019l duca\ndi Guales a Bordello per lo re Adoardo si dovesse confermare, essendo\nper\u00f2 valicati nell\u2019isola i cardinali e molti baroni di Francia,\nstrignendo il re e \u2019l suo consiglio a dar fine e fermezza all\u2019opera,\nil re d\u2019Inghilterra, mostrandosi a ci\u00f2 volonteroso, mantenea la cosa\nsospesa, oggi con una cagione e domani con altra, e per\u00f2 non rompea\nil trattato; e spesso infingea cagione a\u2019 Franceschi, e dimostrava che\n\u2019l fallo fosse loro, e poi l\u2019acconciava, a facevane muovere un\u2019altra.\nE per questo modo maestrevolmente e per sua astuzia ritenea il re e\n\u2019l figliuolo, e\u2019 baroni e\u2019 cavalieri ch\u2019avea prigioni in Inghilterra,\ncome egli desiderava; e tanto avvolse questa materia, che stracc\u00f2 i\nlegati e i baroni ch\u2019erano di l\u00e0 valicati; i quali vedendosi menare al\nre con queste simulazioni senza frutto, all\u2019uscita del mese d\u2019agosto\nanno detto abbandonarono il trattato, e tornarsi nel reame di Francia,\ne per tutto la boce corse che la pace era rotta, e che al primo tempo\nil re d\u2019Inghilterra dovea venire a Rems e farsi coronare del reame di\nFrancia, e non fu senza cagione revelata del segreto: ma indugiossi\npi\u00f9, e il trattato della pace senza il suo effetto poco appresso si\nriprese, e tornarono nell\u2019isola i legati.\nCAP. XCVI.\n_Della mostra fatta a Avignone di cortigiani per tema della compagnia._\nDi questo mese d\u2019agosto, nella compagnia dell\u2019arciprete di Pelagorga,\nch\u2019era in Provenza, s\u2019aggiunse il conte d\u2019Avellino e cinque nipoti di\npapa Clemente sesto, e trovaronsi pi\u00f9 di tremila barbute, e scorsono\npredando e guastando la Provenza infino a Grassa, e non trovarono\ncontasto fuori delle terre murate. Vedendo il papa crescere questa\ntempesta, volle vedere in arme tutti i cortigiani, e fece ordinare\ndi fare la mostra, che fu grande e bella, perch\u00e8 catuno si sforz\u00f2\ndi comparire in arme, e trovaronsi in questa mostra quattromila\nItaliani tutti bene armati, ch\u2019erano due cotanti o pi\u00f9 che tutti gli\naltri cortigiani. E come furono armati e raunati insieme, gridavano e\nvolevano correre sopra i cardinali nipoti di papa Clemente, dicendo,\nch\u2019erano autori di quella compagnia, che conturbava la corte e tutta la\nmercatanzia, e a gran pena furono ritenuti da\u2019 loro capitani. Il papa,\nveduta la mostra, ordin\u00f2 di fare rifare le mura e\u2019 fossi d\u2019Avignone, e\nriparare le porti per tenere la citt\u00e0 sicura; altro rimedio di fuori\ncontro alla compagnia non prese, ma stava continovo la corte in gran\npaura, e in vergognosa vacazione di tutti i mestieri.\nCAP. XCVII.\n_Come il re Luigi da Messina torn\u00f2 a Napoli._\nIl re Luigi avendo con danno e con vergogna levata l\u2019oste sua da\nCatania, come narrato abbiamo, e non trovandosi in mare n\u00e8 in terra\npotente da rifare oste, e i suoi avversari aveano ripreso ardire\ndella loro vittoria; e sentendo il regno di qua dal Faro in molta\ndiscordia per la ribellione di messer Luigi di Durazzo e del conte\ndi Minerbino, i quali teneano in guerra la Puglia, e molti caporali\ndi ladroni rompevano le strade e\u2019 cammini; non ostante ch\u2019egli avesse\npromesso a\u2019 Messinesi di stare alcun tempo risedente a Messina, cambi\u00f2\nproposito, per non correre in peggio, e a d\u00ec 30 d\u2019agosto del detto anno\nsi part\u00ec da Messina in su una galea d\u2019Ischia, e pose a Reggio, ov\u2019era\nprima venuta la reina. E in Messina lasci\u00f2 suo vicario un figliuolo\ndel gran siniscalco con trecento cavalieri alla guardia della terra,\nconfidandosi sopra tutto in messer Niccol\u00f2 di Cesaro e nel suo seguito,\nch\u2019aveano cura alla guardia per loro medesimi, ch\u2019aveano di fuori\ni loro avversari. E poi da Reggio per Calavria e per Puglia se ne\ntornarono a Napoli, del mese di settembre del detto anno.\nCAP. XCVIII.\n_Come si perd\u00e8 Governo a\u2019 Mantovani._\nI signori da Gonzaga, essendo uomini savi di guerra, avendo lungamente\ntenuta la signoria di Mantova, vicini e in mezzo tra\u2019 signori di Milano\ne quelli di Verona, avean provveduto di tenere salvo gran parte del\nloro contado in questo modo. La loro citt\u00e0 \u00e8 posta nel mezzo d\u2019un lago\ndi fiumi correnti, e di questo lago di verso levante alla citt\u00e0 esce un\nfiume, che si stende correndo verso mezzo d\u00ec ed entra in Po; e dov\u2019egli\nentra in Po \u00e8 un castello e un ponte: il castello si chiama Governo:\ne dall\u2019uscita del fiume al detto castello ha dieci miglia di terreno,\ne per i Mantovani \u00e8 alzato e fortificato un argine sopra il fiume\ndal lato d\u2019entro, e fattovi forti steccati e molte bertesche a potere\nfare ogni gran difesa. E dall\u2019altra parte del lago, di verso ponente\nalla citt\u00e0 e di lungi tre miglia, esce un altro fiume, e corre verso\nmezzo d\u00ec anche al Po, e stendesi ancora per dieci miglia di terreno,\ne l\u2019argine di questo fiume \u00e8 fatto maggiore e pi\u00f9 forte che l\u2019altro,\ne steccato e imbertescato a ogni difesa, e in sul Po s\u2019aggiugne a\nun forte castello de\u2019 Mantovani che si chiama Borgoforte, e anche a\nquesto castello \u00e8 un ponte sul Po. Tra queste due fiumare si stende un\ngran contado tutto piano, e di buono terreno da lavorare, e ubertuoso\ndi frutti e di vittuaglia. Questo contado per infino a qui per forza\nch\u2019avessono i tiranni vicini non avien mai potuto noiare, e viveanne i\nMantovani in grande sicurt\u00e0, e chiamavano questo contado la Serraia.\nIn questi d\u00ec era guerra tra\u2019 signori di Milano e quelli di Mantova,\ne per\u00f2 i Mantovani avieno mandate masnade di fanti a pi\u00e8 alla guardia\ndel ponte e anche di Governo, e anche de\u2019 loro soldati a cavallo, tra\u2019\nquali era un conestabile che avea ricevuta ingiuria da\u2019 signori da\nGonzaga. Costui ordin\u00f2, che l\u00e0 venisse la gente de\u2019 signori di Milano\nper suo trattato, e diede loro il passo del ponte, mostrando a\u2019 suoi,\nche come ne fosse passati una parte darebbono loro addosso, e tutti\ngli avrebbono a mansalva; ma innanzi che il traditore si mettesse al\ncontasto ve ne lasci\u00f2 tanti venire, che a\u2019 suoi per necessit\u00e0 convenne\nabbandonare il campo e \u2019l castello; e per questo modo fu preso il forte\npasso di Governo, da potere correre ed entrare nella Serraia; e questo\nfu all\u2019uscita del mese d\u2019agosto anno detto.\nCAP. XCIX.\n_Come i signori di Milano presono Borgoforte, e assediarono Mantova._\nMesser Bernab\u00f2 e messer Galeazzo di Milano, avendo novelle come \u2019l\nponte e \u2019l castello di Governo era preso per la loro gente, ebbono\ngrande allegrezza, e lasciandosi addietro i fatti di Pavia e di Novara,\nsubitamente accolsono tremila cavalieri di loro soldati e gran popolo,\ne l\u2019una parte mandarono a Governo, e l\u2019altra per la riva del Po a\nBorgoforte. Quelli ch\u2019andarono a Governo feciono di loro due parti;\nl\u2019una si dirizz\u00f2, verso Mantova, e misonsi a campo in capo del ponte\nonde i Mantovani della terra veniano nel contado della Serraia, e\nivi di presente dirizzarono una bastita con torri e con bertesche, e\ntolsono il passo e la speranza a\u2019 Mantovani, che per forza ch\u2019avessono\nnella Serraia non poterono entrare per soccorrere Borgoforte, e l\u2019altra\nparte cavalc\u00f2 per la Serraia dentro a Borgoforte, e cos\u00ec dentro e di\nfuori subitamente fu assediato Borgoforte. E vedendo coloro ch\u2019aveano\nla guardia della terra che soccorso non poteano avere da niuna parte,\ns\u2019arrenderono salve le persone; e cos\u00ec in pochi d\u00ec ebbono i signori\nda Milano l\u2019uno castello e l\u2019altro, e la signoria di tutto il contado\ndella Serraia, infino al lago che cigne la citt\u00e0 di Mantova. Avuto\nBorgoforte, feciono maggiore e pi\u00f9 forte la bastita a capo del ponte\ndel lago, e mantennonvi l\u2019oste grande, perocch\u00e8 per niente avevano loro\nvita; e dall\u2019altra parte fuori della Serraia misono l\u2019oste presso della\ncitt\u00e0, il lago in mezzo, e tutto l\u2019altro paese mantovano corsono e\nrubarono. E per questo assedio speravano tosto avere libero la signoria\ndi Mantova, e sarebbe venuto fatto, se non fosse il soccorso degli\nallegati, come nel suo tempo diviseremo. I signori di Milano, ch\u2019aveano\nil castello e \u2019l passo di Borgoforte ch\u2019era verso il loro terreno,\nabbandonarono Governo ch\u2019era molto lontano al loro soccorso e presso\na\u2019 nemici, e\u2019 Mantovani il ripresono, e fecionlo pi\u00f9 forte, e misonvi\nbuona guardia.\nCAP. C.\n_Come il cardinale Egidio pass\u00f2 per Firenze._\nIl cardinale di Spagna messer Egidio legato, avendo lasciato successore\nl\u2019abate di Clugn\u00ec, e assediata la citt\u00e0 di Forl\u00ec, a d\u00ec 14 di settembre\nanno detto fu ricevuto in Firenze a grande solennit\u00e0, andandoli\nincontro a processione tutto il chericato, e le religioni, e \u2019l popolo,\nsonando le campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo, e messo\nsopra la sua persona fuori della citt\u00e0 un ricco palio di baldacchini di\nseta e d\u2019oro adorno intorno riccamente, tutti i cavalieri di Firenze\ngli furono intorno, ed addestrarlo al freno e alla sella, e\u2019 grandi\ncittadini portavano il palio; e guidatolo con questo onore per la\ncitt\u00e0, il condussono al luogo de\u2019 frati minori, ove fece suo albergo; e\nivi fu visitato con grande reverenza da\u2019 priori e da tutti i collegi,\ne dagli altri buoni cittadini; e dopo la vicitazione i priori gli\nmandarono doni di cera lavorata e di confetti d\u2019ogni ragione in gran\nquantit\u00e0, e uno grande e ricco destriere fornito di nobili arredi e\ncoverto di scarlatto, e per vestire la sua persona due pezze di fini\npanni scarlatti di grana, e una cappella doppia di baldacchini d\u2019oro\ne di seta fini. Il cardinale ricevette graziosamente ogni cosa, e\npoi fatto suo sermone, magnific\u00f2 molto il comune di Firenze e sopra\ntutti gli altri di divozione e di fede alla santa Chiesa, offerendosi\nsempre protettore del comune; e fatto un solenne convito a\u2019 signori\ne a\u2019 collegi e a molti altri gran cittadini, a d\u00ec 19 di settembre si\npart\u00ec di Firenze e mandato a\u2019 Pisani per la licenza di potere passare\nper la citt\u00e0 di Lucca, i Pisani vi mandarono dugento barbute e molti\nbalestrieri alla guardia, e feciono serrare le porte, e per loro\nambasciadori gli feciono dire, che se la sua persona con alquanti\ncompagni senz\u2019arme volesse entrare per la citt\u00e0, ch\u2019egli il potea\nfare; il cardinale non volle quella grazia, e cavalcando di fuori,\nvide le porte serrate e le mura fornite di molti balestrieri colle\nbalestra tese, per la qual cosa si dilung\u00f2 dalla citt\u00e0, sdegnato forte\ndella vergogna che da\u2019 Pisani gli parve ricevere. Questo legato per\nsuo senno, e per grande e sollecita provvisione di guerra, racquist\u00f2\na santa Chiesa il Patrimonio e Terra di Roma, e ridusse il prefetto\noccupatore alla sua misericordia. Vinse per forza e per ingegno tutte\nle terre della Marca d\u2019Ancona, abbattendo la signoria di messer\nMalatesta da Rimini, e di Gentile da Mogliano, e \u2019l nuovo tiranno\nd\u2019Agobbio; e per forza vinse in Romagna Cesena e Brettinoro e racquist\u00f2\nFaenza, e lasci\u00f2 Forl\u00ec assediata, e\u2019 Malatesti tutti riconciliati\nall\u2019ubbidienza di santa Chiesa; e contast\u00f2 assai colla compagnia,\navvegnach\u00e8 nell\u2019ultimo, o per paura, o per fretta ch\u2019avesse della sua\npartenza, s\u2019accord\u00f2 a levarlisi d\u2019addosso con danari, con poco suo\nonore e di santa Chiesa; e tutte queste cose fece in termine di quattro\nanni e un mese dal suo avvenimento in Italia.\nCAP. CI.\n_Come per i cardinali non si f\u00e8 nulla della pace de\u2019 due re._\nChi potrebbe senza fallare scrivere le movitive degl\u2019Inghilesi? il\nre d\u2019Inghilterra da capo fece tornare i legati per dare termine al\ntrattato della pace, e dichiararono i patti e le terre che al re\nd\u2019Inghilterra si doveano dare, e la quantit\u00e0 de\u2019 danari e\u2019 termini\nquando per diliberare il re, e \u2019l figliuolo, e\u2019 baroni, e rimanere\nin buona pace; e questo accordo si divolg\u00f2 per tutto, per conferma\nfatta del mese di settembre. Questa concordia torn\u00f2 addietro, perocch\u00e8\nper sicurt\u00e0 delle cose il re all\u2019ultimo domand\u00f2 di volere tenere per\nstadichi il Delfino di Vienna, e l\u2019altro figliuolo del re di Francia\ne \u2019l conte di Fiandra, tanto che \u2019l re di Francia tornato nel suo\nreame fornisse le cose promesse; la qual cosa non potea aver luogo,\nche \u2019l Delfino per lo fallo commesso non si fidava, e \u2019l conte di\nFiandra non era debito al re di Francia di cotanto servigio; e per\u00f2\nrotto il trattato, il re di Francia e \u2019l figliuolo con altri baroni\nfurono mandati in prigione a Guindifora, per addietro detta la Gioiosa\nguardia. In questo medesimo tempo il re d\u2019Inghilterra avea anche in\nprigione nell\u2019isola il re David di Scozia; sicch\u00e8 di tenerli prigioni\nnon abbassava l\u2019ambizione della vanagloria alla quale i mortali\nvolentieri attraggono, e \u2019l tenere i trattati della concordia rompea\ngli animi de\u2019 Franceschi dell\u2019apparecchio della guerra, e riteneali in\ndivisione e fuori del loro antico reggimento, e di ci\u00f2 pensava non meno\nche dell\u2019arme il re d\u2019Inghilterra potere avere suo intendimento. E per\u00f2\ntraendo sperienza dal fatto, piuttosto si pu\u00f2 ritrarre ch\u2019e\u2019 trattati\nsono stati fatti finti, che di vero intendimento.\nCAP. CII.\n_Come fu impiccato il conte di Minerbino._\nIl conte di Minerbino, detto Paladino, di cui tanto avemo addietro\nparlato, essendo da natura incostante e senza fede, tratto egli e \u2019l\nfratello di prigione dopo la morte del re Ruberto, appresso come fu\nmorto il duca Andreasso se n\u2019and\u00f2 in Ungheria, e col re d\u2019Ungheria\ntorn\u00f2 nel Regno, e col re stette mentre che gli mise bene, e non gli\ntenne fede. E venuto alla misericordia, e ricevuto perdonanza da lui,\ndopo la partita del re si riconcili\u00f2 pi\u00f9 volte col re Luigi, e da\nlui ebbe provvisione e doni per tenerlo in pace: ma la sua incostanza\nnon glie le consentia, ma stava in rubellione, e accogliea rubatori e\nsoldataglia, e correa in Puglia per pazzia non meno che per ruberia;\ne vedendo messer Luigi di Durazzo in discordia col re, s\u2019accostava\ncon lui; altra volta il lasciava, e prendea a suo vantaggio, e stava\ns\u00ec forte e avvisato, che in palese non potea ricevere impedimento.\nIl prenze di Taranto, chiamato l\u2019imperadore, vedendo quanto costui\ntribolava la Puglia, commise a messer Betto de\u2019 Rossi suo cavaliere,\nche segretamente avesse cura a\u2019 suoi andamenti. Costui sentendolo\nin Matera, tratt\u00f2 con certi masnadieri che \u2019l seguitavano alla sua\nprovvisione, e corruppeli per moneta per modo, che cavalcatovi colla\ngente dell\u2019imperadore, di subito fu lasciato entrare nella terra. Il\nconte vedendosi tradito da\u2019 suoi, ricover\u00f2 nel castello. Il prenze vi\nfu di presente intorno con molta gente, e cinselo dentro e di fuori\nper modo che non poteva uscire della fortezza, e da vivere non v\u2019avea,\nsicch\u00e8 fu costretto da necessit\u00e0 d\u2019uscirne in camicia con uno capestro\nin collo, e gittossi a\u2019 pi\u00e8 del prenze, come altra volta avea fatto\na Trani al re d\u2019Ungheria; ma la cosa non succedette a quel modo. Il\nprenze il fece prendere, e menollo ad Altemura; e fattosi dare il\ncastello, a uno de\u2019 merli il fece impendere per la gola nel detto\ncastello.\nCAP. CIII.\n_Come fu preso Minerbino._\nSentendo messer Luigi fratello del conte come il prenze avea morto\nil fratello, essendo uomo di grande ardire e di seguito, di presente\naccolse soldati e caporali di ladroni, e misesi in Minerbino loro\ncastello, il quale era forte a maraviglia, e credette poterlo tenere in\nrubellione. I terrazzani sapendo che il conte loro principale signore\nera morto, non assentirono di volere prendere arme contro a\u2019 reali;\ne per\u00f2 messer Luigi elesse i compagni che volle, e fornita la rocca,\nch\u2019era inespugnabile, vi si racchiuse dentro, senza paura di forza\nche noiare lo potesse di fuori. Ma la fede corruttibile de\u2019 soldati\ntosto l\u2019ingann\u00f2. Che avendo seco dentro un conestabile lombardo, per\ndanari e per larghe impromesse ricevette dentro, nella rocca colle sue\nmani uccise messer Luigi, e il corpo suo e la rocca diede al prenze,\ndel mese di dicembre del detto anno. L\u2019altro fratello, ch\u2019era conte\ndi Vico, con poca virt\u00f9 e semplice uomo, vedendo lo sterminio de\u2019\nfratelli si part\u00ec del Regno, abbandonando le sue castella e la sua\ngiurisdizione. E cos\u00ec prese fine ne\u2019 successori il dominio di messer\nGianni Pipino, il quale di piccolo notaio per la sua industria fatto\nde\u2019 maggiori signori del reame al tempo del re Carlo vecchio, e colui\nch\u2019avea maggiore mobole fatto dell\u2019avere de\u2019 saracini di Nocera,\nquand\u2019egli con sagacit\u00e0 e con inganno trasse i saracini del Regno, e\nacquist\u00f2 al re Carlo la forte citt\u00e0 di Nocera in Puglia. Costui comper\u00f2\na\u2019 figliuoli, e poi i figliuoli a\u2019 nipoti, grandi e larghi baronaggi,\nmiserabili per la loro fine.\nCAP. CIV.\n_Come i Genovesi mandarono in Sardigna venti galee per racquistare la\nLoiera, e non poterono._\nAvendo il doge di Genova con l\u2019armata di venti galee racquistato\nal comune Ventimiglia e Monaco, come poco innanzi abbiamo contato,\ncoll\u2019empito di quella vittoria le mand\u00f2 di subito in Sardigna,\nacciocch\u00e8 per forza vincessono la Loiera. E giunti l\u00e0 improvviso,\nscesono con molti balestrieri e con altri dificii a combattere la\nterra, sforzandosi di vincerla con ogni forza e ingegno che seppono.\nMa i Catalani che dentro v\u2019erano alla guardia valentemente si misono\nalla difesa, e ripararono s\u00ec francamente, che i loro nemici perderono\nogni speranza d\u2019acquistarla per forza. E lasciatovi di loro morti, e\nmolti fediti e magagnati, raccolti a galea si tornarono a Genova, e\ndisarmarono di novembre anno detto.\nTAVOLA\nDEI CAPITOLI\n _Qui comincia il quinto libro della Cronica di Matteo\n _CAP. II. Come messer Carlo di Luzimborgo fu coronato\n _CAP. III. Come messer Ruberto di Durazzo prese per\n _CAP. IV. Come i Provenzali s\u2019accolsono per porre\n _CAP. V. Come si cominci\u00f2 l\u2019izza da messer Galeazzo\n Visconti a messer Giovanni da Oleggio_ 11\n _CAP. VI. Come il capitano di Forl\u00ec sconfisse gente\n _CAP. VII. Come messer Filippo di Taranto prese per\n moglie la figliuola del duca di Calavria_ 13\n _CAP. VIII. Come Massa e Montepulciano non ricevettono\n _CAP. IX. Come i Visconti tolsono a messer Giovanni\n _CAP. X. Andamenti della gran compagnia_ 16\n _CAP. XI. Come il re di Tunisi fu morto_ 16\n _CAP. XII. Come messer Giovanni da Oleggio rubell\u00f2\n _CAP. XIII. Come il doge di Vinegia fu decapitato_ 23\n _CAP. XIV. Come l\u2019imperadore torn\u00f2 coronato a Siena_ 26\n _CAP. XV. Come il legato parlament\u00f2 a Siena con\n _CAP. XVI. Come l\u2019imperadore ebbe la seconda paga\n _CAP. XVII. Come il nuovo tiranno di Bologna mand\u00f2\n a Firenze ambasciatori a richiedere i Fiorentini_ 19\n _CAP. XVIII. Come fu sconfitto e preso messer Galeotto\n da Rimini da\u2019 cavalieri del legato_ 30\n _CAP. XIX. Come la fama della liberazione di Lucca\n _CAP. XX. Come l\u2019imperadore diede Siena al patriarca_ 33\n _CAP. XXI. Come i capi de\u2019 ghibellini d\u2019Italia si\n _CAP. XXII. Come l\u2019imperadore si part\u00ec da Siena\n _CAP. XXIII. Come il cardinale d\u2019Ostia fu ricevuto\n _CAP. XXIV. Come la gente del legato presono quattro\n _CAP. XXV. Come mor\u00ec il duca di Pollonia_ 39\n _CAP. XXVI. Come fu coronato poeta maestro Zanobi\n _CAP. XXVII. Come fu morto messer Francesco Castracani\n _CAP. XXVIII. Come i Fiorentini mandarono tre\n cittadini all\u2019imperadore a sua richiesta_ 44\n _CAP. XXIX. Come i Sanesi ebbono novit\u00e0_ 44\n _CAP. XXX. Come i Pisani per gelosia furono in\n _CAP. XXXI. Ancora gran novit\u00e0 di Pisa_ 47\n _CAP. XXXII. Come furono in Pisa presi i Gambacorti_ 49\n _CAP.XXXIII. Come fur arse le case de\u2019 Gambacorti_ 51\n _CAP. XXXIV. Di novit\u00e0 seguite a Lucca_ 53\n _CAP. XXXV. Come nuovo romore si lev\u00f2 in Siena_ 55\n _CAP. XXXVI. Come i Sanesi feciono rinunziare la\n _CAP. XXXVII. Come furono decapitati i Gambacorti_ 57\n _CAP. XXXVIII. Dello stato de\u2019 Gambacorti passato_ 60\n _CAP. XXXIX Come l\u2019imperadore prese in guardia\n _CAP. XL. Come l\u2019imperadore si part\u00ec di Pisa_ 62\n _CAP. XLI. Come i Sanesi domandarono vicario all\u2019imperadore,\n _CAP. XLII. Come i Sanesi presono e rubarono la Massa_ 64\n _CAP. XLIII. Come l\u2019imperadore domand\u00f2 menda\n _CAP. XLIV. Come i Sanesi vollono fornire la rocca di\n _CAP. XLV. Come i Veneziani feciono pace co\u2019 Genovesi\n _CAP. XLVI. Come si f\u00e8 l\u2019accordo dal legato a messer\n _CAP. XLVII. Come i Genovesi appostarono Tripoli_ 69\n _CAP. XLVIII. Come i Genovesi presono Tripoli a inganno_ 71\n _CAP. L. Come la gente del marchese di Ferrara fu\n _CAP. LI. Come l\u2019imperadore ebbe l\u2019ultima paga\n _CAP. LII. Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato_ 76\n _CAP. LIII. D\u2019una fanciulla pilosa presentata\n _CAP. LIV. Come l\u2019imperadore e l\u2019imperadrice si partirono\n _CAP. LV. Come il minuto popolo di Siena prese al\n _CAP. LVI. Come la compagnia del conte di Lando\n _CAP. LVII. Come Fermo torn\u00f2 alla Chiesa e si rubell\u00f2\n _CAP. LVIII. Come il re di Francia mand\u00f2 gente in\n Scozia per guerreggiare gl\u2019Inghilesi_ 82\n _CAP. LIX. Come i prigioni d\u2019Ostiglia presono il castello_ 83\n _CAP. LX. Come i Genovesi venderono Tripoli_ 84\n _CAP. LXI. Come gli usciti di Lucca tentarono di far\n _CAP. LXII. Conta della gran compagnia di Puglia_ 86\n _CAP. LXIII. Come il gran siniscalco condusse mille barbute\n contro alla compagnia, ond\u2019ella s\u2019accrebbe_ 87\n _CAP. LXIV. Come gli usciti di Lucca s\u2019accolsono\n _CAP. LXV. Come il re di Cicilia racquist\u00f2 pi\u00f9 terre_ 89\n _CAP. LXVII. Come i Visconti tentarono di racquistare\n _CAP. LXVIII. Come in Firenze nacquono quattro lioni_ 91\n _CAP. LXIX. Novit\u00e0 fatte per gli usciti di Lucca_ 92\n _CAP. LXX. Come i Catalani non vollono la pace\n co\u2019 Genovesi fatta per i Veneziani_ 93\n _CAP. LXXI. Come messer Ruberto di Durazzo lasci\u00f2\n _CAP. LXXII. Come arse la bastita da Modena_ 95\n _CAP. LXXIII. Come fu fatto il castello di Sancasciano_ 95\n _CAP. LXXIV. Come in Firenze s\u2019ordin\u00f2 la tavola\n _CAP. LXXV. Come il re d\u2019Inghilterra con grande apparecchio\n _CAP. LXXVL Come il re Luigi s\u2019accord\u00f2 colla compagnia\n _CAP. LXXVII. Come il conte da Doadola fu sconfitto\n _CAP. LXXVIII. Come la gente del Biscione prese le\n mura di Bologna e furono cacciati_ 101\n _CAP. LXXX. Come abbondarono grilli in Cipri e in\n _CAP. LXXXI. Come messer Maffiolo Visconti fu\n _CAP. LXXXII. Come messer Bernab\u00f2 ebbe la Mirandola_ 105\n _CAP. LXXXIII. Come i Perugini presono a difendere\n _CAP. LXXXIV. Come il re d\u2019Inghilterra torn\u00f2 in\n _CAP. LXXXV. Come il re d\u2019Inghilterra cavalc\u00f2 il\n _CAP. LXXXVI. Della materia degl\u2019Inghilesi medesima_ 109\n _CAP. LXXXVII. Come mor\u00ec il re Lodovico di Cicilia,\n _CAP. LXXXVIII. Come in Napoli fu romore_ 111\n LIBRO SESTO\n _CAP. II. Come nacque briga da\u2019 Visconti a que\u2019 di\n _CAP. III. Come si rubellarono terre di Piemonte_ 117\n _CAP. IV. Come i Fiorentini feciono lega contro la\n _CAP. V. Come gli Scotti presono Vervic_ 119\n _CAP. VI. D\u2019un trattato fatto per racquistare Bologna_ 121\n _CAP. VII. Come si scoperse il trattato di Bologna, e\n _CAP. VIII. Come il signore di Bologna fece lega_ 125\n _CAP. IX. Come l\u2019oste del Biscione ch\u2019era a Reggio\n _CAP. X. Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato\n _CAP. XI. Come mor\u00ec messer Piero Sacconi de\u2019 Tarlati_ 127\n _CAP. XII. Come scur\u00f2 tutto il corpo della luna_ 128\n _CAP. XIII. Come la gran compagnia presono Venosa_ 130\n _CAP. XIV. Come il legato band\u00ec la croce contro al capitano\n _CAP. XV. Come il conte Paffetta fu da\u2019 Pisani messo\n _CAP. XVI. Come gli Aretini riposono certe fortezze_ 133\n _CAP. XVII. Di nuove rivolture della gran compagnia_ 134\n _CAP. XVIII. Di grandi gravezze fatte dal re di\n _CAP.XIX. Come i Pisani facevano simulata guerra_ 136\n _CAP. XX. Come il capitano della Chiesa assedi\u00f2 Cesena_ 138\n _CAP. XXI. Come \u2019l conte da Battifolle assedi\u00f2 Reggiuolo_ 138\n _CAP. XXII. Come il conticino da Ghiaggiuolo racquiet\u00f2\n _CAP. XXIII. Come i Visconti assediarono Pavia_ 140\n _CAP. XXIV. Come il re di Francia prese il re di Navarra_ 141\n _CAP. XXV. Come il re di Francia fece decapitare il\n sire di Ricorti e altri quattro cavalieri normandi_ 143\n _CAP. XXVI. Di un grosso badalucco fu a Pavia-_ 144\n _CAP. XXVII. Come i Visconti assediarono Borgoforte_ 145\n _CAP. XXVIII. Come i Visconti feciono contro a\u2019 prelati\n _CAP. XXIX. Come i Visconti feciono tre bastite a\n _CAP. XXX. Come i Turchi con loro legni feciono\n _CAP. XXXI. Come gl\u2019Inghilesi guerreggiarono il\n _CAP. XXXII. Come gl\u2019Inghilesi furarono un forte\n _CAP. XXXIII. Come il zio del conte di Ricorti si rubell\u00f2\n _CAP. XXXIV. Come messer Filippo di Navarra si\n _CAP. XXXV. Come il popolo di Pavia prese le bastite,\n _CAP. XXXVI. Il movimento del re d\u2019Ungheria per\n _CAP. XXXVII. Come per l\u2019avvenimento del re d\u2019Ungheria\n _CAP. XXXVIII. Come la cavalleria del re Luigi sconfissono\n _CAP. XXXIX D\u2019appelli fatti per lo conte di Lando\n _CAP. XL. Come i Sanesi per paura ricorsono a\u2019 Fiorentini_ 160\n _CAP. XLI. Come l\u2019oste si lev\u00f2 da Borgoforte_ 161\n _CAP. XLII. Principio della guerra da\u2019 Fiamminghi\n _CAP. XLIII. Come il conte di Fiandra and\u00f2 su quello\n _CAP. XLIV. Come si fece accordo sul campo da\u2019\n _CAP. XLV. Come la citt\u00e0 d\u2019Ascoli s\u2019arrend\u00e8 al legato_ 166\n _CAP. XLVI. Come il legato procacci\u00f2 tenere il Tronto\n _CAP. XLVII. Come i Pisani ruppono la franchigia\n _CAP. XLVIII. Come i Fiorentini deliberarono partirsi\n _CAP. XLIX. Come fu disfatta la citt\u00e0 di Venafri in\n _CAP. L. Come l\u2019oste del re d\u2019Ungheria cominci\u00f2 a\n _CAP. LI. De\u2019 parlamenti che di questo si feciono in\n _CAP. LII. Come il re d\u2019Ungheria ebbe Colligrano_ 174\n _CAP. LIII. Come il re d\u2019Ungheria venne a oste a\n _CAP. LIV. Come si reggeano gli Ungheri in oste_ 176\n _CAP. LV. Come l\u2019oste si mantenea a Trevigi_ 180\n _CAP. LVI. Come la gran compagnia pass\u00f2 nella\n _CAP. LVII. De\u2019 fatti dell\u2019isola di Cicilia_ 183\n _CAP. LVIII. Come il conte di Lancastro cavalc\u00f2 fino\n _CAP. LIX. Come il re di Francia and\u00f2 in Normandia_ 185\n _CAP. LX. Come il papa e l\u2019imperadore diedono titolo\n _CAP. LXI. Come i Fiorentini s\u2019acordarono di fare\n _CAP. LXII. Come messer Bruzzi cerc\u00f2 di tradire il\n _CAP. LXIII. Come i Veneziani cercarono accordo col\n _CAP. LXIV. Come il signore di Bologna scoperse un\n _CAP. LXV. Di certa novit\u00e0 che gli Ungheri feciono\n _CAP. LXVI. Come il re d\u2019Ungheria si lev\u00f2 da oste\n _CAP. LXVII. Raccoglimento di condizioni\n _CAP. LXVIII. Come la gente della lega di Lombardia\n sconfisse il Biscione a Castel Lione_ 190\n _CAP. LXX Come la compagnia stette sopra Ravenna_ 198\n _CAP. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono di fare\n _CAP. LXXII. L\u2019ordine ch\u2019e\u2019 Fiorentini presono per\n _CAP. LXXIII. Come i Trevigiani furono soppresi\n dagli Ungheri con loro grave danno_ 201\n _CAP. LXXIV. Come il Regno era d\u2019ogni parte in guerra_ 202\n _CAP. LXXV. Come i collegati condussono la compagnia\n _CAP. LXXVI. De\u2019 fatti de\u2019 collegati di Lombardia_ 204\n _CAP. LXXVII. Come i Brabanzoni ruppono i patti\n _CAP. LXXVIII. Come il conte di Fiandra and\u00f2 sopra\n _CAP. LXXIX. Come il duca di Brabante si f\u00e8 incontro\n _CAP. LXXX. Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni_ 208\n _CAP. LXXXI Come il conte di Fiandra ebbe Borsella_ 209\n _CAP. LXXXII. Come il conte di Fiandra ebbe tutto\n _CAP. LXXXIII. Perch\u00e8 si mosse guerra dagli Spagnuoli\n _CAP. LXXXIV. Di gran tremuoti furono in Ispagna_ 214\n LIBRO SETTIMO\n _CAP. II. Come il re di Francia prese la croce per fare\n _CAP. III. Le parole disse frate Andrea d\u2019Antiochia\n _CAP. IV. Molte laide cose fece il re di Francia_ 220\n _CAP. V. Come il re di Francia usc\u00ec di Parigi con suo\n _CAP. VI. Quello faceva il prenze di Guales_ 223\n _CAP. VII. Come il re di Francia pose il campo press\u00f2\n _CAP. VIII. Due conti del re di Francia rimasono presi\n _CAP. IX. Puose il re di Francia il campo suo presso\n _CAP. X. I legati cercarono accordo tra due signori_ 228\n _CAP. XI. I patti che si trattarono e quasi conchiusono_ 229\n _CAP. XII. Come il vescovo di Celona sturb\u00f2 la pace_ 231\n _CAP. XIII. Diceria che fece il prenze di Guales a\u2019 suoi_ 233\n _CAP. XIV. Come i Franceschi s\u2019apparecchiarono alla\n _CAP. XV. Le schiere e gli ordini de\u2019 Franceschi_ 235\n _CAP. XVI. L\u2019ordine degl\u2019Inghilesi con le loro schiere_ 236\n _CAP. XVII. La battaglia tra il re di Francia, e il\n _CAP. XVIII. La sconfitta del re di Francia e sua gente_ 239\n _CAP. XIX. Racconta molti morti e presi nella battaglia_ 241\n _CAP.XX. Come il re di Francia n\u2019and\u00f2 preso in Guascogna_ 242\n _CAP. XXI. I modi tenne il re d\u2019Inghilterra sentendo la\n _CAP. XXII. Battaglia fra due cavalieri, e perch\u00e8_ 244\n _CAP. XXIII. Processo fatto contro a\u2019 signori di Milano\n _CAP. XXIV. Risposta fatta per li signori di Milano\n _CAP. XXV. Risposta fatta per lo vicario alla detta\n _CAP. XXVI. Come i soldati de\u2019 tiranni non vollono\n venire contro all\u2019insegna dell\u2019imperadore_ 248\n _CAP. XXVII. Come il vicario puose campo_ 249\n _CAP. XXVIII. Ordine del re d\u2019Ungheria alla guerra\n _CAP. XXIX. L\u2019aguato misono gli Ungheri a gente\n _CAP. XXX. Come il re Luigi tratt\u00f2 d\u2019avere Messina\n _CAP. XXXI. Come si tratt\u00f2 pace fra il conte di Fiandra\n _CAP. XXXII. Come i Fiorentini si partirono da Pisa\n e andarono a Siena con le mercatanzie_ 254\n _CAP. XXXIII. Come il capitano di Forl\u00ec si provvide_ 255\n _CAP. XXXIV. Come Faenza s\u2019arrend\u00e8 al legato, e\u2019 patti_ 256\n _CAP. XXXV. Che fece la gente della lega de\u2019 Lombardi\n _CAP. XXXVI. Della materia medesima_ 257\n _CAP. XXXVII. Come l\u2019oste della lega fu rotta dalla\n _CAP. XXXVIII. Il consiglio prese il capitano di Forl\u00ec_ 261\n _CAP.XXXIX. Messer Niccola prese Messina per lo re\n _CAP. XL. Come si ribell\u00f2 Genova a que\u2019 di Milano_ 264\n _CAP. XLI. Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo_ 265\n _CAP. XLII. Quello fece messer Filippo di Taranto e\n _CAP. XLIII. Come si fugg\u00ec di Milano la donna che fu\n di messer Luchino col figliuolo_ 268\n _CAP. XLIV. Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina_ 269\n _CAP. XLV. Come fu murato il borgo di Fegghine_ 270\n _CAP. XLVI. D\u2019un parlamento fece l\u2019imperadore in\n _CAP. XLVII. Come il marchese di Monferrato ebbe il\n _CAP. XLVIII. Come messer Bernab\u00f2 volle uccidere\n _CAP. XLIX. Come i Genovesi racquistarono Savona_ 277\n _CAP. L. Guerra dal re di Castella a quello d\u2019Araona_ 277\n _CAP. LI. Come messer Filippo di Novara cavalc\u00f2 presso\n _CAP. LII. Come si cominci\u00f2 le mulina del comune di\n _CAP. LIII. Come il reame di Francia ebbe gran divisione_ 280\n _CAP. LIV. Morte del conte Simone di Chiaramonte\n _CAP. LV. Come si liber\u00f2 il Borgo a Sansepolcro da\n _CAP. LVI. Come l\u2019abate di Clugn\u00ec succedette al cardinale\n _CAP. LVII. Come il re di Francia fu menato in Inghilterra_ 283\n _CAP. LVIII. Come la gente della Chiesa entr\u00f2 in Cesena_ 286\n _CAP. LIX. Come il legato con sua forza and\u00f2 a Cesena_ 287\n _CAP. LX. Abboccamento e triegua fatta dal re di\n _CAP. LXI. Come Rezzuolo si diede a\u2019 Fiorentini_ 289\n _CAP. LXII. Come i Pisani vollono torre Uzzano\n _CAP. LXIII. Come i Pisani armarono galee per impedire\n _CAP. LXIV. L\u2019aiuto mand\u00f2 messer Bernab\u00f2 al capitano\n _CAP. LXV. Come il conte d\u2019Armignacca da Tolasana per\n _CAP. LXVI. Conta dell\u2019onore fatto al re di Francia\n _CAP. LXVII. Trattato tenuto per li Fiorentini in\n accordare il capitano di Forl\u00ec con il legato_ 298\n _CAP. LXVIII. Come il legato ebbe la murata di Cesena_ 297\n _CAP. LXIX. De\u2019 fatti di madonna Cia donna del\n _CAP. LXXI. Novit\u00e0 di Grecia, e presura di loro signori_ 302\n _CAP. LXXII. Come il re Luigi assedi\u00f2 Catania in\n _CAP. LXXIII. Della materia medesima_ 305\n _CAP. LXXIV. Come l\u2019oste del re Luigi si lev\u00f2 da Catania\n _CAP. LXXV. Come la compagnia venne sul Bolognese_ 307\n _CAP. LXXVI. Come il comune di Firenze afforz\u00f2 lo\n _CAP. LXXVII. Come s\u2019arrend\u00e8 la rocca di Cesena\n _CAP. LXXVIII. De\u2019 fatti di Costantinopoli_ 311\n _CAP. LXXIX. Come il legato prese Castelnuovo e\n _CAP. LXXX. Di processi fatti contro la compagnia\n _CAP. LXXXI. Della gravezza facea il tiranno a\u2019 Bolognesi_ 314\n _CAP. LXXXII. Come i Veneziani domandarono pace\n _CAP. LXXXIII. Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro_ 317\n _CAP. LXXXIV. Come si band\u00ec la croce contro la\n _CAP. LXXXV. Aiuti mandarono i Fiorentini al legato_ 319\n _CAP. LXXXVI. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia_ 320\n _CAP. LXXXVII. Come l\u2019arciprete con compagnia\n _CAP. LXXXVIII. Come il conte di Fiandra rend\u00e8\n Brabante alla duchessa facendo pace_ 323\n _CAP. LXXXIX. Come il legato s\u2019accord\u00f2 alla compagnia\n _CAP. XC. Ricominciamento dello studio in Firenze_ 325\n _CAP. XCI. Come si trovarono l\u2019ossa di papa Stefano\n _CAP. XCII. Leggi fatte sopra i medici_ 326\n _CAP. XCIII. Come i Genovesi ebbono Monaco_ 327\n _CAP. XCIV. Come il cardinale assedi\u00f2 Forl\u00ec_ 328\n _CAP. XCV. Come il re d\u2019Inghilterra ruppe i patti\n _CAP. XCVI. Della mostra fatta a Avignone di cortigiani\n _CAP. XCVII. Come il re Luigi da Messina torn\u00f2 a\n _CAP. XCVIII. Come si perd\u00e8 Governo a\u2019 Mantovani_ 332\n _CAP. XCIX. Come i signori di Milano presono Borgoforte,\n _CAP. C. Come il cardinale Egidio pass\u00f2 per Firenze_ 335\n _CAP. CI. Come per i cardinali non si fe\u2019 nulla della\n _CAP. CII. Come fu impiccato il conte di Minerbino_ 338\n _CAP. CIII. Come fu preso Minerbino_ 339\n _CAP. CIV. Come i Genovesi mandarono in Sardigna\n venti galee per racquistare la Loiera, e non poterono_ 340\n TOMO III.\n \u2014 257 \u2014 27 si sfo (In alcune copie) si sfor-\nNota del Trascrittore\nOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo\nsenza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in\nfine libro sono state riportate nel testo.", "source_dataset": "gutenberg", "source_dataset_detailed": "gutenberg - Cronica di Matteo Villani, vol. III\n"}, +{"source_document": "", "creation_year": 1343, "culture": " Italian\n", "content": "VOL. II ***\n A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA\nLIBRO TERZO\n_Qui comincia il terzo libro della Cronica di Matteo Villani; e prima\nil Prologo._\nCAPITOLO PRIMO\nRendendo spesso testimonianza delle mutevoli cose del mondo ogni\nstato umano, non \u00e8 da pensare cosa maravigliosa quella che ha fatto\nmaravigliare ne\u2019 nostri d\u00ec ovunque la sua fama aggiunse. E domandando\nla debita materia di fare cominciamento al terzo libro, possiamo con\nragione dire, che la corona dell\u2019imperiale maest\u00e0 e il suo regno, alla\nquale dipendea la monarchia dell\u2019universo, era Roma coll\u2019italiana\nprovincia, delle provincie della quale ne\u2019 nostri tempi la citt\u00e0 di\nFirenze, Perugia e Siena, seguendo alcune orme di quella, per li tempi\navversi dello sviato imperio, in segno della romana libert\u00e0, avendo\nveduto per li tempi passati l\u2019incostanza degl\u2019imperadori alamanni avere\nin Italia generate e accresciute tirannesche suggezioni di popoli,\nhanno mantenuto la franchigia e la libert\u00e0 discesa in loro dall\u2019antico\npopolo romano: e zelanti di non sostenere quella a tirannia, molte\nvolte per diversi e lunghi tempi apparvono contradi all\u2019imperiale\nsuggezione, intanto che non si poteva in questi popoli sostenere\nsenza sospetto, senza pericolo e senza infamia il raccontamento\ndell\u2019imperiale nome. E come subitamente gli animi di que\u2019 popoli e de\u2019\nloro rettori per paura del potente tiranno arcivescovo di Milano si\ncambiarono, procurando l\u2019amist\u00e0 e l\u2019avvenimento in Italia di messer\nCarlo re di Boemia eletto imperadore, i movimenti gi\u00e0 narrati, e le\noperazioni che appresso ne seguirono, seguendo nostro trattato il\ndimostreremo.\nCAP. II.\n_La potenza dell\u2019arcivescovo di Milano, e il procaccio fece a corte per\nla sua liberazione._\nEra in questo tempo potentissimo e temuto signore messer Giovanni de\u2019\nVisconti arcivescovo di Milano, sotto la cui signoria si reggea la\nnobile e grande citt\u00e0 di Milano, e l\u2019antica e famosa citt\u00e0 di Bologna,\nCremona, Lodi, Parma, Piacenza, Brescia, Moncia, Bergamo, Como, Asti,\nAlessandria della paglia, Tortona, Alba, Novara, Vercelli, Bobbio,\nCrema, e pi\u00f9 altre citt\u00e0 e terre nelle montagne di verso la Magna, co\u2019\nloro contadi ville e castella; e i signori di Pavia, ch\u2019erano que\u2019 di\nBeccheria, l\u2019ubbidivano come signore, bench\u00e8 la citt\u00e0 fosse al loro\ngovernamento. In Toscana aveva acquistato il Borgo a san Sepolcro,\ne il castello d\u2019Anghiari e altre castella d\u2019intorno. E accomandati\ne ubbidienti gli erano Cortona, Orvieto, Cetona, Agobbio, i Tarlati\nusciti d\u2019Arezzo, gli Ubaldini, i Pazzi di Valdarno, gli Ubertini, e\nque\u2019 da Faggiuola; e i conti da Montefeltro, e de\u2019 conti Guidi dal lato\nghibellino, e il conte Tano da Montecarelli, e gli altri ghibellini\ncaporali di Toscana, e di Romagna e della Marca l\u2019ubbidivano. E a\nsua lega e a compagnia avea il signore della Scala e di Mantova e di\nPadova: e il marchese di Ferrara in Lombardia, e il comune di Genova e\nquello di Pisa sotto alcuno ordinato servigio, e il capitano di Forl\u00ec,\ne il tiranno di Faenza, e il signore di Ravenna tenevano con lui in\nlega e in compagnia, come nel secondo nostro libro narrato abbiamo. E\nnon avendo l\u2019arcivescovo altra guerra che col comune di Firenze e di\nPerugia, alla cui compagnia e lega s\u2019accostava debolmente il comune di\nSiena, era s\u00ec potente e di tanto aiuto e forza, che impossibile pareva\na questi popoli potersi difendere senza aiuto di pi\u00f9 potente braccio,\ne per\u00f2 aveano mandato a corte, come detto \u00e8, per inducere il papa e i\ncardinali contra lui, sentendo che la Chiesa per le grandi ingiurie\nricevute procedeva contro a lui. Ma l\u2019arcivescovo per riparare,\nsentendo che gl\u2019impugnatori erano grandi, pens\u00f2 che non era tempo\nda nutricare il lavorio, ma di trarlo a fine; e avvedendosi quanto\nl\u2019avarizia movea le cortigiane cose, e disponeva i prelati all\u2019olore\ndella pecunia, e per questo le cose, aspettando maggior frutto, si\nsostenevano, da capo mand\u00f2 pi\u00f9 grande e pi\u00f9 solenne ambasciata a corte\ndi suoi confidenti, uomini sperti e di grande autorit\u00e0, e mandolli\nforniti di pi\u00f9 di dugentomila fiorini d\u2019oro, con pieno mandato a\noperare e fare con doni e con loro industria e impromesse, senza avere\nriguardo alla pecunia, d\u2019avere la riconciliazione di santa Chiesa,\nrimanendoli la signoria di Bologna. E oltre a ci\u00f2 aoper\u00f2 per forza\nde\u2019 suoi doni, che messer Giovanni di Valois re di Francia mand\u00f2\naltri baroni suoi ambasciadori al papa e a\u2019 cardinali a procurare la\nriconciliazione dell\u2019arcivescovo; e la contessa di Torenna governatore\ndel papa nelle sue temporali bisogne, per cui il santo padre molto si\nmovea nelle grandi bisogne, procacci\u00f2 con ismisurati doni. Nel continuo\ntempellamento del papa, per lo suo aiuto, e ne\u2019 parenti del papa si\nprovvide con larga mano. E in certi cardinali che gli si mostravano\navversi per zelo dell\u2019onore di santa Chiesa si provvide per modo, che\nagevole fu a conoscere che l\u2019onore di santa Chiesa non s\u2019apparteneva\na loro. E avendo l\u2019arcivescovo tutta compresa la corte in suo favore,\nseguita il modo che papa Clemente tenne con gli ambasciadori de\u2019 comuni\ndi Toscana, per potere fare con pi\u00f9 sua scusa quello che prima avea\ndeliberato di fare.\nCAP. III.\n_Come papa Clemente sesto propose tre cose a\u2019 comuni di Toscana, perch\u00e8\npigliassono l\u2019una._\nEssendo tutta la corte di Roma ripiena di doni e d\u2019ambasciadori\nper i fatti dell\u2019arcivescovo, e volendo il papa terminare la sua\ncausa secondo la domanda de\u2019 suoi ambasciadori, i quali nella vista\nproferivano di lui ogni ubbidienza di santa Chiesa, e nel segreto\naveano l\u2019ubbidienza del papa e de\u2019 cardinali alla sua volont\u00e0, per\nle ragioni e cagioni gi\u00e0 narrate; volendo il papa mostrare agli\nambasciadori de\u2019 tre comuni di Toscana singolare affezione, da\ncapo gli ebbe in concistoro, e commendato molto i loro comuni di\nmolte cose, e singolarmente dell\u2019amore e della fede che portavano a\nsanta Chiesa, e dolutosi delle loro oppressioni per le divisioni e\nscandali d\u2019Italia, infine conchiudendo disse, che mettea nella loro\nelezione quelle tre cose ch\u2019avea altre volte loro promesse, ch\u2019elli\neleggessono l\u2019una senza soggiorno: o di buona pace coll\u2019arcivescovo, o\nlega e compagnia colla Chiesa contro a lui, o che facesse passare in\nItalia l\u2019eletto imperatore. Gli ambasciadori ristretti insieme, che\nconoscevano e sentivano dove la causa dell\u2019arcivescovo era ridotta,\nnon si vollono rimutare da quello ch\u2019altra volta aveano detto al papa,\nche quello che a lui paresse il migliore erano contenti che facesse\nloro, mantenendo in sul fatto la piena confidenza ch\u2019aveano a santa\nChiesa e al sommo pastore. Il papa conobbe che la risposta era intera\nalla sua intenzione, e che poteva procedere con giusto titolo senza\noffendere i comuni di Toscana ne\u2019 suoi movimenti, quanto che in fatti\nera il contradio, alla sentenza di riconciliare l\u2019arcivescovo, e per\u00f2\nfu contento, e disse loro che provvederebbe per modo, che i loro comuni\navrebbono coll\u2019arcivescovo buona pace: della quale offerta niuna\nsperanza si prese, conoscendo manifestamente ch\u2019al tutto s\u2019intendeva a\nmagnificare il tiranno, e a fare la sua volont\u00e0.\nCAP. IV.\n_Come il papa e\u2019 cardinali annullarono i processi contro\nall\u2019arcivescovo._\nPoco appresso dopo la detta risposta, avendo gli ambasciadori\nsignificato a\u2019 loro comuni quello ch\u2019aveano dal papa, e quello che\nsentivano di certo de\u2019 fatti dell\u2019arcivescovo, il papa convoc\u00f2 i\ncardinali a concistoro, i quali tutti, niuno discordante, erano\nd\u2019accordo con gli ambasciadori dell\u2019arcivescovo, e per\u00f2 non essendo\ntra loro quistione, domenica mattina a d\u00ec 5 di Maggio, gli anni\nDomini 1352, fu per la santa ubbidienza dell\u2019arcivescovo sopraddetto\nannullato il processo fatto contro a lui, e riconciliato a santa\nChiesa, e tratto d\u2019ogni scomunicazione e d\u2019ogni interdetto. E in\nquello concistoro piuvico, avendo per li suoi ambasciadori rendute le\nchiavi al papa in segno della restituzione di Bologna, il papa colla\nvolont\u00e0 de\u2019 suoi cardinali ne rinvest\u00ec gli ambasciadori, riceventi per\nlo detto arcivescovo e de\u2019 suoi successori, nella signoria di Milano\ne di Bologna, per tempo e termine di dodici anni prossimi a venire,\ncon promessione che ogni anno ne darebbe di censo fiorini dodicimila\nalla camera del papa, e compiuto il detto termine la renderebbe\nlibera a santa Chiesa, e allora restituiranno contanti, per nome del\ndetto arcivescovo, fiorini centomila alla camera del papa, per la\nrestituzione delle spese che la Chiesa vi fece quando vi tenne l\u2019oste\nil conte di Romagna. E cos\u00ec per piet\u00e0 e per danari ogni gran cosa si\nfornisce a\u2019 nostri tempi co\u2019 pastori di santa Chiesa.\nCAP. V.\n_Come gli ambasciadori de\u2019 Toscani si partirono di corte mal contenti._\nIl papa avendo grande appetito di servire tosto all\u2019arcivescovo,\nvedendo che \u2019l trattare della pace promessa a\u2019 comuni di Toscana avea\na sostenere la causa del tiranno, si fece promettere triegua per un\nanno, in quanto il comune di Firenze e gli altri comuni la volessono,\nacciocch\u00e8 infra il termine pi\u00f9 ordinatamente si trattasse della pace.\nGli ambasciadori ch\u2019aveano assai dinanzi avvisati i loro comuni come la\ncosa procedeva acciocch\u00e8 provvedessono al loro stato, frustrati della\nloro intenzione, si partirono mal contenti di corte, e tornaronsi in\nToscana. E innanzi la loro tornata, in Firenze si piuvic\u00f2 il trattato\ne la concordia presa col vececancelliere dell\u2019eletto imperadore,\ncome appresso diviseremo. Avvenne poco appresso che il vicario\ndell\u2019arcivescovo in Bologna mand\u00f2 a Firenze un messo con ulivo in mano\ne con sue lettere, significando la tregua fatta e bandita nelle terre\ndell\u2019arcivescovo suo signore; e in quello d\u00ec fece muovere sua gente\na cavallo e a pi\u00e8 da Montecarelli, e cavalcare nel Mugello predando,\ne uccidendo e ardendo come gravi nimici del comune, e ritrassonsi a\nsalvamento; e ivi dopo pochi d\u00ec ritornarono, e misono loro aguati, e\nfurono scoperti, e rotti, e morti e presi gran parte di loro, sicch\u00e8\npi\u00f9 non s\u2019attentarono di venire in Mugello. Per questi segni si\nscoperse, che il trattato del papa con le tregue, colla f\u00e8 corrotta del\ntiranno, non ebbe principio di buona intenzione.\nCAP. VI.\n_Come i tre comuni di Toscana s\u2019accordarono a far passare l\u2019imperadore._\nI rettori de\u2019 tre comuni di Toscana, per l\u2019informazione ch\u2019aveano avuta\nda corte da\u2019 loro ambasciadori, sentivano a certo che la Chiesa gli\nabbandonava, ed era per magnificare il loro avversario: e bene che\nsentissono le promesse del papa, non vedeano da potersene confidare, e\nper\u00f2 tempellavano negli animi tra il sospetto e la paura, aggiugnendo\ntemenza di cittadinesche discordie nel soprastare: e bene che ancora\nnon avessono avuta certezza del fatto da\u2019 loro ambasciadori, senza\nrendere al santo padre il debito onore, quasi palpando, per lo trattato\ntenuto col vececancelliere dell\u2019imperadore, mostrando di prendere\nconfidanza nella fama delle virt\u00f9 e senno e larghe profferte del\ndetto eletto imperadore, per aiutarsi dal potente tiranno nimico,\nvalicando egli in Italia a istanza de\u2019 detti tre comuni, come il suo\ncancelliere promettea, e per questa cagione, d\u2019uno animo e d\u2019uno\nvolere tutto il reggimento di questi tre comuni, Firenze, Perugia,\ne Siena, con pubblico consentimento de\u2019 loro popoli si deliberarono\nd\u2019essere all\u2019ubbidienza del detto eletto imperadore con certi patti e\nconvenzioni, i quali erano assai strani alla libert\u00e0 del sommo imperio.\nMa perch\u00e8 le cose disviate con alcuno mezzo pi\u00f9 tosto si congiungono\na unit\u00e0 e a concordia, non fu a quel tempo tenuta sconvenevole la\ndomanda, n\u00e8 ingiusto l\u2019assentimento del signore; e per\u00f2 all\u2019uscita\ndel mese d\u2019aprile del detto anno, nella citt\u00e0 di Firenze in pubblico\nparlamento si ferm\u00f2 il trattato ordinato per lo vececancelliere\ndell\u2019eletto imperadore, con gli ambasciadori e sindachi de\u2019 detti\ntre comuni, e piuvicossi i patti e le convenzioni, e fattone solenni\nstipulazioni e carte, grande ammirazione ne fu per tutta Italia. I\npatti in sostanza racconteremo qui appresso nel seguente capitolo.\nCAP. VII.\n_Quali furono i patti dall\u2019imperadore a\u2019 tre comuni._\nPromise il detto vececancelliere, che per tutto il prossimo mese di\nluglio l\u2019eletto re de\u2019 Romani imperadore sarebbe in Lombardia sopra le\nterre dell\u2019arcivescovo di Milano per guerreggiare e abbattere la sua\nsignoria con seimila cavalieri: de\u2019 quali duemila ne dovea avere al\nsuo proprio soldo, ovvero servigio, e mille che promessi gli avea la\nChiesa di Roma quando passasse, i quali se dalla Chiesa non avesse,\npromettea fornirli da se, e gli altri tremila cavalieri, i quali dovea\nsoldare a sua eletta. Questi tre comuni gli doveano dare per un anno\ndugento migliaia di fiorini d\u2019oro, e oltre a ci\u00f2 gli doveano donare\ncome e\u2019 fosse in Aquilea fiorini diecimila d\u2019oro. La taglia era al\ncomune di Firenze per millecinquecentocinquanta cavalieri, Perugia\nottocentocinquanta, e Siena seicento. E se in uno anno la guerra\nnon fosse terminata, si dovea provvedere del nuovo sussidio innanzi\nal tempo, confidandosi catuna parte d\u2019averne concordia. E i detti\ntre comuni deono tenere il detto messer Carlo vero re de\u2019 Romani, e\nfuturo diritto imperadore, ed egli dee promettere di mantenere i detti\ntre comuni nella loro libert\u00e0 e ne\u2019 loro statuti; e come avesse la\ncorona, avendo sottomesso il tiranno, i priori di Firenze e\u2019 nove di\nSiena si doveano dinominare vicari dell\u2019imperadore mentre che fossono\nall\u2019uficio (i Perugini non s\u2019obbligarono a questo, facendosi uomini di\nsanta Chiesa) e il comune di Firenze promise in detto caso pagare ogni\nanno per nome di censo danari ventisei per focolare: gli altri comuni\ns\u2019obbligarono senza distinzione di pagare ogni anno quello ch\u2019era\nconsueto all\u2019imperadore per antico. E fu in patto che l\u2019imperadore\nvenuto alla corona dovesse privilegiare a\u2019 detti comuni tutte le terre,\nville e castella ch\u2019al presente possedeano, e che avessono posseduto\nsei anni addietro, quanto che ora non le possedessono, e che dalla\ncondannagione fatta per l\u2019imperadore Arrigo suo avolo, promise liberare\ne assolvere i detti comuni. E \u2019l detto vececancelliere per nome del\ndetto eletto imperadore promise, che le dette convenenze e patti il\ndetto eletto confermerebbe infra mezzo il prossimo futuro mese di\ngiugno del detto anno. Altre singulari cose vi si promisono, che non\nsono di necessit\u00e0 a raccontare.\nCAP. VIII.\n_Come il re Luigi e la reina Giovanna furono coronati per la Chiesa._\nAvendo papa Clemente sesto e\u2019 suoi cardinali mandati legati nel Regno,\na d\u00ec 27 di maggio del detto anno, il d\u00ec della santa Pentecoste, nella\ncitt\u00e0 di Napoli, celebrata la solenne messa, con la consueta solennit\u00e0\nconsacrarono e coronarono in nome di santa Chiesa in prima il re\nLuigi, e dappresso la reina Giovanna, del reame di Gerusalemme e di\nCicilia. E questo fu fatto con molta festa di baroni e di cavalieri del\nregno, e de\u2019 Napoletani e de\u2019 forestieri, i quali tutti si sforzarono\ndi onorare il re e la reina in quella festa; e fecesi alle case del\nprenze di Taranto sopra le Coreggie, con molte giostre e con grande\narmeggiare: e vestiti e adorni il re e la reina in abito di reale\nmaest\u00e0, ricevettono l\u2019omaggio da tutti i baroni che non erano stati\ncontrari nella guerra, e da assai di quelli ch\u2019aveano tenuto contro a\nlui per lo re d\u2019Ungheria, a\u2019 quali tutti perdon\u00f2, mostrando loro buono\nanimo e buono volere. E a coloro che alla sua coronazione non erano\nvenuti a fare l\u2019omaggio, assegn\u00f2 termine giusto a potere venire con\npace e con amore alla sua ubbidienza; e quale dal termine innanzi non\nfosse venuto, per decreto fece che fosse rubello della corona. E dopo\nla coronazione cavalc\u00f2 il re in abito reale per la citt\u00e0 di Napoli,\nmontato in su uno grande e poderoso destriere, addestrato al freno e\nalla sella da\u2019 suoi baroni. Quando fu valicato porta Petrucci nella\nvia di Porto, certe donne per fargli onore e festa gittarono sopra lui\ndalle finestre rose e fiori di grande odore: il destriere aombr\u00f2, ed\nerse; i baroni ch\u2019erano al freno si sforzarono d\u2019abbassare il cavallo:\nil destriere ch\u2019era poderoso ruppe le redine. Il re Luigi vedendosi\nsopra il destriere spaventato senza redine, di subito destramente se ne\ngitt\u00f2 a terra, e caddegli la corona di capo, e ruppesi in tre pezzi,\ncadendone tre merli; alla persona non si fece male: rilegata la corona,\ndi presente, ridendo, mont\u00f2 a cavallo, cavalcando per la terra con gran\nfesta e onore. In questo medesimo d\u00ec mor\u00ec una sua fanciulla, che altro\nfigliuolo non aveva della reina. Molti per questi casi pronosticarono\nnon prospere cose alla maest\u00e0 reale.\nCAP. IX.\n_Commendazione in laude di messer Niccola Acciaiuoli._\nDegna cosa ne pare, e debito del nostro trattato, appresso la\ncoronazione del re Luigi, rendere beneficio di memoria per chiara fama\ndi messer Niccola Acciaiuoli cittadino popolare di Firenze, balio\ne governatore dell\u2019infanzia del detto re; il quale essendo prima\ncompagno della compagnia degli Acciaiuoli, con animo pi\u00f9 cavalleresco\nche mercantile si mise al servigio dell\u2019imperatrice moglie che fu\ndel Prenze di Taranto, e quello esercit\u00f2 realmente e personalmente\ncon tanta virt\u00f9 e con tanto piacere della donna, che ella avendo\ntre suoi figliuoli di piccola et\u00e0, Ruberto primogenito, e messer\nLuigi secondo, e Filippo il terzo, tutti gli mise nel governamento\ndi Niccola Acciaiuoli, che allora non era cavaliere, e tutto il suo\nconsiglio l\u2019imperatrice ristrinse in lui, e con lei se ne pass\u00f2 in\nRomania, e ordinati i fatti delle terre e baronie di l\u00e0, con lei\nse ne torn\u00f2 a Napoli. Ed essendo cresciuto di et\u00e0 di anni quindici\nmesser Luigi, volendo il re Ruberto mandare gente d\u2019arme in Calavra,\ne dilettandosi dell\u2019industria del giovane barone, fatta eletta di\ncinquecento cavalieri d\u2019arme, e datili all\u2019ubbidienza di messer\nLuigi, lui accomand\u00f2 a messer Niccola Acciaiuoli, comandandogli in\ntutto che ubbidisse al suo maestro. E questo fece il re di volont\u00e0\ndell\u2019imperatrice sua madre; avendo poco innanzi fatto cavaliere il\ndetto messer Niccola; e da quell\u2019ora appresso il detto messer Luigi si\nresse in tutto e govern\u00f2 per le mani di messer Niccola. E sopravvenuta\nla morte del duca Andreasso, per operazione dell\u2019imperatrice e di\nmesser Niccola Acciaiuoli fu data la reina Giovanna per moglie a\nmesser Luigi: e ne\u2019 primi cominciamenti con assai prospera fortuna\naccrescea il suo signore. E cambiandosi le cose per l\u2019avvenimento del\nre d\u2019Ungheria alla vendetta del fratello, essendo tutti gli altri reali\nall\u2019ubbidienza del potente re, costui solo, coll\u2019aiuto d\u2019alquanti che\nubbidivano alla reina, per lo consiglio e conforto di messer Niccola,\nsostenne contro alla gente del re d\u2019Ungheria lungamente, e tent\u00f2 di\nresistere alla persona del loro re, e non si part\u00ec dalla frontiera di\nCapova, infino che abbandonato dagli avari regnicoli, e gi\u00e0 soppreso\ndall\u2019avvenimento del re e del suo esercito, fu costretto di partirsi\nda Capova, e appresso da Napoli, sprovveduto, di notte, ricogliendosi\nper necessit\u00e0 in su una vecchia e male armata galea; e in quella\nraccolto, con poco arnese e con lieve compagnia valic\u00f2 in Toscana in\npovero stato. E per lo detto messer Niccola, e co\u2019 suoi danari e di\nsuoi amici fu atato e rifornito e confortato nella grave tempesta\ndella fortuna. Presi tutti i reali, e morto il duca di Durazzo, e\nil Regno venuto nelle mani del suo persecutore, e non volendolo i\nFiorentini ricevere nella loro citt\u00e0, n\u00e8 sovvenire d\u2019alcuna cosa per\ntema del re d\u2019Ungheria, ridottosi parecchi d\u00ec alla possessione del\ndetto messer Niccola in Valdipesa, di l\u00e0 si part\u00ec, e and\u00f2 in Proenza\nove la reina era rifuggita. E tornato il re d\u2019Ungheria, per tema della\ngenerale mortalit\u00e0, in suo paese; per sollecitudine e trattato di\nmesser Niccola, prima tornato nel regno, e sommossi de\u2019 baroni e de\u2019\ncavalieri, e confortati i Napoletani, e accolta gente d\u2019arme in favore\ndel suo signore, in breve tempo ordin\u00f2 la sua tornata e della reina nel\nRegno, nel quale assai battaglie e vari e diversi assalti di guerra\nsostenne; e per avversa fortuna rotte le sue forze in battaglia per\npi\u00f9 riprese, tradito dagli amici, perseguitato da\u2019 nemici, condotto\nall\u2019inopia, sentina della fortuna, l\u2019animo del valente cavaliere fu\ndi tanta potenza e di tanta virt\u00f9, che con pari animo sostenne il\ngiovane barone suo signore in speranza certa della sua esaltazione,\nsempre aiutandolo e sostenendolo con sua industria e suo procaccio, e\ncon fortezza e con pazienza fece comportare l\u2019asprezza della turbata\nfortuna. Onde avvenne, che quella potendosi maravigliare della costanza\ndell\u2019uomo, subitamente e improvviso mut\u00f2 la turbata faccia in chiara,\ne l\u2019asprezza in dolcezza e in mansuetudine: e colui che avea ributtato\nper cotante tempeste e vari pericoli, oltre all\u2019opinione degli uomini,\ncon felici e prospere successioni condusse alla reale corona, e alla\nlibera signoria di tutto il corrotto e sviato regno in brevissimo\ntempo. E per lo nobile consiglio e avvedimento di messer Niccola\nAcciaiuoli, i reali lasciati di prigione e tornati nel Regno, ove per\ntutti si stimava che il Prenze di Taranto maggiore fratello del re,\nper sdegno e per forte inzigamento contro al re movesse scandolo nel\nreame, con mansuetudine e con caritatevole animo il fece al re ricevere\nin compagno del regno; e fattogli prendere titolo dell\u2019imperiato\ncostantinopolitano, e aggiunto largamente alla sua baronia, conobbe\ne manifest\u00f2 a tutti, che il padre loro messer Niccola, appresso la\ngrazia di Dio, era cagione del ricoveramento del regno, e dello stato\ne onore. Perch\u00e8 dunque dovevamo tacere? innanzi vogliamo essere da\u2019\ndenti degl\u2019invidiosi cittadini morso, che la provata verit\u00e0 per li suoi\neffetti, e per la fine de\u2019 suoi felici avvenimenti, avessimo lasciata\nsotto scurit\u00e0 d\u2019ignorante oblivione.\nCAP. X.\n_Come fu cacciato messer Iacopo Cavalieri di Montepulciano._\nIn questo anno del mese d\u2019aprile, sabato santo, avendo messer Iacopo\nde\u2019 Cavalieri di Montepulciano trattato, coll\u2019aiuto della gente\ndell\u2019arcivescovo ch\u2019era in Toscana, di farsi signore della terra di\nMontepulciano, e a ci\u00f2 consentivano una parte de\u2019 terrazzani di suo\nseguito, messer Niccola suo consorto sent\u00ec questo trattato, e fecelo\nsentire a\u2019 governatori del popolo; e in questo d\u00ec, levata la terra\na romore, cacciarono messer Iacopo di Montepulciano, e venti altri\nterrazzani suoi seguaci, uomini nominati di stato intra il popolo; e\ncol consiglio di messer Niccola de\u2019 Cavalieri riformarono la terra di\nloro reggimenti, e ischiusonne gli amici e\u2019 seguaci di messer Iacopo;\nil quale si ridusse a Siena, e l\u00e0 ordin\u00f2 grande novit\u00e0, e scandalo e\nsuggezione di quella terra, come innanzi a\u2019 suoi tempi si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XI.\n_Come si die\u2019 il guasto a Bibbiena, e sconfitti i Tarlati da\u2019\nFiorentini._\nDel mese di maggio del detto anno, ricordandosi i Fiorentini\ndell\u2019ingiuria ricevuta da\u2019 Tarlati, Pazzi e Ubertini per la ribellione\nch\u2019aveano fatta al comune al tempo della guerra dell\u2019arcivescovo\ndi Milano, quando ruppono la pace e cavalcarono sopra il contado e\ndistretto di Firenze, accolsono seicento cavalieri di loro masnade e\ngran popolo, e andarsene alla Cornia, e poi alla Penna, e a Gaenna, e\nad altre terre e ville che si tenevano pe\u2019 Pazzi e Ubertini e Tarlati,\ne a tutte diedono il guasto; e poi se n\u2019andarono a Bibbiena, ov\u2019era\nmesser Piero Sacconi, e a Soci, e ivi dimorarono pi\u00f9 d\u00ec, ardendo e\nguastando d\u2019intorno: quelli da Bibbiena francamente si difesono dal\nguasto le vigne d\u2019intorno presso alla terra. Messer Piero avea in\nBibbiena milledugento buoni fanti e pochi cavalieri, con li quali si\nfece un grosso badalucco presso alla terra. Poi la mattina vegnente, a\nd\u00ec 10 di giugno, l\u2019oste si mosse per andare a Montecchio. Messer Piero,\nantico e buono guerriere, sapendo l\u2019andata de\u2019 Fiorentini, si pens\u00f2\ndi fare loro danno, e la mattina per tempo con settanta cavalieri e\ncon mille buoni fanti in persona occup\u00f2 un colle sopra l\u2019Arno in sul\npasso, e mise aguati per danneggiare la gente de\u2019 Fiorentini. Avvenne\nche, mossa l\u2019oste dall\u2019altra parte dell\u2019Arno, vidono preso il colle\ndalla gente di messer Piero; allora cominciarono a fare valicare della\ngente dell\u2019oste certi masnadieri, s\u00ec perch\u00e8 tenessono a badalucco i\nnemici e per trarli abbasso, e a poco a poco li ringrossavano d\u2019aiuto,\nma non senza loro grande pericolo, a\u2019 quali in sul maggiore bisogno\nsoccorsono parecchi conestabili a cavallo co\u2019 loro cavalieri. Ed\nessendo atticciata la battaglia, e stando i nemici attenti a quella\nsperandone avere vittoria, altri cavalieri e masnadieri de\u2019 Fiorentini\npresono, scostandosi dall\u2019oste, un\u2019altra via, che i nemici non\ns\u2019accorsono, e valicarono l\u2019Arno, e sopravvennono alla gente riposta di\nmesser Piero dall\u2019altra parte del colle, i quali ruppono di presente,\ne montarono al poggio, e improvviso furono sopra la gente grossa di\nmesser Piero, che stava attenta a vedere e ad aiutare quelli del\nbadalucco, e con grandi grida correndo col vantaggio del terreno loro\naddosso, li ruppono e sbarattarono. Messer Piero per bont\u00e0 del buono\ncavallo dov\u2019era montato con pochi compagni, non potendo ritornare in\nBibbiena, fuggendo ricover\u00f2 in Montecchio. Della sua gente furono\nin sul campo pi\u00f9 di cento morti, e dugento presi, e molti fediti. I\nprigioni tornando l\u2019oste li condussono a Firenze legati a una fune, e\npoco appresso furono lasciati; e l\u2019oste torn\u00f2 vittoriosa, avendo preso\nalcuna vendetta degl\u2019ingrati traditori.\nCAP. XII.\n_Come si rubell\u00f2 a\u2019 Fiorentini Coriglia e Sorana._\nIn questo anno sentendo messer Francesco Castracani che i Fiorentini\nerano inbrigati par la gente che l\u2019arcivescovo teneva a guerreggiare\nin Toscana, essendo forte in Lunigiana e in Garfagnana, a petizione\nde\u2019 Pisani fece furare a\u2019 Fiorentini la rocca di Coriglia, la quale\nappresso rend\u00e8 a\u2019 Pisani, a cui stanza l\u2019avea furata, e\u2019 Pisani la\npresono, rompendo la pace a\u2019 Fiorentini; ch\u2019espresso era nella pace\nrinnovata per lo duca d\u2019Atene in nome del comune di Firenze, che in\nniun modo di quella terra si dovessono travagliare. E appresso i detti\nPisani feciono con sagacit\u00e0 di grande tradimento torre a\u2019 Fiorentini,\ncontro a\u2019 patti della pace, la terra di Sorana, e rendutala da capo,\nla ritolsono per indiretto, e poi in palese la difesono, non curando\ni patti della pace. I Fiorentini per queste due terre non si mossono,\nbench\u00e8 grave li fosse l\u2019oltraggio de\u2019 Pisani. Messer Francesco avendo\navuto trecento cavalieri dall\u2019arcivescovo di Milano, montato in grande\norgoglio, e confortato da\u2019 Pisani, si pose ad assedio a Barga, ch\u2019era\nde\u2019 Fiorentini, e avendo grande popolo la strinse intorno con pi\u00f9\nbastie, sperandolasi avere per assedio. Lasceremo ora quest\u2019assedio per\nraccontare altre maggiori cose innanzi che Barga fosse liberata.\nCAP. XIII.\n_Come i tre comuni di Toscana mandarono ambasciadori in Boemia a far\nmuovere l\u2019imperadore._\nAvendo i tre comuni di Toscana presa e pubblicata la concordia col\nvececancelliere dell\u2019eletto imperadore, volendo mettere ad esecuzione\nquello che per loro era stato promesso, catuno elesse de\u2019 maggiori\ncittadini confidenti al reggimento di quelli per suoi ambasciatori,\ne mandaronli all\u2019eletto imperadore a Boemia nella Magna per farlo\nmuovere, e per fargli il pagamento ordinato, e per essere al suo\nconsiglio per i tre comuni, nella promessa impresa passando egli in\nItalia. Gli ambasciadori del nostro comune di Firenze furono cinque:\nmesser Tommaso Corsini dottore di legge, messer Pino de\u2019 Rossi, messer\nGherardo de\u2019 Buondelmonti cavaliere, Filippo di Cione Magalotti, e\nUguccione di Ricciardo de\u2019 Ricci, a\u2019 quali fu data grande e piena\nlegazione, e dato loro un popolare sindaco per lo comune, a potere\nobbligare il comune, secondo le cose promesse al vececancelliere,\ncome paresse a\u2019 detti ambasciadori, se altro bisognasse di fare.\nCostoro tutti vestiti di fine panno scarlatto e d\u2019altro fine mellato,\ncatuno con otto scudieri il meno vestiti d\u2019assisa, a d\u00ec 17 di maggio,\nil d\u00ec dell\u2019Ascensione, si partirono di Firenze. E partiti loro,\nmolti cittadini pensando che quello ch\u2019era ordinato dovesse venire\nfatto, perocch\u00e8 tra gli ambasciadori erano i pi\u00f9 reputati caporali\ndi cittadina setta, temettono, che essendo costoro al continuo con\nl\u2019imperadore, e di suo consiglio, che pericolo si commettesse contro\nal comune e pubblica libert\u00e0 de\u2019 cittadini, e per\u00f2 si mosse questione\ndi limitare il loro tempo, e strignerli con certe leggi, e di questo\nfu gara e lunga tira nel nostro comune; in fine si vinse, e fecesi\nper riformagione di comune, che niuno cittadino di Firenze potesse\nstare in quel servigio appresso all\u2019imperadore pi\u00f9 che quattro mesi, e\nche alcuna grazia, uficio, o beneficio reale o personale per i detti\nambasciadori o per loro successori si dovesse ricevere o impetrare,\nsotto gravi pene, acciocch\u00e8 la speranza si troncasse a tutti della\npropria utilit\u00e0. E incontanente elessono e insaccarono molti cittadini\nper succedere di quattro mesi in quattro mesi a\u2019 detti ambasciadori in\nquello servigio.\nCAP. XIV.\n_Di disusati tempi stati._\nNon \u00e8 da lasciare in silenzio quello che del mese di giugno del\ndetto anno avvenne, perocch\u00e8 fu notabile caso di tempo con diverse\nconsiderazioni, che essendo ne\u2019 campi seminati cresciute le biade\ne\u2019 grani d\u2019aspetto d\u2019ubertosa ricolta vicina alla falce, in diverse\ncontrade di Toscana, e massimamente nel contado di Firenze, vennono\ndiluvi d\u2019acque, i quali guastarono molto grano e biade, e feciono\nde\u2019 dificii, e d\u2019altro singolari danni a molti. E a d\u00ec 14 del detto\nmese cominci\u00f2 un vento austro spodestato e impetuoso con tanta\nfuriosa tempesta, che ogni cosa parea che dovesse abbattere e mettere\nper terra, e tutte le granora e biade che trov\u00f2 mature, ove il suo\nimpetuoso spirito pot\u00e8 percuotere, batt\u00e8 per modo, che alla terra diede\nnuova sementa, e nelle spighe lasci\u00f2 poco altro che l\u2019aride reste, e\nquelle che ancora non erano granate percosse e inarid\u00ec; facendo nelle\nmontagne in diverse parti sformate grandini e diverse tempeste, e molte\nvigne guast\u00f2, e abbatt\u00e8 alberi molti, e di grandi dificii in diverse\nparti di Toscana e di Romagna; e in Firenze fece rovinare il campanile\ndel monastero delle donne degli Scalzi, e uccise la badessa con sei\nmonache. Nella sommit\u00e0 delle montagne di Pistoia lev\u00f2 gli uomini di\nsu\u2019 poggi, traboccandoli dove l\u2019impeto gli portava. E pubblica fama\nfu, che quarantatr\u00e8 masnadieri ch\u2019andavano in preda trovandosi in sul\ngiogo, senza potersi ritenere furono portati dal vento per modo, che\ndi loro non si seppe novelle. E restato lo strabocchevole vento, ivi a\npochi d\u00ec fu un caldo sformato senza aiuto d\u2019alcuno spiramento, che il\nresiduo de\u2019 grani e de\u2019 biadi in molti paesi, singolarmente nel contado\ndi Firenze, fece ristrignere e invanire per modo, che ov\u2019era stata\nsperanza d\u2019ubertosa ricolta gener\u00f2 sformata carestia anzi l\u2019avvenimento\ndell\u2019altra ricolta, come appresso dimostreremo. Alcuni diedono questo\nsingulare accidente agli effetti della congiunzione, gi\u00e0 narrata al\nprincipio del nostro primo libro, de\u2019 tre superiori pianeti onde\nSaturno fu signore: perocch\u00e8 gli astrolaghi tengono che l\u2019influenza di\ncotale congiunzione duri per diciannove anni, e altri tengono infino\nin ventitr\u00e8. Arbitr\u00f2 altri, che questo procedesse dall\u2019influenza\ndella cometa ch\u2019apparve in quest\u2019anno, e quella fu saturnina, sicch\u00e8\ncatuno trasse agli effetti saturnali. Altri tennono che ci\u00f2 fosse\ndimostramento d\u2019assoluto giudicio divino per i disordinati peccati de\u2019\npopoli non domati da tante tribolazioni di guerre, quante dimostrate\nabbiamo in poco tempo dopo la miserabile mortalit\u00e0.\nCAP. XV.\n_Dell\u2019inganno ricevette il comune di Firenze del braccio di santa\nReparata._\nEssendo stati certi ambasciadori del comune di Firenze alla coronazione\ndel re Luigi per lo detto comune, domandarono di grazia al re e alla\nreina alcuna parte del corpo della vergine santa Reparata ch\u2019\u00e8 in\nTeano, per onorare la sua reliquia nella nobile chiesa cattedrale\ndella nostra citt\u00e0 ch\u2019\u00e8 edificata a suo nome. La loro petizione dal\nre e dalla reina fu accettata; ma perocch\u00e8 la citt\u00e0 di Teano era del\nconte Francesco da Montescheggioso, figliuolo che fu del conte Novello\namicissimo del nostro comune, convenne che con sua industria il\nbraccio destro di quella santa si procacciasse d\u2019avere per modo, che i\nterrazzani non se n\u2019avvedessono, che si mostrava loro, ed era nel paese\nin grande devozione, e questo si mostr\u00f2 di fornire con industria, e\ncon grande sollicitudine. Gli ambasciadori credendosi avere la santa\nreliquia il significarono a\u2019 priori, acciocch\u00e8 all\u2019entrata della citt\u00e0\nl\u2019onorassono. I rettori del comune ordinata solennissima processione\ndi tutti i prelati cherici e religiosi della citt\u00e0 di Firenze, con\ngrandissimo popolo d\u2019uomini e di femmine, con molti torchi accesi\ncomandati per l\u2019arti e forniti per lo comune, e il vescovo di Firenze\nricevuto colle sue mani il santo braccio, colla mano segnando la gente\nmolto divota e lieta, credendosi avere quella santa reliquia, fu\nportata e collocata nella nostra chiesa, a d\u00ec 22 di giugno 1352.\nCAP. XVI.\n_Di quello medesimo._\nAvendo narrata la fede, la reverenza e la divozione che i nostri\ncittadini ebbono alla santa vergine, bench\u00e8 l\u2019inganno ricevuto fosse\ndurato in fede del detto comune quattro anni e mesi, infine si scoperse\nil sacrilegio e l\u2019inganno ricevuto per la femminile astuzia della\nbadessa del monastero di Teano, ov\u2019era il corpo della detta santa,\nche vedendo che quello braccio le conveniva dare per volont\u00e0 del re,\ne della reina e del conte, dissimulando gran pianto colle sue suore\nper lo partimento della reliquia, lo sostennero di assegnare alcuno\nd\u00ec. E in questo tempo feciono fare un simulacro di legno e di gesso,\nche propriamente pareva quella santa reliquia, e dando questa con\ngrande pianto, fece credere agli ambasciadori che avesse assegnata\nloro la santa reliquia, e a Firenze fece onorare come santuaria quello\nsimulacro per cotanto tempo, essendo cagione di cotanto male, non\nmanifestando la sua falsa religione. Avvenne che il comune del mese\nd\u2019ottobre 1356, volendo d\u2019oro e d\u2019argento e di pietre preziose fare\nadornare quella reliquia, i maestri la trovarono di legno e di gesso: e\nsegatala per mezzo, furono certi che niuna reliquia v\u2019era nascosa, e il\ncomune fu certo del ricevuto inganno. Noi, non ostante che cinquantadue\nmesi fosse questo ritrovato appresso alla sopraddetta venuta, contro\nall\u2019ordine del nostro annuale trattato l\u2019abbiamo congiunto insieme,\nacciocch\u00e8 avendo alcuno letto la venuta del santo braccio, non fosse\ningannato dalla simulazione di quello, e dalla malizia della sacrilega\nbadessa.\nCAP. XVII.\n_Come la gente del Biscione cavalcarono i Perugini._\nDel mese di giugno del detto anno, accolti duemila cavalieri\ndell\u2019arcivescovo di Milano alla citt\u00e0 di Cortona e popolo assai,\ncavalcarono per la valle di Chio, e strinsonsi alla citt\u00e0 di Perugia\npredando e ardendo il suo contado. Per la qual cavalcata cos\u00ec\nbandalzosa i cittadini presono sospetto dentro, e per\u00f2 non ebbono\nardire di fare uscire fuori alcuna loro gente contro a\u2019 nimici.\nConducitori di questa gente erano il conte Nolfo da Urbino, il signore\ndi Cortona, e Gisello degli Ubaldini, i quali avevano trattato con\nmesser Crespoldo di Bettona. Questo messer Crespoldo era guelfo,\nma perocch\u2019era male trattato da\u2019 Perugini ricevette costoro in\nBettona, e cacciarono coloro che v\u2019erano alla guardia per lo comune\ndi Perugia. Questa terra era presso a Perugia a otto miglia e nella\nloro vista, e sentendo la gente che dentro v\u2019era, e la potenza\ndell\u2019arcivescovo, furono in gran tremore; e non senza cagione, che\nquella terra era forte, e in frontiera ad Ascesi e all\u2019altre terre\nde\u2019 Perugini, le quali non amavano troppo la loro signoria, e per\u00f2\ncominciarono incontanente a dare il mercato a\u2019 nimici, e molto erano\ndi presso a fare le comandamenta del tiranno, e ci\u00f2 che gli ritenne\nfu, ch\u2019aspettavano quello che in questa novit\u00e0 facesse il comune di\nFirenze. Stando i Perugini in questo pericolo, incontanente il comune\ndi Firenze li mand\u00f2 confortando per loro ambasciadori, promettendo loro\naiuto quanto il comune potesse fare; e seguitando col fatto, di subito\nvi mandarono ottocento cavalieri di buona gente, promettendo d\u2019arrogere\nquanti bisognasse infino a tanto che Bettona fosse racquistata.\nAvvenne che come Ascesi e l\u2019altre terre circostanti de\u2019 Perugini\nintesono l\u2019aiuto e il conforto che i Fiorentini davano al comune di\nPerugia, ove stavano sospesi e non rispondeano al comune di Perugia,\ne davano il mercato a\u2019 nimici, di presente levarono il mercato, e\nacconciarsi alla difesa, e mandarono a offerirsi a\u2019 Perugini, e\ncominciarono a guerreggiare quelli di Bettona. Onde convenne per\nnecessit\u00e0 delle cose da vivere che la cavalleria ch\u2019era in Bettona\ns\u2019alleggiasse, e lasciaronvi a guardia della terra seicento cavalieri e\npi\u00f9 d\u2019altrettanti masnadieri, e l\u2019altra gente torn\u00f2 a Cortona. Rimasi\nin Bettona i sopraddetti capitani e\u2019 riposono l\u2019assedio a Montecchio,\ne ordinaronsi per accrescere loro forza e soccorrere Bettona, se il\nbisogno occorresse. Lasceremo alquanto de\u2019 fatti di Bettona per seguire\ndell\u2019altre cose, ch\u2019avvennono innanzi ch\u2019ella si racquistasse.\nCAP. XVIII.\n_Come i Romani andarono per guastare Viterbo._\nDi questo mese di giugno del detto anno, vedendo il popolo romano che\nil prefetto da Vico cresceva in forza e ad acquisto occupando le terre\ndel Patrimonio, feciono in fretta Giordano del Monte degli Orsini\ncapitano di guerra, e accolsono tutta la gente d\u2019arme che fatta aveano\ncol loro rettore a pi\u00e8 e a cavallo e accozzaronli col capitano del\nPatrimonio messer Niccola delle Serre cittadino d\u2019Agobbio, e in pochi\nd\u00ec accolsono milledugento cavalieri e dodicimila pedoni in arme, e\ncon gran furia se n\u2019andarono sopra la citt\u00e0 di Viterbo per guastarla\nd\u2019intorno e porvi l\u2019assedio, e starvi tanto che tratta l\u2019avessono\ndelle mani del prefetto. Avvenne in su la giunta che a messer Niccola\ncapitano del Patrimonio cadde il suo cavallo addosso, e per la percossa\ne per lo disordinato caldo per spasimo mor\u00ec di presente. Morto il\ncapitano, l\u2019oste senza fare alcuna cosa notevole, con poco onore del\ncapitano de\u2019 Romani, si part\u00ec da Viterbo, e catuno si torn\u00f2 a casa sua.\nCAP. XIX.\n_Come il re Luigi ebbe Nocera._\nIn questi d\u00ec messer Currado Lupo ch\u2019era per addietro stato vicario\ndel re d\u2019Ungheria nel Regno, sapendo che la pace era fatta dal re\nd\u2019Ungheria a\u2019 reali di Puglia, e che di volont\u00e0 del suo signore era\nch\u2019egli rendesse le terre che tenea al re Luigi, gi\u00e0 coronato per la\nChiesa del reame, con l\u2019astuzia tedesca pens\u00f2 di trarre suo vantaggio,\ne accolse tutti i Tedeschi ch\u2019erano nel Regno, e con settecento\nbarbute fece testa a Nocera de\u2019 Saracini, e lev\u00f2 un\u2019insegna imperiale,\nmostrando che a stanza dell\u2019imperadore volesse rimanere nel Regno; e\nper alquanti si disse che alcuni baroni del reame il favoreggiavano.\nTemendo il re che questi non avesse appoggio d\u2019altro signore, o che\nnon l\u2019acquistasse stando, per lo meno reo prese di patteggiar con lui,\ne diedegli contanti trentacinque mila fiorini d\u2019oro, e rend\u00e8 Nocera e\nla contea di Giuglionese, e uscissi del Regno con tutta la sua gente,\ncon patto fermato per suo saramento, che da ivi a due anni non dovesse\nper alcuno modo tornare nel Regno, ma valicati i due anni vi potesse\ntornare come barone del re per le terre della moglie, facendogli il\ndebito saramento e omaggio.\nCAP. XX.\n_Come fu sconfitto il conte di Caserta._\nSeguitando i rivolgimenti dello sviato Regno, ci occorre in questi d\u00ec\ncome il duca d\u2019Atene conte di Brenna, il quale altra volta per la sua\nincostante tirannia merit\u00f2 a furore essere cacciato della signoria\ndi Firenze, essendo tratto di Francia all\u2019odore dello sviato Regno\nnon con intera fede, con sue masnade di cavalieri franceschi fece in\nPuglia spontanea guerra contro al conte di Caserta, figliuolo che fu\ndi messer Diego della Ratta conte camarlingo, il quale era con gente\nd\u2019arme a Taranto, e con assentimento del re Luigi guerreggiava le terre\ndel detto duca, secondo la comune voce; l\u2019infermit\u00e0 del Regno non\nconsentiva n\u00e8 in guerra n\u00e8 in pace cose aperte n\u00e8 chiari movimenti. Il\ndetto duca accolti de\u2019 paesani, co\u2019 suoi Franceschi combatt\u00e8 col conte\ne sconfisselo, facendo alla sua gente grave danno. E rifuggito il detto\nconte in Taranto per sua sicurt\u00e0, del detto anno, del mese di Maggio,\nper lo detto duca fu lungamente senza frutto assediato.\nCAP. XXI.\n_La novit\u00e0 in Casole di Volterra._\nI figliuoli di messer Ranieri da Casole di Volterra cacciati per\nlungo tempo da\u2019 loro nimici del castello, come giovani coraggiosi,\naccolsono segretamente masnadieri e amici, e a d\u00ec 15 luglio del detto\nanno entrarono nella terra di Casole, che si guardava per lo comune\ndi Siena, e improvviso corsono a casa i loro nimici, e quanti ve ne\ntrovarono misono al taglio delle spade, e rubarono le case loro, e\nappresso l\u2019arsono, e gli altri che non furono morti cacciarono della\nterra, e la podest\u00e0 che v\u2019era pe\u2019 Sanesi riguardarono: la terra tennono\ntanto per loro, che co\u2019 Sanesi presono accordo di tenervi podest\u00e0 dal\ncomune di Siena; e fecionsi ribandire, e rimasono i maggiori nella\nterra.\nCAP. XXII.\n_Come furono decapitati degli Ardinghelli di Sangimignano._\nSeguita in questi medesimi d\u00ec, come Benedetto di messer Giovanni\ndegli Strozzi di Firenze, essendo capitano della guardia per lo\nnostro comune di Sangimignano, con ingiusto sospetto prese il Rosso\ne Primerano di messer Gualtieri degli Ardinghelli, giovani di grande\naspetto e seguito, d\u2019animo e di nazione guelfi, e tenendoli senza\ntrovare vera cagione perch\u00e8 presi gli aveva, per accidente v\u2019occorse\ncaso, che gittarono una lettera a\u2019 loro amici fuori della carcere,\npregandoli che li venissono ad atare liberare di prigione. Il capitano\navendo questa lettera, quale che fosse la cagione, o per zelo del suo\nuficio, o per inzigamento de\u2019 Sanucci loro nimici, deliber\u00f2 di farli\nmorire. Il comune di Firenze sapendo che non erano colpevoli, volea\nche campassono; e mandandovi in fretta ambasciadori con espresso\ncomandamento al capitano che non gli dovesse fare morire, la fortuna\nimped\u00ec i messaggi per disordinata grandezza dell\u2019Elsa, che non li\nlasci\u00f2 passare in quella notte. Il capitano temendo non sopravvenisse\nil comandamento, s\u2019affrett\u00f2 di farli morire; e la vilia di san Lorenzo,\na d\u00ec 9 d\u2019agosto, con un altro terrazzano a cui aveano scritto che fosse\na loro scampo, in sulla piazza li fece dicollare, onde fu riputato\ngrande danno, e il capitano ne fu molto biasimato. Questa decollazione\nsi tir\u00f2 dietro materia di grande scandalo e rivoltura di quella terra,\ncome al suo tempo racconteremo.\nCAP. XXIII.\n_Come gente del re di Francia fu sconfitta a Guinisi._\nEssendo il re di Francia in singolare sollecitudine di racquistare la\ncontea di Guinisi che sotto le triegue gli era stata furata, vi mand\u00f2\nmillecinquecento cavalieri e tremila pedoni, tra i quali ebbe gran\nparte di masnadieri lombardi e avendovi posto l\u2019assedio, difendendosi\nlungamente que\u2019 del castello, i Franceschi vi feciono bastite intorno,\nper tenerlo stretto con meno gente. Il re d\u2019Inghilterra mettea con\ndue barche di notte gente in Calese per modo, che i Franceschi non se\nn\u2019accorgevano; e avendovi per questo modo accolta quella gente che a\nlui parve, forniti di capitani avvisati delle bastite e della guardia\nde\u2019 Franceschi, una notte chetamente uscirono di Calese, e improvviso\nda pi\u00f9 parti assalirono i Franceschi, i quali impauriti del non pensato\nassalto intesono a fuggire e a campare, senza mettersi alla difesa;\ne cos\u00ec in poca d\u2019ora furono rotti e sbarattati dagl\u2019Inghilesi, e i\nbattifolli arsi, con pi\u00f9 vergogna che danno de\u2019 Franceschi per la\ngrazia della notte. E liberato il castello dall\u2019assedio, e rifornito di\nnuovo, del mese di luglio del detto anno gl\u2019Inghilesi si ritornarono\nnell\u2019isola senza fare altra guerra. Poco appresso il re di Francia\nscoperse che certi baroni il doveano uccidere per trattato del re\nd\u2019Inghilterra, per la qual cosa a certi ne fu tagliata la testa: e il\nre a modo di tiranno si faceva guardare a gente armata, dentro e fuori\ndi suo ostiere reale, a cavallo e a pi\u00e8, di d\u00ec e di notte nella citt\u00e0\ndi Parigi, cosa strana e disusata alla maest\u00e0 reale e a\u2019 paesani.\nCAP. XXIV.\n_Come i Perugini assediarono Bettona._\nTornando alle vicine materie, avendo il comune di Perugia da\u2019\nFiorentini ottocento cavalieri di buona gente d\u2019arme, con loro\nsforzo valicarono le Giaci per porre l\u2019assedio a Bettona, e con\ngrande popolo l\u2019assediarono. E volendosi partire de\u2019 cavalieri\ndell\u2019arcivescovo della terra, ovvero per andare in foraggio, otto\nbandiere furono sorprese dalla gente dell\u2019oste per modo, che la maggior\nparte rimasono presi, e d\u2019allora innanzi si ritennono dentro alla\nguardia del castello. E procacciando d\u2019avere soccorso da\u2019 cavalieri\ne dagli amici dell\u2019arcivescovo ch\u2019erano per lo paese di qua, e per\nfare migliore guardia, si misono a campo fuori della terra nella\npiaggia a petto al campo de\u2019 Perugini. I Perugini aggiungevano al\ncontinovo gente d\u2019arme nel campo per soldo e per amist\u00e0, e mandaronvi\nla maggior parte de\u2019 loro cittadini, e dall\u2019altra parte della terra\nformarono due battifolli, perch\u00e8 n\u00e8 vittuaglia n\u00e8 soccorso nella terra\npotesse entrare. E cos\u00ec assediata la terra, procuravano d\u2019afforzare\ne d\u2019impedire i passi, per riparare dalla lungi al campo che nimici\nnon potessono sopravvenire. E per questo modo dur\u00f2 l\u2019assedio infino\nall\u2019agosto vegnente, come appresso diviseremo, e posto vi fu del mese\ndi giugno del detto anno.\nCAP. XXV.\n_Come fu liberato Montecchio dall\u2019assedio per soccorrere Bettona._\nEra in questo tempo stato assediato lungamente il piccolo castello di\nMontecchio presso a Castiglionaretino da\u2019 Tarlati e dal signore di\nCortona colla cavalleria dell\u2019arcivescovo, e recato a partito, che i\nmaggiori di quelli che \u2019l teneano erano venuti nel campo per volerlo\ndare. Temendo i Tarlati che avuto il castello per la vicinanza non\nrimanesse al signore di Cortona, per consiglio aggiunte minacce a\ncoloro ch\u2019erano venuti per darlo, si ritornarono dentro alla difesa.\nE l\u2019oste sollecitata del soccorso dagli assediati di Bettona, se ne\nlevarono, e accozzaronsi i cavalieri dell\u2019arcivescovo con gli altri\ncavalieri loro compagni ch\u2019erano in Agobbio e nelle circostanze, e\ntrovaronsi millecinquecento barbute e masnadieri assai, e per fare\nlevare i Perugini da Bettona si misono a oste alla Citt\u00e0 di Castello. E\nstativi alquanti d\u00ec, feciono provvedere i passi come potessono andare\na soccorrere Bettona, e trovarono che i Perugini erano alla difesa\nde\u2019 passi molto bene provveduti e forniti alla guardia; tornaronsi al\nBorgo per accogliere maggiore gente e forza, e farlo per altra pi\u00f9\nlunga via. In questo medesimo tempo gli assediati per la speranza\ndel soccorso presono ardire, e assalirono l\u2019uno de\u2019 battifolli de\u2019\nPerugini, e vinsonlo e arsonlo, e mostrarne per segni di luminaria\ngran festa; e con quella baldanza presa andarono ad assalire l\u2019altro,\ne furono occupati per modo da\u2019 cavalieri dell\u2019oste che tornarono in\nrotta, presa parte della loro gente da cavallo e da pi\u00e8; gli altri\nsi fuggirono tutti nella terra, levandosi da campo per stare alla\ndifesa delle mura, e da\u2019 Perugini furono pi\u00f9 stretti. I capitani della\ngente dell\u2019arcivescovo feciono capitano generale il conte Nolfo da\nUrbino, e misonsi per la valle di Chiusi, e andarono a Orvieto; e\ntratti i cavalieri ch\u2019aveano in quella citt\u00e0, si trovarono con duemila\nbarbute; e volendo soccorrere gli assediati, trovarono in catuno passo\ns\u00ec provveduti i Perugini e s\u00ec forti alla difesa, che per niuno modo\nvidono di poterlo fornire. Ed essendo disperati dell\u2019impresa, vollono\nrimettere in Orvieto i loro cavalieri che n\u2019aveano tratti, e non furono\nvoluti ricevere, e con gli altri insieme se ne tornarono al Borgo, e\ngli assediati furono fuori d\u2019ogni speranza d\u2019avere soccorso.\nCAP. XXVI.\n_Come i Perugini ebbono Bettona e arsonla, e disfeciono affatto._\nVedendo i caporali ch\u2019erano rinchiusi in Bettona che a loro era mancata\nogni speranza di soccorso, e che la vittuaglia era mancata, e mangiata\ngran parte de\u2019 loro cavalli, vedendosi a mal partito, con industria e\ncon danari pensarono allo scampo delle loro persone molto segretamente,\nperch\u00e8 sapeano bene che i Perugini avrebbono maggiore gloria d\u2019avere\nle loro persone che la terra di Bettona; e per\u00f2 strettisi insieme, e\nprestato la fede l\u2019uno all\u2019altro, il signore di Cortona, e il conte di\nMontefeltro, e Ghisello degli Ubaldini avendo procacciato per danari\nil nome di quella notte, vestiti a modo di ribaldi per mezzo il campo\npassarono a salvamento: onde poi fu incolpato alcuno de\u2019 rettori di\nPerugia. I soldati sentendo campati i loro capitani, incontanente\npresono messer Crespoldo signore di Bettona, e uno de\u2019 Baglioni di\nPerugia ch\u2019aveano loro data la terra, e patteggiarono co\u2019 Perugini\ndi dare costoro prigioni, e rendere la terra salve le persone loro\nsolamente, lasciando l\u2019arme e\u2019 cavalli, e giurando di non venire mai\ncontro a quello comune n\u00e8 a quello di Firenze, e cos\u00ec fu fatto; e\navendo mangiati centocinquanta cavalli de\u2019 loro per fame, s\u2019uscirono\ndella terra, e i Perugini la presono; e trattine tutti gli abitanti, e\ntutte le masserizie e ogni altra sostanza, e condotta a Perugia, arsono\nla terra; e dopo l\u2019arsione abbatterono le mura dentro e di fuori,\nacciocch\u00e8 non avesse mai pi\u00f9 cagione di rubellarsi a\u2019 Perugini; e a\nmesser Crespoldo e a quello de\u2019 Baglioni feciono tagliare le teste. E\nquesta fu la fine dell\u2019antica terra di Bettona, ripresa a d\u00ec 19 del\nmese d\u2019agosto gli anni _Domini_ 1352, in gran vituperio de\u2019 Visconti di\nMilano, e a onore del comune di Firenze, per lo cui aiuto e conforto\ninfino alla fine i Perugini ebbono questa vittoria.\nCAP. XXVII.\n_Come la citt\u00e0 d\u2019Agobbio s\u2019accord\u00f2 co\u2019 Perugini._\nGiovanni di Cantuccio signore d\u2019Agobbio, avendo veduto come le cose non\nsuccedevano prospere all\u2019imprese fatte per lo tiranno di Milano, e che\nBettona non era potuta soccorrere, ed era disfatta, diffidandosi della\nsua difesa se la piena gli si volgesse addosso, sapendo che i suoi\ncittadini non erano in fede con lui, con astuta malizia si provvide\ne mand\u00f2 a trattare pace co\u2019 Perugini. E fu fatto che gli usciti vi\ntornassono, salvo messer Iacopo Gabbrielli, e tutti avessono frutti de\u2019\nloro beni, e che due anni il detto Giovanni vi potesse eleggere podest\u00e0\nd\u2019Agobbio cui e\u2019 volesse, e valicati i due anni, la citt\u00e0 rimanesse\nal comune, e i Perugini avessono la guardia della terra senza altra\ngiurisdizione: ma poco dur\u00f2 l\u2019accordo, come seguendo si potr\u00e0 vedere.\nCAP. XXVIII.\n_Come ser Lallo s\u2019accord\u00f2 con il re Luigi dell\u2019Aquila._\nAvemo addietro contato come la citt\u00e0 dell\u2019Aquila si reggeva sotto\nil governamento di ser Lallo suo piccolo cittadino, il quale avea\ndimostrato pi\u00f9 volte di tenerla quando per lo re d\u2019Ungheria, e quando\nper lo re Luigi, come bene gli mettea; ma poich\u00e8 il re Luigi fu\ncoronato, e i Tedeschi e gli Ungheri partiti del Regno, vedendo che\nmantenere non la potrebbe contro alla corona, trasse suo vantaggio, e\nfecesi fare conte di Montorio, ed ebbe altre due castella in Abruzzi,\ne nell\u2019Aquila ricevette capitano per lo re e per la reina. Nondimeno i\ncittadini ubbidivano pi\u00f9 ser Lallo che il re o suo capitano, e convenne\nal re dissimulare la sua offesa per lo minore male.\nCAP. XXIX.\n_Come i Perugini e\u2019 Fiorentini tornarono a guastare Cortona._\nI Perugini avuta la vittoria di Bettona, colle masnade del comune di\nFirenze ritornarono sopra la citt\u00e0 di Cortona essendo messer Currado\nLupo uscito del Regno all\u2019Orsaia con cinquecento barbute, il quale\nsi stette di mezzo senza pigliare arme; e i Perugini guastarono le\nville intorno a Cortona come seppono il peggio. In questi medesimi d\u00ec,\nall\u2019uscita d\u2019agosto del detto anno, de\u2019 cavalieri dell\u2019arcivescovo\nch\u2019erano tornati al Borgo a san Sepolcro si partirono milledugento\nbarbute, e andarono su quello d\u2019Arezzo, e posonsi in sulla Chiassa,\ne afforzarono di steccati certo poggio sopra il campo per pi\u00f9 loro\nsalvezza: e quivi si misono per vernare in luogo dovizioso e grasso. E\nper ingannare gli Aretini cominciarono a comperare e a pagare derrata\nper danaio, non facendo vista d\u2019alcuna violenza. E quando si vidono\nforniti, cominciarono a cavalcare per lo contado, e fare preda di\nbestiame e d\u2019uomini e di ci\u00f2 che trovavano senza avere contasto. E\nquesto avvenne, che alquanti cittadini, meno di sette, avendo occupato\nil reggimento di quella citt\u00e0, per tema di loro stato presono gelosia\nde\u2019 Fiorentini, e innanzi soffersono il danno da\u2019 nemici, che volessono\nl\u2019aiuto dagli amici. I Fiorentini nondimeno tennoro ottocento cavalieri\nalle frontiere di Valdarno, e raffrenavano alquanto le loro gualdane,\ne salvarono il loro distretto. Gli Aretini lungamente furono tribolati\nda quella gente, per la singolare non debita paura di pochi loro\ncittadini, come detto abbiamo.\nCAP. XXX.\n_Come gli ambasciadori de\u2019 tre comuni di Toscana tornarono\ndall\u2019imperadore senza accordo._\nIn questi d\u00ec gli ambasciadori de\u2019 tre comuni di Toscana ch\u2019erano stati\ncon l\u2019eletto imperadore tornarono, avendo assai praticato sopra i patti\ne convenenze promesse per lo suo vececancelliere, non trovando con\nlui concordia per la brevit\u00e0 del termine, e per la povert\u00e0 del detto\neletto, tempellato dal consiglio de\u2019 ghibellini che non si fidasse\nde\u2019 guelfi; ma questa parte non ebbe in lui podere, che conoscea che\nla necessit\u00e0 lo strignea, volendo pervenire al suo onore, d\u2019avere\nl\u2019amore e la confidenza de\u2019 guelfi d\u2019Italia, e per\u00f2 non si rompeva e\nnon riusciva a niuno effetto. In questo avvenne che ragionando con gli\nambasciadori, l\u2019uno de\u2019 Fiorentini per corrotto parlare, tenendosi pi\u00f9\nsavio che gli altri perch\u00e8 avea maggiore stato in comune, riprendendo\nl\u2019eletto imperadore, disse: voi filate molto sottile; l\u2019imperadore\nche sapea la lingua latina conobbe l\u2019indiscreta parola, e turbato\ntemper\u00f2 se medesimo, parendoli che l\u2019imperiale maest\u00e0 ricevesse\ningiuria dall\u2019indiscreta e vile parola; ma d\u2019allora innanzi poco volle\nudire quel savio ambasciadore. E venuto il termine diputato a\u2019 detti\nambasciadori convenne che tornassono, lasciando la cosa sospesa da ogni\nparte.\nCAP. XXXI.\n_Come l\u2019arcivescovo cercava pace co\u2019 Toscani._\nIn questa sospensione, gli animi de\u2019 Toscani e principalmente de\u2019\nFiorentini si cominciarono a cambiare, veggendo ch\u2019erano a nulla del\nloro proponimento; e in questo l\u2019arcivescovo conoscendo che questi\ncomuni di Toscana intendeano a muovere contro a lui gran cose, e\nveggendosi ributtato da\u2019 Fiorentini e da\u2019 Perugini, grave gli sarebbe a\nmantenere guerra in Toscana, e gi\u00e0 sentiva che i suoi vicini Lombardi\nnon si contentavano di vederlo troppo grande, pens\u00f2 che per lui facea\nd\u2019avere pace co\u2019 Fiorentini e Toscani; e confidandosi molto in Lotto\nGambacorti da Pisa che allora era amico de\u2019 Fiorentini, fece muovere\nle parole e insistere in quelle. Il nostro comune conoscendo che della\npace del tiranno poco si poteano confidare, nondimeno vedendo che colla\nChiesa n\u00e8 coll\u2019imperadore non aveano potuto far quello che procuravano,\ndiede a intendersi a questo trattato. E avendo l\u2019arcivescovo a questa\nfine mandati suoi ambasciadori a Serezzana, il comune vi mand\u00f2 prima\nreligiosi per suoi ambasciadori, per sentire se la sposizione fosse con\nsperanza d\u2019alcuno frutto. E nondimeno ordinarono e mandarono gli altri\nambasciadori a Trevigi, ov\u2019era venuto il patriarca d\u2019Aquilea fratello\ndell\u2019eletto e altri ambasciadori dell\u2019imperadore futuro per trattare\nle cose cominciate co\u2019 comuni di Toscana. Lasceremo al presente\nl\u2019ambasciate tanto che torni il loro frutto, e seguiteremo nell\u2019altre\ncose la nostra materia.\nCAP. XXXII.\n_Come il prefetto da Vico fu fatto signore d\u2019Orvieto._\nI cittadini d\u2019Orvieto rotti divisi e insanguinati per le cittadine\ndiscordie, e caduti nella forza de\u2019 ghibellini, essendo naturali\nguelfi, voltandosi come l\u2019infermo palpando, voltandosi ora da una parte\nora dall\u2019altra, alla fine per la sagacit\u00e0 del prefetto da Vico loro\nvicino fu fatto signore con certi patti; e messo nella citt\u00e0 cominci\u00f2\na far fare alcune paci, e rimise dentro de\u2019 cittadini cacciati, e di\nfuori ritenne cui e\u2019 volle, e la signoria reggea con poco contentamento\ndel popolo, e patto promesso non osservava, sicch\u00e8 non si vedeano\nalleggiati delle divisioni, n\u00e8 delle nimist\u00e0 cittadinesche, e vedendosi\nsottoposti al tiranno e signoreggiati da\u2019 ghibellini. Ma dopo il fatto,\naggiunta del vituperio \u00e8 il pentersi; che la soma sotto il tirannesco\ngiogo convenne loro portare. E questo avvenne all\u2019uscita d\u2019agosto del\ndetto anno.\nCAP. XXXIII.\n_Novit\u00e0 state a Roma._\nAll\u2019entrata del mese di settembre del detto anno, il rettore del\npopolo romano oltraggiato da Luca Savelli, e male ubbidito dal popolo,\nvolle ragunare il parlamento per rinunziare la signoria. Nel popolo\nnacque dissensione, che chi volea che rinunziasse, e chi n\u00f2. In questa\ncontenzione messer Rinaldo Orsini, ch\u2019era senatore, prese l\u2019arme, e\nseguitato dal popolo, cacci\u00f2 di Roma Luca Savelli co\u2019 suoi seguaci,\nma poco stettono fuori, che si tornarono dentro. Il rettore volendo\nfortificare il popolo con ordini, acciocch\u00e8 i principi non avessono\nsoperchia audacia, fece richiedere il popolo per rioni a bocca, e\nappresso colla campana: e non raunandosi, prese sospetto della sua\npersona; e trovando in sua balia seimila fiorini d\u2019oro, che la Chiesa\navea donati al popolo per aiutare mantenere quell\u2019uficio, e altri\ndenari ch\u2019egli avea accolti, si part\u00ec di Roma e andossene in Abruzzi,\ne comperato uno castello si stette nel paese, avendo abbandonata la\nsnervata repubblica, meritandolo per la sua incostanza.\nCAP. XXXIV.\n_Come la gente del Biscione assediarono la Citt\u00e0 di Castello._\nAll\u2019uscita di questo mese, i cavalieri dell\u2019arcivescovo di Milano stati\nad Arezzo e consumato il loro contado se ne partirono, e andarono sopra\nla Citt\u00e0 di Castello, rubando per lo paese amici e nimici. E stando\nivi, per pi\u00f9 riprese i castellani uscirono a loro per assalti e per\naguati, facendo d\u2019arme assai notevoli cose.\nCAP. XXXV.\n_Come i Fiorentini soccorsono Barga e sconfissono i Castracani._\nDel mese d\u2019ottobre del detto anno, essendo stata la terra di Barga\nin Garfagnana del comune di Firenze assediata quattro mesi e pi\u00f9 da\nmesser Francesco Castracani degl\u2019Interminelli di Lucca coll\u2019aiuto\ndell\u2019arcivescovo di Milano, per modo che pi\u00f9 non si potea tenere per\ndifetto di vettuaglia, il comune di Firenze, quanto che quella terra\ngli fosse di grande costo e di piccola utilit\u00e0, per non abbandonare\ngli amici ragun\u00f2 a Pistoia seicento barbute e ventimila masnadieri,\naccomandati a messer Ramondo Lupo da Parma capitano di guerra, il\nquale maestrevolmente a d\u00ec 7 d\u2019ottobre, la notte, si mosse colla gente\ne colla salmeria per la montagna di Pistoia, dando vista d\u2019andarla a\nfornire da Sommacologna. E mandati cinquecento fanti con parte della\nsalmeria per quella via, innanzi il d\u00ec travers\u00f2 da Seravalle e misesi\nper la Valdinievole, e cavalcato per lo contado di Lucca, il d\u00ec di\nsanta Reparata si trov\u00f2 in Garfagnana nel piano dinanzi al Borgo a\nMezzano in sul passo, dov\u2019era messer Francesco con trecento cavalieri\ne con millecinquecento fanti buona gente d\u2019arme alla guardia, il quale\nsi mise fuori del borgo colle schiere fatte, prendendo l\u2019avvantaggio\ndel terreno. Il capitano de\u2019 Fiorentini avendo confortata la sua\ngente di ben fare, in sull\u2019ora del mezzo d\u00ec percosse a\u2019 nimici con\ns\u00ec fatto empito, che in poca d\u2019ora gli ebbe rotti e sbarattati, e\nmorti da cinquanta in sul campo, e centoventi n\u2019ebbono a prigioni, e\ntolto l\u2019arme e\u2019 cavalli li lasciarono alla fede. E preso il Borgo a\nMezzano, messer Francesco campato della battaglia si fugg\u00ec in Uzzano. I\nFiorentini coll\u2019emp\u00ecto di questa vittoria senza arresto se n\u2019andarono\na Barga, e trovando abbandonati i battifolli, ch\u2019erano quattro, gli\npresono e arsono, e la vittuaglia ch\u2019aveano portata e la guadagnata\nmisono in Barga, e fornitala doppiamente, tornati per la via ond\u2019erano\nandati, con vittoria se ne tornarono e Pistoia.\nCAP. XXXVI.\n_Come si difese il borgo d\u2019Arezzo per i Fiorentini._\nIn questi d\u00ec, sentendo i cavalieri dell\u2019arcivescovo ch\u2019erano alla Citt\u00e0\ndi Castello come i cavalieri de\u2019 Fiorentini erano andati a Barga,\ntornarono ad Arezzo milleottocento cavalieri e puosonsi a Quarata.\nCento de\u2019 cavalieri de\u2019 Fiorentini che tornavano da Perugia albergarono\nla notte nel borgo d\u2019Arezzo, ove molti contadini erano rifuggiti col\nloro bestiame per paura de\u2019 nimici; la cavalleria del Biscione si\nstrinse al borgo, assalendolo aspramente per modo, che i cittadini\nl\u2019abbandonarono; e sarebbe perduto, se non ch\u2019e\u2019 cento cavalieri de\u2019\nFiorentini francamente il difesono, e alla ritratta de\u2019 nimici uscirono\nfuori del borgo, e feciono alla codazza danno e vergogna.\nCAP. XXXVII.\n_D\u2019un segno mirabile ch\u2019apparve._\nNel detto anno, a d\u00ec 12 d\u2019ottobre, venerd\u00ec sera tramontato il sole,\nsi mosse tra gherbino e mezzogiorno una massa grandissima di vapori\ninfocata, la quale ardeva con s\u00ec gran fiamma, che tutto il cielo di\nsopra e la terra alluminava maravigliosamente, e alla nostra vista\nvalic\u00f2 sopra la citt\u00e0 di Firenze, e cos\u00ec parve a tutti i cittadini di\ncatuna citt\u00e0 d\u2019Italia. E perch\u00e8 fosse in somma altezza pareva agli\nuomini in catuna parte che dovesse toccare le sommit\u00e0 delle torri e\nle cime degli alberi; e spesso gittava fuori di se grandi brandoni di\nfuoco, che parea che cadessono in terra. E il suo corso fu tanto veloce\nfra tramontana e greco, che a tutti gl\u2019Italiani, e a quelli del mare\nAdriatico, e a\u2019 Friolani, e agli Schiavoni e Ungheri, e ad altri popoli\npi\u00f9 lontani, apparve valicando in quella medesima ora che a noi, e\ncatuno stimava che ivi presso dovesse essere data in terra. Com\u2019ebbe di\nsubito valicata la nostra vista, essendo il cielo sereno senza alcuna\nmacchia di nuvoli, a\u2019 nostri orecchi pervenne un tonitruo grandissimo\nsteso tremolante, il quale tenne sospesi gli orecchi lungamente non\ncome tuono consueto, ma come voce di terremuoto, e dopo il tuono rimase\nl\u2019aria quieta e serena, e cos\u00ec in ogni parte s\u2019ud\u00ec questa voce dopo\nil valicamento della massa. Questo segno fece molto maravigliare la\ngente, eziandio i pi\u00f9 savi, non meno per la novit\u00e0 del tuono che per la\ngrande massa del fuoco. Dissono alquanti sperti, che quello infocamento\nde\u2019 vapori, o cometa o Asub che si fosse, che ella fu nel cielo in\nsomma altezza in quello di Marte: ed era s\u00ec grande, che se venuta\nfosse a terra avrebbe coperta tutta l\u2019Italia e maggiore paese. Vedemmo\nseguire in quest\u2019anno diminuzioni d\u2019acque, che dal maggio all\u2019ottobre\nnon furono acque che rigassono la terra, se con tempesta di gragnola\ne fortuna di disordinati venti non venne, e di quelle niuna che con\nfrutto nella terra entrasse.\nCAP. XXXVIII.\n_Come i Tarlati arsono il Borgo di Figghine._\nMesser Piero Sacconi de\u2019 Tarlati d\u2019et\u00e0 di pi\u00f9 di novant\u2019anni, e il\nvescovo d\u2019Arezzo degli Ubertini, e\u2019 Pazzi di Valdarno con alquanti\ndegli Ubaldini, avendo al loro servigio le masnade de\u2019 cavalieri\ndell\u2019arcivescovo di Milano, a d\u00ec 12 d\u2019ottobre del detto anno si mossono\nda Quarata con duemila cavalieri, e duemilacinquecento pedoni, e la\ndomenica mattina, a d\u00ec 14 d\u2019ottobre, colle schiere fatte, coperti da\nuna grossa nebbia, valicarono Montevarchi, e lungo la riva d\u2019Arno\nvennono fino all\u2019Ancisa, e di l\u00e0 girarono ed entrarono nel borgo di\nFigghine: il quale per la subita venuta non era sgombro, ma pieno\ndi masserizie, e di vittuaglia e di bestiame senza difesa, che ogni\nuomo avea inteso a guardare la persona. Il castello e il castelluccio\nde\u2019 Benzi erano forniti e pieni di gente alla difesa, e per\u00f2 non\ntentarono d\u2019assalirli. In Firenze avea poca gente d\u2019arme, che ancora\nnon era tornata l\u2019oste che and\u00f2 a Barga; quelli che si poterono avere\ncavalcarono all\u2019Ancisa. I nemici stettono nel borgo di Figghine la\ndomenica e il luned\u00ec, e raccolsono la preda, lasciando la vittuaglia.\nE durando la grossa nebbia continuamente, il marted\u00ec mattina affocate\nle case del borgo si partirono senza alcuno impedimento; e prima ebbono\npreso e arso il Tartagliese, che quelli delle castella di Figghine\nsapessono la loro partita, o che il borgo fosse infocato, tanto\ningrossava il fumo la nebbia, che tolto era loro del foco ogni vista.\nAllora corsono al borgo a spegnere il fuoco, ma tardi, per la maggior\nparte. Il danno fu grande, e la vergogna non minore, avendo liberata\nBarga in Garfagnana, e perduto e arso il borgo di Figghine; ma torn\u00f2\nin bene, che fu cagione di fare una forte e grossa e buona terra,\ncome appresso a suo tempo racconteremo. I cavalieri dell\u2019arcivescovo\nsi tornarono ad Arezzo, e posonsi fuori della porta alla fonte\nGuinizzelli, e tribolato alcuno tempo da capo il loro contado si\ndivisono per vernare tra gli amici del Biscione, e parte se ne torn\u00f2 a\nMilano.\nCAP. XXXIX.\n_Come gli usciti di Montepulciano venuti alla terra ne furono poi\ncacciati._\nA d\u00ec 2 del mese di novembre del detto anno, messer Iacopo della\ncasa de\u2019 Cavalieri di Montepulciano, poco innanzi cacciato della\nterra perch\u00e8 ne volea essere signore, avendo cento cavalieri\ndell\u2019arcivescovo, e accolti altri cavalieri e fanti a pi\u00e8 di sua\namist\u00e0, corrotto per moneta un notaio da Sanminiato del Tedesco\nch\u2019era sopra la guardia, e alcuni di quelle guardie, un venerd\u00ec notte\nspezz\u00f2 una delle porte, e con tutta sua gente entr\u00f2 nella terra, e\nfu in sulla piazza; e levato il romore, messer Niccol\u00f2 suo consorto\ncavaliere di grande ardire di presente fu all\u2019arme, e montato a cavallo\ncon pochi compagni, subitamente senza attendere aiuto s\u00ec fed\u00ec tra\ncostoro, e ravviligli s\u00ec forte, che non feciono resistenza, ma volti\nin fuga, messer Iacopo s\u2019usc\u00ec della terra con venticinque cavalieri;\ngli altri errando per la terra, desto il popolo, furono presi, che\nfuron settantacinque cavalieri, e il notaio colle guardie, de\u2019 quali\nventicinque ne furono impiccati, col notaio, e gli altri smozzicati.\nMontepulciano fu libero per questa volta, ma cagione fu appresso della\nloro suggezione, come seguendo si potr\u00e0 trovare.\nCAP. XL.\n_Come fra Moriale fu assediato, e rendessi al re Luigi._\nEra rimaso nel Regno della gente del re d\u2019Ungheria caporale messer fra\nMoriale solo, il quale teneva la citt\u00e0 d\u2019Aversa, e col re dissimulava,\nnon facendo guerra e non rendendoli la terra. Il re vedendo ancora il\nreame tenero sotto la sua signoria, e il Provenzale baldanzoso, temeva\ndi muovergli guerra; e per essere pi\u00f9 forte e meglio ubbidito mand\u00f2\nper messer Malatesta da Rimini con quattrocento cavalieri, e fecelo\nvicario del Regno; il quale cavalcando per lo reame perseguitava i\nmalfattori, e recava i baroni e\u2019 comuni all\u2019ubbidienza del re, e a\ntutti faceva pagare la colta, e fare i servigi feudatarii, e tenne per\ntutto i cammini aperti e sicuri. E tornato a Napoli, fece che il re\nmand\u00f2 a fra Moriale che venisse a lui, e scusandosi, messer Malatesta\nil fece citare pi\u00f9 volte dalla corte della vicher\u00eca: e non comparendo,\ndi subito colla sua gente, e con alquanta accolta del Regno, se n\u2019and\u00f2\nad Aversa, e nella terra se n\u2019entr\u00f2 senza contasto. Fra Moriale si\nrinchiuse nel castello colla sua gente, nel quale aveva il suo arnese e\nil tesoro accolto delle prede e ruberie de\u2019 paesani, e pensavasi essere\nsicuro, e potere con patti rendere il forte castello al re quando a lui\nparesse, al modo di messer Currado Lupo: ma trovossi ingannato, che\nmesser Malatesta di presente cinse il castello d\u2019assedio, e appresso in\npochi d\u00ec l\u2019ebbe cinto di fosso e di steccato per modo, che n\u00e8 entrare\nn\u00e8 uscire vi si potea, e d\u00ec e notte il faceva guardare di buona e\nsollecita guardia, e cos\u00ec il tenne stretto tutto il mese di dicembre. E\nvedendosi fra Moriale disperato di soccorso, trasse patto di rendere il\ncastello, avendo per suo bisogno stretto solamente mille fiorini d\u2019oro,\ne salve le persone; e per bonariet\u00e0 del re cos\u00ec fu fatto; e uscito del\ncastello rassegn\u00f2 al re il tesoro male guadagnato, e dispettoso se\nn\u2019and\u00f2 a Roma, pensando alla vendetta del re e di messer Malatesta,\ncome poi per grande e fellonesco ardire gli venne fatto, come innanzi\nper li tempi racconteremo. Il castello e la citt\u00e0 d\u2019Aversa rimase al\nre, e l\u2019ubbidienza di tutto il Regno e di catuno barone per operazione\ndi messer Malatesta.\nCAP. XLI.\n_Come i Fiorentini fornirono Lozzole._\nAll\u2019uscita di novembre del detto anno, i Fiorentini, avendo con\nbattifolli stretto il castello di Lozzole per la forza degli Ubaldini\nnel Podere, mandarono dugento cavalieri e millecinquecento masnadieri\ncol vicario di Mugello nell\u2019alpe, e presono in sul giogo dell\u2019alpe il\npoggio di Malacoda e quello di Vagliana, e fecionli guardare a\u2019 fanti\na pi\u00e8 e a\u2019 cavalieri, e con seicento masnadieri tennero i Prati: e\neletti cento buoni masnadieri condussono il fornimento colla salmeria,\ne rotti quelli del battifolle che voleano contrastare il passo, per\nforza gli rimisono dentro, e la roba condussono nel castello. Certi\nvillani del paese, pochi e male armati, con trenta femmine ch\u2019aveano\ncon loro saliti in alcuna parte sopra Malacoda, gridavano contro a\u2019\nmasnadieri ch\u2019erano a quella guardia, e le femmine urlavano sanza\narresto; i codardi masnadieri mandarono per soccorso al vicario messer\nGiovanni degli Alberti, il quale vi mand\u00f2 cinquanta cavalieri, i quali\nsi rimasono nella piaggia; il castello era fornito, e l\u2019animo della\ngente codarda era di tornare in Mugello; que\u2019 di Malacoda non vedendo\nvenire soccorso, impauriti delle grida delle femmine abbandonarono il\npoggio, fuggendo alla china. I fanti degli Ubaldini, ch\u2019erano settanta\nper novero, gli cominciarono a seguire, e lasciare i palvesi per essere\npi\u00f9 spediti, e le trenta femmine seguitavano rinforzando le grida:\nallora tutta l\u2019oste si mosse senza attendere l\u2019uno l\u2019altro dirupandosi\ne voltolandosi per le ripe. Il vicario fu il primo che port\u00f2 la novella\ndella rotta alla Scarperia. L\u2019altra parte de\u2019 masnadieri ch\u2019erano a\nVagliano, sentendo fuggiti il capitano, e\u2019 cavalieri e\u2019 pedoni de\u2019\nPrati e di Malacoda, si diedono a fuggire sanza essere incalciati. I\ncento fanti ch\u2019aveano fornito il castello, sentendo fuggita l\u2019oste\nd\u2019ogni parte, vigorosamente stretti insieme, essendo usciti quelli\ndel battifolle contro a loro, per forza gli rimisono nel battifolle,\ne tornaronsi nel castello, e di nuovo il rifornirono di legne: e poi\nl\u2019altro d\u00ec, bene acconci e avvisati alla loro difesa, se ne tornarono a\nsalvamento. Degli altri rimasono prigioni centoventi cavalieri, e pi\u00f9\ndi trecento pedoni; morti n\u2019ebbe pochi. Questa fu pi\u00f9 notabile fortuna\nche gran fatto. Ha meritato qui d\u2019essere notata per esempio della\nmala condotta, che spesso i vinti fa vincitori, e i vincitori vinti.\nNella nostra citt\u00e0, in questi tempi, di cos\u00ec fatti falli non si tenea\nragione, per\u00f2 spesso ricevea vituperoso gastigamento.\nCAP. XLII.\n_Maraviglie fatte a Roma per una folgore._\nNon senza cagione di singulare ammirazione vegnamo a fare memoria, come\na d\u00ec 11 del mese di dicembre, gi\u00e0 il cielo sgravato da impetuoso caldo\nsolare, che suole nell\u2019aria naturalmente generare folgori e tempeste,\nuna disusata fortuna di venti e di tuoni turb\u00f2 l\u2019aria, e in quella\ntempesta una folgore cadde in Roma, e percosse il campanile di san\nPiero, e abbatt\u00e8 la cupola e parte del campanile, e tutte le grandi e\nnobili campane ch\u2019erano in quello fece cadere, e trovaronsi quasi tutte\nfondute in quello punto, come fossono colate nella fornace. Questa pare\nuna favola a raccontare, ma fu manifesto a molti che \u2019l vidono, da cui\nne avemmo chiara e vera testimonianza. E molti il recarono in segno\novvero prodigio della seguente materia.\nCAP. XLIII.\n_Come mor\u00ec papa Clemente sesto, e di sue condizioni._\nIn questi d\u00ec, essendo malato papa Clemente sesto nella citt\u00e0 d\u2019Avignone\nin Provenza d\u2019una continua, ond\u2019era giaciuto sei d\u00ec, la notte vegnente\nla festa di santo Niccola, a d\u00ec 5 di dicembre, pass\u00f2 di questa vita,\navendo tenuto il papato anni dieci e mesi sette. Costui fu nat\u00eco di\nFrancia, e arcivescovo di Rouen, e grande amico e protettore del re\nFilippo di Francia, e per lui, innanzi al papato e poi che fu papa,\nassai cose fece; e a papa Giovanni venne per suo ambasciadore, e\nnella persona del detto re promise e giur\u00f2 che farebbe il passaggio\nd\u2019oltre mare. Costui fatto papa non rest\u00f2 di fare quanto il detto re\nseppe domandare, e molto scopertamente. Nella guerra ch\u2019ebbe col re\nd\u2019Inghilterra prese la parte del re di Francia, e assai vi consum\u00f2\ndel tesoro di santa Chiesa. Larghissimo papa fu di dare i beneficii\ndi santa Chiesa, e tanti ne stribu\u00ec a spettanti l\u2019uno appresso\nl\u2019altro, che non si trovava chi pi\u00f9 ne domandasse, sanza il beneficio\ndell\u2019_Anteferri._ Il suo ostiere tenne alla reale con apparecchiamento\ndi nobili vivande, con grande tinello di cavalieri e scudieri, con\nmolti destrieri nella sua malistalla. Spesso cavalcava a suo diporto,\ne mantenea grande comitiva di cavalieri e scudieri di sua roba. Molto\nsi dilett\u00f2 di fare grandi i suoi parenti, e grandi baronaggi comper\u00f2\nloro in Francia. La Chiesa riforn\u00ec di pi\u00f9 cardinali suoi congiunti, e\nfecene de\u2019 s\u00ec giovani e di s\u00ec disonesta vita, che n\u2019uscirono cose di\ngrande abominazione; e certi altri fece a richiesta del re di Francia,\nfra i quali anche n\u2019ebbe de\u2019 troppo giovani. A quel tempo non s\u2019avea\nriguardo alla scienza o alle virt\u00f9, bastava saziare l\u2019appetito col\ncappello rosso. Uomo fu di convenevole scienza, molto cavalleresco,\npoco religioso. Delle femmine assendo arcivescovo non si guard\u00f2, ma\ntrapass\u00f2 il modo de\u2019 secolari giovani baroni: e nel papato non se ne\nseppe contenere n\u00e8 occultare, ma alle sue camere andavano le grandi\ndame come i prelati; e fra l\u2019altre una contessa di Torenna fu tanto\nin suo piacere, che per lei facea gran parte delle grazie sue. Quando\nera infermo le dame il servivano e governavano, come congiunte parenti\ngli altri secolari. Il tesoro della Chiesa stribu\u00ec con larga mano.\nDell\u2019italiane discordie poco si cur\u00f2; e l\u2019impresa fatta a sua stanza\ncontro al tiranno di Bologna in sul buono abbandon\u00f2, e della vergogna\ndi santa Chiesa non si fece coscienza, ma per i molti danari che\nl\u2019arcivescovo di Milano largamente sparse ne\u2019 suoi parenti e nel re di\nFrancia ogni cosa gli perdon\u00f2, e intitolollo per la Chiesa vicario di\nBologna. Vac\u00f2 la Chiesa tredici d\u00ec. La cometa Nigra pronostic\u00f2 la sua\nmorte, la folgore di san Piero a Roma la sua fama consumata nel vile\nmetallo.\nCAP. XLIV.\n_Come fu fatto papa Innocenzio sesto._\nDopo la morte di papa Clemente sesto, i cardinali rinchiusi in conclave\nsentendo che il re di Francia s\u2019affrettava di venire a Avignone per\navere papa a sua volont\u00e0, la qual cosa non gli potea mancare, tanti\ncardinali aveva a sua stanza e di suo reame, ma non ostante che\ntutto il collegio de\u2019 cardinali fosse stato al servigio del detto\nre, tuttavia per la riverenza della libert\u00e0 di santa Chiesa, vollono\ninnanzi avere fatto papa di loro movimento, che a stanza del re di\nFrancia. E per\u00f2 di presente presono accordo tra loro, ed elessono a\npapa il cardinale d\u2019Ostia nativo di Limogi, il quale era stato vescovo\ndi Chiaramonte, uomo di buona vita, e di non grande scienza, e assai\namico del re di Francia; la sua fama infra gli altri era di semplice\ne buona vita, e antico d\u2019et\u00e0; e fecesi ne\u2019 papali palagi in Avignone\na d\u00ec 28 di dicembre, gli anni _Domini_ 1352. Prese l\u2019ammanto di san\nPiero e la corona del regno, e ne\u2019 suoi principii ragion\u00f2 d\u2019ammendare\nla disonest\u00e0 della corte, e fecene alcune buone costituzioni, e fecesi\nchiamare papa Innocenzio sesto.\nCAP. XLV.\n_Come usciti di prigione i reali del Regno s\u2019arrestarono a Trevigi._\nIn questo anno del mese di novembre, essendo liberati di prigione\nmesser Ruberto Prenze di Taranto, e messer Luigi di Durazzo dal re\nd\u2019Ungheria, se ne vennono a Vinegia; e ricevuto onore da quello\ncomune, se n\u2019andarono a Trevigi, e ivi attesono gli altri loro due\nfratelli messer Filippo di Taranto, e messer Ruberto di Durazzo. Il\nre d\u2019Ungheria volle che i primi due reali essendo in loro libert\u00e0\nfacessono certe obbligazioni, le quali non furono palesi, ma certo fu\nche a Trevigi vennero a loro ambasciadori del re d\u2019Ungheria, e che da\nloro presono certe obbligazioni. E per avere questo tenne gli altri\ndue fratelli tanto, che gli ambasciadori furono da Trevigi tornati in\nUngheria colle cautele pubbliche di quello ch\u2019elli aveano promesso, e\nallora furono licenziati messer Filippo di Taranto, e messer Ruberto\ndi Durazzo, e vennonsene a Trevigi agli altri loro fratelli. E partiti\ndi l\u00e0 se ne vennono a Ferrara, e appresso a Forl\u00ec, ricevuti in catuna\nparte a grande onore. E stando in Romagna, mandarono a Firenze per\nvolere valicare nel Regno per la nostra citt\u00e0, e per lo nostro contado,\nove si pensavano potere venire confidentemente a grande onore. Certi\ncittadini potenti, parziali di setta cittadinesca, che allora reggevano\nil comune, vietarono la loro venuta nella citt\u00e0, e il passo per lo\ncontado, cosa incredibile a narrare, considerato l\u2019antico e incorrotto\namore di quella casa reale al nostro comune, e il sangue loro mescolato\ncon quello de\u2019 cittadini di Firenze, sparto nelle nostre battaglie\nin difensione di quella citt\u00e0, e ora vieta loro il passo per lo suo\ndistretto, uomini usciti di prigione, senza arme e senza comitiva. Io\nmi vergogno a scrivere che quello che il nostro comune spesso concede\na\u2019 nemici fosse vietato a costoro. Se il comune ci avesse fallato,\nsarebbe detestabile cosa a trovare memoria di cotanta ingratitudine: ma\nconsiderata la singolare vilezza delle cittadine sette, figura della\nsfrenata tirannia, non \u00e8 cosa maravigliosa. I reali non senza giusta\ncagione sdegnati presono altra via, e capitarono a Roma.\nCAP. XLVI.\n_Di novit\u00e0 state in Sangimignano._\nRicordandoci de\u2019 due fratelli dicollati degli Ardinghelli di\nSangimignano, ci occorre come i loro consorti tennono che \u2019l fatto\nfosse per operazione de\u2019 Salvucci di quella terra, onde i detti\nArdinghelli provveduti d\u2019aiuto di loro parenti e amici, a d\u00ec 20 di\ndicembre del detto anno levarono romore nella terra, e seguitati\ndalla maggior parte del popolo corsono alle case de\u2019 Salvucci in su\nla piazza della pieve, e trovandoli sprovveduti alla difesa, senza\nfare resistenza furono cacciati di Sangimignano, e le loro case rubate\ne arse, e di tutti i loro seguaci; e la terra ch\u2019era in guardia del\ncomune di Firenze tennono per loro, temendo di non essere puniti\ndel malificio commesso. I Salvucci cacciati co\u2019 loro seguaci il d\u00ec\ndella pasqua di Natale se ne vennono a Firenze, domandando l\u2019aiuto\ndel comune, sotto la cui guardia erano rubati e cacciati della loro\nterra. Dall\u2019altra parte gli Ardinghelli col titolo e coll\u2019autorit\u00e0 del\ncomune mandarono ambasciadori a Firenze, dicendo, ch\u2019aveano cacciati\ni ghibellini di Sangimignano, e la terra teneano a onore del comune\ndi Firenze e di parte guelfa; e dove il comune l\u2019avea per piccolo\ntempo, la voleano dare per maggiore, ove delle cose fatte non si\nfacesse alcuna vendetta, e che i loro nimici non fossono rimessi nella\nterra. Il comune tenne sospeso un pezzo, cercando se modo v\u2019avesse\nd\u2019accordo, ma continovo cresceva la mala disposizione, diffidandosi gli\nArdinghelli e i loro seguaci d\u2019avere remissione di quello ch\u2019aveano\ncommesso, e aveano d\u2019intorno a loro di mali consigliatori; onde per la\ncontumace e per l\u2019impotenza poco appresso ne segu\u00ec la suggezione di\nquella terra, come a suo tempo racconteremo.\nCAP. XLVII.\n_Come i comuni di Toscana mandarono solenni ambasciadori a Serezzana a\ntrattare pace._\nAvvegnach\u00e8 ne\u2019 cominciamenti poca fede si prendesse per li Fiorentini e\nper gli altri comuni di Toscana della pace coll\u2019arcivescovo di Milano,\nnondimeno avendo trattato prima co\u2019 religiosi, e poi con abboccamento\nd\u2019altri ambasciadori, e trovandosi convenienza alla pace, si ordin\u00f2 pi\u00f9\nsolenne ambasciata di tutti i comuni, i quali si convennono a Firenze,\ne in segreto si confer\u00ec la sostanza de\u2019 patti; e il simigliante fece\nl\u2019arcivescovo co\u2019 suoi e con gli ambasciadori de\u2019 ghibellini d\u2019Italia,\nche concorrevano alla detta pace. E catuno comune diede libert\u00e0 a\u2019 suoi\nambasciadori di potere fermare la concordia. E poi, il primo d\u00ec di\ngennaio del detto anno, andarono a Serezzana per dare compimento alla\ndetta pace.\nCAP. XLVIII.\n_Di grandi tremuoti vennono in Toscana e in altre parti._\nA d\u00ec 25 di dicembre del detto anno, in sul vespro, furono grandi\nterremuoti, i quali abbatterono al Borgo a san Sepolcro una parte\ndegli edifici della terra, con danno di bene cinquecento tra uomini\ne femmine e fanciulli morti. E la rocca d\u2019Elci in su\u2019 confini tra\nArezzo e il Borgo subiss\u00f2 con que\u2019 viventi che v\u2019erano a guardarla per\nl\u2019arcivescovo di Milano. E sollevati i tremuoti alquanti d\u00ec, poi a d\u00ec\n31 del detto mese, la notte, vegnente la mattina di calen di gennaio in\nsul mattutino, rinnovellarono maggiori terremuoti. E alla detta terra\ndel Borgo furono s\u00ec terribili, che quasi tutti gli edifici di quella\nterra fece rovinare, nel cui scotimento, per la notte e per le ruine\nd\u2019ogni parte, pochi ne poterono campare, fuggendosi ignudi negli orti\ne nelle piazze della terra, e quasi la maggiore parte de\u2019 terrazzani\ne de\u2019 forestieri che v\u2019erano feciono delle case sepoltura a\u2019 lacerati\ncorpi, e molti magagnati e mezzi morti stettono parecchi d\u00ec senza\naiuto sotto le travi e\u2019 palchi e altre concavit\u00e0 fatte dalla ruina, e\nassai ne morirono che sarebbono campati se avessono avuto soccorso.\nLe mura della terra da ogni parte caddono: e di vero gran piet\u00e0 fu a\nvedere l\u2019eccidio di cotanti cristiani involti in cos\u00ec aspro giudicio\ndalla loro morte, che fatto conto, pi\u00f9 di duemila uomini d\u2019ogni sesso\nspirarono sotto quelle rovine. E non \u00e8 da lasciare senza memoria quello\nch\u2019avvenne loro per essere sotto la tirannia, che per paura de\u2019 primi\nterremuoti erano usciti della terra e stavano a campo, e sarebbono\ncampati, ma per tema della terra messer Piero Sacconi, e Nieri da\nFaggiuola col vicario dell\u2019arcivescovo vi cavalcarono, e per forza\ncostrinsono i terrazzani e\u2019 soldati a ritornare nella terra. Alcuni\nfavoleggiando dissono, che questo fu singolare sentenza di Dio, perch\u00e8\ncostoro furono i primi in Toscana che diedono ricetto alla gente del\ngran tiranno arcivescovo di Milano, in confusione de\u2019 loro circostanti;\ne tutte le prede indebitamente tolte a\u2019 loro vicini comperavano per\nniente, ingrassando e arricchendo di quelle indebitamente, non avendo i\ndetti terremuoti fatto alcuno danno in Toscana.\nCAP. XLIX.\n_Come i Sanesi andarono a oste a Montepulciano._\nEssendo i signori della casa de\u2019 Cavalieri di Montepulciano divisi e\ncacciati l\u2019uno l\u2019altro, come addietro \u00e8 dimostrato, quelli ch\u2019erano\nrimasi signori teneano l\u2019amist\u00e0 de\u2019 Perugini, e gli usciti quella\nde\u2019 Sanesi, onde avvenne che i Sanesi volevano che la terra tornasse\nal governamento del popolo; e temendo coloro che la reggevano per\nlo movimento de\u2019 Sanesi, si fortificarono con aiuto di gente d\u2019arme\nde\u2019 Perugini, e per questo i Sanesi cominciarono a cavalcare sopra\nloro. E i terrazzani colle masnade de\u2019 Perugini e de\u2019 loro soldati\ns\u2019aiutavano francamente, facendo vergogna alla cavalleria de\u2019 Sanesi, e\nper questo presono sdegno contro a\u2019 Perugini. E del comune di Firenze\nsi dolsono, perch\u00e8 richiesti a questa impresa non vollono contro agli\namici loro guelfi dare loro aiuto. E tanto mont\u00f2 l\u2019altezza dello sdegno\nde\u2019 Sanesi, che si fornirono di gente d\u2019arme a pi\u00e8 e a cavallo, e\nmisonsi all\u2019assedio di Montepulciano, e quello continovarono infino\nal maggio seguente 1353, e strinsonlo con battifolli; e\u2019 Perugini per\nnon dispiacere a\u2019 Sanesi ne ritrassono la gente loro. I Fiorentini\ne\u2019 Perugini mandarono gli ambasciadori a trovare modo di pace e di\nconcordia tra \u2019l comune di Siena e quello di Montepulciano, i quali\nvi dimorarono lungamente, innanzi che potessono recare le parti a\nconcordia. E perocch\u00e8 nel detto tempo altre cose occorsono, conviene\nper dare parte a loro alquanto soggiornare alla presente materia.\nCAP. L.\n_Come Gualtieri Ubertini fu decapitato._\nIn questo medesimo mese di dicembre fu preso in un aguato da\u2019 soldati\ndel comune di Firenze, a Civitella del vescovo d\u2019Arezzo, Gualtieri\nfigliuolo di Bustaccio degli Ubertini, giovane di grande fama, valoroso\ne pro\u2019, e di grande aspetto e seguito, il quale per comandamento\ndel comune fu menato a Firenze: e credendosi campare, trovandosi il\nbando generale di tutti quelli della casa degli Ubertini per la loro\nribellione, la vigilia di Natale fu dicollato, di cui gli Ubertini\nriceverono gran danno, perocch\u00e8 troppo era giovane di buono aspetto. A\ncostui fu tagliata la testa dirimpetto allo spedale di sant\u2019Onofrio; e\nmesso il corpo nella cassa in due pezzi, e portandosi alla chiesa di\nsanta Croce, venuto a pi\u00e8 del campanile di quella chiesa, per spazio\nd\u2019una saettata di balestro o pi\u00f9 il corpo si dibatt\u00e8, e aperse le\ngiunture della cassa con tanto dicrollamento, che a pena fu ritenuta\nche non cadde di collo agli uomini che \u2019l portavano; cosa assai\nmaravigliosa, ma fu vera e manifesta a molti, e noi l\u2019avemmo da coloro\nche \u2019l detto corpo nella cassa portarono, uomini degni di fede.\nCAP. LI.\n_Come il duca d\u2019Atene assedi\u00f2 Brandizio._\nIn questi d\u00ec, avendo il re Luigi fatta certa richiesta di baroni del\nRegno, fra gli altri vi venne messer Filippo della Ripa di Brandizio,\nricco d\u2019avere e di piccola nazione, da cui il re con finte cagioni\nintendea di trarre di molti danari. A costui fu rivelata l\u2019intenzione\ndel re, ond\u2019egli senza congio si ritorn\u00f2 in Puglia. Il re fattolo da\ncapo richiedere per contumacia, ebbe cagione di farlo bandire. Il\nduca d\u2019Atene che colle sue terre gli era vicino, per torgli il suo, e\nper potere sotto la coverta di costui prendere Brandizio, se n\u2019and\u00f2\nin Puglia; e presa licenza di procacciare di recare al fisco i beni\ndi costui ch\u2019era bandeggiato, raun\u00f2 gente d\u2019arme, e non sappiendo\nil re che procedesse per questo modo, fece di suoi Franceschi e\nd\u2019altri soldati quattrocento cavalieri e millecinquecento pedoni, e\nand\u00f2 a oste a Brandizio. I terrazzani vedendosi questa gente addosso\nimprovviso si maravigliarono forte, e conobbono il fatto tirannesco, e\ndi presente s\u2019unirono alla difesa, e non lo lasciarono accostare alla\ncitt\u00e0. Puosesi a campo di fuori, e cominci\u00f2 a correre e fare preda\nper lo paese d\u2019intorno. Sentendo questo il re Luigi si maravigli\u00f2 del\nduca, che faceva di suo arbitrio quello che non gli era commesso, e\nincontanente per lettere gli mand\u00f2 comandando che da Brandizio si\ndovesse levare: ma poco valsono i suoi comandamenti, che vi s\u2019afferm\u00f2\ncredendosi occupare quella terra con tirannesca intenzione. Sopravvenne\nla tornata del Prenze di Taranto, e il re per farli onore, ch\u2019era d\u2019et\u00e0\nsuo maggiore fratello, sentita la volont\u00e0 de\u2019 cittadini ch\u2019aveano\namore al Prenze, cos\u00ec assediata glie la privilegi\u00f2; e i cittadini di\nconcordia l\u2019accettarono per loro signore, e allora il duca se ne lev\u00f2\nda assedio.\nCAP. LII.\n_Come i Perugini feciono pace co\u2019 Cortonesi._\nIn questo verno, sentendosi per l\u2019Italia che a certo la pace generale\nsi dovea fare tra i comuni di Toscana, e l\u2019arcivescovo di Milano e\u2019\nsuoi aderenti ghibellini, i Cortonesi per mostrare pi\u00f9 liberalit\u00e0 a\u2019\nPerugini, e il comune di Perugia per non obbligarsi al patto della\ngenerale pace, di concordia vollono pervenire a quella, e di buona\nvolont\u00e0 feciono pace tra loro. \u00c8 vero che innanzi la pace i Cortonesi\nnon fidandosi de\u2019 Perugini domandarono sodamenti, e il comune di\nPerugia a grande istanza richiese il comune di Firenze, che fosse\nmallevadore per lui a\u2019 signori e al comune di Cortona di diecimila\nmarchi d\u2019argento, che manterrebbe a\u2019 Cortonesi buona e leale pace. Il\nnostro comune mosso alle richieste di quello di Perugia, fece sindaco\nun suo cittadino chiamato Otto Sopiti, e per lui fece il sodamento e\nl\u2019obbligagione predetta a\u2019 signori e al comune di Cortona liberamente,\ncome i Perugini seppono divisare.\nCAP. LIII.\n_Come il popolo di Gaeta uccisono dodici loro cittadini per la carestia\nch\u2019aveano._\nAncora lo stato dello sviato Regno non era queto dalla fortuna e in\ndebito reggimento, essendo quest\u2019anno generale carestia in Italia, il\nminuto popolo di Gaeta, avendo invidia a\u2019 buoni e ricchi cittadini\nmercatanti di quella citt\u00e0, del mese di dicembre del detto anno si\nmossono a furore e presono l\u2019arme, e furiosi corsono per la terra,\na intenzione d\u2019uccidere quanti trovare potessono di loro maggiori:\ne in quell\u2019empito uccisono dodici de\u2019 migliori che trovarono senza\nalcuna misericordia, grandi e onesti e buoni mercatanti; gli altri\nsi fuggirono e rinchiusono in luoghi ove il furore del popolo non si\npot\u00e8 stendere. Il re Luigi avendo intesa questa iniquit\u00e0 vi cavalc\u00f2\nin persona con gente d\u2019arme per farne giustizia, e giunto in Gaeta,\nfece inquisizione di questo fatto; la cosa fu scusata per la furia\nd\u2019alquanti, e furono presi e giustiziati de\u2019 meno possenti; degli altri\nsi fece composizione di moneta, e chi fu morto s\u2019ebbe il danno, e la\ncorte pervert\u00ec; e racquetata la cosa, il re gli ordin\u00f2, e tornossene a\nNapoli.\nCAP. LIV.\n_Come il papa volle trattare pace da\u2019 Genovesi a\u2019 Veneziani._\nIn questo medesimo verno, papa Innocenzio mand\u00f2 al comune di Genova e a\nquello di Vinegia che mandassono a lui gli ambasciadori ch\u2019erano stati\na papa Clemente a trattare della loro pace, e per la morte sopravvenuta\ndel detto papa se n\u2019erano partiti senza essere d\u2019accordo, perocch\u2019egli\nintendea di metterli in pace giusta suo podere. I Genovesi non vollono\ntornare a corte, n\u00e8 entrare in trattato di pace co\u2019 Veneziani, anzi\nordinarono lega e compagnia col re d\u2019Ungheria contro a\u2019 Veneziani. E\nil detto re avendo promessa compagnia co\u2019 Genovesi mand\u00f2 a Venezia\nal comune che gli dovesse restituire Giara, e l\u2019altre citt\u00e0 e terre\nch\u2019aveano occupate del suo reame nella Schiavonia. I Veneziani feciono\nagli ambasciadori quella savia risposta che seppono, facendosi tra\nloro beffe della sua domanda; nondimeno non senza paura, e con molta\nsollicitudine e con grande spendio fornirono a doppio, oltre all\u2019usato,\ntutte le terre che teneano in quella marina.\nCAP. LV.\n_Come i Fiorentini osteggiaro Sangimignano, e fecionli ubbidire._\nAddietro \u00e8 narrato come quelli che reggeano Sangimignano teneano\ntrattato col comune di Firenze, ma non fidando, non si poteano per\nlo comune riducere a fermezza, e il comune temendo che in questa\nvacillazione peggio non ne seguisse, del mese di febbraio del detto\nanno vi mand\u00f2 messer Paolo Vaiani di Roma, allora podest\u00e0 di Firenze,\ncon seicento cavalieri e con grande popolo, i quali giunti intorno alla\nterra, e non avendo risposta da quelli d\u2019entro, a volont\u00e0 del nostro\ncomune vi si misono a campo, e cominciarono a dare il guasto; ma per\u00f2\nalcuno Sangimignanese o loro gente d\u2019arme non uscirono fuori per fare\nalcuna resistenza o altra vista, ma dopo il ricevuto danno vennono alla\nconcordia, che il comune di Firenze dovesse fare la pace fra loro e\ngli usciti, e che d\u2019allora gli usciti avessono i frutti de\u2019 loro beni,\nma dovessono stare fuori della terra sei mesi, e fatta la pace tra gli\nArdinghelli e\u2019 Salvucci, per lo comune di Firenze detto, e\u2019 potessono\ntornare nella terra: e che il comune di Firenze oltre al termine de\u2019\ntre anni che ne dovea avere la guardia l\u2019avesse anche cinque anni, e\nche per patto vi tenesse settantacinque cavalieri col capitano della\nguardia alle loro spese. E fatto il decreto e le cautele per i loro\nconsigli, e ricevuto il capitano colla sua compagnia, l\u2019oste se ne\ntorn\u00f2 a Firenze.\nCAP. LVI.\n_Come in Italia fu generale carestia._\nIn questo anno fu generale carestia in tutta Italia; in Firenze\ncominci\u00f2 di ricolta a valere lo staio del grano soldi quaranta di\nlibbre cinquantadue lo staio, e in questo pregio stette parecchi mesi:\npoi venne montando tanto, che and\u00f2 in lire cinque lo staio, i grani\ncattivi e di mal peso. Le fave lire tre lo staio, e cos\u00ec i mochi e\nle vecce: il panico soldi quarantacinque in cinquanta, e la saggina\nsoldi trenta in trentacinque. Il vino di vendemmia valse il cogno\nfiorini sei d\u2019oro del pi\u00f9 vile, e otto e dieci il migliore, e mont\u00f2\nin fiorini quindici il cogno. La carne del porco senza gabella lire\nundici il centinaio; il castrone denari ventotto in trenta la libbra\ntutto l\u2019anno. La vitella di latte mont\u00f2 danari trentadue in quaranta\nla libbra; l\u2019uovo danari cinque e sei l\u2019uno; l\u2019olio lire cinque e\nmezzo in sei l\u2019orcio, di libbre ottantacinque. Tutti erbaggi furono\nin somma carestia; e in que\u2019 tempi valea il fiorino dell\u2019oro lire tre\nsoldi otto di piccioli. Tutti drappi da vestire, di lana, e di lino, e\ndi seta, furono in notabile carestia, e cos\u00ec il calzamento. E bench\u00e8\nabbiamo fatto conto di Firenze, in quest\u2019anno fu tenuto in tutta Italia\nche Firenze avesse cos\u00ec buono mercato comunalmente come alcuna altra\nterra. Ed \u00e8 da notare, che di cos\u00ec grande e disusata carestia il minuto\npopolo di Firenze non parve che se ne curasse, e cos\u00ec di pi\u00f9 altre\nterre; e questo avvenne perch\u00e8 tutti erano ricchi de\u2019 loro mestieri:\nguadagnavano ingordamente, e pi\u00f9 erano pronti a comperare e a vivere\ndelle migliori cose, non ostante la carestia, e pi\u00f9 ne devano per\naverle innanzi che i pi\u00f9 antichi e ricchi cittadini, cosa sconvenevole\ne maravigliosa a raccontare, ma di continova veduta ne possiamo fare\nchiara testimonianza. E quello che a altri tempi innanzi alla generale\nmortalit\u00e0 sarebbe stato tomulto di popolo incomportabile, in quest\u2019anno\ncontinovo improntitudine e calca del minuto popolo fu nella nostra\ncitt\u00e0 ad avere le cose innanzi a\u2019 maggiori, e di darne pi\u00f9 che gli\naltri. E cos\u00ec festeggiava, e vestiva e convitava il minuto popolo, come\nse fossono in somma dovizia e abbondanza d\u2019ogni bene.\nCAP. LVII.\n_Come i Romani uccisono colle pietre Bertoldo degli Orsini loro\nsenatore._\nSenatori di Roma erano il conte Bertoldo degli Orsini e Stefanello\ndella Colonna, e dal popolo erano infamati d\u2019avere venduta la tratta,\ne lasciato trarre il grano della loro Maremma, e questo era fatto per\nloro, non pensando che \u2019l grano andasse in cos\u00ec alta carestia. In\nCampidoglio si faceva il mercato a d\u00ec 15 di febbraio del detto anno, e\nla s\u00f9 abitavano i senatori; e accoltovisi grande popolo per comperare\ndel grano, e trovandone poco e molto caro, corsone a furore al palagio\nde\u2019 senatori con le pietre in mano. Stefanello ch\u2019era giovane fu\naccorto, e innanzi che il popolo moltiplicasse al palagio col furore si\nfugg\u00ec per una porta di dietro, e salv\u00f2 la persona; il conte Bertoldo\nfu pi\u00f9 tardo, e volendosi fuggire, fu sorpreso dal furore di quel\npopolo, e colle pietre lapidato e morto: e tante glie ne gittarono\naddosso, acciocch\u00e8 catuno fosse partecipe a quella vendetta, che bene\ndue braccia s\u2019alz\u00f2 la mora delle pietre sopra il corpo morto del loro\nsenatore; e fatto questo, il popolo comport\u00f2 la carestia pi\u00f9 dolcemente.\nCAP. LVIII.\n_Come fu tagliata la testa a Bordone de\u2019 Bordoni._\nIn questi d\u00ec, del mese di febbraio sopraddetto, essendo podest\u00e0\ndi Firenze messer Paolo Vaiani di Roma, uomo aspro e rigido nella\ngiustizia, avendo presa informazione di mala fama contro a Bordone\nfigliuolo che fu di Chele Bordoni, antico e grande e potente popolano\ndi Firenze, essendo questo giovane sopra gli altri leggiadro e di\ngrande pompa, il fece pigliare per ladro, apponendogli molti furti, e\ntutti per martorio gliel fece confessare. I suoi consorti, ch\u2019erano\nin grande stato in comune, co\u2019 priori e collegi il difendeano, e non\nparea loro che il podest\u00e0 il dovesse condannare a morte; il mormorio\ndel popolo minuto era contro a lui, e \u2019l podest\u00e0 non si volea muovere\nad alcuno priego de\u2019 signori; onde avvenne, per male consiglio, ch\u2019e\u2019\npriori, acciocch\u00e8 \u2019l podest\u00e0 non potesse fare uficio, cassarono tutta\nla sua famiglia. Costui pi\u00f9 inacerbito lasci\u00f2 la bacchetta della sua\npodesteria a\u2019 priori, e tornossi al palagio come privato uomo. Il\nmormorio si lev\u00f2 grande nella citt\u00e0 contro a\u2019 priori, e parendo loro\navere fatto male, con ogni preghiera cercarono di poterlo ritenere;\nma l\u2019astuto Romano, sentendo scommosso il popolo, la notte mont\u00f2 a\ncavallo e andossene a Siena. Il popolo sentendolo partito, quasi come\ncomunit\u00e0 rotta trassono al palagio de\u2019 priori e a quello della podest\u00e0,\ne doleansi dicendo, che i potenti cittadini che facevano i grandi mali\nnon voleano che fossono puniti, e i piccoli e impotenti cittadini\nd\u2019ogni piccolo fallo erano impiccati, e smozzicati, e dicollati; e per\nquesta novit\u00e0 fu la citt\u00e0 in grande smovimento, operandosi l\u2019animosit\u00e0\ndelle sette. I signori vedendo la citt\u00e0 a cotal condizione, di subito\ngli mandarono ambasciadori, e con fiorini duemilacinquecento d\u2019oro che\ngli diedono per suoi interessi fecionlo ritornare: e ritornato, per\ngrazia fece dicollare Bordone, e il popolo fu racquetato.\nCAP. LIX.\n_Come si pubblic\u00f2 la pace dall\u2019arcivescovo a\u2019 comuni di Toscana._\nGli ambasciadori de\u2019 comuni di Toscana che furono mandati a Sarezzana\nper fermare la pace coll\u2019arcivescovo di Milano, e co\u2019 suoi aderenti\nghibellini di Toscana e d\u2019Italia, trovarono la materia s\u00ec acconcia,\neziandio contro alla speranza, che di presente vi dierono fermezza, del\nmese di marzo 1352; e appresso, il primo d\u00ec d\u2019aprile 1353, si piuvic\u00f2\nin parlamento di tutto il popolo. E quanto che catuno desiderasse\npace per cagione di riposo e di fuggire spesa, niuna festa se ne\nfece, n\u00e8 niuno rallegramento nel popolo se ne vide, quasi stimando\ncatuno la pace del potente tiranno troppo vicino, essere pi\u00f9 nel\nsuo arbitrio sottoposta a inganno che a fermezza di certo riposo.\nNella pace in sostanza si contenne, che generale e perpetua pace sia\ntra l\u2019arcivescovo di Milano, e tutte le sue citt\u00e0 e distrettuali, e\ntutti coloro che con lui furono nella guerra contro a\u2019 Fiorentini,\ne\u2019 Perugini, e\u2019 Sanesi, e\u2019 loro distrettuali, Pistoiesi, e Aretini,\ne altri simiglianti, tutti da catuna parte e aderenti loro debbano\nosservare buona e leale pace; e l\u2019arcivescovo \u00e8 tenuto di mettere in\nmano comune la Sambuca e \u2019l Sambucone: e fatto questo, il comune di\nFirenze un mese appresso debba disfare la rocca di Montegemmoli, con\npatto, che disfatta debba riavere le dette castella depositate; e il\ndetto Montegemmoli non si debba per alcuna parte redificare: e che\ni Fiorentini debbano rendere Lozzole agli Ubaldini, e l\u2019arcivescovo\nPiteccio e l\u2019altre tenute de\u2019 Pistoiesi; e che il comune di Firenze dee\ntrarre di bando tutti coloro che fossono bandeggiati per quella guerra,\ne chiunque fosse dichiarato aderente del detto arcivescovo: patto assai\npregno, e doppio, e poco accetto, la cui dichiarazione fu commessa a\nLotto e a Franceschino Gambacorti di Pisa, mezzani di questa pace.\nQuesto fu assai lieve legame di pace, avvegnach\u00e8 ci si stipulasse pena\nfiorini dugentomila d\u2019oro, ma per la grandezza del signore di Milano,\ne per la potenza de\u2019 tre comuni che non si avvilivano per lui, rimase\ncontenta catuna parte al legame del titolo della pace, senza altra\nsicurt\u00e0 dimandare o prendere.\nCAP. LX.\n_L\u2019inganno ricevette il comune di Firenze dagli sbanditi._\nIl comune di Firenze in questo fatto degli sbanditi fu ingannato da\u2019\nsuoi medesimi ambasciadori, de\u2019 quali niuno si pot\u00e8 incolpare, ch\u2019erano\nsecolari, e uomini che non sapeano quello ch\u2019e\u2019 titoli de\u2019 giudici\nportassono, e a loro non se n\u2019aspettava alcuna cosa, ma incolpato ne\nfu un savio giudice e grande avvocato chiamato messer Niccola Lapi,\ndi lieve nazione, sospetto a parte, ma per la sua scienza il comune\ngli commise l\u2019ordinazione delle scritture per non essere ingannato.\nCostui lasci\u00f2 ne\u2019 patti un capitolo non promesso n\u00e8 pensato, per lo\nquale tutti gli sbanditi e rubelli del comune di Firenze poteano essere\nribanditi e ristituiti ne\u2019 loro beni, e cos\u00ec degli altri comuni di\nToscana. E il pertugio di questo titolo fu, che a\u2019 patti s\u2019aggiunse,\nche tutti gli aderenti, e parenti e seguaci di messer Carlino Tedici\ne de\u2019 consorti ribelli di Pistoia, dovessono essere ribanditi, e\nrestituiti ne\u2019 beni di qualunque bando o condannagione ch\u2019avessono dal\ncomune di Pistoia, e questa fu l\u2019intenzione vera: ma arroso fu, e di\nFirenze, e di Perugia, e di Siena, e dell\u2019altre terre di Toscana, salvo\nchi avesse avuto bando nel tempo della guerra, essendo all\u2019ubbidienza\ndel comune di Pistoia: bando enorme e non parziale. Qui si comprese la\nmalizia di questo fallo: se per errore fu commesso, grande vergogna\nfu al savio avvocato, se per malizia, merit\u00f2 grande pena, perocch\u00e8\nsotto quel titolo messer Carlino faceva suo aderente cui egli voleva;\ne Franceschino e Lotto gli dichiaravano, e \u2019l savio consigliava, e \u2019l\nnotaio ch\u2019era sopra ci\u00f2 cancellava; e avevane gi\u00e0 dichiarati pi\u00f9 di\nduemila, e cancellati da trecento. Ed era una mercatanzia tra tutti di\ngrande guadagno, ma di maggiore danno e vergogna del nostro comune, e\nmolto se ne dolevano i cittadini. Ma gli autori del fatto, con mettere\npaura di non conturbare la pace, ogni lingua acchetavano, e le borse\nsi empievano. E procedendo a voto il primo fallo, un altro se n\u2019arrose\nper l\u2019avvocato gi\u00e0 detto, contro al beneficio ricorso a utilit\u00e0 della\npatria, che i dichiaratori da Pisa aveano mandato a Firenze intorno di\nsedici dichiarazioni fatte nel principio in diversi d\u00ec, acciocch\u00e8 a\nFirenze fossono per lo notaio diputato sopra ci\u00f2 cancellati di bando.\nLe dichiarazioni furono portate al detto messer Niccola Lapi, il quale\nvide che per l\u2019ordine de\u2019 patti non se ne poteva cancellare per ragione\npi\u00f9 che quelli ch\u2019erano dichiarati per lo primo d\u00ec, e da quel d\u00ec\ninnanzi il comune di Firenze era libero della sua promessa. Costui di\npresente le rimand\u00f2 a dietro, e scrisse, che non valeano dichiaragioni\nche facessono separate in diversi d\u00ec; e per questo avvenne, che poi\nquelle che si feciono, e che si mossono a fare in diversi e lunghi\ntempi, le riducevano a essere fatte nel primo d\u00ec che gli cominciarono\na dichiarare, commettendo in questo processo frode, e facendo fare\nle carte false, che furono pi\u00f9 di trecento quelle che si recarono\na cancellare. Di cotali falli il comune s\u2019avvedeva e doleva, ma le\npreghiere degli amici non lasciavano al comune fare giustizia in questi\ntempi. Ma de\u2019 mali principii riesce spesse volte mal frutto, come in\nparte usc\u00ec di questo, secondo che appresso diviseremo, mutando un poco\nnostro ordine di travalicare il tempo per imporre fine a questa materia.\nCAP. LXI.\n_Di questa medesima materia._\nAvvenne, valicato l\u2019anno predetto, che di questa corrotta radice\nprocedette una corruzione che termin\u00f2 la causa e la vita del notaio\na ci\u00f2 diputato, e d\u2019un giudice ch\u2019avea cominciato a pascersi sopra\nquesta carogna. A ser Francesco di ser Rosso notaio di grande autorit\u00e0,\nch\u2019aveva procurato questo uficio, fu portata carta d\u2019una dichiarazione\nd\u2019uno Ghiandone di Chiovo Machiavelli condannato, uomo infame e di mala\ncondizione; del nome e soprannome di costui erano rimase certe lettere,\nil mese e l\u2019altre rase, e sottilmente per simiglianti lettere rimesse,\ne con molta istanzia per alcuno suo consorte, e alcuno amico allora de\u2019\npriori, fu stretto ser Francesco a cancellarlo, e messer Corbizzesco\ngiudice da Poggibonizzi a consigliarlo. I quali pi\u00f9 volonterosi al\nservigio che a conoscere la malizia ch\u2019appariva nella carta, bench\u00e8\ntutta paresse una lettera, il savio consigli\u00f2, e il notaio cancell\u00f2. E\nsentendosi la diliberazione di costui a Pisa, Franceschino Gambacorti\nscrisse a\u2019 signori scusandosi, che costui per la sua infamia mai non\navea voluto dichiarare. Onde preso il notaio, e appresso il giudice,\nper il marchese dal Monte valente podest\u00e0 di Firenze, dopo lunga\ndiscettazione e combattimento di cittadini, e d\u2019immunit\u00e0 di privilegio\nch\u2019aveva ser Francesco, mercoled\u00ec a d\u00ec 21 di maggio 1354 avendoli\ncondannati al fuoco, per grazia commut\u00f2 la pena, e colle mitere in\ncapo li fece dicollare. Per la morte di ser Francesco manc\u00f2 il potere\ncancellare; e mancato questo, si rimase il dichiarare, e il comune\ndimentic\u00f2 gli altri falli per questa cagione, e per troppa mansuetudine.\nCAP. LXII.\n_Come messer Piero Sacconi de\u2019 Tarlati tent\u00f2 di fare grande preda\ninnanzi che fosse bandita la pace._\nMesser Piero Sacconi de\u2019 Tarlati ch\u2019aveva in Bibbiena delle masnade\ndell\u2019arcivescovo di Milano, sentendo ferma la pace, innanzi ch\u2019ella\nsi bandisse, come volpe vecchia, accolse gente quanta ne pot\u00e8 avere,\na pi\u00e8 e a cavallo, e sapendo che i villani del contado d\u2019Arezzo per\nla novella della pace s\u2019assicuravano colle bestie a\u2019 campi, cavalc\u00f2\nsubitamente il contado d\u2019Arezzo infino a Laterina, accogliendo il\nbestiame, e mettendosi la preda innanzi. I paesani stormeggiando da\nogni parte s\u2019avvidono del fatto, e feciono tanto, che per campare\nle persone i cavalieri e\u2019 masnadieri abbandonarono la preda, e con\nvergogna tornarono a Bibbiena. E per simil modo in questi medesimi d\u00ec i\nsoldati del Biscione ch\u2019erano a Montecarelli con il conte Tano corsono\nin Mugello per fare preda, innanzi che la pace fosse pubblicata. Il\nvicario della Scarperia co\u2019 soldati de\u2019 Fiorentini gli cacciarono de\u2019\ncampi fino a Montecarelli. Queste cavalcate non erano degne di memoria,\nma per esempio a\u2019 popoli che non sono offenditori, che almeno si\nguardino, acciocch\u00e8 non incorrino nell\u2019antico proverbio, che dice, tra\nla pace e la triegua guai a chi la lieva.\nCAP. LXIII.\n_Come il corpo di messer Lorenzo Acciaiuoli fu recato del Regno a\nFirenze, e seppellito a Montaguto a Certosa onoratamente._\nTogliendone la quiete della pace materia da scrivere, forse alcuna\nscusa ci fa a raccontare quello ch\u2019ora scriveremo di privata novit\u00e0.\nMesser Niccola Acciaiuoli di Firenze grande siniscalco del reame di\nSicilia, governatore del re Luigi, aveva un figliuolo primogenito\ncavaliere e grande barone, appartenendogli la moglie promessa della\ncasa di Sanseverino, giovane provato in arme, adorno di belli costumi,\ngrazioso e di grande aspetto. Costui, come a Dio piacque, innanzi al\ntempo, all\u2019aspetto degli uomini, rend\u00e8 l\u2019anima a Dio, e mor\u00ec nel Regno\nin assenza del padre. Ed essendogli annunziata la morte a Gaeta di\ncotanto caro e diletto figliuolo, il magnanimo ristrinse il dolore\ndentro senza mutare aspetto, e colla molta pazienza, e con abito ornato\ndi grandi virtudi comport\u00f2 la morte del caro figliuolo, dicendo, io era\ncerto che dovea morire, e che credeva che Iddio avesse eletto il tempo\ndi pi\u00f9 salute dell\u2019anima sua. E avendo egli grande devozione al nobile\nmonistero edificato a sua stanza in sul poggio di Montaguto, posto tra\nla Greve e l\u2019Ema, presso alla citt\u00e0 di Firenze, a due miglia, il quale\nsi chiama il monistero di Certosa, quivi mand\u00f2 con grande comitiva e\nspesa a seppellire il corpo del figliuolo. E recato prima a Firenze, e\nfatti gli ornamenti pi\u00f9 che militari, e invitati per i consorti tutti i\nbuoni cittadini, a d\u00ec 7 d\u2019aprile 1353 fu portato alla sepoltura in una\nbara cavalleresca, con due grandi destrieri, l\u2019uno dinanzi e l\u2019altro\ndidietro, coperti di zendado coll\u2019arme degli Acciaiuoli, e la bara\nov\u2019era la cassa col corpo era coperta con fini drappi e baldacchini di\nseta e d\u2019oro, e disopr\u2019essi veluto chermisi fine, e in su i cavalli gli\nscudieri vestiti a nero che guidavano i cavalli con la bara; e innanzi\nalla bara avea sette scudieri in su sette grandi destrieri, tutti\ncoperti infino a terra, innanzi con l\u2019arme d\u2019argento battuto degli\nAcciaiuoli: i due primi catuno portava uno cimiere, il terzo portava lo\nstendale, e gli altri quattro seguenti catuno una grande bandiera tutta\ndi quell\u2019arme con le targhe rilevate nel campo azzurro, e un leone\nrampante bianco com\u2019\u00e8 la detta arme, con grande novero di doppieri\ndinanzi e intorno al corpo, cosa magnifica a ogni barone, eziandio\nse fosse della casa reale. I grandi e orrevoli cittadini di Firenze\naccompagnarono il corpo infino alla porta a san Piero Gattolino; poi\ngran parte montati a cavallo andarono col corpo infino al monistero, e\ngli altri si tornarono a casa. Abbiamo fatta questa memoria perch\u00e8 fu\nnuova e disusata alla nostra citt\u00e0, e magnifica all\u2019autore di quella,\nche pi\u00f9 di cinquemila fiorini d\u2019oro cost\u00f2 la spesa.\nCAP. LXIV.\n_Come si fe\u2019 l\u2019accordo da\u2019 Sanesi a Montepulciano._\nI Sanesi avendo voglia di vincere Montepulciano, essendovi stati ad\nassedio lungamente, vi puosono un gran battifolle molto di presso.\nNella terra avea buone masnade di cavalieri e di masnadieri, i quali\nspesso avrebbono danneggiati i Sanesi, se fossono stati lasciati\nguerreggiare, ma com\u2019\u00e8 detto addietro, essendo l\u2019una parte e l\u2019altra\nguelfi e amici de\u2019 Fiorentini e de\u2019 Perugini, essendo con catuno gli\nambasciadori de\u2019 detti comuni nel campo e nella terra, e bench\u00e8 fosse\nmolto malagevole, infine gli recarono a questa concordia: che la terra\nrimanesse al governamento del popolo, e stesse venti anni nella guardia\ndel comune di Siena, tenendovi un capitano di guardia con quindici\ncavalieri e con venti fanti, avendo in sua signoria una delle porti\ndella terra e una campana, e che i Sanesi dovessono dare contanti,\ninfra certo termine, a messer Niccol\u00f2 de\u2019 Cavalieri per ristoro delle\nspese fatte fiorini seimila, e dovesse stare dieci anni con immunit\u00e0\npersonale e reale in quella sua terra; e a messer Iacopo de\u2019 Cavalieri\nche n\u2019era fuori dovessono dare fiorini tremila d\u2019oro, e riavere le\nrendite de\u2019 suoi beni: per lo quale accordo i due comuni per loro\nsindacato furono mallevadori. E fatto questo, a d\u00ec 2 di maggio del\ndetto anno i Sanesi presono la guardia ordinata, e levarsi da campo;\ne rifornita la terra, allegri, con bella e buona pace si tornarono a\nSiena, grati del beneficio ricevuto da\u2019 due comuni, come l\u2019operazioni\ndi corrotta fede appresso dimostreranno.\nCAP. LXV.\n_D\u2019una notabile grandine venuta in Lombardia, e d\u2019altro._\nA d\u00ec 7 del mese di maggio del detto anno, turbato il tempo con ravvolto\nenfiamento di nuvoli, ristretta la materia umida da\u2019 venti d\u2019ogni\nparte, con disordinato empito sopra la citt\u00e0 e parte del contado di\nCremona ruppe, mandando sopra quella pietre sformate di grandine, la\nquale, cui trov\u00f2 alla scoperta, uomini e femmine, percotendo li uccise,\ne la citt\u00e0 premette s\u00ec forte, che tutte le copriture de\u2019 tetti ruppe\ne macin\u00f2 senza rimedio, con grandissimo danno de\u2019 cittadini. E le\npietre della grandine ch\u2019erano maggiori si trovarono di libbre otto e\nonce tre, e le minori erano d\u2019una libbra di peso. In questo medesimo\ntempo l\u2019arcivescovo di Milano mand\u00f2 per fare redificare le mura e case\ndel Borgo a san Sepolcro, rovinate e guaste per lo tremuoto, trecento\nmaestri. I Borghigiani rimasi in vita erano tutti ricchi sopra modo\nper l\u2019eredit\u00e0 de\u2019 morti, e per gli sconci guadagni delle prede de\u2019\nloro vicini condotte al Borgo, e perch\u00e8 a\u2019 soldati al continovo aveano\nvenduto caro la loro vittuaglia e gli altri arnesi, e per\u00f2, venuti i\nmaestri, cominciarono a edificare le case e\u2019 palagi, e a fare troppo\npi\u00f9 nobili e pi\u00f9 belli abituri che prima non aveano: ma poco poterono\nedificare, che la terra mut\u00f2 stato, come appresso nel suo tempo\nracconteremo.\nCAP. LXVI.\n_Come sotto le triegue procedettono le cose in Francia._\nEssendo alcuno tempo durate le triegue tra il re di Francia e quello\nd\u2019Inghilterra, infra il detto tempo alquante terre in Brettagna\ne alcuna in Guascogna che si teneano per lo re di Francia, per\ningegno e per malizioso sommovimento s\u2019arrecarono dalla parte del\nre d\u2019Inghilterra; per la qual cosa turbato il re di Francia, fece\nbandire la guerra per tutto il suo reame: e a ci\u00f2 lo indusse non meno\ncerti trattati scoperti contro della sua persona, ch\u2019e\u2019 baratti di\nquelle terre. E fatto questo, del mese di maggio del detto anno, il\ncardinale di Bologna, e gli altri prelati e baroni che trattavano la\npace si misono al riparo, e tanto operarono, che triegue si rifeciono\ntra i detti re. E stando le cose di l\u00e0 in successioni di triegue, non\naccaddono in lungo tempo cose notevoli in que\u2019 paesi.\nCAP. LXVII.\n_Come i Genovesi spregiarono la pace de\u2019 Veneziani._\nTornando nostra materia a\u2019 fatti de\u2019 Genovesi e de\u2019 Veneziani, in\nquesto primo tempo del detto anno i Genovesi levarono lo stendale di\nsessanta galee, le quali incontanente cominciarono ad armare, e per\nla compagnia ch\u2019aveano fatta col re d\u2019Ungheria contro a\u2019 Veneziani\nv\u2019aggiunsono l\u2019arme del detto re; e intendeano, che come e\u2019 fossono\ncolla loro armata in mare, che \u2019l detto re avesse in Ischiavonia i\nsuoi Ungheri a fare guerra per terra a\u2019 Veneziani, come avea promesso.\nE certe galee ch\u2019aveano allora in concio d\u2019arme mandarono improvviso\nnel golfo a\u2019 Veneziani, le quali feciono in quello grave danno di\nrubare molti legni che vi trovarono, traendone l\u2019avere sottile, e\nprofondando i legni in mare; e con due loro galee sottili bene armate\nvalicarono san Niccol\u00f2 del Lido, ed entrarono nel canale grande, e\nnella citt\u00e0 saettarono molti verrettoni. E tornandosi addietro, le\ngalee della guardia del golfo ch\u2019erano per novero pi\u00f9 che le genovesi,\npotendosi abboccare con loro, non ebbono ardimento, che la paura del\nre d\u2019Ungheria gl\u2019impacciava forte pi\u00f9 che de\u2019 Genovesi, per tema che\nnon traboccasse loro addosso la sua grande potenza. Le galee genovesi\nnon avendo contasto s\u2019uscirono del golfo, e andarono al loro viaggio,\navendo fatto gran vergogna a\u2019 Veneziani.\nCAP. LXVIII.\n_Come i Veneziani si provvidono._\nIl comune di Vinegia sentendo l\u2019armata de\u2019 Genovesi e le minacce del re\nd\u2019Ungheria, e non volendoli rendere le terre marine della Schiavonia,\nconobbono che la necessit\u00e0 gli strignea a trovar modo di difendersi\nper mare e per terra. E per\u00f2 guernite le loro terre per la difesa, con\ngrande e buona provvisione mandarono solenne ambasciata all\u2019imperadore,\npregandolo che procacciasse in loro servigio che il re d\u2019Ungheria\nnon movesse loro guerra a stanza de\u2019 Genovesi; e un\u2019altra ambasciata\nmandarono in Catalogna al re d\u2019Araona a fare lega e compagnia con lui,\nacciocch\u2019egli armasse con loro contro a\u2019 Genovesi. In catuna parte\nebbono prosperamente loro intenzione: che l\u2019imperadore ritenne a sua\npreghiera il re d\u2019Ungheria dal muovere guerra a\u2019 Veneziani, non senza\nalcuna speranza d\u2019accordo in processo di tempo; e\u2019 Catalani aontati\ndella sconfitta ricevuta co\u2019 Veneziani da\u2019 Genovesi in Costantinopoli,\nlievemente si recarono per animo di vendetta a fare la volont\u00e0 de\u2019\nVeneziani; e di presente misono per opera d\u2019armare trenta galee al\nloro soldo, e venti alle spese del comune di Vinegia, e i Veneziani\nn\u2019armarono altre venti a Vinegia; e catuna parte sollecitava sua armata\nper essere prima in mare; i Genovesi per la vittoria avuta sopra loro\ndispettando e avvilendo i nimici, e\u2019 Catalani e\u2019 Veneziani desiderando\nla vendetta. E apparecchiandosi catuna parte, innanzi al loro\nabboccamento ci occorrono altre cose a raccontare, e per\u00f2 al presente\nsoprastaremo alquanto a questa materia.\nCAP. LXIX.\n_Come fu guasto il castello di Picchiena, e perch\u00e8._\nI signori del castello di Picchiena non ostante che si tenessono in\namist\u00e0 col comune di Firenze, furono principali con gli Ardinghelli a\ncommuovere lo stato di Sangimignano quando furono cacciati i Salvucci,\nessendo la guardia di quella terra nelle mani del comune di Firenze;\ne di questo fallo non feciono scusa n\u00e8 ammenda a\u2019 Fiorentini; e per\u00f2,\nnel detto mese di giugno del detto anno, il comune di Firenze mand\u00f2\nsue masnade co\u2019 maestri e guastatori a Picchiena, e senza contasto\nentrarono nella terra. E acciocch\u00e8 quel castello non fosse pi\u00f9 cagione\ndi fare sommuovere ad alcuna ribellione Sangimignano e Colle, a d\u00ec 20\ndel detto mese feciono abbattere le mura e la rocca, senza far loro\naltro danno.\nCAP. LXX.\n_Come Ruberto d\u2019Avellino fu morto dalla duchessa sua moglie._\nVedendosi la sventurata moglie che fu del duca di Durazzo, Maria\nsirocchia della reina Giovanna di Gerusalemme e di Sicilia, avvilita\nper lo violente matrimonio contratto con Ruberto figliuolo che fu del\nconte d\u2019Avellino della casa del Balzo, il quale dopo la morte del\npadre, come addietro avemo fatta menzione, era rimaso prigione del re\nLuigi; la donna, non tenendosi vedova n\u00e8 maritata, pens\u00f2 che per la\nmorte di costui tornerebbe a certa veduit\u00e0, e potrebbesi maritare. E\nassai apparve chiaro che a questo consent\u00ec il re e la reina; perocch\u00e8\nessendo Ruberto detto in prigione altrove, fu menato nel castello\ndell\u2019abitazione reale, e collocato in una camera con certe guardie:\ne valicati alquanti d\u00ec, il re e la reina feciono apparecchiare e\nandarono a desinare e a cena agli scogli di mare, cosa nuova e\ndisusata alla corona; e in questo d\u00ec la detta duchessa Maria rimasa\nnel castello prese quattro sergenti armati, e andossene alla camera\ndov\u2019era il marito, e chiamatolo traditore del sangue reale, senza\nmisericordia in sua presenza il fece uccidere; e fattagli tagliare la\ntesta dall\u2019imbusto, non affatto, fece traboccare dal castello in su la\nmarina lo scellerato corpo, condotto a questo per lo malvagio pensiero\ndel suo prosuntuoso padre. Il re e la reina tornati a Napoli si\nmostrarono turbati molto di questo fatto, usando parole che s\u2019ella non\nfosse femmina ne farebbono alta vendetta: e il corpo che giacea senza\nsepoltura feciono sotterrare; e la donna rimase vedova di due mariti\ntagliati a ghiado in piccolo travalicamento di tempo.\nCAP. LXXI.\n_Come furono cacciati i ghibellini del Borgo._\nAll\u2019entrante del mese di luglio del detto anno, i guelfi del Borgo a\nsan Sepolcro vedendosi sottoposti a quelli della casa de\u2019 Bogognani,\ncaporali ghibellini e traditori di quella terra, la quale aveano\nsottoposta all\u2019arcivescovo di Milano per trattato di messer Piero\nSacconi, e per i patti della pace era rimasa libera sotto il dominio\nde Bogognani, e non potendosi atare co\u2019 Fiorentini e\u2019 Perugini per non\nfare contro a\u2019 patti della pace, s\u2019accostarono con Nieri da Faggiuola\nloro vicino e terrazzano del Borgo, non ostante che fosse ghibellino,\nperocch\u00e8 si discordava co\u2019 Tarlati d\u2019Arezzo e co\u2019 Bogognani; il quale\navendo fatta sua ragunata, i guelfi del Borgo levarono il romore, e\nNieri trasse colla sua gente, e messo nella terra, ne cacciarono i\nBogognani e tutti i ghibellini di loro seguito, e rubarono le case\ndegli usciti; e appresso riformarono la terra a comune reggimento\ndi guelfi e di ghibellini, com\u2019era loro usanza, ritenendo Nieri da\nFaggiuola per alcuno tempo per loro capitano con certa limitata bal\u00eca,\nil quale poi ne trassono, come innanzi si potr\u00e0 trovare.\nCAP. LXXII.\n_Di quattro leoni di macigno posti al palagio de\u2019 priori._\nEssendo in questo tempo un uficio di priorato in Firenze, avendo\npoco ad attendere ad altre cose per la quiete della pace, feciono\nfare quattro leoni di macigno, e fecionli dorare con gran costo, e\nfecionli porre in su\u2019 quattro canti del palagio del popolo di Firenze,\na ciascuno canto uno. E per fare questo per certa vanagloria al loro\ntempo, lasciarono di farli scolpiti, e fusi di rame e dorati, che\ncostavano poco pi\u00f9 che quelli del macigno, ed erano belli e duranti per\nlunghi secoli; ma le piccole cose e le grandi continovo si guastano\nnella nostra citt\u00e0 per le spezialit\u00e0 de\u2019 cittadini.\nCAP. LXXIII.\n_Come Sangimignano fu recato a contado di Firenze._\nAvvegnach\u00e8 per operazione de\u2019 Fiorentini la terra di Sangimignano\nfosse riformata in pace, e che dentro vi fossono gli Ardinghelli e\u2019\nSalvucci pacificati insieme, nondimeno nell\u2019interiore dentro era tra\nloro radicata mala volont\u00e0; e non sapeano conversare insieme, e teneano\nintenebrata tutta la terra. I Salvucci vedendo arse e rovinate le\nloro nobili possessioni non si poteano dare pace, e gli Ardinghelli\nper l\u2019offesa fatta stavano in paura e non si fidavano non ostante la\npace, e il seguito ch\u2019aveano avuto da\u2019 terrazzani a cacciare i Salvucci\nnon rispondea loro in questo nuovo reggimento come prima. Per queste\ndissensioni i popolani della terra conoscendo il loro male stato, e\nnon trovando rimedio tra loro, stavano sospesi e in mala disposizione;\ne vedendo gli Ardinghelli il popolo commosso, e che per loro non si\npotea mettere alcuno consiglio che i Salvucci non si mettessono al\ncontradio, furono consigliati di confortare il popolo, innanzi ch\u2019altri\nil movesse prima di loro, di darsi liberi al comune di Firenze. E\nquesto potea essere loro scampo, perocch\u2019erano pochi e poveri a petto\nde\u2019 loro avversari, ch\u2019erano assai e ricchi, e conoscendo il popolo, e\nvedendolo disposto a volere uscire de\u2019 pericoli, ove le discordie de\u2019\nloro maggiori gli conducea, fu agevole a muovere, e del mese di luglio\n1353 feciono parlamento generale, nel quale deliberarono con molta\nconcordia di mettersi liberamente nella guardia del comune di Firenze.\nI Salvucci si misono con loro amici a operare co\u2019 cittadini di Firenze\nloro amici che il comune non li prendesse, dicendo, che questa era\noperazione di setta e non volont\u00e0 del comune; ed ebbono tanto podere,\nche il comune non li volle prendere, dicendo, che volea l\u2019amore e la\nbuona volont\u00e0 di tutto il comune, e non la signoria di quella terra\nin divisione del popolo; per la qual cosa il popolo commosso, d\u2019ogni\nfamiglia mandarono a Firenze pi\u00f9 di dugentocinquanta loro terrazzani di\nmaggiore stato e autorit\u00e0, i quali s\u2019appresentarono dinanzi a\u2019 signori\npriori dicendo, come la deliberazione del loro comune era vera, e non\nviolenta n\u00e8 mossa per alcuno ordine di setta, ma di comune movimento e\nvolont\u00e0 di tutto il popolo, conoscendo non potere vivere sicuri se non\nsotto la giurisdizione libera e protezione del comune di Firenze, e con\nviva voce gridarono, e pregarono il comune di Firenze, che ricevere\nli volesse al loro contado, e se questo non facesse, quel comune era\nper disfarsi e distruggersi senza alcuno rimedio, in poco onore del\ncomune di Firenze che l\u2019avea a guardia. In fine i signori ne feciono\nproposta al consiglio del popolo, e tanto favore ebbono i Salvucci,\nche si metteano al contrario delle preghiere de\u2019 loro amici da Firenze\nfatte a\u2019 consiglieri, e del popolo, che quello che catuno doveva\ndesiderare per grande e onorevole accrescimento della sua patria,\navendo molti contrari al segreto squittino, si vinse solo per una fava\nnera; vergognomi averlo scritto, con tanto vitupero de\u2019 miei cittadini.\nVinto il partito, la terra del nobile castello di Sangimignano, e suo\ncontado e distretto, fu recato a contado del comune di Firenze, e\ndatogli l\u2019estimo come agli altri contadini, e tutti i suoi cittadini e\nterrazzani furono fatti cittadini e popolani di Firenze a d\u00ec 7 d\u2019Agosto\ndel detto anno; e ne\u2019 registri del comune furono notate le cautele e le\nsommissioni dette; e carta ne fece ser Piero di ser Grifo, notaio delle\nriformagioni del detto comune.\nCAP. LXXIV.\n_D\u2019un segno apparve in cielo._\nA d\u00ec 11 del mese d\u2019agosto, tramonto il sole nella prima ora, si\nmosse da mezzo il cielo fuori del zodiaco un vapore grande infocato\nsfavillante, il quale scorse per diritto di levante in ponente,\nlasciandosi dietro un vapore cenerognolo traendo allo stagneo,\nsteso per tutto il corpo suo, e dur\u00f2 nell\u2019aria valicato il fuoco\nlungamente; e poi cominci\u00f2 a raccogliersi a onde a modo d\u2019una serpe;\ne il capo grosso stette fermo ove il vapore mosse, simigliante a capo\nserpentino, e il collo digradava sottile, e nel ventre ingrossava,\ne poi assottigliava digradando con ragione infino alla punta della\ncoda: e per lunga vista si dimostr\u00f2 in propria figura di serpe, e poi\ncominci\u00f2 a invanire dalla coda e dal collo, e ultimamente il corpo e \u2019l\ncapo venne meno, dando di se disusata vista a molti popoli. Altro non\nne sapemmo di sua influenza scernere che diminuzioni d\u2019acque, perocch\u00e8\nquattro mesi interi stette appresso senza piovere.\nCAP. LXXV.\n_Come fu assediata Argenta._\nEssendo Francesco de\u2019 marchesi da Este ribellato al marchese\nAldobrandino signore di Ferrara e di Modena, figliuolo del marchese\nObizzo; questo marchese Obizzo avea acquistato suo figliuolo\nAldobrandino d\u2019amore, avendo per moglie la figliuola di Romeo de\u2019\nPeppoli di Bologna, della quale non ebbe figliuolo, e morta la detta\ndonna, il marchese fece legittimare questo suo figliuolo, e la madre\nsi prese per moglie. E venendo a morte, lasci\u00f2 la signoria di Ferrara\ne di Modena a questo suo figliuolo Aldobrandino, essendo d\u2019illegittimo\nmatrimonio. Il marchese Francesco figliuolo del marchese Bertoldo,\na cui parea che di ragione s\u2019appartenesse la signoria, per la qual\ncosa temette che \u2019l marchese Aldobrandino per tema della signoria nol\nfacesse morire, e per\u00f2 si parti di Ferrara; ed essendo rubello, tratt\u00f2\ncon Galeazzo de\u2019 Medici da Ferrara, ch\u2019era potente, e del segreto\nconsigli\u00f2 del marchese Aldobrandino, e con altri cittadini di Ferrara,\ne per consiglio di costoro, per avere braccio forte, s\u2019accost\u00f2 con\nmesser Malatesta da Rimini. E del mese d\u2019agosto del detto anno messer\nMalatesta in persona, e il detto marchese Francesco, con cinquecento\ncavalieri e quattromila pedoni valicarono per le terre del signore di\nRavenna con sua volont\u00e0, e improvviso furono ad Argenta. E stati quivi\nquattro d\u00ec, attendendo risposta da coloro con cui teneano il trattato\nin Ferrara, e avuto da loro come quello ch\u2019essi credevano poter fare\nnon vedeano venisse loro fatto, per\u00f2 sanza soprastare o fare alcuno\ndanno di presente se ne partirono, dando voce che il signore di Ravenna\navea chiuso il passo alla vittuaglia. E Galeazzo e altri che teneano al\ntrattato uscirono di Ferrara, e andaronsene al gran Cane di Verona,\nCAP. LXXVI.\n_Come si temette in Toscana di carestia._\nNon \u00e8 da lasciare in silenzio quello ch\u2019avvenne in Toscana in sulla\nricolta, che nel contado e distretto di Firenze e d\u2019Arezzo, e nelle pi\u00f9\ncontrade, fu assai ubertosa ricolta, in quello di Siena e di Ravenna fu\nmagra; e nondimeno sotto la vetta valse per tutto soldi quarantadue,\ne poi mont\u00f2 in soldi cinquanta lo staio fiorentino, di lire tre soldi\notto il fiorino dell\u2019oro. Temendo il comune di disordinata carestia\nmand\u00f2 in Turchia, e in Provenza e in Borgogna a comperare grano, e\nmolti mercati fece co\u2019 mercatanti, che promisono di recarne di Calavria\ne d\u2019altre parti del mondo, costando lo staio posto in Firenze l\u2019uno\nper l\u2019altro da soldi cinquanta in sessanta di piccioli: e se fosse\nvenuto, come si pensava, perdea il comune di Firenze pi\u00f9 di centomila\nfiorini d\u2019oro, perocch\u00e9 \u2019l popolo mobolato, per paura della carestia\npassata poco dinanzi, si fornia a calca, e feciono montare il grano\nnella ricolta, e ristrignere i granai a chi n\u2019avea conserva. Ma\nsentendosi la grande quantit\u00e0 che \u2019l comune n\u2019avea procurata d\u2019avere\ncatuno temette di tenerlo, e apersono l\u2019endiche di marzo e d\u2019aprile\ndel detto anno, e davano il buono grano a soldi venticinque lo staio.\nE venendone al comune dodicimila staia di Provenza venuto di Borgogna,\nil volle spacciare a soldi venti lo staio, ed essendo buono grano non\nsi pot\u00e8 stribuire; e perdenne il comune fiorini trentamila d\u2019oro, i\nquali invest\u00ec male all\u2019ingrato popolo: l\u2019altro che doveva venire di\nTurchia e le compere fatte, come a Dio piacque, non ebbono effetto per\ndiversi accidenti. Abbianne fatta memoria per ammaestramento di coloro\nc\u2019hanno a venire, perocch\u00e8 in cotali casi occorrono diversi gravi\naccidenti, e spesso contradi l\u2019uno all\u2019altro. Le grandi compere in\ncos\u00ec fatta carestia fanno pericolo di disordinata perdita, e certezza\nnon si pu\u00f2 avere di grano che di pelago si aspetta; ma utilissima cosa\n\u00e8 dare larga speranza al popolo, che si fa con essa aprire i serrati\ngranai de\u2019 cittadini, e non con violenza, che la violenza fa il serrato\noccultare, e la carestia tornare in fame; e di questo per esperienza\npi\u00f9 volte occorsa nella nostra citt\u00e0 in cinquantacinque anni di nostra\nricordanza possiamo fare vera fede.\nCAP. LXXVII.\n_Come in Messina fu morto il conte Mazzeo de\u2019 Palizzi a furore, e la\nmoglie e due figliuoli._\nLasciando alla testimonianza del consumato regno dell\u2019isola di\nCicilia molti micidii, incendii, violenze e prede avvenuti in quello\nper sette e invidia del reggimento, mancando per debolezza d\u2019et\u00e0 la\nsignoria reale, diremo quello che in questo tempo, del mese d\u2019agosto\ndel detto anno, pi\u00f9 notabile avvenne. Essendo il conte Mazzeo de\u2019\nPalizzi di Messina capo di setta degl\u2019Italiani di Cicilia, contradio\na quella de\u2019 Catalani, per sua grandezza governava il giovane e poco\nvirtuoso figliuolo di don Petro re di Cicilia, il quale per retaggio\ndoveva essere re, e tutta la corte reggeva a contrario de\u2019 Catalani e\ndella loro parte per modo pi\u00f9 tirannesco che reale; essendo l\u2019izza e\nl\u2019invidia parziale cresciuta mortalmente, alla corte mancava l\u2019entrata,\ne a\u2019 paesani la rendita e le ricchezze, e la guerra del diviso regno\nrichiedeva aiuto di moneta; e non essendovi l\u2019entrata, il detto conte\nMazzeo gravava i Messinesi e gli altri sudditi moltiplicando gravezze\nsopra gravezze. I cittadini si doleano, e vedendosi pure gravare,\nnegavano e fuggivano il pagamento, e odiavano chi guidava il fatto;\nil conte infocando contro a\u2019 sudditi la sua stracotata superbia, fece\ndecreto, che chi non pagasse fosse bandito, e dicea, che chi non volea\npagare, o non poteva, ch\u2019egli era della setta de\u2019 Catalani; e per\nquesto modo abbattea la sua parte, e crescea quella degli avversari.\nAvvenne che il popolo di Messina s\u2019accost\u00f2 col conte Arrigo Rosso e\ncol conte Simone di Chiaramente, amendue della setta de\u2019 Palizzi,\nma portavano invidia al conte Mazzeo perch\u2019avea troppo usurpata la\nsignoria, e sotto titolo di dire che voleano pace, mossono il lieve\npopolo a gridare pace: e levato il romore, con furore corsono al\npalagio del re ov\u2019abitava il conte Mazzeo: e trovandolo nella sala col\ngiovane duca, in sua presenza uccisono lui, e la moglie e due suoi\nfigliuoli, lasciando il duca con gran paura e tremore, e legati i\ncapestri al collo de\u2019 morti li tranarono per la terra vituperosamente,\ne poi li arsono, e la polvere gittarono al vento. E in questi medesimi\nd\u00ec quelli di Sciacca feciono il simigliante a\u2019 loro maggiori della\nsetta del conte Mazzeo predetto. Il duca, bench\u00e8 fosse sicurato dal\npopolo, per la concetta paura prese suo tempo e andossene a Catania,\naccostandosi alla setta de\u2019 Catalani. Questo repentino caso di cotanto\npolente usurpatore della repubblica \u00e8 da notare, per esempio di coloro\ni quali colla destra della fallace fortuna in futuro monteranno a\nsomiglianti gradi, di non essere ignoranti de\u2019 nascosi aguati che\nnell\u2019invidia e ne\u2019 furori de\u2019 non fermi stati si racchiudono.\nCAP. LXXVIII.\n_Come fu creato nuovo tribuno in Roma._\nEgli \u00e8 da dolersi per coloro c\u2019hanno udito e inteso le magnifiche\ncose che far solea il popolo di Roma, con le virt\u00f9 de\u2019 loro nobili\nprincipi, in tempo di pace e di guerra, le quali erano specchio e luce\nchiarissima a tutto l\u2019universo, vedendo a\u2019 nostri tempi a tanta vilezza\ncondotto il detto popolo e\u2019 loro maggiori, che le novit\u00e0 che occorrono\nin quell\u2019antica madre e donna del mondo non paiono degne di memoria\nper i lievi e vili movimenti di quella, tuttavia per antica reverenza\ndi quel nome non perdoneremo ora alla nostra penna. Essendo il popolo\nromano ingrassato dell\u2019albergherie de\u2019 romei, e fatto e disfatto in\nbreve tempo l\u2019uficio de\u2019 loro rettori, i loro principi cominciarono\na tencionare del senato, e il popolo lieve e dimestico al giogo,\ndimenticata l\u2019antica franchigia, seguitava la loro divisione. Faceva\nparte ovvero setta Luca Savelli con parte degli Orsini e co\u2019 Colonnesi,\ne gli altri Orsini erano in contradio: e per questo vennero all\u2019arme, e\nabbarrarono la citt\u00e0, e combatteronsi alle barre tutto il mese d\u2019agosto\ndel detto anno. In fine il popolo abbandon\u00f2 d\u2019ogni parte la gara de\u2019\nloro principi, e fece tribuno del popolo lo Schiavo Baroncelli, il\nquale era scribasenato, cio\u00e8 notaio del senatore, uomo di piccola e\nvile nazione, e di poca scienza. Tuttavia, perch\u2019egli non conosceva\nmolto i Romani e i vizi loro, cominci\u00f2 con umilt\u00e0 a recare ad alcuno\nordine il reggimento al modo de\u2019 comuni di Toscana; e per partecipare\nil consiglio de\u2019 popolani, per segreto squittino elesse e insacc\u00f2 assai\nbuoni uomini cittadini romani di popolo per suoi consiglieri, de\u2019 quali\nogni capo di due mesi traeva otto, e con loro deliberava le faccende\ndel comune; e fece camarlinghi dell\u2019entrata del comune, e cominci\u00f2 a\nfare giustizia, e levare i popolani del seguito de\u2019 grandi, e molto\nperseguitava i malfattori: sicch\u00e8 alcuno sentimento di franchigia\ncominci\u00f2 a gustare quel popolo, la quale poi crebbe a maggiori cose,\ncome innanzi al suo tempo racconteremo.\nCAP. LXXIX.\n_Come furono sconfitti in mare i Genovesi alla Loiera._\nEssendo venuto il tempo che la furiosa superbia de\u2019 Genovesi per far\nguerra a\u2019 Veneziani e Catalani avea da catuna parte apparecchiate in\nmare le loro forze, del mese d\u2019agosto del detto anno i Genovesi si\ntrovarono con sessanta galee armate, avendo per loro ammiraglio messer\nAntonio Grimaldi, nella quale erano tratti di tutte le famiglie la\nmet\u00e0 de\u2019 pi\u00f9 chiari e nobili cittadini di Genova e della Riviera, il\nquale ammiraglio si trasse con l\u2019armata a Portoveneri, per non lasciare\nmettere scambio a\u2019 cittadini che \u2019l procacciavano, dicendo, che col\nloro aiuto e consiglio sperava d\u2019avere la vittoria de\u2019 loro nimici,\ne aspettava lingua di loro sollecitamente. I Catalani aveano armate\ntrenta galee tra sottili e grosse e uscieri, e venti galee alle spese\nde\u2019 Veneziani, con cinquanta galee e tre grandi cocche incastellate, e\narmate di quattrocento combattitori per cocca, avendo caricati cavalli\ne cavalieri assai per porli in Sardegna, del detto mese d\u2019agosto si\npartirono di Catalogna, facendo con prospero tempo la via di Sardegna,\nove con l\u2019armata de\u2019 Veneziani si doveano raccozzare. E i Veneziani in\nquesti medesimi d\u00ec con venti galee armate di buona gente si dirizzarono\nalla Sardegna. I Genovesi avuta lingua che catuna armata era in pelago,\navvisarono d\u2019abboccarsi con l\u2019una armata innanzi che insieme si\ncongiugnessono. E perocch\u00e8 le sessanta loro galee non erano pienamente\narmate, lasciarono otto corpi delle sessanta, e delle ciurme e de\u2019\nsoprassaglienti fornirono ottimamente le cinquantadue, e con quelle\nsenza arresto, atandosi con le vele e co\u2019 remi, con grande baldanza\nsi dirizzarono alla Sardegna. Ed essendo giunti presso alla Loiera,\nebbono lingua che l\u2019armate de\u2019 loro nimici s\u2019erano raccozzate insieme;\ne passato ch\u2019ebbono una punta scopersono l\u2019armata de\u2019 Veneziani e de\u2019\nCatalani, i quali s\u2019erano ristretti insieme, e le sottili galee aveano\nnascose dietro alle grosse per mostrarsi meno che non erano a\u2019 loro\nnimici, e ancora s\u2019incatenarono e stavano ferme senza farsi incontro\na\u2019 Genovesi, mostrando avvisatamente paura, acciocch\u00e8 traessono a loro\nla baldanza de\u2019 Genovesi con loro vantaggio. I Genovesi non ostante\nch\u2019avessono perduta la speranza di non aver trovate l\u2019armate partite, e\ningannati dalla vista, che pareva loro che le galee de\u2019 loro avversari\nfossono meno che non erano, e poco pi\u00f9 che le loro, baldanzosi della\nfresca vittoria avuta sopra i detti loro nimici in Romania, si misono\nad andare contro a loro vigorosamente. E valicata certa punta di mare,\nsi trovarono sopra la Loiera s\u00ec presso a\u2019 loro nimici, ch\u2019elli scorsono\nch\u2019elli erano troppo pi\u00f9 ch\u2019elli non estimavano, e vidongli acconci\ne ordinati alla battaglia, e che presso di loro aveano le tre cocche\nincastellate e armate di molta gente da combattere; per la qual cosa\nl\u2019animo si cambi\u00f2 a\u2019 Genovesi, e la furia prese freno di temperanza,\ne vorrebbono non essere s\u00ec presso a\u2019 loro nimici, e tra loro ebbono\nripitio di non savia condotta: tuttavia presono cuore e franchezza\ndi mettersi alla battaglia, sentendosi l\u2019aiuto del vento in poppa, e\nalquanto contrario a\u2019 loro avversari, conoscendo che l\u2019aiuto delle\ncocche non poteano avere durando quel vento, tuttavia pi\u00f9 per temenza\nche per franchezza legarono e incatenarono la loro armata, lasciando\nd\u2019ogni banda quattro galee sottili, libere d\u2019assalire e da sovvenire\nall\u2019altre secondo il bisogno. I Veneziani e\u2019 Catalani avendo a petto i\nloro nimici, trassono della loro armata sedici galee sottili, e misonne\notto libere da catuna parte della loro armata, la quale aveano ordinata\ne incatenata per essere pi\u00f9 interi alla battaglia, ricordandosi che\nl\u2019essersi sparti in Romania gli avea fatti sconfiggere; e cos\u00ec ordinati\nl\u2019una gente e l\u2019altra con lento passo si veniano appressando, e le\nlibere galee cominciarono l\u2019assalto molto lentamente, che catuno stava\na riguardo per attendere suo vantaggio; e nonostante che i Veneziani\ne\u2019 Catalani fossono molti pi\u00f9 che i Genovesi, tanto gli ridottavano,\nche non s\u2019ardivano ad afferrare con loro: \u00e8 vero che il vento alquanto\ngli noiava, pi\u00f9 per non potere avere l\u2019aiuto delle loro cocche, che per\naltro, e per\u00f2 soprastavano. Dall\u2019altra parte i Genovesi gi\u00e0 impediti\nper lo soperchio de\u2019 loro nimici non s\u2019ardivano a strignersi alla\nbattaglia, e cos\u00ec consumarono il giorno dalla mezza terza alla mezza\nnona, con lieve badalucco delle loro libere galee. I Genovesi vedendo\nche i loro nimici pi\u00f9 potenti non li ardivano ad assalire, presono\npi\u00f9 baldanza, e metteronsi in ordine d\u2019andarli ad assalire con pi\u00f9\naspra battaglia. Ma colui che \u00e8 rettore degli eserciti, avendo per\nlungo tempo sostenuta la sfrenata ambizione de\u2019 Genovesi, per lieve\nspiramento di piccolo vento abbatt\u00e8 la loro superbia; che stando catuna\nparte alla lieve battaglia si lev\u00f2 un vento di verso scilocco, il quale\nempi\u00e8 le vele delle tre cocche. I Catalani animosi contro a\u2019 Genovesi,\nvedendosi atare dal vento, apparecchiate loro lance, e dardi e pietre,\ncon ismisurato romore, levate l\u2019ancore del mare, con tutte e tre le\ncocche si dirizzarono contro all\u2019armata de\u2019 Genovesi, e con l\u2019impeto\ndel corpo delle cocche s\u00ec fedirono nelle galee de\u2019 Genovesi, e nella\nprima percossa ne misono tre in fondo, e seguendo innanzi, alcuna\naltra ne ruppono: e di sopra gittavano con tanta rabbia pietre lance e\ndardi sopra i loro nimici, che parea come la sformata grandine pinta\nda spodestata fortuna d\u2019impetuosi venti, e molti Genovesi n\u2019uccisono\nin quel subito assalto, e annegaronne assai, e pi\u00f9 ne fedirono e\nmagagnarono. L\u2019armata de\u2019 Veneziani e Catalani vedendosi fatta la via\na\u2019 loro navilii, con pi\u00f9 ardire si misono innanzi strignendosi alla\nbattaglia. I Genovesi, uomini virtuosi e di grande cuore, sostennono\nfrancamente il grave assalto delle cocche, atandosi con l\u2019arme e con le\nbalestra, magagnando molti de\u2019 loro nemici, e alle galee rispondeano\ncon s\u00ec ardita e folta battaglia, che per vantaggio ch\u2019e\u2019 loro nimici\navessono non poteano sperare vittoria. Ma l\u2019ammiraglio de\u2019 Genovesi\ninvilito nell\u2019animo suo di questo primo assalto, fece vista di\nvolere ricoverare la vittoria per maestria di guerra; e sollevata la\nbattaglia, in fretta fece sciogliere undici galee della sua armata,\ne con quelle aggiunse l\u2019otto sottili ch\u2019erano libere dalle latora\ndell\u2019armata, e diede voce di volere volgere e girare dalle reni de\u2019\nnimici: e per questa novit\u00e0 i Veneziani e\u2019 Catalani ebbono paura, e\nsollevarono la battaglia, e stettono in riguardo, per vedere quello\nche le dette galee volessono fare. Ma l\u2019ammiraglio abbandonata la\nbattaglia, e lasciate l\u2019altre galee insieme alla fronte de\u2019 nimici,\nfece la via di Genova senza tornare all\u2019oste, e gi\u00e0 si cominciava a\ntardare il giorno. Vedendo i Veneziani e\u2019 Catalani che l\u2019ammiraglio\nde\u2019 Genovesi non avea girato sopra loro, ma era al disteso fuggito\ncon diciannove galee, con certezza di loro vittoria vennono sopra i\nGenovesi; i quali vedendosi abbandonati dal loro ammiraglio, senza\nresistenza chi non pot\u00e8 fuggire si renderono prigioni. Cos\u00ec i Veneziani\ne\u2019 Catalani senza spandimento di loro sangue ebbono de\u2019 Genovesi piena\nvittoria: ed ebbono trenta corpi di galee e pi\u00f9 di tremilacinquecento\nprigioni, fra i quali furono molti nominati grandi e buoni cittadini\ndi Genova. E morti ne furono e annegati con le ciurme pi\u00f9 di duemila.\nLa detta sventurata battaglia per i Genovesi fu il d\u00ec di san Giovanni\ndicollato, a d\u00ec 29 d\u2019agosto del detto anno.\nCAP. LXXX.\n_Come i Catalani perderono loro terre in Sardegna._\nCon piccolo travalicamento di tempo sosterremo alquanto l\u2019altre cose,\nraccogliendo i fatti che nell\u2019isola di Sardegna avvennono dopo la detta\nvittoria. I Catalani e\u2019 Veneziani con la loro armata, e con le tre\ncocche, e con le galee prese de\u2019 Genovesi e co\u2019 prigioni arrivarono in\nSardegna, e nella loro giunta avendo messo in terra i loro cavalieri,\ne gli altri soprassaglienti, e molti delle ciurme, il castello della\nLoiera, e \u2019l castello Lione, e il castello Genovese, e Sasseri e pi\u00f9\naltre terre che teneano i Genovesi s\u2019arrenderono a\u2019 Catalani. Avendo\nsenza fatica fatto l\u2019acquisto delle dette castella, aggiunte alla\nloro vittoria, pensarono d\u2019acquistare tutto il rimanente dell\u2019isola\nche si possedea per lo giudice d\u2019Alborea, e con pi\u00f9 baldanzosa che\nprovveduta volont\u00e0, o buon ordine, se n\u2019andarono verso Arestano, non\npensando trovarvi resistenza. Ma il giudice con molta gente d\u2019arme e\ncon molti Sardi, i quali aveva accolti per difendere le sue terre,\nvenne loro incontro del mese di settembre, e abboccatosi con loro,\nvennono alla battaglia, e furono sconfitti i Catalani; de\u2019 quali tra\nnella battaglia e nella fuga rimasono morti pi\u00f9 di millecinquecento\nCatalani. E per questa sconfitta, e per la mala guardia che delle terre\nnuovamente acquistate faceano, e per l\u2019aspra signoria ch\u2019usavano a\u2019\npaesani tutte si rubellarono, e ancora l\u2019altre che prima vi teneano,\nsicch\u00e8 tutto perderono, fuori che castello di Castro detto Caglieri:\ne volendole racquistare per forza, feciono maggiore oste, e un\u2019altra\nvolta s\u2019abboccarono co\u2019 Sardi e col giudice d\u2019Alborea; e dopo lunga\nbattaglia, i Catalani ritennono il campo e i Sardi l\u2019abbandonarono, con\npochi pi\u00f9 morti di loro che de\u2019 loro nimici. Onde i Catalani ebbono\npoco lieta vittoria, lasciando morti in questa seconda battaglia\ncinquecento combattitori, bench\u00e8 pi\u00f9 ne fossono morti de\u2019 Sardi, e\nper\u00f2 non racquistarono alcuna terra: e dopo lunga dimora, del mese di\nnovembre, avendo perduti assai de\u2019 loro prigioni genovesi ch\u2019erano\naccomandati nella Loiera, si partirono dell\u2019isola, andandosene i\nCatalani in Catalogna, e i Veneziani a Vinegia a salvamento, vinti i\nGenovesi loro nimici, e abbassata con piena vittoria la loro superbia.\nCAP. LXXXI.\n_Come il prefetto venne a oste a Todi._\nIn questo tempo, la Chiesa di Roma per racquistare il Patrimonio\noccupato dal prefetto da Vico avea tenuto gente d\u2019arme a Montefiascone\nguerreggiando il prefetto; e in questa guerra fra Moriale di Provenza,\ngrande guerriere e nomato soldato, con sue masnade avea servito la\nChiesa lungamente, senza potere avere l\u2019intero pagamento de\u2019 suoi\nsoldi, e per\u00f2 s\u2019accost\u00f2 col prefetto, e and\u00f2 dalla sua parte con\nquattrocento cavalieri. E vedendosi il prefetto sicuro dalla forza\ndella Chiesa, avendo in sua compagnia i Chiaravallesi usciti di Todi,\ncon fra Moriale e con altre sue genti d\u2019arme di subito e improvviso se\nne venne a Todi, e con lui i Chiaravallesi, i quali si sentivano tanti\nparenti e amici nella citt\u00e0, che si credeano, come fossono con forte\nbraccio ivi presso, che li vi rimetterebbono dentro o per ingegno o\nper forza: ma trovaronsi ingannati, perocch\u00e8 i cittadini temendo della\ntirannia del prefetto e de\u2019 loro cittadini si misono alla difesa, e il\nprefetto e i Chiaravallesi ad assedio. Ma avendo i Todini aiuto da\u2019\nPerugini e dal comune di Firenze, che catuno vi mand\u00f2 gente d\u2019arme, il\nprefetto perd\u00e8 la speranza d\u2019entrare nella terra; e statovi a campo di\nsettembre e d\u2019ottobre, e dato il guasto intorno alla citt\u00e0, si part\u00ec\ndall\u2019assedio con suo poco onore.\nCAP. LXXXII.\n_Come fu presa e lasciata Vicorata._\nDi questo mese di settembre del detto anno, il conte Guido da\nBattifolle avendo accolta gente de\u2019 suoi fedeli e del conte Ruberto,\nsentendo che Andrea di Filippozzo de\u2019 Bardi signore del contado del\nPozzo e di Vicorata era in bando del comune di Firenze per malificio,\ntenendosi gravato da lui, improvviso di mezza notte venne a Vicorata,\ne con alcuno trattato il d\u00ec seguente entr\u00f2 in Vicorata, ed ebbe tutto\nil procinto, e rinchiuso Andrea e alcuni de\u2019 fratelli nella torre, alla\nquale accostato il conte suoi dificii la faceva tagliare. Il comune\ndi Firenze sentendo i suoi cittadini a quello pericolo, non ostante\nche fossono in bando, di presente mandarono comandando al conte Guido\nche lasciasse quell\u2019impresa. Il quale udito il comandamento de\u2019 priori\ndi Firenze, essendo egli medesimo anco in bando del detto comune per\nsimile modo, di presente fu ubbidiente, e non lasciando alcuna cosa\ntorre o rubare se ne part\u00ec, e tornossi nel suo contado. La clemenza\ndel nostro comune poco appresso fece l\u2019una parte e l\u2019altra venire a\nFirenze, e fatto fare pace tra loro, catuno per grazia trasse di bando.\nCAP. LXXXIII.\n_Come il conte di Caserta si rubell\u00f2 dal re Luigi._\nIl re Luigi di Gerusalemme e di Sicilia, in questo anno, il d\u00ec della\nPentecoste, avea fatta solenne festa co\u2019 suoi baroni per l\u2019annuale\nrinnovellamento di sua coronazione. E in quella festa ordin\u00f2 cosa\nnuova e disusata alla corona, ch\u2019egli elesse sessanta tra baroni e\ncavalieri, i quali giurarono fede e compagnia insieme col detto re,\nsotto certo ordine di loro vita, e di loro usaggi e vestimenti: e fatto\nil giuramento, si vestirono d\u2019una cottardita e d\u2019un\u2019assisa e d\u2019un\ncolore tutti quanti, portando nel petto un nodo di Salomone, e chi ebbe\nl\u2019animo vano pi\u00f9 magnific\u00f2 la cottardita e il nodo d\u2019oro e d\u2019argento, e\ndi pietre preziose di grande costo e di grande apparenza; e fu chiamata\nla compagnia del nodo. Il Prenze di Taranto fratello del re non v\u2019era,\nma sopravvenne, e il re gli aveva fatta fare la cottardita reale, con\nun nodo di perle grosse di gran valuta, e mandogliele all\u2019ostello: il\nPrenze non la volle vestire, dicendo che \u2019l nodo del fraternale amore\nportava nel cuore, e donolla a suo cavaliere, la qual cosa il re non\nebbe a grado. In questo tempo il duca d\u2019Atene avea messo grande odio\ntra il Prenze di Taranto e \u2019l conte di Caserta, figliuolo che fu di\nmesser Dego della Ratta Catalano conte camarlingo: e per questo amando\nil re il detto conte, e avendolo trovato leale e fedele, a instigamento\ndel Prenze convenne che il re contra sua voglia il sbandeggiasse. Il\nconte si ridusse a Caserta, e tenea il Sesto e Tuliverno, e il Prenze\ncol duca d\u2019Atene gli and\u00f2 addosso con cento cavalieri, e in persona\nvi venne il re con trecento e con assai popolo, volendo compiacere\nal fratello. E un d\u00ec stando il re nel castello di Matalona sopra lo\nsporto che chiamavano Gheffo, la sua gente presono un Unghero soldato\ndel detto conte, e con tanta maraviglia il condussono al re, ch\u2019ogni\ngente gli traeva dietro come s\u2019elli avessono preso il re degli Unni;\ne per questa pazzia caricarono s\u00ec sconciamente il Gheffo, che gran\nparte n\u2019and\u00f2 a terra, ove morirono diciassette uomini, e molti se ne\nmagagnarono. Il re ch\u2019era un poco da parte apprendendosi col Prenze,\ncome a Dio piacque, si ritenne in quello rimanente che del Gheffo non\ncadde; messer Filippo di Taranto trabocc\u00f2 sopra i caduti e non ebbe\nmale. L\u2019oste stette sopra il conte pi\u00f9 tempo senza avere onore di cosa\nche vi si facesse, e straccata se ne part\u00ec. Il conte con sue masnade\npartita l\u2019oste cominci\u00f2 a cavalcare per Terra di Lavoro, e rubare le\nstrade e rompere i cammini, e conturb\u00f2 tutto il paese, cavalcando\nalcuna volta con trecento cavalieri infino presso a Napoli senza trovar\ncontasto: e vendicata sua onta, si ritenne alle terre sue senza fare\npi\u00f9 danno o guerra.\nCAP. LXXXIV.\n_Come il cardinale legato venne a Firenze._\nLa Chiesa di Roma veggendo che \u2019l prefetto da Vico tirannescamente\ncresciuto aveva occupato il Patrimonio, e che novellamente avea\nacquistato la citt\u00e0 d\u2019Orvieto, il papa con deliberazione de\u2019 cardinali\nmand\u00f2 legato in Toscana messer Gilio di Spagna cardinale, il quale\nera stato al secolo pro\u2019 e valente cavaliere e ammaestrato in guerra,\nacciocch\u00e8 con l\u2019aiuto degl\u2019Italiani racquistasse le terre di santa\nChiesa occupate nel Patrimonio. E datagli grande legazione il mand\u00f2\nper terra in Lombardia, ove dall\u2019arcivescovo di Milano fu ricevuto a\ngrande onore, facendogli fare per tutto suo distretto le spese con\nlargo apparecchiamento; ma in Bologna non volle ch\u2019egli entrasse, e\nper\u00f2 tenne la via da Pisa, e a d\u00ec 2 d\u2019ottobre del detto anno giunse in\nFirenze, ove fu ricevuto con grande onore, e con solenne processione e\nfesta, con un ricco palio di seta e d\u2019oro sopra capo portato da nobili\npopolani, e addestrato al freno e alla sella da gentili cavalieri di\nFirenze, sonando tutte le campane delle chiese e del comune a Dio\nlaudiamo; e condotto per la citt\u00e0 fu albergato in casa gli Alberti,\nove fece suo dimoro: e presentato dal comune confetti, e cera e biada\nabbondantemente, e tre pezze di fini panni scarlatti di grana, e\ndatogli centocinquanta cavalieri in aiuto alla sua guerra, a d\u00ec 11\nd\u2019ottobre si part\u00ec, e and\u00f2 a suo viaggio. E in questi d\u00ec Cetona si\nrubell\u00f2 al prefetto, e presela il conte di Sarteano con aiuto ch\u2019ebbe\nda\u2019 Fiorentini, e poi la rassegn\u00f2 al legato.\nCAP. LXXXV.\n_Rinnovazione del palio di santa Reparata._\nIn questi d\u00ec vacando in pace i Fiorentini, i priori vollono chiarire\nperch\u00e8 la chiesa cattedrale di Firenze era dinominata santa Reparata,\ne perch\u00e8 per antico costume in cotal d\u00ec s\u2019\u00e8 corso il palio in Firenze;\ne trovossi per alcune scritture, come Radagasio re de\u2019 Goti, e Svezi e\nVandali, avendo assalito l\u2019imperio di Roma, e guaste in Italia molte\ncitt\u00e0 e consumati gli abitanti, s\u2019era messo ad assedio alla citt\u00e0\ndi Firenze con dugentomila cavalieri, essendo vescovo di Firenze il\nvenerabile san Zenobio della casa de\u2019 Girolami nostro cittadino, il\nquale avea seco due santi cappellani; e stando all\u2019assedio, come a\nDio piacque, Onorio imperadore di Grecia in Italia venne al soccorso\ndell\u2019imperio di Roma, e in sua compagnia non avea oltre a tremila\ncavalieri; e venendo incontro a\u2019 nimici, tanta paura gli occup\u00f2, che\nraccogliendosi dall\u2019assedio, senza provvisione si misono ad entrare\ntra le circustanti montagne, passando tra Fiesole e Monterinaldi, e\nrattennonsi nella valle di Mugnone. Credesi, avvegnach\u00e8 Onorio fosse\nfedele cristiano, che Iddio facesse questo per le preghiere di san\nZenobio e de\u2019 suoi santi cappellani. I barbari essendo rinchiusi\nda aspre montagne, senza acqua e senza vittuaglia, dalla gente\ndell\u2019imperadore e da\u2019 fiorentini paesani che sapeano i passi furono\nristretti per modo che uscire non ne poteano. Il loro re furandosi dal\nsuo esercito fu in Mugello preso e morto: e morendo i barbari di fame\ne di sete, sentendo morto il loro re, gittate l\u2019armi s\u2019arrenderono,\ne per fame e per ferro infine tutti perirono; e questo avvenne il\nd\u00ec della festa della vergine benedetta santa Reparata, per la cui\nreverenza s\u2019ordin\u00f2 e fece nuova chiesa cattedrale alla nostra citt\u00e0\nintitolata del suo nome. E perocch\u00e8 i nostri antichi non erano in\ntroppa magnificenza in que\u2019 tempi, ordinarono che in cotal d\u00ec si\ncorresse un palio di braccia otto d\u2019uno cardinalesco di lieve costo a\npiede tenendosi al duomo, e movendosi i corridori di fuori della porta\ndi san Piero Gattolino: e per la rinnovazione di questa memoria il\ncomune l\u2019ordin\u00f2 di braccia dodici di scarlatto fine, e che si corresse\na cavallo.\nCAP. LXXXVI.\n_Come i Genovesi si misono in servaggio dell\u2019arcivescovo._\nNuova e mirabile cosa seguita a raccontare, in considerazione del gran\ncambiamento che fortuna fa degli stati del mondo. La nobile citt\u00e0 di\nGenova, e i suoi grandi e potenti cittadini, signori delle nostre\nmarine, e di quelle di Romania, e del Mare maggiore, uomini sopra gli\naltri destri e sperti, e di gran cuore e ardire nelle battaglie del\nmare, e per molti tempi pieni di molte vittorie, e signori al continovo\ndi molto navilio, usati sempre di recare alla loro citt\u00e0 innumerabili\nprede delle loro rapine, temuti e ridottati da tutte le nazioni\nch\u2019abitavano le ripe del Mar tirreno e degli altri mari che rispondono\nin quello, ed essendo liberi sopra gli altri popoli e comuni d\u2019Italia,\nper la sconfitta nuovamente ricevuta in Sardegna da\u2019 Veneziani e\nCatalani, con non disordinato danno, vennono in tanta discordia e\nconfusione tra loro nella citt\u00e0, e in tanta misera paura, che rotti\ne inviliti come paurose femmine, il loro superbo ardire mutarono in\nvilissima codardia, non parendo loro potere atarsi: eziandio avendo\nil comune di Firenze mandato l\u00e0 suoi ambasciadori a confortarli, e a\nprofferere loro con grande affezione il suo aiuto, e consiglio e favore\nlargamente a mantenere e ricoverare loro franchigia e buono stato,\ntanto erano con gli animi dissoluti per quella sconfitta e per loro\ndiscordie, che non seppono conoscere rimedio al loro scampo, se non di\nsottomettersi al servaggio del potente tiranno arcivescovo di Milano;\ne di comune concordia il feciono loro signore, dandogli liberamente\nla citt\u00e0 di Genova e di Savona, e tutta la Riviera di levante e di\nponente, e l\u2019altre terre del loro contado e distretto, salvo Monaco\ne Metone e Roccabruna, le quali tenea messer Carlo Grimaldi, che non\nle volle dare. E a d\u00ec 10 d\u2019ottobre 1353, il conte Pallavicino vicario\ndell\u2019arcivescovo con settecento cavalieri e con millecinquecento\nmasnadieri entr\u00f2 in Genova, ricevuto come loro signore; e disposto il\ndoge, e \u2019l consiglio, e tutti gli altri reggimenti del comune, prese la\nsignoria e il governamento delle dette citt\u00e0 e de\u2019 loro distretti, e\naperte le strade di Lombardia con sollecitudine, procacci\u00f2 abbondanza\ndi vittuaglia a\u2019 suoi servi, e prestanza al comune per armare alquante\ngalee in corso, ebbe fornito il prezzo di cotanto acquisto.\nCAP. LXXXVII.\n_Come i Pisani feciono confinati._\nI Pisani vedendosi il tirannesco fuoco a\u2019 loro confini, temettono de\u2019\nloro cittadini animosi di parte ghibellina, che per invidia de\u2019 loro\nreggenti avrebbono voluto la signoria dell\u2019arcivescovo di Milano. E\ntemendo per questo i Gambacorti e i loro seguaci perdere lo stato,\ndi presente votarono la citt\u00e0 d\u2019ogni sospetto, mandando a\u2019 confini\nde\u2019 loro cittadini, e prendendo buona guardia dentro e di fuori,\nintendendosi co\u2019 Fiorentini amichevolmente per la comune franchigia. In\nquesti medesimi d\u00ec, avendo il tiranno preso sdegno contro a\u2019 Fiorentini\nper gli ambasciadori ch\u2019aveano mandati a confortare i Genovesi della\nloro franchigia, mosse loro lite dicendo, ch\u2019aveano rotta la pace,\nperocch\u00e8 non avevano disfatto Montegemmoli nell\u2019alpe, avendo egli\nvoluto assegnare la Sambuca e \u2019l Sambucone, come diceano i patti della\npace, a Lotto Gambacorti come amico comune, non ostante che per lui non\nfosse voluto ricevere, parendogli avere osservato dalla sua parte: per\nla qual cosa s\u2019accozzarono ambasciadori di catuna parte a Serezzana,\ne mostrato fu per ragione che per quella offerta e\u2019 non era scusato,\nn\u00e8 aveva adempiute le convenenze, e per\u00f2 i Fiorentini non erano in\ncolpa. La cagione che acquet\u00f2 l\u2019arcivescovo fu, che non gli parve tempo\nutile a muovere guerra a\u2019 Fiorentini, e per\u00f2 s\u2019acquet\u00f2, e consent\u00ec\nalla loro ragione. Poco tempo appresso nel detto verno l\u2019arcivescovo\nmise cinquecento uomini al lavorio, e fece tutto il cammino per terra\nda Nizza a Genova, ch\u2019era scropuloso e pieno di molti stretti e mali\npassi, appianare e allargare, tagliando le pietre per forza di picconi,\ne facendo fare molti ponti ov\u2019erano i mali valichi, sicch\u00e8 gli uomini a\ncavallo due insieme, e le some per tutto il cammino potessono andare,\ncosa assai utile e notevole se fatto fosse a fine di bene; ma che che\nl\u2019arcivescovo e\u2019 suoi s\u2019avessono nell\u2019animo, a\u2019 Provenzali n\u2019entr\u00f2\ngrande gelosia, e stettonne a Nizza e nell\u2019altre terre in lunga\nguardia, e poco lasciavano usare quello cammino, temendo della potenza\ndel tiranno.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come i Sanesi ruppono i patti a Montepulciano._\nPotendosi catuno dolere con ragione in se della corrotta fede odiosa a\u2019\npopoli, mercatanzia de\u2019 tiranni, cagione nascosa di gravi pericoli, ci\nmuove a dire con vergogna, come reggendosi il comune di Siena sotto il\ngovernamento occupato dall\u2019ordine de\u2019 nove, ruppono la fede promessa\na\u2019 signori di Montepulciano, essendone stati mezzani i Fiorentini\ne\u2019 Perugini, e mallevadori alla richiesta di quello comune. E per\ngiustificarsi della corrotta fede, aggiunsono una corrotta dannazione,\nmettendo il detto messer Niccola senza colpa in bando per traditore,\nacciocch\u00e8 non paressono tenuti a dargli fiorini seimila d\u2019oro che\npromessi gli aveano, quando diede loro la signoria di Montepulciano.\nDella qual cosa turbato il comune di Firenze e quello di Perugia,\nmandarono loro ambasciadori a Siena per far loro con preghiere\naddirizzare questo torto; e avuto sopra ci\u00f2 pi\u00f9 volte udienza, e menati\nlungamente per parole da\u2019 signori, e straziati da\u2019 loro consigli,\ninsieme mostrando coll\u2019opere la corruzione conceputa contro a\u2019 detti\ncomuni per lo detto ordine de\u2019 nove. Agli ambasciadori di catuno comune\nfu fatta vergogna, e gittato loro addosso cavalcando per la citt\u00e0\nvituperoso fastidio, e udendosi dire dietro villane parole: a quelli\ndi Perugia furono gittati de\u2019 sassi, e minacciati di peggio: e cos\u00ec\nsenza altro comiato, con accrescimento d\u2019onta e di disonore, catuni\nambasciadori tornarono a\u2019 loro comuni; i quali conoscendo doppiamente\nessere offesi, per lo migliore dissimularono il fatto, comportando con\nsenno la loro ingiuria. E questo avvenne del mese di febbraio del detto\nanno.\nCAP. LXXXIX.\n_Come si cominci\u00f2 la gran compagnia nella Marca._\nIl friere di san Giovanni fra Moriale, vedendo che il prefetto da Vico,\ncon cui era stato all\u2019assedio di Todi, nol potea sostenere a soldo,\navendo l\u2019animo grande alla preda, si propose d\u2019accogliere gente d\u2019arme\nd\u2019ogni parte d\u2019Italia, e fare una compagnia di pedoni con la quale\npotesse cavalcare e predare ogni paese e ogni uomo. E qui cominci\u00f2 il\nmaladetto principio delle compagnie, che poi per lungo tempo turbarono\nItalia, e la Provenza, e il reame di Francia e molti altri paesi, come\nleggendo per li tempi si potr\u00e0 trovare. Questo fra Moriale incontanente\nco\u2019 suoi messaggi e lettere mosse in Italia gran parte de\u2019 soldati\nch\u2019erano in Toscana, e in Romagna e nella Marca senza soldo, a cavallo\ne a pi\u00e8, dicendo, che chi venisse a lui sarebbe provveduto delle spese\ne di buono soldo; e per questo ingegno in breve tempo accolse a se\nmillecinquecento barbute e pi\u00f9 di duemila masnadieri, uomini vaghi\nd\u2019avere loro vita alle spese altrui. E avendo messer Malatesta da\nRimini assediata per lungo tempo la citt\u00e0 di Fermo e condotta agli\nultimi estremi, ed essendo per averla in breve tempo, fra Moriale,\nricordandosi del servigio che da lui avea ricevuto quando l\u2019assedi\u00f2\nnel castello d\u2019Aversa, avendo movimento da Gentile da Mogliano che\ntiranneggiava Fermo, e dal capitano di Forl\u00ec ch\u2019era nimico di messer\nMalatesta, fidandosi alle loro promesse e a\u2019 loro stadichi, del mese\ndi novembre con la sua compagnia entr\u00f2 nella Marca, e costrinse messer\nMalatesta a levarsi da oste da Fermo, e liber\u00f2 la citt\u00e0 dall\u2019assedio, e\nrimasesi nel paese. E per lo nome sparto di questo primo cominciamento\nla compagnia crebbe e fece grandi cose in questo verno, e poi maggiori,\ncome al suo tempo racconteremo, tornando prima all\u2019altre cose che\ndomandono la nostra penna.\nCAP. XC.\n_Dice de\u2019 leoni nati in Firenze._\nE\u2019 non pare cosa degna di memoria a raccontare la nativit\u00e0 de\u2019 leoni,\nma due cagioni ci stringono a non tacere: l\u2019una si \u00e8, perch\u00e8 antichi\nautori raccontano che in Italia non nascono leoni, l\u2019altra, che\ndicono che i leoni nascono del ventre della madre morti, e che poi\nsono vivificati dal muggio della madre e del leone fatto sopra loro:\ne noi avemo da coloro che pi\u00f9 volte gli vidono nascere, che il loro\nnascimento \u00e8 come degli altri catelli che nascono vivi: all\u2019altra parte\n\u00e8 risposto per lo loro nascimento, pi\u00f9 e diverse volte avvenuto nella\nnostra citt\u00e0, e in questo anno, del mese di novembre, ne nacquero in\nFirenze tre, de\u2019 quali l\u2019uno si don\u00f2 al duca di Osteric, che per grazia\nil domand\u00f2 al nostro comune; e il leone padre vedendosi tolto l\u2019uno de\u2019\nsuoi leoncini se ne di\u00e8 tanto dolore, che quattro d\u00ec stette che non\nvolle mangiare, e temettesi che non morisse. E perch\u2019elli stavano in\nluogo stretto ove si batte la moneta del comune, ne furono tratti, e\ndato loro larghezza di case, e di cortili, e di condotti nelle case che\nil duca d\u2019Atene avea fatte disfare per incastellarsi, che furono de\u2019\nManieri, dietro al palagio del capitano e dell\u2019esecutore in su la via\nda casa i Magalotti, ove stanno al largo, e bene.\nCAP. XCI.\n_Come i Romani si dierono alla Chiesa di Roma._\nIl popolo romano non sappiendosi reggere per li suoi tribuni e per li\nrettori, sentendo il cardinale di Spagna a Montefiascone legato del\npapa, valoroso signore nell\u2019arme e di grande autorit\u00e0, tratt\u00f2 con lui\nd\u2019accomandarsi alla Chiesa di Roma sotto singolare condizione e patto.\nE ricevuto in protezione del legato con quello lieve legame, con lui\nsi convenne, e con furia lo mosse a far guerra e danneggiare di guasto\ni Viterbesi; della qual cosa, cresciuta la forza e \u2019l numero de\u2019\ncavalieri al legato, seguirono poi maggiori cose, come seguendo nostra\nmateria racconteremo.\nCAP. XCII.\n_Le novit\u00e0 seguite in Pistoia._\nEssendo ordine in Pistoia che balia per li fatti del comune non si\npotesse dare a\u2019 suoi cittadini, nato da sospetto delle loro sette,\ntrovandosi capitano della guardia per lo comune di Firenze messer\nGherardo de\u2019 Bordoni il quale favoreggiava i Cancellieri e la loro\nparte, era in que\u2019 d\u00ec fatto un processo per l\u2019inquisitore de\u2019 paterini\ncontro a certi cittadini di Pistoia, di che tutto il comune si gravava;\ne a riparare a questo, convenne che bal\u00eca si desse a certi cittadini.\nL\u2019industria de\u2019 Cancellieri, coll\u2019aiuto del capitano, fece tanto, che\nla bal\u00eca fu data a certi uomini tutti della parte de\u2019 Cancellieri,\ni quali intesono ad abbattere in comune lo stato de\u2019 Panciatichi, e\ndi presente aggiunsono al numero del consiglio del comune, che avea\nquaranta uomini, della parte de\u2019 Cancellieri; e intendendo di fare\npi\u00f9 innanzi, i Panciatichi per paura, e per non essere criminati\ndal capitano se ne vennono a Firenze: gli altri cittadini vedendosi\ningannati da quelli della bal\u00eca corsono all\u2019arme, e abbarrarono le vie,\ne catuno s\u2019afforzava per combattere e per difendere. In questo tempo\nde\u2019 romori di Pistoia, messer Ricciardo Cancellieri fu notificato a\nFirenze per lo Piovano de\u2019 Cancellieri suo consorto, ch\u2019egli volea fare\nal comune certo tradimento. E chiamato in giudicio a Firenze l\u2019uno\ne l\u2019altro, e dato bal\u00eca per lo comune al capitano della guardia di\nFirenze di potere conoscere sopra la causa, furono messi in prigione, e\ntrovato che non era colpevole messer Ricciardo, fu liberato, e ritenuto\nil Piovano, e mutato in Pistoia nuovo capitano. Il comune di Firenze\nmand\u00f2 in Pistoia ambasciadori, e con loro i Panciatichi, e racquetato\nlo scandalo tra i cittadini, si riposarono in pace.\nCAP. XCIII.\n_Come l\u2019arcivescovo richiese di pace i Veneziani._\nL\u2019arcivescovo di Milano avendo sottomesso a sua signoria la citt\u00e0\ndi Genova e di Savona, e tutta la Riviera e il loro contado, i cui\nabitanti erano nimici de\u2019 Veneziani, mand\u00f2 suoi ambasciadori al doge\ne al comune di Vinegia, per li quali signific\u00f2 a quello comune come\ni Genovesi erano suoi uomini, e le loro citt\u00e0 e contado erano suo\ndistretto; e tenendosi amico de\u2019 Veneziani, e sapendo che per addietro\ni Genovesi erano stati loro nimici, intendea, quando al doge piacesse\ne al comune di Vinegia, che per innanzi fossono fratelli e amici: e\nintorno a ci\u00f2 usarono belle e suadevoli ragioni. Il doge e il suo\nconsiglio presono tempo d\u2019avere loro consiglio, e di rispondere la\nmattina vegnente: e venuto il giorno, di gran concordia risposono la\nmattina dicendo: che \u2019l comune di Vinegia si tenea gravato e offeso\ndall\u2019arcivescovo, il quale avea preso ad aiutare i Genovesi loro\ncapitali nemici, e per\u00f2 non intendeano di volere pace e concordia con\nlui n\u00e8 col comune di Genova, ma giusta loro podere tratterebbono lui e\ni suoi sudditi come loro nemici. E conseguendo al fatto, incontanente\nfeciono accomiatare e bandeggiare di Vinegia, e di Trevigi, e di\ntutte le loro terre e distretti tutti coloro che fossono sotto la\ngiurisdizione dell\u2019arcivescovo di Milano; e simigliantemente fece nelle\nsue terre l\u2019arcivescovo de\u2019 Veneziani: e cos\u00ec fu manifesta la guerra\ntra loro, del mese di novembre del detto anno, per tutta la Lombardia e\nToscana.\nCAP. XCIV.\n_Come i Veneziani ordinarono lega contro al Biscione._\nIncontanente che agli altri signori lombardi fu palese la risposta\nfatta pe\u2019 Veneziani all\u2019arcivescovo, il gran Cane di Verona, e\u2019 signori\ndi Padova, e que\u2019 di Mantova, e il marchese da Ferrara e i Veneziani,\nfeciono parlamento per loro solenni ambasciadori, ove si propose di\nfare lega insieme, e taglia di gente d\u2019arme contro all\u2019arcivescovo di\nMilano, il quale parea loro che fosse troppo montato; e non fidandosi\ntutti insieme di potere resistere alla grande potenza dell\u2019arcivescovo,\ns\u2019accordarono di fare passare a loro stanza l\u2019imperadore in Italia.\nE dopo pi\u00f9 parlamenti sopra ci\u00f2 fatti fermarono compagnia e lega\ntra loro, e taglia di quattromila cavalieri, e fecionla piuvicare\nin Lombardia, e con grande istanza per loro segreti ambasciadori\nrichiesono e pregarono il comune di Firenze che si dovesse collegare\ncon loro, prendendo ogni vantaggio che volesse: ma perocch\u00e8 il detto\ncomune era in pace coll\u2019arcivescovo, per alcuna preghiera o promessa di\nvantaggio che fatta fosse, non pot\u00e8 essere recato che la pace volesse\ncontaminare. I collegati incontanente mandarono ambasciadori solenni\nin Alamagna all\u2019imperadore, per inducerlo a passare in Lombardia\ncontro all\u2019arcivescovo di Milano, offerendogli tutta la loro forza,\ne danari assai in aiuto alle sue spese, acciocch\u00e8 meglio potesse\ntenere la sua cavalleria; e per tutto fu divulgata la fama, che in\nquest\u2019anno l\u2019imperadore passerebbe a istanza della detta lega. Queste\ncose furono ferme e mosse del mese di dicembre del detto anno. E stando\ngli allegati in aspetto, non si provvidono di fare la gente della\ntaglia infino al primo tempo, n\u00e8 d\u2019avere capitano; e per\u00f2 lasceremo al\npresente questa materia, tanto che ritorner\u00e0 il suo tempo, e diremo di\nquelle che ci occorrono al presente a raccontare.\nCAP. XCV.\n_Come il conestabile di Francia fu morto._\nEra messer Carlo, figliuolo che fu di messer Alfonso di Spagna,\naccresciuto dall\u2019infanzia in compagnia del re Giovanni di Francia, ed\nera divenuto cavaliere di gran cuore e ardire, e valoroso in fatti\nd\u2019arme, pieno di virt\u00f9 e di cortesia, e adorno del corpo, e di belli\ncostumi, ed era fatto conestabile di Francia, ed il re gli mostrava\nsingolare amore, e innanzi agli altri baroni seguitava il consiglio\ndi costui; e chi volea mal parlare, criminavano il re di disordinato\namore in questo giovane: e del grande stato di costui nacque materia di\ngrande invidia, che gli portavano gli altri maggiori baroni. Avvenne\nche il re Giovanni provvidde il re di Navarra suo congiunto d\u2019una\ncontea in Guascogna, la quale essendo a\u2019 confini delle terre del re\nd\u2019Inghilterra, era in guerra e in grave spesa per la guardia, pi\u00f9 che\n\u2019l detto re non avrebbe voluto, e per\u00f2 la rinunzi\u00f2, e il re poi la\ndiede al conestabile, ch\u2019era franco barone e di gran cuore in fatti\nd\u2019arme. Il re di Navarra che gi\u00e0 avea contro al conestabile conceputo\ninvidia, mostr\u00f2 di scoprirla, prendendo sdegno perch\u2019egli avea\naccettata la sua contea, nonostante ch\u2019egli l\u2019avesse rinunciata. Ed\nessendo genero del re di Francia, con pi\u00f9 audace baldanza, in persona,\ncon altri baroni che simigliantemente invidiavano il suo grande stato,\nuna notte andarono a casa sua, e trovandolo dormire in sul letto suo\nl\u2019uccisono a ghiado; della qual cosa il re di Francia si turb\u00f2 di cuore\ncon ismisurato dolore, e pi\u00f9 di quattro d\u00ec stette senza lasciarsi\nparlare. La cosa fu notabile e abominevole, e molto biasimata per tutto\nil reame, e fu materia e cagione di gravi scandali che ne seguirono,\ncome seguendo ne\u2019 suoi tempi si potr\u00e0 trovare. E questo micidio fu\nfatto in questo verno del detto anno 1353.\nCAP. XCVI.\n_Come si cominci\u00f2 la rocca in Sangimignano, e la via coperta a Prato._\nIn questo medesimo tempo, il comune di Firenze per volere vivere pi\u00f9\nsicuro della terra di Sangimignano, e levare ogni cagione a\u2019 terrazzani\nsuoi di male pensare, cominci\u00f2 a far fare, e senza dimettere il lavorio\nalle sue spese, e compi\u00e8 una grande e nobile rocca e forte, la quale\npose sopra la pieve dov\u2019era la chiesa de\u2019 frati predicatori, e quella\nchiesa fece maggiore e pi\u00f9 bella redificare dall\u2019altra parte della\nterra pi\u00f9 al basso. E in questo medesimo tempo nella terra di Prato\nfece fare una larga via coperta, in due alie di grosso muro d\u2019ogni\nparte, con una volta sopra la detta via, e un corridoio sopra la detta\nvolta, largo e spazioso a difensione; la quale via muove dal castello\ndi Prato fatto anticamente per l\u2019imperatore, e viene fino alla porta;\nove si fece crescere e incastellare la torre della porta a modo d\u2019una\nrocca; e in catuna parte tiene il comune continova guardia di suoi\ncastellani.\nCAP. XCVII.\n_Del male stato dell\u2019isola di Sicilia._\nAssai ne pare cosa pi\u00f9 da dolere che da raccontare, gli assalti,\ngli aguati, i tradimenti, gl\u2019incendi, le rapine, l\u2019uccisioni senza\nmisericordia, che in questi tempi i Siciliani faceano tra loro per\ninvidia e setta parziale, le quali maladette cose tra gli uomini\nd\u2019una medesima patria ebbono tanta forza di male aoperare nell\u2019isola,\nch\u2019abbandonata la cultura de\u2019 fertili campi, i quali sogliono pascere\ngli strani popoli, de\u2019 suoi trasse per fame pi\u00f9 di diecimila famiglie\ndella detta isola, i quali per non morire d\u2019inopia, si feciono\nabitatori dell\u2019altrui terre in Sardegna, e in Calabria, e nel Regno\ndi qua dal faro. E in questa tempesta, certi baroni dell\u2019isola\ncontrari alla setta de\u2019 Catalani, che governavano lo sventurato duca\nche s\u2019attendea a essere re, sentendolo egli e i suoi manifestamente,\ntrattavano di dare la maggiore parte delle buone terre dell\u2019isola al\nre Luigi suo avversario, e non ebbe per lungo tempo podere d\u2019atarsene,\ntanto che venne fatto, come nel principio del quarto libro seguendo si\npotr\u00e0 trovare.\nCAP. XCVIII.\n_Come il legato del papa procedette col prefetto._\nIn questo verno, il cardinale di Spagna legato del papa avendo tentato\nil prefetto lentamente con poco prosperevole guerra, cerc\u00f2 con pi\u00f9\nriprese di trovare pace con lui, e fu la cosa tanto innanzi, che per\ntutto scorse la fama che la pace era fatta. Ma il prefetto gi\u00e0 tiranno\nsenza fede, vedendosi il destro, sotto la speranza della pace tolse al\nlegato due castella, e rotto il trattato, il cominci\u00f2 a guerreggiare:\nper la qual cosa il legato seguit\u00f2 il processo fatto contro a lui, e\ndel mese di febbraio del detto anno pronunzi\u00f2 la sentenza, e per sue\nlettere il fece scomunicare come eretico per tutta Italia; e fatto\nquesto, conoscendo che altra medecina bisognava a riducere costui alla\nvia diritta, che suono di campane o fummo di candele, saviamente, e\nsenza dimostrare sua intenzione innanzi al fatto, si venne provvedendo\nd\u2019avere al tempo gente d\u2019arme, da potere fare l\u2019esecuzione contro a\nlui del suo processo. E in questo mezzo, avendo dugento cavalieri\ndel comune di Firenze e alquanti da se, fece s\u00ec continua guerra al\ntiranno, che poco potea resistere o comparire fuori delle mura. E\navendo il prefetto preso sospetto de\u2019 Viterbesi e degli Orvietani, che\nsi doleano perch\u00e8 la pace non era venuta a perfezione, tirannescamente\nvolle tentare l\u2019animo de\u2019 cittadini di catuna citt\u00e0, e fare cosa da\ntenerli in paura. E per\u00f2 segretamente accolse fanti di fuori a pochi\ninsieme, e miseli in catuna terra ne\u2019 suoi palagi, e in un medesimo d\u00ec\nfece a certa gente di cui e\u2019 si confid\u00f2 levare il romore contro a se\nin catuna citt\u00e0, al quale romore alquanti cittadini in catuna terra\npresono l\u2019arme, e seguitavano il grido. Il tiranno con quattrocento\nfanti ch\u2019aveva armati e apparecchiati in Viterbo usc\u00ec fuori e corse la\nterra, uccidendo cui egli volle, e condann\u00f2 e cacci\u00f2 a\u2019 confini tutti\ncoloro di cui sospettava. E per simigliante modo fece correre la citt\u00e0\nd\u2019Orvieto al figliuolo, e uccidere e condannare e mandare a\u2019 confini\ncui egli volle. E cos\u00ec gli parve per male ingegno aver purgate quelle\ndue citt\u00e0 d\u2019ogni sospetto, e avere pi\u00f9 ferma la sua signoria, la quale\nper lo contradio, non avendo da se potenza n\u00e8 aspettandola d\u2019altrui,\nper questa mala crudelt\u00e0 ogni d\u00ec venne mancando, come l\u2019opere appresso\ndimostreranno manifestamente in fatto.\nCAP. XCIX.\n_Come si rubell\u00f2 Verona al Gran Cane per messer Frignano._\nChi potrebbe esplicare le seduzioni, gl\u2019inganni e\u2019 tradimenti che i\ntiranni posponendo ogni carit\u00e0, parentado e onore, pensano, ordinano,\ne fanno per ambizione di signoria? Certo tanti sono i modi quanti i\nloro pensieri, sicch\u00e8 ogni penna ne verrebbe meno e stanca. Tuttavia\nper quello ch\u2019ora ci occorre, cosa strana e notevole, ci sforzeremo a\ndimostrare l\u2019avviluppata verit\u00e0 di diversi tradimenti e suoi effetti.\nNarrato avemo poco dinanzi come la lega de\u2019 Veneziani con gli altri\nsignori Lombardi era giurata e ferma contro al signore di Milano, ed\nessendo il signore di Mantova de\u2019 pi\u00f9 avvisati tiranni di Lombardia\nvicino dell\u2019arcivescovo di Milano, l\u2019arcivescovo con industriose\nsuasioni e con grandi promesse il mosse a farlo trattare di tradire\nmesser Gran Cane signore di Verona e di Vicenza con cui egli era\nin lega, ed egli per accattare la benivolenza dell\u2019arcivescovo,\ndimenticato il beneficio ricevuto da quelli della Scala, che l\u2019aveano\nfatto signore di Mantova, diede opera al fatto, e non senza speranza\nd\u2019aoperare per se, se la fortuna conducesse la cosa ov\u2019era la sua\nimmaginazione. E per\u00f2 conoscendo egli messer Frignano figliuolo\nbastardo di messer Mastino, uomo pro\u2019, e ardito d\u2019arme, e di grande\nanimo, accetto nel cospetto del fratello suo signore, e amato dal\npopolo di Verona e di Vicenza, vago di signoria, tratt\u00f2 con lui di\nfarlo signore di Verona con suo consiglio, e colla sua forza e del\nsignore di Milano. Questo sterpone tornando alla sua natura, senza fede\no fraternale carit\u00e0, di presente intese al tradimento del fratello, e\ncol signore di Mantova ordinarono il modo ch\u2019egli avesse a tenere, e\nl\u2019aiuto della gente ch\u2019egli avrebbe da lui. In questo tempo avvenne\nche \u2019l Gran Cane and\u00f2 a parlamentare col marchese di Brandimborgo suo\nsuocero per li fatti della lega, e il fratello bastardo era cognato del\nsignore di Castelborgo, ch\u2019era a\u2019 confini del cammino ove il Gran Cane\ndovea passare; costui avvisato da messer Frignano mise un aguato per\nuccidere il Gran Cane, ma scoperto l\u2019aguato, pass\u00f2 senza impedimento.\nCome messer Frignano avea ordinato, a Verona tornarono novelle come il\nGran Cane era stato morto; ma innanzi che la novella venisse, messer\nFrignano avea mandati fuori di Verona tutti i cavalieri soldati, salvo\ncoloro di cui s\u2019era fidato, e che con lui s\u2019intesero al tradimento.\nPubblicata la novella in Verona come il Gran Cane loro signore era\nstato morto, il traditore con gran pianto fece incontanente, a d\u00ec 17 di\nfebbraio del detto anno, raunare il popolo, e a uno giudice, cui egli\navea informato, fece proporre in parlamento come il loro signore era\nmorto, e che \u2019l comune di Verona rimanea in gran pericolo senza capo,\navendo a vicino cos\u00ec possente signore com\u2019era l\u2019arcivescovo di Milano;\ne aggiunse, che a lui parea che messer Frignano prendesse il loro\ngovernamento. Il traditore ch\u2019era presente, senza attendere ch\u2019altri si\nlevasse a parlamentare, o ch\u2019altra deliberazione si facesse, si lev\u00f2\nsuso, e disse, che cos\u00ec prendeva e accettava la signoria. E montato a\ncavallo, colle masnade che v\u2019erano corse la terra, gridando, muoiano\nle gabelle; e fece ardere i libri e gli atti della corte, e ruppono le\nprigioni. E di subito il signore di Mantova vi mand\u00f2 messer Feltrino,\ne messer Federigo, e messer Guglielmo suoi figliuoli, e messer Ugolino\nda Gonzaga tutti de\u2019 signori di Mantova con trecento cavalieri. Il\nsignore di Ferrara ingannato del tradimento vi mand\u00f2 messer Dondaccio\ncon dugento cavalieri; ma innanzi che tutti v\u2019entrassono, il capitano\ncolla maggior parte di loro per contramandato si tornarono indietro\nscoperto l\u2019inganno. Messer Frignano ricevuta questa gente d\u2019arme, e\naccolti certi cittadini che \u2019l seguirono, da capo corse la terra: i\ncittadini non si mossono, ed egli s\u2019entr\u00f2 nel palagio dell\u2019abitazione\ndel signore. Messer Azzo da Coreggio ch\u2019era in Verona se n\u2019usc\u00ec non con\nbuona fama. Le guardie furono poste alle porte, e la terra s\u2019acquet\u00f2, e\nmesser Frignano ne fu signore; la quale signoria il signore di Mantova\nper ingegno, e quello di Milano per ingegno e forza si credette catuno\navere, come seguendo appresso diviseremo.\nCAP. C.\n_Come messer Bernab\u00f2 con duemila barbute si credette entrare in Verona._\nIl signore di Mantova avendo in Verona quattro tra figliuoli e\ncongiunti con trecento cavalieri, procacciava di mettervene anche per\nesservi pi\u00f9 forte che messer Frignano, a intenzione di tradire lui,\ne di recare a se la signoria, ma non gli pot\u00e8 venire fatto, perocch\u00e8\nsent\u00ec che l\u2019arcivescovo di Milano, che vegghiava a questo effetto,\nmandava messer Bernab\u00f2 cognato del Gran Cane a Verona con duemila\ncavalieri, temette di se, e non ebbe ardire di sfornire Mantova di\ncavalieri; e cos\u00ec per la non pensata perd\u00e8 quello che avea lungamente\nprovveduto. La novella del gran soccorso che venia da Milano, e\ndell\u2019apparecchiamento di quello di Mantova sentito a Verona, gener\u00f2\nsospetto a messer Frignano e a\u2019 cittadini della citt\u00e0, e per\u00f2 presono\nl\u2019arme, e rafforzarono le guardie, e stettono in pi\u00f9 guardia; onde i\nsignori che v\u2019erano di Mantova non vidono modo di fornire loro corrotta\nintenzione, e per\u00f2 si stettono, mostrandosi fedeli a messer Frignano e\nalla guardia della citt\u00e0. In questo stante messer Bernab\u00f2 con duemila\nbarbute e gran popolo giunse a Verona, mostrando di volere ricoverare\nla signoria di Verona al cognato, credendo con questo trarre a se\nl\u2019animo de\u2019 cittadini, e credendo che quelli ch\u2019aveano mossa questa\nnovit\u00e0 a stanza dell\u2019arcivescovo l\u2019atassono entrare nella terra, e\nper\u00f2 si strinse infino alle porte, e domandava l\u2019entrata, la quale gli\nfu negata; e non vedendo che dentro alcuno gli rispondesse, cominci\u00f2\na combatterla; ma vedendo il suo assalto tornare invano, e sentendo\nla tornata di messer Gran Cane d\u2019Alamagna, si part\u00ec del paese, e\ntornossi a Milano mal contento de\u2019 signori di Mantova, ed eglino peggio\ncontenti dell\u2019arcivescovo, ch\u2019aveva sconcio il loro tranello per quella\ncavalcata, come poco appresso dimostrarono in opera catuna parte,\nsecondo che seguendo dimostreremo.\nCAP. CI.\n_Come messer Gran Cane racquist\u00f2 Verona, e fu morto messer Frignano._\nQuando messer Gran Cane cavalcava al marchese di Brandimborgo avea\ncon seco il fratello, e sospicando di novit\u00e0 quando sent\u00ec l\u2019aguato\ndel signore di Castelborgo rimand\u00f2 il fratello addietro, il quale\nvenendo nel paese, sent\u00ec come messer Frignano avea rubellata Verona,\ne per\u00f2 se n\u2019and\u00f2 in Vicenza. La novella corse a messer Gran Cane, e\nvennegli essendo egli col marchese; e turbato l\u2019uno e l\u2019altro, il\nmarchese francamente il confort\u00f2, offerendoli tutta la sua possa\na racquistare Verona: ma perch\u00e8 l\u2019indugio a cotali cose conobbe\npericoloso, di presente il fece montare a cavallo, apparecchiandoli\ndi subito cento barbute delle sue, e colla gente ch\u2019egli aveva da se,\nsenza soggiorno, cavalcando il d\u00ec e la notte, se ne venne a Vicenza,\ne l\u00e0 trov\u00f2 il fratello, e trovovvi messer Manno Donati di Firenze\ncapitano di dugento cavalieri, che il signore di Padova avea mandati\nin suo aiuto, e trovovvi della gente del marchese di Ferrara; e\nsommosso il popolo di Vicenza a cotanto suo bisogno, gran parte ne\nmen\u00f2 con seco; e la notte medesima, con seicento barbute e col popolo\ndi Vicenza se ne venne a Verona, e in sul mattino lasci\u00f2 la strada,\ne attraversando pe\u2019 campi entr\u00f2 in Campo marzio, che \u00e8 fuori della\ncitt\u00e0 ivi presso, murato intorno, e risponde a una piccola porta della\ncitt\u00e0, la quale meno ch\u2019altra porta si solea guardare. Quivi s\u2019afferm\u00f2\nmesser Gran Cane, e mand\u00f2 innanzi un Giovanni dell\u2019Ischia di Firenze\nla notte, che procacciasse d\u2019entrare in Verona, e facesse sentire a\u2019\nconfidenti cittadini di messer Gran Cane com\u2019egli era di fuori in\nCampo marzio, e accompagnollo d\u2019uno confidente Tedesco. Costoro, non\navendo altra via, si misono a notare co\u2019 cavalli per l\u2019Adice per venire\ninfra la citt\u00e0 ove mancava il muro, e in questo notare, il Tedesco\npoco destro del servigio dell\u2019acqua vi rimase affogato. Giovanni\ndell\u2019Ischia entr\u00f2 nella terra, e and\u00f2 informando e sommovendo gli\namici di messer Gran Cane, avvisando come avessono a venire a quella\nporta in suo favore; i quali sentendo ivi fuori il loro signore, la\nmattina vennono con le scuri alla porta, e spezzaronla. Nondimeno le\nguardie ch\u2019erano sopr\u2019essa con le pietre e con le balestra da alto\nfrancamente la difendevano, sicch\u00e8 non vi lasciarono entrare alcuno.\nIntanto il traditore messer Frignano essendo in sollecita guardia\ndel fratello, e ancora di messer Bernab\u00f2, che il d\u00ec dinanzi l\u2019avea\nassalito co\u2019 suoi cavalieri, cavalcava intorno alla terra, e la mattina\nera montato in certa parte onde potea vedere di fuori, e guardava se\nmesser Gran Cane venisse, che gi\u00e0 non sapeva che fosse cos\u00ec dipresso,\ne guardando inverso Campo marzio, vide la porta piccola di Verona\naperta, e dicendo, noi siamo traditi, francamente trasse con la gente\nsua inverso quella porta per difendere l\u2019entrata; ma innanzi che vi\ngiugnesse, il Gran Cane s\u2019era tratto innanzi alla porta, e trattasi\nla barbuta, e fattosi conoscere a coloro che la guardavano, dicendo,\nio vedr\u00f2 chi saranno coloro che mi contradiranno l\u2019entrata della mia\nterra, e conosciuto da loro, incontanente gli feciono reverenza, e\nlasciarono entrare lui e la sua gente senza contasto. E sopravvenendo\nmesser Frignano, il trov\u00f2 entrato nella citt\u00e0 con la maggior parte\ndella gente, e avvisatolo, che bene il conosceva, nella piazza dentro\ndalla porta, si dirizz\u00f2 verso lui colla lancia per fedirlo di posta,\ne tentare l\u2019ultima fortuna: ma gi\u00e0 era cominciato l\u2019assalto tra i\ncavalieri di catuna parte aspro e forte, sicch\u00e8 vedendo un cavaliere di\nquelli di messer Gran Cane mosso messer Frignano colla lancia abbassata\nverso il suo signore, gli si addirizz\u00f2 per traverso, e colla lancia il\npercosse nella guancia dell\u2019elmo per tale forza, come fortuna volle,\nche l\u2019abbatt\u00e8 del cavallo a terra. Messer Giovanni chiamato Mezza\nScala, vedendo messer Frignano abbattuto del destriere, scese del suo\ncavallo, e disse, che che s\u2019avvegna di Verona tu morrai delle mie mani,\ne corsegli addosso, e con un coltello gli seg\u00f2 le vene, e lasciollo\nmorto a terra. Ed in quello baratto fu morto con lui messer Paolo della\nMirandola, e messer Bonsignore d\u2019Ibra grandi conestabili. E morti\ncostoro, l\u2019altra gente ruppe, e assai ve ne furono morti fuggendo. Le\nporti della citt\u00e0 erano serrate, e i cittadini sentendo il loro signore\ndentro tutti tennero con lui, e per\u00f2 i forestieri che v\u2019erano furono\npresi e rassegnati a messer Gran Cane, il quale per la sua sollecita\ntornata felicemente racquist\u00f2 Verona e uccise i traditori. Che se al\nfatto avesse messo indugio, non la racquistava in lungo tempo, o per\navventura non mai, s\u00ec si venia provvedendo alla difesa lo sterpone. E\nquesto avvenne il d\u00ec di carnasciale, a d\u00ec 25 di febbraio l\u2019anno 1353.\nCAP. CII.\n_Come messer Gran Cane riform\u00f2 la citt\u00e0 di Verona, e fece giustizia de\u2019\ntraditori._\nMesser Gran Cane avendo racquistata Verona avventurosamente si fece\nappresentare i prigioni, e diligentemente volle investigare la verit\u00e0,\ncome i cittadini aveano acconsentito al traditore, e udita la sagacit\u00e0\ndell\u2019inganno, comport\u00f2 dolcemente l\u2019errore del popolo. E raddirizzato\nl\u2019ordine al governamento della citt\u00e0, fece impiccare in s\u00f9 la piazza di\nmezzo il mercato di Verona il corpo di messer Frignano, e ventiquattro\ncaporali partefici al tradimento del fratello, tra\u2019 quali fu Giovannino\nCanovaro di Verona grande cittadino con quattro suoi figliuoli, e\nAlboino della Scala suo consorto, e messer Alberto di Monfalcone\ngrande conestabile, e Giannotto fratello di madre di messer Frignano,\ne due figliuoli di Tebaldo da Camino, e due medici de\u2019 signori della\nScala, e il notaio della condotta, e altri uficiali infino al numero\nsopraddetto. A prigione ritenne messer Feltrino da Mantova, e messer\nUgolino e messer Guglielmo suoi figliuoli, e messer Federigo suo\nfratello, e Piero Ervai di Firenze, il quale era fatto podest\u00e0 di\nVerona per messer Frignano, il quale si ricomper\u00f2 per non essere\nimpiccato fiorini diecimila d\u2019oro. Guidetto Guidetti si ricomper\u00f2 per\nsimile cagione fiorini dodicimila d\u2019oro. Messer Giovanni da Sommariva\ne Tebaldo da Camino vi rimasono prigioni, e a\u2019 cavalieri soldati tolse\nl\u2019armi e\u2019 cavalli, e feceli giurare di non essere mai contro a lui, e\nlasciolli andare. A coloro che pi\u00f9 singolarmente l\u2019aiutarono in questo\nfatto, come fu messer Manno Donati, e que\u2019 dell\u2019Ischia, e quelli di\nBoccuccio de\u2019 Bueri tutti cittadini di Firenze, ch\u2019adoperarono gran\ncose in sul fatto, provvide di possessioni de\u2019 traditori, e molti altri\nebbono grazia da lui cittadini e forestieri. E rimaso libero signore\ncome di prima, aontato contro al signore di Mantova, avuta gente d\u2019arme\ndal marchese di Brandimborgo cavalc\u00f2 sul Mantovano, e ruppe la lega, e\ndissimulava trattato d\u2019allegarsi con l\u2019arcivescovo di Milano, insino\nche le cose si ridussono a concordia per sollecita operazione de\u2019\nVeneziani, come al suo tempo innanzi racconteremo.\nCAP. CIII.\n_Come fu deliberato per la Chiesa l\u2019avvenimento dell\u2019imperadore in\nItalia._\nAvendo l\u2019eletto imperadore prima veduto come i comuni di Toscana\nl\u2019aveano richiesto per farlo valicare in Italia, e da loro non s\u2019era\nrotto, e appresso era richiesto dalla lega de\u2019 Lombardi, e con loro\ntenea benevoglienza e trattato, e ancora l\u2019arcivescovo avea appo\nlui continovi ambasciadori che gli offeriano il loro aiuto alla sua\ncoronazione, per le quali cose consider\u00f2 che agevolmente e senza\nresistenza e\u2019 potea valicare per la corona. E per\u00f2 sostenendo catuna\nparte in speranza e in amore, mand\u00f2 a corte di Roma ad Avignone per\navere licenza e la benedizione papale, e i legati e \u2019l sussidio\npromesso dalla Chiesa per la sua coronazione. Gli ambasciadori furono\ngraziosamente ricevuti dal papa, e udita la domanda dell\u2019eletto\ndebita e giusta, tenuti sopra ci\u00f2 alquanti consigli e consistori, del\nmese di febbraio del detto anno, fu deliberato per lo papa e per li\ncardinali ch\u2019egli avesse la licenza, e la benedizione, e i legati per\nla sua coronazione; altro sussidio non gli promisono. E partiti gli\nambasciadori da corte, tra i cardinali ebbe divisione e tire di coloro\nch\u2019avessono la legazione per venire con lui, e per le dette tire, e\nperch\u00e8 l\u2019avvenimento non parea presto, si rimase la commessione de\u2019\nlegati infino al tempo dell\u2019avvenimento suo; onde si raffreddarono i\nprocacciatori, non sentendolo ricco da trarre da lui quello che la loro\navarizia prima si pensava.\nCAP. CIV.\n_D\u2019un gran fuoco ch\u2019apparve nell\u2019aria._\nIl primo d\u00ec di marzo, alle sei ore della notte, si mosse uno sformato\nfuoco nell\u2019aria, il quale corse per gherbino in verso greco, come\naveva fatto l\u2019altro che prima era venuto col tremuoto, ma di lume e\nd\u2019infiammagione non fu molto minore. A questo seguit\u00f2 grande secco,\nperocch\u00e8 infino al giugno non caddono acque che podere avessono di\nbagnare la terra, per la qual cosa il grano e le biade cresciute il\nverno e parte della primavera, e in buona speranza di ricolta, a tanto\nerano condotte per lo secco, che se non fosse la manifesta grazia che\nMadonna fece alla processione dell\u2019antica tavola della sua effigie di\nsanta Maria in Pineta, come al suo tempo si diviser\u00e0, erano i popoli di\nToscana fuori di speranza di ricogliere grano, o biada o altri frutti\nin quest\u2019anno per nutricamento di quattro mesi; e per\u00f2 non ci pare\nda lasciare in silenzio il caso di questo segno, per ammaestramento\nde\u2019 tempi avvenire. Seguit\u00f2 ancora l\u2019avvenimento dell\u2019imperadore in\nquest\u2019anno in Italia e la sua coronazione, e avvenimento di grandi\nterremuoti, come appresso racconteremo.\nCAP. CV.\n_Di tremuoti che furono._\nIn questo medesimo d\u00ec primo di marzo furono in Romania grandissimi\nterremuoti, e nella nobile citt\u00e0 di Costantinopoli abbatterono molti\ngrandi e nobili edificii e gran parte delle mura della citt\u00e0, con\ngrande uccisione d\u2019uomini, e di femmine, e di fanciulli. E da Boccadone\ninfino a Costantinopoli, su per la marina, non rimase castello n\u00e8\ncitt\u00e0 che non avesse grandissime rovine delle mura e degli edificii\ncon grande mortalit\u00e0 de\u2019 suoi abitanti; per la qual cosa avvenne, che\ni Turchi loro vicini sentendo i Greci spaventati, e senza potersi\nracchiudere e salvare nelle fortezze, corsono sopra loro, e presonne\nassai, e menaronli in servaggio: e alcuni castelli rifeciono e\nafforzarono, e misonvi abitatori e guardie di loro Turchi; e appresso\naccolsono grande esercito di loro gente, e puosonvi assedio per terra\na Costantinopoli, ch\u2019era in divisione e in tremore, ma contro a\u2019\nTurchi s\u2019unirono alla difesa; sicch\u00e8 stativi alcuno tempo senza potere\nacquistare la citt\u00e0, corsono le ville, e rubarono le contrade, e senza\navere resistenza fuori delle mura si tornarono in loro paese.\nCAP. CVI.\n_De\u2019 fatti del monte._\nLa fede utile sopra l\u2019altre cose, e gran sussidio a\u2019 bisogni della\nrepubblica, ci d\u00e0 materia di non lasciare in oblivione quello che\nseguita. Il nostro comune, per guerra ch\u2019ebbe co\u2019 Pisani per lo fatto\ndi Lucca, si trov\u00f2 avere accattati da\u2019 suoi cittadini pi\u00f9 di seicento\nmigliaia di fiorini d\u2019oro; e non avendo d\u2019onde renderli, purg\u00f2 il\ndebito, e tornollo a cinquecentoquattro migliaia di fiorini d\u2019oro\ne centinaia, e fecene un monte, facendo in quattro libri, catuno\nquartiere per se, scrivere i creditori per alfabeto, e ordin\u00f2 con certe\nleggi penali, alla camera del papa obbligate, chi per modo diretto o\nindiretto venisse contro a privilegio e immunit\u00e0 ch\u2019avessono i danari\ndel monte. E ordin\u00f2 che in perpetuo ogni mese, catuno creditore dovesse\navere e avesse per dono d\u2019anno e interesso uno danaio per lira, e che i\ndanari del monte ad alcuno non si potessono torre per alcuna cagione,\no malificio, o bando, o condannagione che alcuno avesse; e che i detti\ndanari non potessono essere staggiti per alcuno debito, n\u00e8 per alcune\ndote, n\u00e8 fare di quelli alcuna esecuzione, e che lecito fosse a catuno\npoterli vendere e trasmutare, e cos\u00ec a catuno in cui si trovassono\ntrasmutati, que\u2019 privilegi, e quell\u2019immunit\u00e0, e quello dono avesse il\nsuccessore che \u2019l principale. E cominciato questo gli anni di Cristo\n1345, sopravvenendo al comune molte gravi fortune e smisurati bisogni,\nmai questa fede non macul\u00f2, onde avvenne che sempre a\u2019 suoi bisogni\nper la fede servata trovava prestanza da\u2019 suoi cittadini senza alcuno\nrammaricamento: e molto ci si avanzava sopra il monte, accattandone\ncontanti cento, e facendone finire al monte altri cento, a certo\ntermine n\u2019assegnava dugento sopra le gabelle del comune, sicch\u00e8 i\ncittadini il meno guadagnavano col comune a ragione di quindici per\ncentinaio l\u2019anno. Essendo i libri e le ragioni mal guidate per i notai\nche non gli sapeano correggere, e avevanvi commessi molti errori e\nfalsi dati, si ridussono in mano di scrivani uomini mercatanti che gli\ncorreggessono, e corressono molto chiaramente a salvezza del comune e\nde\u2019 creditori, avendo al continovo uno notaio che facea carta delle\ntrasmutagioni per licenza del vero creditore, e poi gli scrivani gli\nacconciavano in su\u2019 registri del comune, levando dall\u2019uno e ponendo\nall\u2019altro. Di questi contratti de\u2019 comperatori si feciono in Firenze\nl\u2019anno 1353 e 1354 molte questioni, se la compera era lecita senza\ntenimento di restituzione o n\u00f2, eziandio che il comperatore il facesse\na fine d\u2019avere l\u2019utile che il comune avea ordinato a\u2019 creditori, e\ncomperando i fiorini cento prestati al comune per lo primo creditore\nventicinque fiorini d\u2019oro, e pi\u00f9 e meno com\u2019era il corso loro,\nl\u2019opinione de\u2019 teologi e de\u2019 legisti in molte disputazioni furono\nvarie, che l\u2019uno tenea che fusse illecito e tenuto alla restituzione,\ne l\u2019altro n\u00f2, e i religiosi ne predicavano diversamente: que\u2019\ndell\u2019ordine di san Domenico diceano che non si potea fare lecitamente,\ne con loro s\u2019accostavano de\u2019 romitani, e i minori predicavano che si\npotea fare, e per questo la gente ne stava intenebrata. Era in questi\ntempi in Firenze copia di maestri in teologia, fra i quali de\u2019 pi\u00f9\neccellenti era maestro Piero degli Strozzi de\u2019 frati predicatori, e\nmaestro Francesco da Empoli de\u2019 minori; maestro Piero dicea che non\nera lecito contratto, e predicavalo senza dimostrarne le ragioni\nchiare; perch\u00e8 maestro Francesco de\u2019 minori avendo sopra ci\u00f2 con grande\ndiligenza avute molte disputazioni con altri maestri in divinit\u00e0,\ne con dottori di legge e di decretali, al tutto chiar\u00ec, e tenne, e\npredic\u00f2, e scrisse ch\u2019era lecito, e senza tenimento di restituzione a\nchi il facea, senza fare contro a sua coscienza; e le ragioni perch\u00e8\nscrisse e mand\u00f2 a tutte le regole, apparecchiato a mantenere quello\nche predicato e scritto avea. Nondimeno i predicatori e\u2019 loro maestri\nnon si rimossono della loro opinione, predicando che non si potea fare\nlecitamente e senza restituzione; e della loro opinione non mostrarono\nragione, e contro alle scritte per maestro Francesco non contradissono\ncon alcuna ragione; e per questo a molti rimase in dubbio il detto\ncontratto, e molti l\u2019ebbono per chiaro accostandosi alle ragioni del\nmaestro Francesco, e senza riprensione di loro coscienza vendevano e\ncomperavano, facendone traffico come d\u2019un\u2019altra mercatanzia. Se \u2019l\ncontratto si potea provare usurario, debito era a chi \u2019l predicava\ndi riprovare quello che si provava in contrario, per trarre la gente\nd\u2019errore; se lecitamente fare si poteva, considerato che gli uomini\nsono cupidi a guadagnare, male era a recare loro in sospetto, e\ncontaminare le coscienze di quello che lecito era per non discrete\npredicazioni.\nCAP. CVI.\n_Di certe rivolture di tiranni di Lombardia, e di pi\u00f9 cose per lo\ntradimento di Verona_\nDetto abbiamo poco addietro come il Gran Cane della Scala si tenea aver\nperduta Verona per operazione del signore di Mantova, ed era contro a\nlui forte inanimato per lo fallo ch\u2019egli avea fatto; essendo con lui\nnella lega s\u2019era rotto dalla lega degli altri, e trattava d\u2019allegarsi\ncoll\u2019arcivescovo di Milano e col marchese di Brandimborgo per far\nguerra coll\u2019arcivescovo insieme contro a Mantova, e l\u2019arcivescovo molto\nvi venia volentieri, e furono le cose tanto innanzi, che per tutto\ncorse la voce ch\u2019ell\u2019era fatta. Il comune di Vinegia conoscendo che\nquesta discordia poteva tornare a grande pericolo del loro comune e\ndegli altri loro collegati lombardi, mandarono di loro assentimento al\nGran Cane solenni ambasciadori, per rivocarlo alla lega e compagnia\nch\u2019aveano insieme, e far fare al signore di Mantova l\u2019ammenda del suo\nfallo; e seguendo gli ambasciadori solennemente quello che fu loro\ncommesso, operarono tanto, che \u2019l signore di Mantova fece l\u2019ammenda\ncome messer Gran Cane volle, e per la stima del danno ricevuto diede\ntrentamila fiorini d\u2019oro a messer Gran Cane, i quali promise, e pag\u00f2\npoi per lui il comune di Vinegia, e il signore di Mantova ne di\u00e8 loro\nin guardia tre buone castella: e per questo modo fu fatta la pace, e\nlasciati di prigione que\u2019 di Mantova, e messer Gran Cane torn\u00f2 alla\nlega com\u2019era in prima. Essendo raffermata la lega, ne\u2019 porti di Mantova\nsi trov\u00f2 in un d\u00ec molta mercatanzia di Milanesi e d\u2019altri distrettuali\ndell\u2019arcivescovo, e perocch\u00e8 a stanza dell\u2019arcivescovo il signore di\nMantova s\u2019era mosso a far quello onde gli era convenuto fare ammenda di\nfiorini trentamila d\u2019oro, di fatto fece arrestare tutto, e ripresesi\nsopra i Milanesi e distrettuali dell\u2019arcivescovo di pi\u00f9 che non\nrestitu\u00ec al signore di Verona, la qual cosa l\u2019arcivescovo e\u2019 suoi si\nrecarono a grande onta.\nCAP. CVII.\n_Del processo della grande compagnia di fra Moriale della Marca._\nTornando alla nuova tempesta di fra Moriale e di sua compagnia, rimasi\nnella Marca dopo la partita di messer Malatesta dall\u2019assedio di\nFermo, cominciarono a cavalcare il paese e fare in ogni parte preda,\ne vinsono per forza Mondelfoglio, e le Fratte, e san Vito, e sei\naltre castelletta nel paese, e scorsono a Iesi, e rubarono i borghi\ne predarono il paese. Appresso combatterono Feltrino e vinsonlo per\nforza, e uccisonvi da cinquant\u2019uomini, e perch\u2019era pieno d\u2019ogni bene\nda vivere vi dimorarono un mese. E in fra questo tempo ebbono Monte\ndi Fano, e Monte di Fiore, e pi\u00f9 altre castella d\u2019intorno per paura\nfeciono i loro comandamenti. Per la fama delle grandi prede che faceva\nla compagnia, molti soldati ch\u2019aveano compiute le loro ferme, senza\nvolere pi\u00f9 soldo traevano a fra Moriale, e assai in prova si facevano\ncassare per essere con lui, ed egli li faceva scrivere, e con ordine\ndava a catuno certa parte al bottino, e tutte le ruberie e prede\nch\u2019erano venali facea vendere, e sicurava i comperatori, e facevali\nscorgere lealmente, per dare corso alla sua mercatanzia. E ordin\u00f2\ncamarlingo che ricevea e pagava, e fece consiglieri e segretari con\ncui guidava tutto; e da tutti i cavalieri e masnadieri era ubbidito\ncome fosse loro signore, e mantenea ragione tra loro, la quale faceva\nspedire sommariamente. E cos\u00ec ordinati cavalcarono, e mutavano paese, e\nvennono a Montelupone, il quale per paura s\u2019arrend\u00e8 loro, e stettonvi\nventi d\u00ec; e raunata ivi la preda fatta nel paese e la sostanza\ndel castello, ogni cosa ne trassono senza far male agli uomini, e\ncavalcarono alla marina e presono Umana, e combatterono Orivolo, e non\nl\u2019ebbono, e da Umana andarono sopra Ancona, e presono la Falconara\na patti salve le persone. E in que\u2019 d\u00ec ebbono otto castella che\ns\u2019arrenderono loro in sull\u2019Anconitano, fuggendo le persone, e lasciando\nle terre e la roba alla compagnia. Appresso tornarono sopra Iesi, e per\nforza ebbono Alberello ed un altro castello, e tutto recarono in preda,\ne poi andarono a Castelficardo pieno di molta vittuaglia, e quello\ncombattendo vinsono per forza. E del mese di marzo presono il castello\ndelle Staffole pieno di molto vino, ed il Massaccio e la Penna. E per\ntutto quel paese il residuo del verno sparsono la loro irreparabile\ntempesta, rubando e uccidendo, e facendo ogni sconcio male a\u2019 paesani,\ne singolarmente pi\u00f9 a\u2019 sudditi di messer Malatesta, avendo delle sue\nterre quarantaquattro castella in loro servaggio, e avendo stadico un\nfigliuolo del capitano di Forl\u00ec, e Gentile da Mogliano, per li soldi\nche promessi aveano alla detta compagnia.\nCAP. CVIII.\n_Come il legato prese Toscanella._\nIn quest\u2019anno del mese di marzo, il cardinale di Spagna legato del papa\nfacendo guerra col prefetto di Vico, per trattato gli tolse Toscanella,\ne questo fu il primo acquisto che il legato facesse contro a lui:\ndappoi seguitarono le cose a maggiori fatti, come seguendo nostra\nmateria diviseremo. In questi d\u00ec, il marchese di Ferrara parendogli\nessere debole nella nuova signoria, perch\u00e8 Francesco marchese, il\nquale si tenea dovere di ragione essere signore, gli s\u2019era rubellato,\no che trovasse alcuno trattato nella citt\u00e0 contro a se, o ch\u2019egli il\ncontraffacesse, a che si di\u00e8 pi\u00f9 fede, cacci\u00f2 di Ferrara de\u2019 suoi\nfratelli e alquanti de\u2019 maggiori cittadini, confinandoli fuori del suo\ndistretto, e cominci\u00f2 a stare pi\u00f9 fornito di gente forestiera, e in\nmaggiore guardia.\nCAP. CIX.\n_Come messer Malatesta si ricomper\u00f2 dalla compagnia._\nEssendo la compagnia di fra Moriale cresciuta di cavalieri e di\nmasnadieri, e nutricata il verno sopra le terre che distruggea,\nmesser Malatesta da Rimini, avvisato e provveduto in fatti di guerra,\nconsiderando la gente della compagnia, e la loro troppa sicurt\u00e0\npresa per non avere avversario, e il luogo dov\u2019erano e il loro\nreggimento, pens\u00f2, che dove i comuni di Toscana lo volessono atare,\nch\u2019egli vincerebbe la detta compagnia; e non parendogli materia da\ncommettere ad ambasciadori, in persona venne a Perugia, e poi a Siena,\ne appresso a Firenze, e mostr\u00f2 a ciascun comune il pericolo che potea\nloro venire di quella compagnia se contra loro non si riparasse, e\ndomandava a catuno comune aiuto di gente d\u2019arme, e dove dato gli\nfosse, con ottocento barbute di buona gente ch\u2019egli avea da se, e col\nsuo popolo e col vantaggio ch\u2019avea intorno a loro delle sue terre,\npromettea di rompere e di sbarattare la compagnia in breve tempo;\ne questo dimostrava per vere e manifeste ragioni; ma catuno comune\navendo la tempesta da lungi se ne curava poco. I Perugini che furono\nprima richiesti, dissono, che in ci\u00f2 seguiterebbono la volont\u00e0 de\u2019\nFiorentini, e in questo modo risposono anco i Sanesi. E venuto messer\nMalatesta colle lettere de\u2019 detti comuni a Firenze, i Fiorentini udita\nla sua domanda gli diedono dugento cavalieri, i quali men\u00f2 con seco\nfino a Perugia. I Perugini e\u2019 Sanesi non vollono attenere la loro\npromessa, e per\u00f2 i cavalieri de\u2019 Fiorentini si tornarono addietro.\nMesser Malatesta vedendosi abbandonato dall\u2019aiuto de\u2019 comuni di\nToscana, e che tempo era che la compagnia potea procacciare altrove,\ntratt\u00f2 con loro, e venne a concordia di dare fiorini quarantamila d\u2019oro\nalla compagnia, parte contanti, e degli altri li sicur\u00f2, dando loro per\nistadico il figliuolo, e si partirono del suo distretto, e promisono\ndi non tornarvi infra certo tempo. E fatto l\u2019accordo, e partita\nla compagnia, messer Malatesta cass\u00f2 quasi tutti i suoi soldati,\ni quali di presente s\u2019aggiunsono alla compagnia; la quale essendo\nmolto cresciuta di baroni, e di conti e di conestabili, si cominci\u00f2 a\nchiamare la gran compagnia, e tribolando la Marca, e la Romagna, e il\nDucato, innanzi che di l\u00e0 si partissono rifermarono la loro compagnia\nper certo tempo, e tutti la giurarono nelle mani di messer fra Moriale.\nE bench\u00e8 fra loro fossono grandi baroni alamanni, tutti vollono che il\ntitolo della compagnia, e la capitaneria fosse in messer fra Moriale,\nma dieronli quattro segretari de\u2019 cavalieri, che l\u2019uno fu il conte di\nLando, e un barone di gran seguito ch\u2019avea nome Fenzo di... e il conte\nBroccardo di.... e messer Amerigo del Canaletto; e de\u2019 masnadieri\nquattro conestabili italiani. In costoro era la deliberazione\ndell\u2019imprese e il segreto consiglio, e feciono altri quaranta\nconsiglieri, e un tesoriere a cui venia tutta l\u2019entrata delle loro\nprede, e questi pagava e prestava a\u2019 comandamenti del capitano. Dato\nl\u2019ordine, il capitano era ubbidito da tutti come fosse l\u2019imperadore, e\nfacea la notte cavalcare di lungi dal campo venticinque o trenta miglia\nov\u2019egli comandava, e il d\u00ec tornavano con grandi prede, e ogni cosa\nfedelmente rassegnavano al bottino. E perocch\u00e8 quasi quanti conestabili\navea in Italia al soldo de\u2019 signori e de\u2019 comuni aveano parte di loro\nmasnade nella compagnia, erano s\u00ec baldanzosi, che di niuna gente di\nsoldo temeano, e per\u00f2 tutti i comuni minacciavano se non dessono loro\ndenari di venire sopra loro. E mandarono ambasciadori nel Regno, ed\nebbono promissione dal re Luigi di quarantamila fiorini d\u2019oro, i\nquali non mand\u00f2 loro, di che cari gli feciono poi costare. Ebbono dal\ncapitano di Forl\u00ec e da Gentile da Mogliano trentamila fiorini d\u2019oro, e\nda messer Malatesta quarantamila. Ed essendo richiesti dall\u2019arcivescovo\ndi Milano di volerli conducere a suo soldo contro alla lega, e da\nquelli della lega contro all\u2019arcivescovo, catuno teneano in speranza e\ncon niuno si fermavano, e anche teneano trattato col prefetto di Vico\ncontro al legato, e per\u00f2 non si potea sapere che dovessono fare, e\nmolto manteneano bene loro credenza. E in fine del mese di maggio 1354\nse ne vennono a Fuligno, e dal vescovo ebbono mercato d\u2019ogni vittuaglia\nabbondevolmente. Lasceremo ora la gran compagnia che n\u2019\u00e8 assai detto, e\nnon senza debita scusa, per la grande e pericolosa novit\u00e0 che ne segu\u00ec\nin Italia, e diremo dell\u2019altre cose che prima ci occorrono a raccontare.\nCAP. CX.\n_D\u2019un fanciullo mostruoso nato in Firenze._\nIn questo verno del detto anno nacque in Firenze nel popolo di san\nPiero Maggiore un fanciullo maschio figliuolo d\u2019uno de\u2019 maggiori\npopolari di quello popolo, ch\u2019avea tutte le membra umane dal collo\na\u2019 piedi, e il viso suo non avea effigie umana; la faccia era tutta\npiana senza bocca, e avea un foro per lo quale messo lo zezzolo della\npoppa traeva il latte, e poppava, e nella superficie della testa al\ndiritto, sopra dove doveano essere gli occhi avea due fori: e\u2019 vivette\npi\u00f9 giorni, e fu battezzato, e seppellito in san Piero Maggiore. E\npoco appresso una gentile donna moglie d\u2019un cavaliere avendo fatto un\nfanciullo un mese dinanzi, partor\u00ec un\u2019altra materia di carne a modo\nd\u2019un cuore di bue, di peso di libbre quindici, con alcuni dimostramenti\nma non chiari d\u2019effigie umana, senza distinzione di membri, e come\nquesto ebbe partorito, incontanente mor\u00ec la donna.\nCAP. CXI.\n_Come furono cacciati i guelfi di Rieti e da Spoleto._\nDe mese d\u2019aprile, del detto anno 1354, i guelfi di Rieti avendo il\ngovernamento della citt\u00e0, e podest\u00e0 e capitano dal re Luigi, montati\nin superbia per animo di parte oltraggiavano i ghibellini di quella\nterra, e tanto montarono gli oltraggi, ch\u2019e\u2019 guelfi mossono romore per\ncacciare i ghibellini, e catuna parte fu sotto l\u2019arme, e di cheto senza\nfare altra novit\u00e0 s\u2019acquetarono a quella volta; e nondimeno catuna\nparte rimase in gran sospetto e riguardo l\u2019uno con l\u2019altro, e in questo\nmodo erano stati lungamente. Avvenne che i guelfi, avendo a loro stanza\ngli uficiali della terra, con ordine fatto, una domenica mattina a d\u00ec\n20 d\u2019aprile subito presono l\u2019arme e corsono alla piazza, gridando:\nmuoiano i ghibellini. I cittadini di quella parte temendo del subito e\nnon pensato romore, francamente s\u2019armarono e corsono alla piazza per\ndifendersi, e quivi cominci\u00f2 aspra e crudele battaglia, e senza alcuno\nriguardo uccideva e fediva l\u2019uno l\u2019altro, e dur\u00f2 assai, che niuno\nperdeva di suo terreno; in fine ghibellini disperati di loro salute\nruppono una barra incatenata che gli dividea da\u2019 guelfi, e con grande\nempito d\u2019amaro cuore assalirono i guelfi per s\u00ec fatto modo, che gli\nruppono, e senza ritegno gli seguitarono uccidendone quanti giugnere ne\npoteano. E in questa rotta furono morti venticinque cittadini di nome\ne assai pi\u00f9 degli altri, e molti per campare si gittarono nel fiume, e\nsommersi annegarono in quello. I ghibellini seguendo loro avventurato\ncaso cacciarono i rettori che v\u2019erano per lo re Luigi, e rimasi signori\ndella citt\u00e0 riformarono il reggimento di quella a loro volont\u00e0, e per\nquesta novit\u00e0 di Rieti furono cacciati di Spoleto i caporali guelfi che\nv\u2019erano, ma non con battaglia n\u00e8 a furore di popolo.\nLIBRO QUARTO\n_Comincia il quarto libro, e prima il Prologo._\nCAPITOLO PRIMO.\nAssai si pu\u00f2 alcuna volta comprendere per gli effetti delle cose\nmondane, che il senno aggiunto alla nobilt\u00e0 dell\u2019animo, all\u2019altezza\ndello stato, alla ricchezza e potenza reale, operato con piena\nprovvidenza, fornito e apparecchiato di grandissime forze, non puote\npervenire n\u00e8 acquistare, eziandio con sommo studio e con lieve\nresistenza quelle cose che con giusta causa l\u2019appetito ha richiesto, le\nquali, volto il tempo pochi anni, e mutato il principe per successione,\ncon certo mancamento di tutte le predette cose, per altre non\nprovvedute vie della variata fortuna, trovarsi lievemente vittorioso in\nquelle. Onde presumere certa confidenza di se, per senno, o per virt\u00f9,\no per potenza, alcuna volta con grave turbazione d\u2019animo si trova\ningannato; perocch\u00e8 non \u00e8 in potest\u00e0 degli uomini il consiglio e la\nvolont\u00e0 di Dio. E avendoci gi\u00e0 condotta la sua materia al cominciamento\ndel quarto libro, alcuno certo e manifesto esempio alle predette cose\nin prima ci s\u2019offera a raccontare.\nCAP. II.\n_Comparazione dal re Ruberto al re Luigi._\nManifesto fu appresso la morte del re Ruberto di Gerusalemme e di\nCicilia, il quale avea regnato trentatr\u00e8 anni e mesi, il cui pari ne\u2019\nsuoi tempi tra\u2019 principi de\u2019 cristiani non si trov\u00f2 di sapienza e\nd\u2019intelletto, in virt\u00f9 e in vita onesta, e in adornamento di bellissimi\ncostumi, pieno di ricchezze, fornito di grande e nobile cavalleria di\nsuoi baroni e sudditi, apparecchiato di navili sopra gli altri signori,\navendo dirizzato l\u2019animo con sommo studio a racquistare l\u2019isola di\nCicilia, la quale di ragione s\u2019apparteneva alla sua signoria come\nprincipale membro del suo reame, con continovi trattati, con spessi e\ndiversi assalimenti, con generali armate, guidate dalla sua persona,\ne dal figliuolo e da altri, di centoventi e di centosessanta galee,\ncon molto altro navilio per volta e di pi\u00f9 e di meno, con duemila e\npi\u00f9 cavalieri per armata alcuna volta e popolo senza numero, per molti\nanni cercato di racquistare la detta isola, o d\u2019avere alcuna terra\no porto in quella per potere alquanto appagare l\u2019animo suo, la qual\ncosa fatta mai non gli venne con alcuna perfezione; e il re Luigi\nsuo nipote intitolato di quel medesimo regno da santa Chiesa, povero\nd\u2019avere e di consiglio, e non ubbidito da\u2019 suoi regnicoli, impotente di\ngente d\u2019arme, mal destro a potere reggere o guardare il suo reame, non\nche avesse potuto cercare a racquistare suo reame della Cicilia, non\nsufficiente d\u2019armare dieci galee, n\u00e8 di reprimere un solo suo barone\na quel tempo; ma le divisioni e sette crudeli e mortali de\u2019 baroni\ndell\u2019isola, Catalani e Italiani, come gi\u00e0 \u00e8 detto, aveano a tanto\ncondotto l\u2019isola, che di gran parte fu fatto signore, come appresso\nracconteremo.\nCAP. III.\n_Come gran parte dell\u2019isola di Cicilia venne all\u2019ubbidienza del re\nLuigi._\nAvendo raccontato addietro molte volte del male stato dell\u2019isola di\nCicilia, al presente ci occorre a dire come per la detta cagione don\nLuigi figliuolo di don Pietro, a cui s\u2019appartenea d\u2019essere signore,\navea trattato accordo col re Luigi, ed erano venuti a concordia che\nsi dovesse nominare re di Trinacria, e riconoscere la Cicilia dal re\nLuigi e fargliene omaggio, e dargliene ogni anno certa somma sopra il\ncenso della Chiesa per suo omaggio; e a questo s\u2019erano accordati, ma\nnon aveano ancora piuvicata la pace n\u00e8 fatte l\u2019obbligazioni. In questo\nstante, il conte Simone di Chiaramonte capo della setta degl\u2019Italiani,\nil quale aveva in sua forza molte citt\u00e0 e castella dell\u2019isola, avendo\nanche lungamente tenuto trattato col re Luigi acciocch\u00e8 la concordia\ndel re non si facesse, pervenne al suo trattato con l\u2019opere. Ed essendo\nallora l\u2019isola in gran fame, promise a\u2019 suoi soccorso di vittuaglia e\nforte braccio alla loro difesa: i popoli per l\u2019inopia gli assentirono,\ne il re Luigi si ferm\u00f2 con lui. E facendo suo isforzo, mand\u00f2 messer\nNiccola Acciaiuoli grande siniscalco, ch\u2019era stato menatore di questo\ntrattato, con cento cavalieri e con quattrocento fanti di soldo in su\nl\u2019isola, con sei galee e due panfani, e tre legni di carico, e trenta\nbarche grosse cariche di grano e d\u2019altra vittuaglia. Prima fu dato\nloro il forte castello di Melazzo, ove lasci\u00f2 cinquanta cavalieri e\ncento fanti, e appresso con tutto il navilio e col resto della gente\ndell\u2019arme se n\u2019and\u00f2 a Palermo, e con gran festa fu ricevuto da\u2019\nPalermitani, che per fame pi\u00f9 non aveano vita, e prese la signoria\ndella citt\u00e0 di Palermo e la guardia del castello con quella gente\nch\u2019egli avea, e delle castella e del suo distretto. E incontanente\nle sette degl\u2019Italiani fece rubellare a don Luigi e alla parte de\u2019\nCatalani, e seguirono quelli di Chiaramonte, dandosi al re Luigi la\ncitt\u00e0 di Trapani, e quella di Saragozza, Girgenti, la Licata, Mazzara,\nMarsala, Castro Gianni, e molte altre terre e castella, che in tutto\nfurono tra citt\u00e0 e buone terre e castella centododici, alle quali il\ndetto re Luigi per povert\u00e0 di gente e di danari non pot\u00e8 mandare aiuto\nd\u2019alcuna forza di gente d\u2019arme oltre a quella ch\u2019era in Palermo e in\nMelazzo; ma tanta era l\u2019impossibilit\u00e0 dell\u2019altra parte, che la cosa\nrimase senza movimento di altra gente alcuno tempo. Alla parte del\nre Luigi rispondeva la Calabria, portando loro vittuaglia ond\u2019elli\naveano gran bisogno, e questo gli sostenea in fede col detto re Luigi.\n\u00c8 vero che fu biasimato di non avere tenuto fede a don Luigi del\ntrattato ch\u2019avea fatto con lui per pace dell\u2019isola, e la scusa del re\nfu, dicendo, che non gli avea attenuti i patti. Il vero rimase nel\nsuo luogo, e il fatto segu\u00ec come narrato abbiamo. Questa novit\u00e0 fu\nnell\u2019isola a d\u00ec 17 d\u2019aprile 1354.\nCAP. IV.\n_Come l\u2019arcivescovo cominci\u00f2 guerra contro a\u2019 collegati di Lombardia._\nVedendo l\u2019arcivescovo di Milano che il comune di Vinegia avea rannodata\ne riferma la lega tra i Lombardi, innanzi che fossono forniti di\ngente d\u2019arme, essendone egli a destro, fece muovere da Parma duemila\nbarbute e gran popolo e scorrere infino a Modena, per tornare addietro\ne assediare Reggio; e nel Modenese trovarono cavalieri della lega\nch\u2019andavano a Reggio i quali tutti presono. E tornati a Reggio,\nl\u2019assediarono del detto mese d\u2019aprile, e all\u2019assedio stettono poi\nlungamente con pi\u00f9 bastite, e quelli della lega per lungo tempo non\nebbono podere di levarlone; ma la citt\u00e0 sostennono e difesono, sicch\u00e8\nnon l\u2019ebbe.\nCAP. V.\n_Come il re d\u2019Ungheria pass\u00f2 con grande esercito contra un re de\u2019\nTartari._\nIn quest\u2019anno e in questo medesimo tempo, Lodovico re d\u2019Ungheria\naccolse suo sforzo, e di quello di Pollonia e di quello di Prosclavia\nsuoi uomini, e apparecchiato grande carreggio di vittuaglia, con\ndugento migliaia di cavalieri andando quindici d\u00ec per luoghi diserti\ncon grande travaglio, pass\u00f2 nel reame d\u2019un gran re della gesta de\u2019\nTartari. E giunto nel reame di colui, essendo per cominciare a fare\ndanno nel paese, il re di quello paese, ch\u2019era assai giovane, mand\u00f2\npregando quello d\u2019Ungheria che gli desse licenza che con poca compagnia\npotesse venire a lui sicuramente, e impetrata la licenza, venne a lui\ncon cento baroni molto adorni riccamente apparecchiati; e fatta la\nriverenza, domand\u00f2 il re d\u2019Ungheria perch\u00e8 egli era venuto con forza\nd\u2019arme nel suo reame, e quello ch\u2019e\u2019 volea da lui. Il re gli disse,\nch\u2019era venuto sopra lui perch\u00e8 non era cristiano, e che volea tre cose:\nla prima, che divenisse cristiano con la sua gente: la seconda, che lo\nriconoscesse per suo maggiore: la terza, che in segno d\u2019omaggio gli\ndesse ogni anno certo tributo, ed egli sarebbe suo protettore. E il\ngiovane disse: vedi re d\u2019Ungheria, la mia forza \u00e8 troppo maggiore della\ntua, solo del mio reame senza l\u2019aiuto de\u2019 miei maggiori; e faccioti\ncerto, che condotto se\u2019 in parte, che s\u2019io volessi gran vittoria potrei\naverla di te e della tua gente: ma perocch\u2019io ho animo di divenire\ncristiano, accetto di volere fare le tue domande, e intendo di farle\na tempo col tuo aiuto e del papa; e rimasi in concordia, fece grande\nonore al re d\u2019Ungheria, e accompagnollo fino a\u2019 confini del suo reame.\nMa in quello venire, per invidia i grandi baroni d\u2019Ungheria non gli\nfeciono onore, per impedire che il loro re per l\u2019acquisto di costui non\ndivenisse grande di soperchio, e fu materia di grande sconcio del buon\nvolere ch\u2019aveva il re de\u2019 Tartari, e dell\u2019intenzione del re d\u2019Ungheria.\nCAP. VI.\n_De\u2019 grilli ch\u2019abbondarono in Barberia e poi in Cipri._\nIn quest\u2019anno abbondarono in Barberia, a Tunisi e nelle contrade vicine\ntanta moltitudine di grilli che copersono tutto il paese, e rosono e\nconsumarono tutte l\u2019erbe vive che trovarono sopra la terra, e del puzzo\nche uscia della loro corruzione si corruppe tanto l\u2019aria del paese,\nche ne seguit\u00f2 grande mortalit\u00e0 negli uomini, e gran fame a tutta la\nprovincia. E questa medesima pestilenza di grilli nel seguente anno\noccup\u00f2 l\u2019isola di Cipri per s\u00ec sconcio modo, che le strade e i campi\nn\u2019erano pieni, alti da terra un mezzo braccio e pi\u00f9, e guastarono ci\u00f2\nche v\u2019era di verde. E per cessare la pestilenza della loro corruzione\nil re fece per decreto, che ogni uomo grande e popolare, barone e\nprelato, cittadino e contadino, ne dovesse rassegnare certa misura\nagli ufficiali eletti sopra ci\u00f2 per lo re, i quali feciono fare per\ncampi grandi fosse, ove gli metteano e ricoprivano. E per questa legge\ni villani si dispuosono a fare loro civanza, e patteggiarono con gli\nuomini ch\u2019aveano a fare il servigio che comandato e imposto gli era,\ne aveano della misura certo prezzo, e rassegnavanli per nome di colui\nche gli avea pagati agli uficiali deputati sopra ci\u00f2, i quali teneano\nil conto di catuno; e dur\u00f2 questa maladizione in quell\u2019isola parecchi\nanni. Con tutto l\u2019argomento che fu utilissimo ad alleggiare i campi e\ncessare la corruzione, fu grande noia e confusione a tutto il paese.\nCAP. VII.\n_D\u2019una notabile maraviglia della reverenza, della tavola di santa Maria\nin Pineta._\nEssendo per influenza di costellazione e di segni avvenuti in cielo\nin quest\u2019anno continovato tre mesi o pi\u00f9, nel tempo che le biade\nhanno maggiore bisogno delle piove, continovato secco, erano quelle\ngi\u00e0 in tutta Toscana aride e in estremi, da sperare sterilit\u00e0 e\nfame: i Fiorentini temendo di perdere i frutti della terra ricorsone\nall\u2019aiutorio divino, facendo fare orazioni e continove processioni\nper la citt\u00e0 e per lo contado, e quante pi\u00f9 processioni si faceano\npi\u00f9 diventava il d\u00ec e la notte sereno il cielo. I cittadini vedendo\nche questo non giovava, con grande divozione e speranza ricorsono\nall\u2019aiuto di nostra Donna, e feciono trarre fuori l\u2019antica figura di\nnostra Donna dipinta nella tavola di santa Maria in Pineta, e a d\u00ec 9 di\nmaggio 1354, fatto apparecchiamento per lo comune di molti doppieri, e\nmosso il chericato con tutte le religioni, col braccio di messer san\nFilippo apostolo, e con la venerabile testa di san Zanobi, e con molte\naltre sante reliquie, quasi tutto il popolo uomini e donne e fanciulli,\nco\u2019 priori e con tutte le signorie di Firenze, sonando le campane del\ncomune e delle chiese a Dio lodiamo, andarono incontro alla detta\ntavola infino fuori della porta di san Piero Gattolino: e la detta\ntavola guardavano e conducevano quelli della casa de\u2019 Buondelmonti\npadroni della detta pieve reverentemente con gli uomini del piviere. E\ngiunto il vescovo con la processione, e con le reliquie e col popolo\nalla santa figura, con grande reverenza e solennit\u00e0 la condussono\nfino a san Giovanni, e di l\u00e0 fu condotta a san Miniato a Monte, e poi\nriportata nel suo antico luogo a santa Maria in Pineta. Avvenne, che in\nquella giornata continovando la processione il cielo empi\u00e8 di nuvoli,\ne il secondo d\u00ec sostenne il nuvolato, che per molte volte prima s\u2019era\ncontinovo per la calura consumato, il terzo d\u00ec cominciarono a stillare\nminuto e poco, e il quarto a piovere abbondantemente, e consegu\u00ec l\u2019uno\nd\u00ec appresso l\u2019altro sette d\u00ec continovi un\u2019acqua minuta e cheta che\ntutta s\u2019impinguava nella terra, in singolare e manifesto beneficio di\nquello che bisognava a racquistare le biade e\u2019 frutti; e non fu meno\nmirabile dono di grazia per l\u2019ordinata e utile piova, che per la piova\nmedesima. Avvenne, che dove si stimava sterilit\u00e0 grande per la ricolta\nprossima a venire, consegu\u00ec ubertosa di tutti i beni che la terra\nproduce.\nCAP. VIII.\n_Come il vicario di Bologna mando l\u2019oste sopra Modena con due quartieri\ndi Bologna._\nEssendo cominciata la guerra tra l\u2019arcivescovo e la lega de\u2019 Lombardi,\nmesser Giovanni da Oleggio vicario dell\u2019arcivescovo nella citt\u00e0 di\nBologna, a d\u00ec 11 di maggio del detto anno, mand\u00f2 sopra la citt\u00e0 di\nModena ottocento cavalieri di soldo, e due quartieri di Bologna,\ni quali v\u2019andarono sforzati e di mala voglia; e da Parma vi mand\u00f2\nl\u2019arcivescovo duemila barbute; e giunti a Modena corsono il paese,\nardendo e guastando il contado, e poi si puosono ad assedio alla citt\u00e0\nmolto di presso. Ed essendovi stati fino all\u2019uscita di maggio, temendo\ndella gran compagnia di fra Moriale ch\u2019era in Toscana, e davano voce\nd\u2019andare a Bologna, subitamente abbandonarono l\u2019assedio, e sconciamente\ncon alcuno danno tornarono a Bologna e a Parma, avendo a\u2019 Modenesi\nfatto danno assai.\nCAP. IX.\n_Come il legato e i Romani guastarono il contado di Viterbo._\nDel detto mese di maggio, del detto anno, vedendo il legato la\ncontumacia e la malizia del prefetto da Vico, e che la sua superbia\nogni d\u00ec montava in vergogna di santa Chiesa, provvide che contro a\nlui bisognava altre operazioni che suono di campane e fumo di candele\nspente. E per\u00f2 accolse gente d\u2019arme, tanto ch\u2019ebbe milletrecento\ncavalieri di soldo, e richiese il popolo di Roma per fare il guasto\nsopra la citt\u00e0 di Viterbo, i quali Romani per grande animo ch\u2019aveano\ndi fare danno a\u2019 Viterbesi, essendo la gente del legato sopra Viterbo,\nvi mandarono diecimila uomini, e aggiunti con le masnade del legato,\nin pochi d\u00ec feciono assai gran danno intorno a Viterbo. E saziata in\nparte la volont\u00e0 del popolo romano si tornarono a Roma: e il legato\nabbattuto alcuna parte dell\u2019orgoglio del prefetto, e conturbato l\u2019animo\nde\u2019 cittadini contro al tiranno, se ne torn\u00f2 con la sua gente a\nMontefiascone senza alcuno impedimento.\nCAP. X.\n_Come il prefetto s\u2019arrend\u00e8 al legato liberamente._\nIl legato del papa avendo fatto guastare intorno a Viterbo, seguendo\nd\u2019abbattere il prefetto, sentendolo in Orvieto vi cavalc\u00f2 con tutta la\nsua gente d\u2019arme, e pose l\u2019assedio alla citt\u00e0 strignendola intorno con\npi\u00f9 battifolli, facendo correre ogni d\u00ec infino alle porti. Il prefetto\nche v\u2019era dentro mal veduto da\u2019 cittadini, ed avea cercato di volere\ndare per moglie la figliuola sua al fratello di fra Moriale con gran\ndote per avere aiuto della sua compagnia, e averne perduta la speranza\nd\u2019ogni altro soccorso, si pens\u00f2 per l\u2019odio che i cittadini d\u2019Orvieto e\ndi Viterbo gli portavano che un d\u00ec a furore di popolo sarebbe morto o\ndato preso al legato, e tosto gli sarebbe venuto fatto per la piccola\nforza che da se avea, e perch\u00e8 gli Orvietani erano guelfi e uomini di\nsanta Chiesa, e mal volontieri sosteneano l\u2019assedio, per la qual cosa\ncome uomo savio e avveduto de\u2019 casi del mondo, non sapendo vedere altro\nrimedio a\u2019 fatti suoi, si dispose a volere accordo col legato, e per\nquesto acchet\u00f2 gli animi de\u2019 cittadini; e incontanente mand\u00f2 al comune\ndi Perugia che mandassono alcuno ambasciadore al legato, che per le\nloro mani voleva fare l\u2019accordo con lui. Il comune vi mand\u00f2 solenni\nambasciadori a ci\u00f2 fare, ma il legato altre volte ingannato da lui e\nda\u2019 suoi baratti non li volle udire, e con ogni sollecitudine stringeva\nla terra pi\u00f9 l\u2019un d\u00ec che l\u2019altro, e a niuno patto si voleva recare\ncol prefetto. E stringendo la paura il prefetto, mand\u00f2 il figliuolo\nal legato dicendo, che gli piacesse venire per la citt\u00e0, e ricevere\nil prefetto senza alcuno patto alla sua misericordia. L\u2019altra mattina\nvenne il legato colla sua gente a Orvieto, e il prefetto a piede con\nmolti cittadini gli venne incontro fuori della citt\u00e0 bene un miglio, e\ngiunto a lui, si gitt\u00f2 a\u2019 piedi del cavallo ginocchione domandandogli\nmisericordia, rendendo se e tutte le terre che teneva di santa Chiesa\nalla sua volont\u00e0. Il legato il fece stare alquanto ginocchione, e\npoi gli comand\u00f2 che montasse a cavallo, e montato dietro a lui se\nn\u2019entrarono in Orvieto, ove il legato fu ricevuto con grande festa e\nallegrezza da\u2019 cittadini. E appresso mand\u00f2 il legato a Viterbo, e fugli\nrenduta la citt\u00e0 e le castella, e cos\u00ec tutte l\u2019altre terre che tenea\nil prefetto, e il prefetto e \u2019l figliuolo rimasono appresso del legato\ncol loro patrimonio, e oltre a ci\u00f2 gli di\u00e8 il legato per certo tempo la\nsignoria della citt\u00e0 di... terra di buona rendita per la pastura delle\nbestie.\nCAP. XI.\n_Come il popolo di Bologna si lev\u00f2 a romore per avere loro libert\u00e0, e\nfu in maggiore servaggio._\nDel mese di giugno del detto anno, messer Giovanni da Oleggio vicario\ndi Bologna essendo assicurato de\u2019 fatti della compagnia intendeva\ndi riporre l\u2019oste a Modena, e fece comandamento a due quartieri\ndi Bologna che s\u2019apparecchiassono dell\u2019armi, e a mille uomini di\ncatuno degli altri due quartieri, per andare nell\u2019oste a Modena. I\ncittadini si gravavano di questo fatto per due cagioni, l\u2019una, perch\u00e8\nparea loro troppo aspro servaggio essere mandati nell\u2019oste a modo di\nsoldati senza soldo, e l\u2019altra, che que\u2019 di Modena erano loro vicini\ne antichi amici. E per\u00f2 venuto il termine assegnato, il signore fece\nsollecitare la gente co\u2019 suoi bandi e stormeggiare le campane, ma\nper\u00f2 niuno s\u2019armava o facea vista di volere andare, e reiterati i\nbandi con grandi pene, cominci\u00f2 il popolo a mormorare, e appresso a\ndolersi l\u2019uno con l\u2019altro nelle vie e nelle piazze. In questo stante\ncominciarono alcuni a gridare popolo popolo; e udito il romore catuno\nprese l\u2019arme, e gran parte del popolo trasse a casa i Bianchi. Il\nd\u00ec era venuto da ricoverare loro franchigia: perch\u00e8 sentendo messer\nGiovanni da Oleggio il popolo armato contro a se impaur\u00ec s\u00ec forte,\nche non sapea che si fare, e racchiusesi nel suo castello. I soldati\nforestieri non faceano resistenza al popolo armato e commosso, e gran\nparte avrebbe seguito il popolo per paura di loro; nondimeno per non\nessere morti n\u00e8 rubati nella terra, si ridussono e ingrossavano alla\nfortezza del tiranno, essendo il popolo a casa i Bianchi. Messer Iacopo\nuomo di grande autorit\u00e0, pro\u2019 e ardito, capo di quella casa, montato a\ncavallo armato, e inviato verso la piazza col popolo, ove non avrebbe\ntrovato contasto, che non v\u2019era, e il popolo avrebbe preso ardire, e\ncacciato il tiranno, e assediatolo nel castello e presolo, che non\nv\u2019era rimedio, e quella citt\u00e0 tornava in libert\u00e0, ma non erano ancora\npuniti i loro peccati. E per\u00f2 avvenne, che andando messer Iacopo de\u2019\nBianchi col popolo infocato verso la piazza, il genero di messer Iacopo\ngli si fece incontro maliziosamente, ch\u2019era de\u2019 rientrati in Bologna,\ne amava il tiranno, e con mendaci parole gli mostr\u00f2, che l\u2019andare alla\npiazza era di gran pericolo a lui e al popolo. Il cavaliere invil\u00ec\ndando fede alle parole del genero, e di\u00e8 la volta, e tornossi a casa, e\nil popolo perd\u00e8 e raffredd\u00f2 il furore, e cominci\u00f2 catuno ad abbandonare\nle vie e le piazze ov\u2019erano ragunati per le vicinanze, e tornarsi\nalle proprie case. Il Bocca de\u2019 Sabatini e altri di nuovo tornati\nin Bologna per paura de\u2019 loro avversari cittadini presono l\u2019armi, e\nmontarono a cavallo e andarono al tiranno, dicendo, che \u2019l furore del\npopolo era tornato in paura, e che avendo le sue masnade a cavallo e a\npi\u00e8 correrebbono la terra senza trovare contasto. Il tiranno vedendo\nquesti cittadini prese ardire, e di\u00e8 loro cavalieri e masnadieri, e\nrimasesi nel castello in buona guardia. Costoro corsono la terra,\ngridando, viva il capitano, e in niuna parte trovarono resistenza o\ncontasto, ma vilissimamente i cittadini posono gi\u00f9 l\u2019armi. Il signore\nripreso l\u2019ardire sentendo disarmato il popolo, mand\u00f2 sue genti a casa\ni Bentivogli capo de\u2019 beccari, ch\u2019erano di gran podere nel popolo, e\npresine alquanti di loro fece rubare le case, e gli altri si fuggirono.\nAppresso mand\u00f2 e fece pigliare messer Iacopo de\u2019 Bianchi e un altro suo\nconsorto, e molti altri grandi cittadini, e senza troppa dilazione o\nprocessi fece a messer Iacopo e al consorto tagliare la testa: e questo\ngli avvenne per voler credere al consiglio del genero pi\u00f9 che alla sua\napparecchiata salute e del suo popolo; appresso fece decapitare uno\nde\u2019 Gozzadini valente uomo, e a pi\u00f9 de\u2019 Bentivogli e ad altri grandi\npopolani, che in tutto a questa volta furono trentadue, e molti ne\nritenne in prigione, de\u2019 quali parte ne condann\u00f2 in danari, e un\u2019altra\na\u2019 confini come a lui piacque. E avendosi cominciato a involgere nel\ncittadinesco sangue, divenne crudele e di maggiore furore contro a\u2019\nsuoi sudditi; onde i cittadini temeano s\u00ec forte, che non ardivano a\npena nelle loro case a favellare. Nondimeno per lo caso avvenuto, a\nlui entr\u00f2 tanta paura in corpo, che molti mesi stette rinchiuso nel\ncastello, e continuava ad accrescere gente, e fare maggiore guardia\nnella citt\u00e0, e i cittadini tenea sotto pi\u00f9 aspro giogo, come leggendo\nsi potr\u00e0 trovare.\nCAP. XII.\n_Come fu tolta l\u2019arme al popolo di Bologna._\nPochi d\u00ec appresso il tagliamento de\u2019 cittadini di Bologna, il tiranno\nmand\u00f2 per la citt\u00e0 che in fra certi d\u00ec a venire catuno cittadino\ndi Bologna portasse tutte le sue armi nella chiesa di san Piero, e\nrassegnassele agli uficiali che sopra ci\u00f2 avea deputati, sotto certa\npena a chi nol facesse: il vile popolo, che l\u2019armi non avea saputo\nadoperare per sua salute, con tanta fretta le port\u00f2 alla chiesa,\nche gli uficiali deputati a riceverle non poteano comportare la\ncalca. E il tiranno conosciuti gli uomini tornati peggio che pecore\nper la loro codardia gli tratt\u00f2 aspramente, e fece due quartieri di\nBologna costringere ad andare alle loro spese nell\u2019oste senz\u2019arme,\ne l\u00e0 dovessono stare quindici d\u00ec, tanto che gli altri due quartieri\ngli andassono a scambiare, e di presente fu ubbidito, andandovi ogni\nmaniera di gente con le mazze in mano; e quando gli ebbe cos\u00ec mossi,\nmut\u00f2 proposito temperando la crudelt\u00e0 in avarizia, e fece ordine che\nchi non vi volesse andare pagasse lire tre di bolognini per gita di\nquindici d\u00ec; e costrinse tutta la citt\u00e0 con certo ordine penale, che\nchi non osservasse catuno dovesse manicare pane di gabella, il quale\nfacea fare aspro e forte, n\u00e8 altro pane non s\u2019osava fare n\u00e8 cuocere\nnella terra, ond\u2019egli traeva molti danari. E allora avendo tra di que\u2019\ndi Bologna e che gli mand\u00f2 l\u2019arcivescovo duemila cavalieri e popolo\nassai, da capo ripose l\u2019assedio alla citt\u00e0 di Modena, e i Modenesi\nessendo forniti di cavalieri e di pedoni alla guardia, e d\u2019abbondanza\ndi vittuaglia, si stavano a guardare le mura, attendendo il soccorso di\nquelli della lega.\nCAP. XIII.\n_Come il legato ebbe la citt\u00e0 d\u2019Agobbio._\nDi questo mese di giugno del detto anno, ragunatisi insieme gli\nusciti d\u2019Agobbio con loro amist\u00e0 per andare a guastare il contado\nd\u2019Agobbio, richiesono il legato d\u2019aiuto; il legato comand\u00f2 loro che\nnon si movessono senza suo comandamento, dicendo, che non sarebbe\nonore di santa Chiesa ch\u2019egli assalisse prima la citt\u00e0 ch\u2019egli la\ntrovasse in colpa di disubbidienza o di ribellione: e per\u00f2 incontanente\nfece formare processo contro a Giovanni di Cantuccio il quale\ntirannescamente avea occupata quella terra, e mandogli comandando\nche restituisse la citt\u00e0 d\u2019Agobbio a santa Chiesa senza dilazione,\naltrimenti aspettasse la sentenza contro a se, e l\u2019oste sopra la\ncitt\u00e0 senza indugio. Giovanni sentendosi povero di danari, e senza\ngente d\u2019arme da potersi difendere, e odiato da\u2019 cittadini dentro, e\nsenza speranza di soccorso di fuori, e vedendo il legato potente e\nvittorioso, prese partito, e rispose, ch\u2019era apparecchiato a ubbidire,\ne cos\u00ec fece; e il legato mand\u00f2 a prendere la guardia e la signoria\ndella citt\u00e0 il conte Carlo da Doadola, e fecevelo suo vicario, il quale\ncon pace fu ricevuto nella citt\u00e0 a grande onore. E presa la signoria\ndella terra vi rimise gli usciti senza niuno scandalo, salvo messer\nIacopo Gabbrielli come gli fu imposto, perocch\u2019era grande e sentia del\ntiranno. Giovanni si present\u00f2 al legato, e rimase appresso di lui, e\nmesser Iacopo ch\u2019era suo nemico stando fuori d\u2019Agobbio prendea sue\ncivanze nelle rettorie, malcontento di non potere ritornare in Agobbio.\nLa citt\u00e0 fu riformata in libert\u00e0 del popolo al governamento di santa\nChiesa, come per antico si solea governare.\nCAP. XIV.\n_Come i Perugini non tennono fede a\u2019 Fiorentini e\u2019 Sanesi._\nTornando nostra materia a\u2019 fatti della compagnia di fra Moriale la\nquale avea vernato nella Marca, temendo i comuni di Toscana ch\u2019ella\nnon si stendesse sopra loro sprovveduti, s\u2019accolsono insieme a\nparlamento per loro ambasciadori, il comune di Firenze, e di Perugia,\ne quello di Siena, e feciono e fermarono lega e compagnia contro la\ndetta compagnia, e taglia di tremila cavalieri; e perocch\u2019ell\u2019era\npi\u00f9 vicina a Perugia, i Fiorentini mandarono la maggior parte de\u2019\ncavalieri che toccava loro della taglia, e metteano in concio di\nmandare loro il rimanente, e cos\u00ec aveano fatto i Sanesi, per riparare\nch\u2019ella non entrasse in Toscana. In questo tempo, del mese di giugno\ndel detto anno, la compagnia fu a Fuligno, e senza fare danno, ebbono\ndal vescovo che n\u2019era signore derrata per danaio, e licenza d\u2019entrare\nnella citt\u00e0 senz\u2019arme chi volea panni, o arnese o armadure comperare,\ne ivi si rifornirono d\u2019armadure e di molte altre cose di che aveano\ngrande bisogno. E stando ivi, mandarono cautamente per rompere la lega\nloro ambasciadori a Perugia, dicendo, che gli aveano per amici, e non\nintendeano di volere da loro se non vittuaglia derrata per danaio,\ne il passo per lo loro terreno. I Perugini vedendosi potere levare\nla compagnia da dosso senza loro danno, ruppono la fede della lega\npromessa a\u2019 Fiorentini e a\u2019 Sanesi, e senza significare loro alcuna\ncosa, o rimandare addietro i cavalieri a\u2019 detti comuni ch\u2019aveano\ndella taglia, s\u2019accordarono con la compagnia, e diedono il passo e la\nvittuaglia abbondantemente. Messer fra Moriale vedendosi avere rotta\nla lega de\u2019 comuni, baldanzosamente venne verso Montepulciano con la\nsua compagnia, e prese la via per Asciano, ed entr\u00f2 molto subitamente\nnel contado di Siena, predando e pigliando uomini e bestiame. I\nSanesi vedendo la compagnia sul loro contado non attesono alla lega\nch\u2019avessono co\u2019 Fiorentini, n\u00e8 a domandare loro aiuto o consiglio, ma\ndi presente elessono de\u2019 loro cittadini ch\u2019andassono a fra Moriale e\nagli altri maggiori della compagnia a prendere accordo con loro, i\nquali di presente promessono a\u2019 caporali in segreto per le loro persone\nfiorini tremila d\u2019oro, e in palese per la compagnia ne promisono\ntredicimila, e la vittuaglia derrata per danaio, e il passo per lo\nloro terreno. Questa \u00e8 la fede che ora e molte altre volte il comune\ndi Firenze ha trovata nelle leghe o compagnie c\u2019ha fatto co\u2019 suoi\nvicini, che trovando loro vantaggio lo s\u2019hanno preso. E dolendosene\npoi il comune di Firenze a Perugia e a Siena, hanno risposto, che il\ncomune di Firenze non dee guardare a\u2019 loro difetti, ma avere senno\ne per se e per loro. Siamo contenti di ricordarlo qui e altrove per\nesempio di quello che ancora ne potr\u00e0 avvenire. Fornito per lo comune\ndi Siena il pane che domandarono, e dati de\u2019 loro cittadini a conducere\nla compagnia, presa la via per Monte a san Savino, condussonli in sul\ncontado d\u2019Arezzo. E non trovando con gli Aretini modo d\u2019avere danari,\ns\u2019accordarono con loro d\u2019avere panno e vestimento, e calzamenti e vino\nper li loro danari, perocch\u00e8 n\u2019aveano grande bisogno, e sicurarono\nil contado, e senz\u2019arme entrarono nella terra per le dette cose; non\nriguardando per\u00f2 le biade de\u2019 campi per li loro cavalli, n\u00e8 l\u2019altre\ncose che potessono giugnere, senza fare gualdane o saccomanno.\nCAP. XV.\n_Come procedettono i rettori di Firenze in questa sopravvenuta tempesta\ndella compagnia di fra Moriale._\nIn questo tempo si trov\u00f2 fornito il comune di Firenze al priorato\nd\u2019uomini senza sentimento di virt\u00f9, golosi e sopra ogni sconvenevolezza\ncorrotti nel bere, e massimamente de\u2019 nove i sei. Costoro disordinati\nin se, non sapeano provvedere al soccorso del comune; tuttavia per\ngli altri collegi fu provveduto in fretta di fare lega e compagnia\nco\u2019 Pisani, per prendere riparo contro alla compagnia, e dovea il\ncomune di Firenze avere in taglia milledugento cavalieri, e i Pisani\nottocento. E fatta la lega, catuno avea quasi il novero de\u2019 suoi\ncavalieri. La compagnia essendo ad Arezzo avea in animo d\u2019andare al\nsoldo in Lombardia, e per questa cagione mandarono alcuno ambasciadore\nal comune di Firenze per avere titolo d\u2019essere in accordo col detto\ncomune, e lieve cosa che \u2019l comune avesse dato loro sarebbono stati\ncontenti per seguire loro viaggio: i priori indiscreti se ne feciono\nbeffe, e per\u00f2 non provvidono come con tanto fatto richiedea. Ma\ni Valdarnesi per paura della ricolta, non ostante che ancora non\nfosse in perfetta maturit\u00e0, s\u2019affrettarono di levarla de\u2019 campi e\nriducerla nelle castella; e la frontiera del Valdarno fu fornita di\ncavalieri e di fanti assai bene alla guardia. La compagnia vedendo\nche i Fiorentini per lieve cosa non si voleano accordare con loro,\ncambiarono proponimento, e vedendo che il Valdarno era provveduto\ncontra loro, si tornarono a Siena. I Sanesi diedono loro da capo il\npane, e il passo e la guida di loro cittadini, e in calen di luglio\ndel detto anno l\u2019ebbono condotta ne\u2019 borghi di Staggia, e ivi si\nstesono fino alla Badia a Isola sopra l\u2019Elsa. L\u00e0 si trovarono settemila\npaglie di cavalieri, che cinquemila o pi\u00f9 erano in arme cavalcanti,\nfra i quali avea grande quantit\u00e0 di conestabili e di gentili uomini\ndiventati di pedoni bene montati e armati, con pi\u00f9 di millecinquecento\nmasnadieri italiani, e oltre a costoro pi\u00f9 di ventimila ribaldi e\nfemmine di mala condizione seguivano la compagnia per fare male, e\npascersi della carogna. E nondimeno per l\u2019ordine dato loro per fra\nMoriale grande aiuto e servigio n\u2019avea, principalmente i cavalieri e\u2019\nmasnadieri, e appresso tutto l\u2019esercito. Le femmine lavavano i panni\ne cocevano il pane, e avendo catuno le macinelle, che fatte avea loro\nfare di piccole pietre, catuno facea farina, e per questo l\u2019oste si\nmantenea incredibilmente in abbondanza di farina e di pane, solo per la\nprovvisione e ordine dato per fra Moriale.\nCAP. XVI.\n_Come si provvedde a Firenze contra la compagnia._\nEssendo la compagnia a Staggia, i Fiorentini richiesono i Pisani della\ntaglia loro per la lega fatta, che doveano essere ottocento cavalieri,\ne mandarono un loro cittadino con un gran gonfalone con meno d\u2019ottanta\nbarbute; e richiesti ancora i Perugini e\u2019 Sanesi di cavalieri della\ntaglia, o almeno d\u2019alcuna parte d\u2019aiuto, catuno comune rispose ch\u2019erano\nd\u2019accordo con la compagnia, e non manderebbono gente d\u2019arme contro a\nquella: e vedendosi il comune da tutti gli amici ingannato, e da non\npotere resistere alla compagnia, fece suoi ambasciadori e mandolli a\nStaggia alla compagnia per accordarsi e dare loro danari, ed eglino\nnon entrassono sul contado di Firenze. Giunti gli ambasciadori a\nfra Moriale e al suo consiglio, furono ricevuti da loro senza avere\nrisposta; e incontanente a d\u00ec 4 di luglio si misono in via, e senza\narresto furono ne\u2019 borghi di san Casciano, e correndo le contrade\nd\u2019attorno, facendo preda e ardendo ove a loro piacea senza trovare\ncontasto, e stettono fino a d\u00ec 10 del detto mese senza venire ad\naccordo; allora fatti doni a\u2019 caporali di fiorini tremila d\u2019oro,\nvennono a composizione di dare alla compagnia venticinquemila fiorini\nd\u2019oro. Gli ambasciadori pisani, innanzi che la tempesta rompesse\nsopra loro, al detto luogo di san Casciano s\u2019accordarono con loro di\ndare fiorini sedicimila d\u2019oro, e a\u2019 caporali feciono doni. E avuta la\ncondotta da\u2019 Fiorentini per la Val di Robbiana, condotti a Leona ebbono\nil pagamento de\u2019 detti comuni, e fatta la promissione, e le cautele e\nil saramento di non tornare in sul contado di Firenze n\u00e8 di Pisa infra\ndue anni, se n\u2019andarono alla Citt\u00e0 di Castello, ove stettono tanto\nch\u2019ebbono quello che restava a dare loro messer Malatesta da Rimini\ncapitano di Forl\u00ec, e Gentile da Mogliano, e partita tra loro la moneta,\npresono la ferma d\u2019essere con la lega di Lombardia contro al signore\ndi Milano per centocinquantamila fiorini in quattro mesi. E rifermata\ne giurata da capo sotto i loro capitani s\u2019avviarono in Lombardia, e\nfra Moriale con licenza degli altri caporali accomand\u00f2 la compagnia al\nconte di Lando e fecenelo suo vicario, ed egli se n\u2019and\u00f2 a Perugia,\nper provvedere come alla tornata della compagnia e\u2019 potesse in Italia\nmaggior male aoperare, e da\u2019 Perugini fu ricevuto onoratamente, e fatto\ncittadino di Perugia.\nCAP. XVII.\n_Come fu morto messer Lallo._\nPer larga sperienza di molti anni si vide, che messer Lallo\ndell\u2019Aquila, uomo di piccola nazione, per sua industria prima cacciati\ngli avversari della citt\u00e0 dopo la morte del re Ruberto tenne la\nsignoria della terra come un dimestico popolare e compagnevole tiranno,\ne seppe s\u00ec piacevolmente conversare co\u2019 suoi cittadini, che catuno il\ndesiderava a signore, e al tutto aveano dimenticata la signoria reale,\nma egli saviamente mantenea il titolo del capitanato della terra alla\ncorona, facendovi venire cui egli volea, nondimeno ci\u00f2 che occorreva\ndi grave nella citt\u00e0 tornava a ser Lallo. E non avendo il re podere\nnella citt\u00e0 pi\u00f9 che ser Lallo si volesse, per molti modi in diversi\ntempi cerc\u00f2 d\u2019abbatterlo, e non gli venne fatto, e per\u00f2 cerc\u00f2 la via\nde\u2019 beneficii, e fecelo conte di Montorio, e diegli terre in Abruzzi,\ned e\u2019 le si prese, e mostr\u00f2 di volere fare dell\u2019Aquila la volont\u00e0\ndel re; ma con astuzia e senno dissimulando col re tenea l\u2019Aquila\ncontinovamente al suo segno. E stando le cose in questi termini,\nmesser Filippo di Taranto fratello del re Luigi venne in Abruzzi, e\nricettato nell\u2019Aquila da messer Lallo con grande onore, dopo alquanti\nd\u00ec messer Filippo ragion\u00f2 con messer Lallo, ch\u2019egli farebbe rendere\npace a\u2019 figliuoli di messer Todino suoi nimici, i quali erano sbanditi\ndell\u2019Aquila, e intendea fermare la pace con amore e con parentado,\ne con grande istanza il preg\u00f2 che li dovesse ricevere nell\u2019Aquila\ncon buona pace. Messer Lallo sentendosi in grande amore co\u2019 suoi\ncittadini, mostr\u00f2 di poco temere i suoi avversari, e di volere servire\nmesser Filippo accettando la pace e la loro tornata nell\u2019Aquila.\nMesser Filippo semplicemente con alcuni suoi scudieri li facea venire\nin Aquila, ed essendo gi\u00e0 presso alla citt\u00e0, il popolo si lev\u00f2 a\nromore, e prese l\u2019arme gridando, viva il conte, e corsono alle porte e\nserraronle. Messer Filippo sentendo il romore temette di s\u00e8, ma messer\nLallo fu subitamente a lui, confortandolo e scusando s\u00e8, che questo\nnon era sua fattura ma del popolo, per tema ch\u2019avea de\u2019 figliuoli di\nmesser Todino se rientrassono in Aquila. Messer Filippo turbato di\nquesto baratto si mise in concio di partire, e la mattina vegnente fu\nin cammino. Messer Lallo accompagnandolo s\u2019allung\u00f2 dalla citt\u00e0 tre\nmiglia, offerendosi a messer Filippo e scusandosi del caso avvenuto; e\nvolendosi tornare all\u2019Aquila, e prendere congio da messer Filippo, per\nfargli la reverenza all\u2019usanza reale scese del suo cavallo, e com\u2019era\nordinato, parlando messer Filippo con lui, e usando parole di minacce,\nuno scudiere il fed\u00ec d\u2019uno stocco, e un altro appresso, e ivi a\u2019 pi\u00e8 di\nmesser Filippo fu morto messer Lallo per troppa confidanza, perdendo il\nsenno e la malizia tanto tempo usata nel suo reggimento. Messer Filippo\nnon s\u2019arrest\u00f2 per tema di quel popolo e del suo furore, ma senza alcuno\nsoggiorno torn\u00f2 a Napoli, e gli Aquilani feciono gran lamento della\nmorte di messer Lallo, ma non essendovi il secondo, ritornarono senza\ncontasto alla consueta signoria reale; e questo avvenne di giugno 1354.\nCAP. XVIII.\n_Come il re di Spagna cacciata la non vera moglie coron\u00f2 la legittima._\nIn questo tempo del detto anno, avendo il giovane re di Spagna per\nmoglie la figliuola di messer Filippo di Borbona della casa di Francia,\nlasciandosi vincere e menare al disordinato appetito, avendola gi\u00e0\ntenuta un anno, corruppe il degno sagramento del matrimonio, e\nseguitando il modo de\u2019 bestiali saracini con cui conversava, prese\nper sua moglie e spos\u00f2 un\u2019altra donna cui egli amava, nata della\ncasa di Padiglia di Castella, chiamata Maria, con la quale si copul\u00f2\ncon tanta disordinata concupiscenza carnale, che molte dissolute e\nsconce cose ne faceva, e la legittima moglie non volea vedere; la\nquale vedendosi a sconcio partito, prese segretamente sue damigelle e\nalquanti confidenti di sua famiglia, e senza saputa del re si torn\u00f2\nin Francia, richiamandosi al re, e al padre e agli altri baroni\ndell\u2019ingiuria ricevuta dal suo marito; e udita in Francia la sconcia\nnovella, il re e tutti i baroni se ne sdegnarono forte, e proposono\nd\u2019andare in Spagna con forte braccio per gastigare il re della sua\nfollia. I baroni di Spagna e le comuni a cui dispiacea questo fatto,\nsentendo le novelle di Francia, di concordia se n\u2019andarono al re, e\nripresonlo duramente d\u2019avere per sua sconcia volont\u00e0 d\u2019una privata\nfemmina fatta tanta vergogna alla casa di Francia e alla loro reina,\ndicendogli, che se non ammendasse il suo fallo, che sarebbono in aiuto\nal re di Francia per ricoverare il suo onore. Il giovane re riconobbe\nil suo fallo, e disposesi di presente a seguitare il loro consiglio; e\nalla non degna moglie, per appagare la legittima, le feciono tagliare\ni panni per lungo infino alla cintola a loro costuma, e con vergogna\nla mandarono via, e tornata la moglie, con gran festa feciono coronare\nlei e pacificare col re, e quella notte giacque con la reina Bianca sua\nmoglie. Ma, o che fosse affatturato, o occupato nella mente del troppo\npeccato, la mattina per tempo le si lev\u00f2 da lato, e senza fare assapere\naltrui alcuna cosa cavalc\u00f2 con piccola compagnia e andossene alla\nterra dov\u2019era dama Maria di Padiglia, e d\u2019allora innanzi non volle mai\nvedere la reina Bianca; e perch\u2019ella non si partisse la fece mettere\nin Briscia suo forte castello, e ivi bene guardare, la quale per grave\nsdegno, o per dolore, o per malinconia, o per operazione del re, che ne\nfu sospetto, o per malizia naturale, innanzi tempo nella sua giovanezza\nfin\u00ec sua vita, della quale il re ebbe pi\u00f9 piacere che doglia, e\nvilmente la fece seppellire. Avvenne ancora, che vivendo la reina e\ndama Maria, il detto re Pietro, non senza sentimento della saracinesca\nconsuetudine, innamorato d\u2019una giovane donna vedova di Castella di\ngrande lignaggio, la si prese a moglie; e quando con lei ebbe saziata\nsua sfrenata libidine, la cacci\u00f2 via, e ritennesi alla sua dama Maria,\ndella quale ebbe un figliuolo maschio e due femmine, e poi sopra\nparto si mor\u00ec, poco appresso della reina, di cui il re si di\u00e8 grave\nturbazione, e il corpo suo fece imbalsamare, e portare venticinque\ngiornate di lungi da Sibilia alla sepoltura ch\u2019ella s\u2019avea eletta, e\nil re, e per amore del re i suoi baroni se ne vestirono a nero. Avemo\nraccolto qui il processo della moglie e dell\u2019altre femmine del re, per\nnon istendere in pi\u00f9 parti del nostro trattato la vile materia.\nCAP. XIX.\n_Come i collegati di Lombardia condotta la compagnia mandarono\nall\u2019imperadore._\nIl comune di Vinegia, e il signore di Verona, e quello di Padova, e\nquello di Mantova, e il marchese di Ferrara, collegati insieme contro\nl\u2019arcivescovo di Milano, avendo condotta per quattro mesi la compagnia\ndel conte di Lando, la quale era cinquemiladugento paghe, ma non\navea oltre a tremilacinquecento cavalieri bene armati, la quale era\npartita dalla Citt\u00e0 di Castello, e cavalcata sul contado di Bologna\nfacendo danno, se n\u2019andarono a Modena, dov\u2019erano le bastite del\nsignore di Milano, le quali non ebbono podere di levare, e lasciatovi\nl\u2019assedio cavalcarono in sul Bresciano. I collegati vedendosi forniti\ndi gente da potere campeggiare, mandarono ambasciadori, del mese di\nluglio del detto anno, all\u2019eletto imperadore, con cui avevano fatto\naccordo per farlo valicare in Lombardia contro all\u2019arcivescovo di\nMilano, e dove ricusasse la venuta, volevano essere liberi delle loro\npromesse. In questo tempo l\u2019imperadore era in discordia col marchese\ndi Brandimborgo, e catuno aveva accolto gente d\u2019arme, e con l\u2019eletto\nera il duca d\u2019Osteric e molti cavalieri del re d\u2019Ungheria, e credettesi\nsi conducessono a battaglia: ma la questione avea lieve cagione di\nsdegno, sicch\u00e8 tosto si rec\u00f2 a concordia, e l\u2019eletto imperadore per\nl\u2019animo ch\u2019avea di valicare in Italia fu pi\u00f9 abile alla pace, e ferma,\ncatuna gente d\u2019arme si torn\u00f2 in suo paese; e senza sospetto de\u2019 fatti\nd\u2019Alamagna l\u2019eletto si torn\u00f2 in Boemia, e deliber\u00f2 per lo modo che a\nlui piacque di valicare in Lombardia, e con seco ritenne parte degli\nambasciadori della lega infino al suo movimento.\nCAP. XX.\n_Come i Bordoni furono cacciati di Firenze, e sbanditi per ribelli._\nEra avvenuto del mese di Luglio del detto anno in Firenze, che essendo\nla compagnia di fra Moriale a Sancasciano, i Bordoni, de\u2019 quali era\ncapo messer Gherardo di quella casa, tenendosi essere ingannati da\u2019\nMangioni e da\u2019 Beccanugi loro vicini per lo dicollamento di Bordone\nloro consorto, e vedendo la citt\u00e0 sotto l\u2019arme e in gelosia, con\nloro gente accolta cominciarono prima con parole e poi con l\u2019arme\nad assalire i Mangioni; e rimettendoli per forza nelle case, in\nquell\u2019assalto la moglie d\u2019Andrea di Lippozzo de\u2019 Mangioni ebbe d\u2019una\nlancia sopra il ciglio, ond\u2019ella si mor\u00ec poco appresso. A quello romore\ncorse d\u2019ogni parte il popolo armato, e i priori vi mandarono la loro\nfamiglia, e feciono acquetare la zuffa. Poi partita la compagnia, e\nritornata la citt\u00e0 al primo governamento, parendo al comune il fallo\nessere grave in cos\u00ec fatto tempo contro alla repubblica, fu commesso\nall\u2019esecutore degli ordini della giustizia che ne facesse inquisizione,\ne punisse i colpevoli; i Beccanugi e\u2019 Mangioni andarono dinanzi e\nscusaronsi, e furono prosciolti e lasciati, e i Bordoni rimasono\ncontumaci; e a d\u00ec 2 d\u2019agosto, nel detto anno, messer Gherardo con\nquattro suoi consorti e con dodici loro seguaci furono condannati, per\navere turbato il buono e pacifico stato del comune di Firenze e per\nl\u2019omicidio, tutti nell\u2019avere e nelle persone, e uscironsi di Firenze, e\ni loro beni furono guasti e messi tra i beni de\u2019 rubelli.\nCAP. XXI.\n_Come il re d\u2019Araona venne con grande armata a racquistare Sardegna._\nIl re d\u2019Araona, che l\u2019anno dinanzi avea perduta tutta la Sardegna\nsalvo che Castello di Castro, come addietro fu narrato, fatta sua\narmata di centosessanta tra galee e uscieri, cocche e navi armate, con\ngrande cavalleria di suoi Catalani e molti mugaveri a piede, del mese\ndi luglio del detto anno arriv\u00f2 in Calleri, che altro non v\u2019aveva,\ne lasciato ivi il navilio grosso, e messi in terra i cavalieri e i\nmugaveri, fece scorrere il paese e predare dovunque si stendeva, e con\nle galee sottili per mare e i cavalieri per terra s\u2019addirizz\u00f2 alla\nLoiera, nella quale aveva balestrieri genovesi, e masnadieri toscani\ne lombardi, che il vicario dell\u2019arcivescovo signore di Genova v\u2019avea\nmandati alla guardia, che francamente la difendevano e guardavano; e\ncontinuandovi l\u2019assedio, nondimeno per mare con le galee, e per terra\ncon la gente d\u2019arme, faceano guerra all\u2019altre terre e castella che\nubbidivano al giudice d\u2019Alborea, e il giudice fornito de\u2019 suoi Sardi\ne di cavalieri condotti di Toscana si difendea francamente per modo,\nche delle sue terre non gli lasciava alcuna acquistare: e aveva in\nsuo aiuto l\u2019aria sardesca e \u2019l tempo della fervida state, che molto\nabbattea i Catalani di malattie e di morte; non ostante ci\u00f2, il re\nanimoso mantenea l\u2019assedio stretto, e facea tormentare molto i suoi\navversari; e bench\u2019egli sapesse che i Genovesi suoi nimici avessono\narmate trentadue galee, non se ne curava, perch\u00e8 sapeva che i Veneziani\nsuoi amici contro a loro n\u2019aveano armate trentacinque: e ancora gli\nrendea molta fidanza la fresca vittoria ch\u2019aveva avuta in quel luogo\nco\u2019 Veneziani insieme sopra i Genovesi, e per\u00f2 intendea coraggiosamente\na fare la sua guerra per terra e per mare. Lasceremo ora l\u2019intrigata\nguerra di Sardegna che il tempo vegna della sua fine, e seguiremo altre\nnovit\u00e0 che prima ci occorrono a raccontare.\nCAP. XXII.\n_Come i Genovesi feciono armata contro a\u2019 Veneziani e\u2019 Catalani._\nAvendo sentito i Genovesi l\u2019armata de\u2019 Catalani, e che i Veneziani\narmavano, avvegnach\u00e8 per la sconfitta l\u2019anno dinanzi ricevuta alla\nLoiera molto fossono infieboliti, presono cuore da sdegno per non\ndare la baldanza del mare al tutto al loro nimico, e per\u00f2 con aiuto\ndi moneta che procacciarono dall\u2019arcivescovo loro signore armarono\ntrentatr\u00e8 galee sottili, della migliore gente che rimasa fosse in\nGenova e nella riviera, e fecionne ammiraglio messer Paganino Doria,\nil quale altra volta avea avuto vittoria sopra i Catalani e\u2019 Veneziani\nin Romania. Costui sentendo che i Veneziani erano usciti del golfo con\ntrentacinque galee armate, mand\u00f2 tre galee pi\u00f9 sottili, e bene reggenti\ne armate nel golfo di Vinegia, le quali improvviso a\u2019 paesani giunsono\na Parezzo, e misono in terra; e trovando i terrazzani sprovveduti\ne smarriti per lo subito assalto, s\u2019entrarono nella terra, e senza\ntrovare contasto rubarono e arsono gran parte della citt\u00e0. Ed essendo\nnel porto tre grossi navilii de\u2019 Veneziani carichi di grande avere, gli\npresono e rubarono, e ricolti a galee carichi di preda de\u2019 loro nemici,\ncon grande vergogna de\u2019 Veneziani tornarono sani e salvi alla loro\narmata; la quale avendo lingua de\u2019 Veneziani, prese la via di Romania\nper abboccarsi con loro a battaglia, se fortuna il concedesse. L\u2019armate\ncavalcano il mare, e innanzi che insieme si ritrovino ci occorrono\naltre non piccole cose.\nCAP. XXIII.\n_Come il tribuno di Roma fece tagliare la testa a fra Moriale._\nAvvegnach\u00e8 addietro detto sia dell\u2019operazioni di fra Moriale innanzi\nch\u2019egli facesse la grande compagnia, e poi quanto male aoper\u00f2 con\nquella, sopravvenendo il termine della sua morte, ci d\u00e0 materia di\nraccontare la cagione, com\u2019egli essendo semplice friere condusse tanti\nbaroni, e conestabili e cavalieri a collegarsi sotto il suo reggimento\nin compagnia di predoni. Costui fu in Italia lungo tempo soldato\nfranco cavaliere, e atto singolarmente a ogni fatica cavalleresca, e\nmolto avvisato in fatti d\u2019arme, il quale consider\u00f2 che tutte le terre\ne\u2019 signori d\u2019Italia facevano le loro guerre con soldati forestieri,\ne i paesani poco compariano in arme, e parve a lui che accogliendosi\ni conestabili per via di compagnia, e partecipando con loro che\nrimanevano al soldo, che in niuna parte troverebbono contasto in\ncampo: e avendo questo verisimile messo nel capo a molti conestabili,\nl\u2019uno smovea l\u2019altro, e traevano gente di catuna bandiera che rimaneva\nal soldo; e con quest\u2019ordine, essendo in loro libert\u00e0, si pensavano\nsottoporre e fare tributaria tutta Italia, e pensavano, se alcuna buona\ncitt\u00e0 venisse loro presa, che per forza tutte l\u2019altre converrebbe\nche sostenessono il giogo; e sotto questo segreto consiglio tutti i\nconestabili delle masnade tedesche, e\u2019 Borgognoni e altri oltramontani\npromisono e giurarono da capo la compagnia e ubbidienza a messer fra\nMoriale, e per passare il verno all\u2019altrui spese presono il soldo della\nlega de\u2019 Lombardi, e messer fra Moriale, sotto titolo di mostrare\nd\u2019avere a ordinare suoi propri fatti, rimase in Toscana: ma nel segreto\nfu, che provvederebbe del luogo dove dovessono tornare al primo tempo.\nCostui baldanzoso con poca compagnia, come detto abbiamo, se n\u2019and\u00f2 a\nPerugia, e di l\u00e0 mand\u00f2 i fratelli con certe masnade di suoi cavalieri\nal tribuno, ch\u2019era di nuovo ritornato in Roma, per atarlo; essendo\nstato prima cacciato da\u2019 Romani e tenuto in esilio, e\u2019 fu prigione\ndell\u2019eletto imperadore lungo tempo, e poi per lo male stato de\u2019\nRomani di volont\u00e0 del papa e del popolo fu richiamato; e rendutagli\nla signoria, con pi\u00f9 baldanza che di prima, non ostante che predetto\ngli fosse, o per revelazione di spirito immondo o per altro modo, che\na romore di popolo sarebbe morto, e\u2019 faceva rigida e aspra signoria,\ne reprimendo la baldanza de\u2019 principi di Roma, onde fu opinione di\nmolti che i Colonnesi s\u2019intendessono contro a lui con fra Moriale per\nabbatterlo della signoria del tribunato: ma come che si fosse, poco\nappresso la mandata de\u2019 fratelli fra Moriale and\u00f2 a Roma, e il tribuno\nil fece chiamare a s\u00e8, ed egli senza alcuno sospetto and\u00f2 a lui; e\ngiuntogli innanzi, senza altro parlamento il tribuno gli mise in mano\nun processo di tradimento che fare dovea contro a lui, e come pubblico\nprincipe di ladroni, il quale aveva assalite le citt\u00e0 della Marca e di\nRomagna, e la citt\u00e0 di Firenze, di Siena e d\u2019Arezzo in Toscana; e fatte\narsioni, e violenze e ruberie senza cagione in catuna parte, e molte\nuccisioni d\u2019uomini innocenti, delle quali cose disse che di presente\nsi scusasse. E non avendo scusa contro alla verit\u00e0 del libello, senza\nvoler pi\u00f9 attendere, a d\u00ec 29 d\u2019agosto del detto anno gli fece levare la\ntesta dall\u2019imbusto: e cos\u00ec fin\u00ec il malvagio friere, cagione di molto\nmale passato e di maggiore avvenire, per l\u2019aoperazione della maladetta\ncompagnia; per la qual cosa s\u2019aggiugnerebbe memoria degna di gran\nlodi al tribuno se per movimento di chiara giustizia l\u2019avesse fatto,\nma perocch\u00e8 egli prese i fratelli, e\u2019 beni di fra Moriale e\u2019 loro e\npubblicolli a s\u00e8, parve che d\u2019ingratitudine de\u2019 servigi ricevuti e\nd\u2019avarizia maculasse la sua fama: e abbianne pi\u00f9 detto che forse non\nsi conveniva, ma per lo malo esempio dato a\u2019 soldati, e per la giusta\nvendetta della sua morte, ne crediamo avere alcuna scusa.\nCAP. XXIV.\n_D\u2019una sformata grandine venuta a Mompelieri, e della scurazione del\nsole._\nA d\u00ec 12 di settembre 1354 cadde sopra Mompelieri e nelle circustanze\nuna grandine sformata di grossezza di pi\u00f9 d\u2019una comune melarancia, e\nfece a\u2019 frutti e agli uomini gravissimi danni, e le bestie che trov\u00f2\nne\u2019 campi alla scoperta uccise, e guast\u00f2 molto le copriture delle\ncase. E poi, a d\u00ec 17 del detto mese, fu scurazione del sole, e dur\u00f2 a\nFirenze una terza ora, coperto nella maggiore parte il corpo solare. Di\nsua influenza poco potemmo vedere e comprendere, salvo che asciutto e\nfreddo seguit\u00f2 tutto il verno singolarmente.\nCAP. XXV.\n_Come mor\u00ec l\u2019arcivescovo di Milano._\nMesser Giovanni de\u2019 Visconti arcivescovo di Milano potentissimo\ntiranno in Italia, avendo dilatata la fama della sua potenza in grande\naltezza, e vivuto al mondo lungo tempo in dissoluta vita secondo\nprelato, vedendosi avere vinta sua punga, e soperchiata nel temporale\nla Chiesa di Roma, e riconciliatosi a quella co\u2019 suoi sformati doni,\ne che tutta Italia il temeva, e l\u2019eletto imperadore non avea ardire,\neziandio sollecitato dalla forza e\u2019 danari della lega di Lombardia,\npigliare arme contro a lui, vaneggiante nel colmo della sua gloria,\nuno venerd\u00ec sera, a d\u00ec 3 d\u2019ottobre 1354, gli apparve nella fronte\nsopra il ciglio un piccolo carbonchiello, del quale poco si curava,\ne il sabato sera a d\u00ec 4 del detto mese il fece tagliare, e come fu\ntagliato, cadde morto l\u2019arcivescovo senza potere fare testamento, o\nalcuna provvisione dell\u2019anima sua o della successione de\u2019 suoi nipoti\nnella signoria; i quali feciono al corpo solenne esequie, e senza\nquestione con molta concordia si ristrinsono insieme, facendo grande\nonore l\u2019uno all\u2019altro; per la qual cosa i Milanesi e tutti i loro\nsudditi stettono in obbedienza de\u2019 nuovi signori, tanto che poi con\nnuova suggezione di tutti i popoli si feciono dichiarare signori, come\nappresso racconteremo, rendendo prima il nostro debito alla sprovveduta\ne violente morte del tribuno di Roma, e allo strano avvenimento\ndell\u2019eletto imperadore in Italia.\nCAP. XXVI.\n_Come il tribuno di Roma fu morto a furia di popolo._\nIl primo tribuno romano dopo la sua cacciata tornato in Roma con comune\nassentimento dell\u2019incostante popolo, e ordinati statuti a franchigia e\na fortificagione del popolo, e certe entrate al comune per fortificare\nla signoria, procacciava di fornirsi di cavalieri e di masnadieri di\nsoldo, per potere meglio raffrenare i potenti cittadini, i quali sapea\nch\u2019erano contro al suo tribunato: e come uomo ch\u2019avea grande animo,\ncredeva col favore del fallace popolo fare gran cose, e cominciato\navea, ma non bene, perocch\u00e8 essendo in Roma uno valente e savio uomo\nPandolfo de\u2019 Pandolfucci antico cittadino, e di grande autorit\u00e0 nel\ncospetto del popolo, e temendo il tribuno di lui, solo perch\u00e8 gli\npareva atto a potere muovere il popolo per la sua autorit\u00e0 e per la\nsua eloquenza, tirannescamente e senza colpa il fece decapitare;\ne per questo, e per la morte di fra Moriale, i principi di Roma,\nmassimamente i Colonnesi e\u2019 Savelli, temeano forte, e procacciavano\ndi farlo cacciare o morire. E sparta gi\u00e0 l\u2019infamia della morte di\nPandolfo tra il popolo, fu pi\u00f9 leggiere a\u2019 Colonnesi e a Luca Savelli\nvenire alla loro intenzione, e con lieve movimento alquanti amici de\u2019\nColonnesi e\u2019 Savelli della riva del Tevere, a loro stanza cominciarono\na levare romore contro il tribuno e corsono all\u2019arme; e con l\u2019aiuto\nde\u2019 Colonnesi e de\u2019 Savelli, e di certi Romani offesi per la morte di\nPandolfo, dimenticando la franchigia del popolo, a d\u00ec 8 d\u2019ottobre del\ndetto anno in su la nona corsono al Campidoglio, dicendo, muoia il\ntribuno. Il tribuno sprovveduto di questo subito e non pensato furore\ndel popolo francamente provvide come necessit\u00e0 l\u2019ammaestrava, e di\npresente s\u2019arm\u00f2 e prese il gonfalone del popolo, e con esso in mano si\nfece alle finestre, e trattolo fuori, cominci\u00f2 a gridare ad alta voce,\nviva il popolo, pensando che il popolo dovesse trarre al suo aiuto:\nma trovossi ingannato, che il popolo il saettava, e gridava la sua\nmorte: e avendo egli sostenuto con parole e con difesa l\u2019assalto fino\nal vespero, e vedendo il popolo pi\u00f9 acerbo e pi\u00f9 infocato contro a s\u00e8\nda sezzo che da prima, e che soccorso da niuna parte aspettava, pens\u00f2\ndi campare per ingegno; e tramutato l\u2019abito suo in abito di ribaldo,\nfece aprire le porte del palagio alla sua famiglia al popolo perch\u00e8\nintendesse a rubare, come solea essere loro usanza; e mostrandosi nella\nruberia come uno di loro, avea preso un fascio d\u2019una materassa con\naltri panni dal letto, e scendendo la prima e la seconda scala senza\nessere conosciuto, dicea agli altri, su a rubare, che v\u2019ha roba assai;\ned era gi\u00e0 quasi al sommo di scampare la morte, quando uno cui egli\navea offeso cos\u00ec col fascio in collo il conobbe, e gridando, questi \u00e8\nil tribuno, il fed\u00ec: e l\u2019uno dopo l\u2019altro trattolo fuori dell\u2019uscio\ndel palazzo tutto lo stamparono co\u2019 ferri, e tagliarongli le mani\ne sventraronlo, e misongli un capestro al collo e tranaronlo fino\na casa i Colonnesi; e fatto quivi uno paio di forche v\u2019appiccarono\nlo sventurato corpo, ove pi\u00f9 d\u00ec il tennero appeso senza sepoltura.\nE questa fu la fine del tribuno, dal quale il popolo romano sperava\npotere riprendere sua libert\u00e0.\nCAP. XXVII.\n_Come l\u2019imperadore Carlo venne in Lombardia._\nMesser Carlo di Luzimborgo re di Boemia e re de\u2019 Romani, eletto\nimperadore, avendo accettata la profferta del comune di Vinegia, e\ndel Gran Cane di Verona, e degli altri allegati di Lombardia contro\nall\u2019arcivescovo di Milano, consider\u00f2 che per la sua non grande facolt\u00e0\nd\u2019avere e di potenza il fascio di cotanta impresa gli era troppo\ngrave, e avvisossi con grande discrezione, che a volere venire in\nItalia per la corona del ferro, e appresso per l\u2019imperiale, che gli\nconvenia per forza vincere i signori, e le citt\u00e0, e\u2019 popoli d\u2019Italia\nche gli fossono avversi, o con senno o con amore recare a s\u00e8 gli animi\nloro: ricordandosi che l\u2019imperadore Arrigo suo avolo, avendo seco\ntutto il favore de\u2019 ghibellini, e mosso con pi\u00f9 di diecimila cavalieri\ntedeschi gente eletta, guidata da grandi baroni e nobili cavalieri,\ncredendosi per forza sottomettere parte guelfa in Italia avendo seco\ntutta la forza de\u2019 ghibellini, pass\u00f2 in Italia; e non potuto per sua\nforza domare gli avversari n\u00e8 avere la corona, com\u2019\u00e8 la costuma,\nnella basilica di san Pietro, e consumate le sue forze senza essere\nubbidito, rend\u00e8 a Buonconvento il debito della carne alla terra, e\nl\u2019anima a Dio. Per lo cui esempio l\u2019avvisato eletto Carlo imperadore\nabbandonato ogni pensiero di sua potenza, e di quella che promesso\ngli era, fidanza prese nel suo temperato proponimento; e non volendo\na\u2019 collegati negare la promessa della sua venuta, n\u00e8 mostrare che\ncontro a\u2019 signori di Milano si movesse, veduto il tempo atto al suo\nproponimento, mosse d\u2019Alamagna con trecento cavalieri in sua compagnia\nvenendo in Aquilea; e giunto a Udine, a d\u00ec 14 d\u2019ottobre del detto anno,\ns\u2019accompagn\u00f2 il patriarca suo fratello con poca gente senz\u2019arme, e\ncavalcando a buone giornate giunsono in Padova a d\u00ec 4 di novembre, ove\nfu ricevuto a grande onore; e fatti alquanti cavalieri de\u2019 signori e\ndi loro prossimani della casa da Carrara, e lasciati i signori suoi\nvicarii nella signoria della citt\u00e0, a d\u00ec 7 di novembre prese suo\ncammino: e temendosi messer Gran Cane che non entrasse in Vicenza n\u00e8\nin Verona il fece con lieve onore conducere per lo contado alla citt\u00e0\ndi Mantova, e ivi ricevuto come signore, prese a fare suo dimoro per\ntrattare se tra i Lombardi potesse mettere accordo, e ivi attendea s\u2019e\u2019\ncomuni e\u2019 popoli e\u2019 signori di Toscana gli mandassono ambasciadori per\npotersi meglio provvedere alla sua coronazione. Lasceremo ora alquanto\nquesta materia, tanto che alcuna cosa degna di memoria occorra di ci\u00f2\nal nostro proponimento, e diremo dell\u2019altre che prima addomandano il\ndebito alla nostra penna.\nCAP. XXVIII.\n_Come i tre fratelli de\u2019 Visconti di Milano furono fatti signori, e\nloro divise._\nTornando a\u2019 fatti de\u2019 Visconti di Milano, dopo la morte\ndell\u2019arcivescovo messer Maffiolo, e messer Bernab\u00f2, e messer Galeazzo,\nfigliuoli che furono di messer Stefano nipote dell\u2019arcivescovo, essendo\nforniti di molti cavalieri e masnadieri per difendersi e abbattere\ngiusto loro podere la forza degli altri Lombardi collegati contro a\nloro, e da resistere all\u2019imperadore se muover si volesse contro a\nloro, stare facevano tutte le loro citt\u00e0 e castella in buona guardia\ne sollecita; ed essendo tutti e tre in Milano, si feciono eleggere\nsignori indifferentemente a d\u00ec 12 d\u2019ottobre, e appresso si feciono\nfare a tutte le citt\u00e0 del loro distretto il simigliante; ed essendo da\ntutti confermati nella signoria, si partirono tra loro il reggimento\nin questo modo: che Milano fosse comune a tutti, e dell\u2019altre citt\u00e0\nfeciono di concordia tre parti, salvo la citt\u00e0 di Genova, che vollono\nche rimanesse comune in fra loro come Milano, e gittarono le sorte, per\nle quali a messer Maffiolo, ch\u2019era il maggiore, tocc\u00f2 Parma, Piacenza,\nBologna, e Lodi: a messer Bernab\u00f2 Cremona, Brescia, e Bergamo: e a\nmesser Galeazzo Como, Novara, Vercelli, Asti, Tortona, e Alessandria,\ncon tre altre terre di Piemonte; e nondimeno a comune ne\u2019 cominciamenti\nmanteneano la spesa de\u2019 soldati, e molto onorava l\u2019uno l\u2019altro, e di\ngran concordia faceano le loro imprese. A messer Maffiolo, perch\u2019era\ndi pi\u00f9 tempo e di minor virt\u00f9, rendeano onore di metterlo innanzi ne\u2019\ntitoli e ne\u2019 consigli. I fatti della cavalleria e dell\u2019arme erano\ncontenti che guidasse messer Bernab\u00f2 che n\u2019era pi\u00f9 sperto, e messer\nGaleazzo ne prendea alcuna volta parte come a lui piacea. Essendo\nquesti signori di Milano cos\u00ec ordinati tra loro, sopravvenuto l\u2019eletto\nimperadore in Mantova, stavano apparecchiati in loro senza fare altro\nmovimento di guerra contra a\u2019 loro avversari, e gli allegati anche\nstavano a vedere che l\u2019imperadore facesse senza muovere la loro gente a\nfar guerra.\nCAP. XXIX.\n_Come l\u2019imperadore stando a Mantova trattava la pace de\u2019 Lombardi._\nL\u2019imperatore avendosi avvisatamente condotto in Lombardia di verno,\ne sapendo la gran forza di gente ch\u2019aveano i signori di Milano, e la\npotenza del loro tesoro e delle loro entrate, fece venire a se in\nMantova gli ambasciadori del comune di Vinegia e di tutti i signori\ncollegati, e con loro insieme vide che la sua forza e la loro in que\u2019\ntempi non era sufficiente a tanto fatto quanto volevano imprendere.\nAncora consider\u00f2 che stando egli a Mantova niuno signore o comune\nd\u2019Italia, salvo che i collegati, era venuto o avea mandato a lui\ncontro a\u2019 signori di Milano, e per\u00f2 gli parve che le cose fossono\nassai bene disposte al suo proponimento col quale s\u2019era messo a farsi\ntrattatore di pace, per accattare da ogni parte benevolenza, e non\nprendere nimicizia con alcuno, e per\u00f2 cominci\u00f2 a trattare della pace; e\nparendogli che catuno si disponesse a volerla, acciocch\u00e8 quelli della\nlega non portassono la gravezza del soldo della gran compagnia, la\nfece licenziare a d\u00ec 8 di novembre, e quelli della compagnia ne furono\ncontenti: ed essendo in sul Bresciano, parte ne condussono i signori\ndi Milano, e parte la lega, e il rimanente si ritenne in compagnia col\nconte di Lando. L\u2019imperadore seguiva con sellecitudine che la pace si\nfacesse, e in lungo processo di trattato pi\u00f9 volte corse la voce che la\npace era fatta. Ma nascendo ora dall\u2019una parte ora dall\u2019altra cagione\ndi tirare, la pace non veniva a perfezione, e in questo soprastare,\nvennono accidenti che non la lasciarono venire a perfezione, i quali\ndiviseremo nel tempo ch\u2019avvennono secondo l\u2019ordine del nostro trattato.\nCAP. XXX.\n_Come furono presi i legni ch\u2019andavano a Palermo._\nDel mese d\u2019ottobre del detto anno, il re Luigi sentendo la citt\u00e0 di\nPalermo in gran bisogno di vittuaglia e di gente d\u2019arme per la difesa\ncontro a\u2019 nimici, fece armare tre galee, e uno panfano, e dodici\nlegnetti e una nave, e tutte le fece caricare di grano e d\u2019altra\nvittuaglia, e fece ammiraglio il conte di Bellante Potarzio d\u2019Ischia,\ne comandogli che le conducesse in Palermo; ed essendo nel mare di\nCalabria si vidono contra galee di Messinesi, che stavano alla guardia\nper procacciare di vittuaglia, di che aveano gran bisogno, le quali\nvedendo quelle del Regno con legni armati, e conoscendo la loro poca\nvirt\u00f9, s\u2019addirizzarono verso loro. Il conte vedendole venire, come\ncodardo non prese alcuna difesa, ma la sua propria galea abbandon\u00f2\nperch\u2019avea del grano in corpo, e montato su un legno armato, innanzi\nche i nemici s\u2019appressassono si fugg\u00ec. Le galee de\u2019 Messinesi giugnendo\na quelle del Regno le trovaron senza capitano e senza difesa, e per\u00f2\nle si presono col carico e colla gente, e con gran festa e gazzarra\nquesta utile preda al bisogno della loro citt\u00e0 misono in Messina, ove\nfurono ricevuti a grande onore, pi\u00f9 per loro bisogno che per la piccola\nvittoria.\nCAP. XXXI.\n_Come si cominci\u00f2 guerra in Puglia tra loro._\nMesser Luigi di Durazzo cugino carnale del re Luigi, vedendo che\nil detto re avea dato al prenze di Taranto e a messer Filippo suoi\nfratelli carnali grandi baronaggi in Puglia e nel Regno, n\u00e8 a lui\nn\u00e8 a messer Ruberto non avea data nulla cosa, con giusto sdegno,\nvedendosi in povero stato, si tenea dal re e dalla reina malcontento:\ne il conte di Minerbino tenendosi anche male del re e della reina\ns\u2019accost\u00f2 con messer Luigi, e propuosono di volere fare guerra nel\npaese di Puglia. Per questa tema il re e la reina andarono in Puglia\ncercando riconciliarli con parole, e mandaronli pregando che venissono\na loro; e consigliati insieme, ordinarono che il conte v\u2019andasse,\navendo prima per sua sicurt\u00e0 per stadichi il vescovo di Bari e messer\nGiannotto dello Stendardo in Minerbino, e cos\u00ec fu fatto. E stando col\nre e con la reina non si trov\u00f2 modo d\u2019accordo, n\u00e8 che messer Luigi si\nvolesse assicurare di andare a loro. In questo stante, gente d\u2019arme\nacconcia a far male percossono alla strada, e presono settanta muli\nche tornavano da Barletta con poca roba, e menargli via in vergogna\ndella corona, essendo la persona del re nel paese. E tornandosi il re\ne la reina a Napoli, messer Luigi e il Paladino presono ardire di pi\u00f9\naperta rubellione, e accolsono gente d\u2019arme, e correano per lo paese.\nMa sentendosi di piccola possanza, entrarono in trattato col conte\ndi Lando, che dovesse conducere la compagnia nel Regno. Soprastaremo\nalquanto al presente a questa materia, parandocisi innanzi pi\u00f9 notevole\navvenimento di grave fortuna.\nCAP. XXXII.\n_Come i Genovesi sconfissono i Veneziani a Portolungo in Romania._\nAvendo la non domata rabbia del comune di Genova e di quello di Vinegia\ncondotto le loro armate in Romania, essendo messer Paganino Doria di\ntrentatre galee genovesi ammiraglio, e messer Niccol\u00f2 da ca Pisani\nammiraglio di trentacinque galee de\u2019 Veneziani, e tre panfani e un\nlegno armato, e venti tra saettie e barche, e cinque navi di carico\ntutte armate e incastellate, e navicando l\u2019una armata e l\u2019altra per\nlo mare di Romania a fine d\u2019abboccarsi insieme, non vi si poterono\ntrovare: l\u2019ammiraglio de\u2019 Veneziani con tutte le galee e gli altri\nnavilii della sua armata si ridusse nel porto di Sapienza nella Romania\nbassa, e ivi s\u2019ordin\u00f2, avendo lingua de\u2019 suoi nemici ch\u2019erano nel mare\ndi Romania, in questo modo: che le navi mise nella bocca del porto\nincatenate insieme, e con esse venti galee alla guardia, e molto le\nfece bene armare e acconciare alla difesa della bocca del porto, e con\nqueste rimase il loro ammiraglio; l\u2019altre quindici galee co\u2019 legni\narmati e con le saettie accomand\u00f2 a uno da ca Morosini di Vinegia, e\nmisele dentro nel Portolungo, acciocch\u00e8 stessono pi\u00f9 salve, e potessono\ncontastare a\u2019 nemici dinanzi e l\u2019ammiraglio di dietro, se caso venisse\nche l\u2019armata de\u2019 Genovesi si mettesse nel porto. L\u2019ammiraglio de\u2019\nGenovesi avendo in Romania sentito lingua dell\u2019armata de\u2019 Veneziani, e\ncom\u2019erano pi\u00f9 galee e assai legni di carico incastellati pi\u00f9 di loro,\ne che fatto aveano la via di Portolungo di Sapienza nella Romania\nbassa, come uomo di gran cuore e ardire, avvilendo i suoi nemici che\nnon aveano cercato d\u2019abboccarsi con lui, ma piuttosto fatto vista di\nschifarlo, di presente s\u2019addirizz\u00f2 con la sua armata verso il porto\ndi Sapienza per richiedere i Veneziani di battaglia; e come giunto fu\nsopra il porto di Sapienza, vide come i Veneziani co\u2019 loro navilii\nincastellati e incatenati e con le galee s\u2019erano afforzati alla bocca\ndel porto, e parvegli segno che non volessono combattere; nondimeno per\nmostrarsi a\u2019 nemici senza paura, non credendosi venire a battaglia,\nstando aringati sopra il porto, mand\u00f2 a richiedere l\u2019ammiraglio de\u2019\nVeneziani di battaglia, dicendo, come l\u2019attendea fuori del porto, per\nporre fine a\u2019 travagli e alle tribulazioni che gli altri navicanti e\ntutto il mare portava della loro guerra. L\u2019ammiraglio de\u2019 Veneziani\nrispose, ch\u2019era in casa sua, e non intendea combattere a richiesta\nde\u2019 suoi nemici, ma quando a lui paresse prenderebbe la battaglia.\nI Genovesi pi\u00f9 inanimati, veggendo ricusavano la battaglia, da capo\nla dimandarono, vituperando i loro avversari, sonando e risonando\ntrombe e nacchere, e vedendo che niuno segno si facea pe\u2019 Veneziani di\nmuoversi, ad alcuno atto, presono un folle ardimento, se i Veneziani\navessono aoperato come poteano l\u2019armi, perocch\u00e8 Giovanni Doria nipote\ndell\u2019ammiraglio mattamente si mise con una galea ad entrare nel porto,\ne appresso di lui il figliuolo dell\u2019ammiraglio con la sua, entrando\nsotto la guardia delle navi e delle galee. I Veneziani vedendoli\nentrare, follemente li lasciarono entrare, sperando rinchiuderli nel\nporto e averli tutti a man salva; e cos\u00ec senza contasto per atare i\ngiovani che s\u2019erano messi a quello pericolo v\u2019entrarono tredici galee\ndi Genovesi l\u2019una dopo l\u2019altra, senza essere impedite o combattute\ndall\u2019ammiraglio o dalla sua armata ch\u2019era alla guardia della bocca\ndel porto; e trovandosi nel porto, si dirizzarono con ordine e con\ngrande ardimento a combattere le quindici galee de\u2019 Veneziani e\u2019 legni\narmati ch\u2019erano nel porto, le quali aveano le prode a terra per loro\nagiamento, ed erano pi\u00f9 atte alla difesa. I Genovesi l\u2019assalirono con\naspra battaglia, ma quale che fosse la cagione, o per sdegno preso\ncontro all\u2019ammiraglio che non avea impedito la loro entrata, e non\ns\u2019era mosso alla loro difesa, o per molta codardia, a quel punto\nfeciono piccola difesa, e per\u00f2 nel primo assalto furono assai de\u2019\nVeneziani fediti e morti: e pignendo i Genovesi, con piccola resistenza\nde\u2019 loro avversari montarono in sulle galee, e in poca d\u2019ora tutti gli\nebbono presi e sbarattati, ne\u2019 quali molti pi\u00f9 annegarono gittandosi\nin mare per fuggire, che quelli che morirono di ferro. Avendo queste\ntredici galee avuta piena vittoria delle quindici del porto, feciono\nsegno al loro ammiraglio e all\u2019altre galee ch\u2019erano fuori del porto\ndella loro vittoria, le quali con grande baldanza e ardire si misono\ninnanzi, per volere combattere le venti galee e le navi ch\u2019erano\nalla guardia della bocca del porto, e le tredici vittoriose vennono\ndall\u2019altra parte, avendo due corpi di galee veneziane affocate per\nmetterle loro addosso. Strignendosi d\u2019ogni parte la battaglia,\nl\u2019ammiraglio veneziano ingannato per molta vilt\u00e0 del primo suo avviso,\ne sbigottito delle quindici galee perdute, e della battaglia che d\u2019ogni\nparte si vedea apparecchiare, s\u2019arrend\u00e8 alla misericordia de\u2019 Genovesi,\ne da quel punto innanzi pi\u00f9 non v\u2019ebbe morto o fedito alcuno Veneziano;\ntutti furono prigioni, perocch\u00e8 in porto e tutto in mare di lungi dalla\nterra ferma niuno dell\u2019armata de\u2019 Veneziani camp\u00f2 che non fosse preso\no morto, e i prigioni furono per novero cinquemilaottocentosettanta,\ni quali con tutte le galee, e altri legni e navilii, con grande\nvittoria quasi senza loro danno menarono a Genova, lasciati nel porto\ne nella marina di Sapienza quattromila o pi\u00f9 corpi di Veneziani morti\ne annegati in quella battaglia, la quale fu a d\u00ec 3 di novembre 1354.\nDella quale vittoria i Genovesi ripresono cuore e ardire di loro stato,\ne i Veneziani molto ne dibassarono; e questo fece la mala provvedenza\ndel loro ammiraglio, che avendo guardata la bocca del porto come potea,\nle galee de\u2019 Genovesi non v\u2019entravano, e l\u2019entrate se l\u2019avesse volute\ncombattere di dietro con parte delle sue galee, come poteva, avrebbe\nvinti i Genovesi, come i Genovesi vinsono lui. Ma la guerra \u00e8 di questa\nnatura, che commesso il fallo seguita la penitenza senza rimedio le pi\u00f9\nvolte.\nCAP. XXXIII.\n_Come Gentile da Mogliano diede Fermo al legato._\nInnanzi che noi procediamo ad altri effetti della detta sconfitta,\nGentile da Mogliano signore della citt\u00e0 di Fermo nella Marca ci ritiene\nalquanto, perocch\u00e8 essendo tirannello oppressato da messer Malatesta\nda Rimini maggiore tiranno, per cui s\u2019era messo a soldare la compagnia\nper liberare Fermo dall\u2019assedio, come gi\u00e0 \u00e8 detto, rimase povero\nd\u2019avere e d\u2019aiuto, conobbesi impotente da difendersi dal nimico suo,\nnon che dal legato, che per riavere la Marca occupata a santa Chiesa\ns\u2019apparecchiava di venire a oste alla sua occupata citt\u00e0 di Fermo, e\nper\u00f2 si pens\u00f2 di riconciliar col legato e d\u2019abbattere messer Malatesta\nsuo nimico, e andossene in persona al legato ch\u2019era a Fuligno, e\npromiseli di renderli la citt\u00e0 di Fermo, e d\u2019essere fedele al servigio\ndi santa Chiesa e del legato. Il legato ebbe tanto a grado la venuta\ne l\u2019offerta di Gentile, che di presente il ricevette con grande\nallegrezza, e per onorarlo e fargli bene, comunicatosi insieme con lui\nalla messa, il fece gonfaloniere di santa Chiesa, e promisegli que\u2019\ndanari che volle a certo termine, dicendogli ch\u2019era contento tenesse\nla rocca di Fermo infino che fosse pagato. Il legato mand\u00f2 della sua\ngente da cavallo e da pi\u00e8, e furono ricevuti da\u2019 Fermani con grande\nallegrezza e festa, pensando che uscivano di pericoloso servaggio, che\nGentile era bisognoso e gravavagli troppo, e non gli poteva difendere\nn\u00e8 aiutare. E il legato pensava fare in Fermo sua frontiera al primo\ntempo, perocch\u2019era vicino alle citt\u00e0 della Marca occupate per messer\nMalatesta, e avendo fatto contro a lui e contro agli altri tiranni di\nRomagna gravi processi, pensava volere fare l\u2019esecuzione con altro che\ncol suono delle campane e con le candele spente, ma da\u2019 baratti e da\u2019\ntradimenti de\u2019 Romagnuoli e de\u2019 Marchigiani non si pot\u00e8 guardare, come\ninnanzi racconteremo.\nCAP. XXXIV.\n_Come il re di Araona ebbe la Loiera, e fece accordo col giudice._\nTornando a\u2019 fatti di Sardegna, il re di Araona con la sua cavalleria\ne con l\u2019armata delle sue galee avendo mantenuto assedio alla Loiera\ndal luglio al novembre, e fatto continova guerra al giudice d\u2019Alborea\ncon piccolo acquisto, essendo la Loiera a grande stretta, e non\nvedendo d\u2019essere soccorsa, trattavano col re, e similmente il giudice\nd\u2019Alborea rincrescendogli la guerra. Il re si teneva duro, e voleva\nmaggiori cose che offerte non gli erano. In questo stante sopravvenne\nla sconfitta de\u2019 Veneziani ricevuta da\u2019 Genovesi, la novella della\nquale fu in segreto molto tosto a Vinegia. Il doge e \u2019l consiglio\nche questo seppono, tennono la cosa celata per modo, che i loro\ncittadini non poterono alcuna cosa sentire, e di presente armarono\nun legno sottile, e mandarono significando al re d\u2019Araona il loro\nfortunoso caso, e avvisandolo che innanzi che la novella si spargesse\nsapesse pigliare suo vantaggio, e guardare la sua armata. Il legno\nport\u00f2 volando la mala novella al re d\u2019Araona, ed egli con maestrevole\navviso con molta festa manifest\u00f2 la novella per lo contradio, facendo\nassapere al giudice e agli assediati che i Veneziani aveano sconfitti\ni Genovesi. Per questo i Genovesi ch\u2019erano a guardia della Loiera\nperderono ogni ardire, e procacciavano l\u2019accordo, e il giudice si\ndichin\u00f2 pi\u00f9 che fatto non avrebbe, e il re mostrandosi di buona aria\npi\u00f9 che non solea, di presente venne alla concordia della pace, e fu\nfatta in questo modo: che il re avesse la Loiera andandosene sani e\nsalvi i Genovesi e gli altri forestieri che la guardavano, e il giudice\nd\u2019Alborea riconobbe ritenere tutte le terre dal detto re, e feceli il\nsaramento, e promiseli dare ogni anno certa moneta per l\u2019omaggio delle\ndette terre; e fatta la pace, e fornita la Loiera di sua gente d\u2019arme,\nper lo beneficio dell\u2019affrettata novella, e per lo savio consiglio\ndel re, si torn\u00f2 in Catalogna, con acquisto, e con pace, e con onore.\nOve se la novella fosse sentita prima da\u2019 suoi avversari, con danno\ne con vergogna senza nullo acquisto gli convenia partire dell\u2019isola\nvituperosamente: e per\u00f2 si verifica qui l\u2019antico proverbio contrario\nalla vile pigrizia, che dice; il buono studio vince ria fortuna.\nCAP. XXXV.\n_Come i Pisani si diliberarono di mandare all\u2019imperatore._\nSoprastando l\u2019eletto imperadore a Mantova per volere trarre a fine la\npace tra\u2019 Lombardi, i Pisani i quali erano a quel tempo in grande e\nbuono stato sotto il reggimento de\u2019 Gambacorti, ch\u2019erano i maggiori,\ne con loro gli Agliati e seguaci e Bergolini, i quali manteneano\npace e onore co\u2019 Fiorentini, e non ostante che fossono amici de\u2019\nguelfi, sentendo il popolo minuto tutto imperiale, per provvedersi\ndi conservare loro stato diliberarono di mandare di loro medesimi\nambasciadori con pleno mandato del detto comune al detto eletto,\ne nel loro segreto fu, che procacciassono d\u2019avere promessione e\nfede dall\u2019eletto, che gli conserverebbe nello stato senza far nella\ncitt\u00e0 mutazione degli ufici, e che non vi rimetterebbe gli usciti\nribelli, e che manterrebbe al comune di Pisa la signoria di Lucca,\ne non la recherebbe in libert\u00e0 n\u00e8 ad altro stato. Gli ambasciadori\ncon grande compagnia e molto adorni giunsono a Mantova, dov\u2019era\nl\u2019eletto imperadore, e ricevuti da lui con grande onore, e fatta la\nriverenza, spuosono l\u2019ambasciata del loro comune, ove liberamente gli\noffersono la citt\u00e0 e gli uomini di quella alla sua ubbidienza, pregando\ndivotamente per bene, e per pace e buono stato del detto comune,\nche gli dovesse piacere di promettere per la sua fede, e appresso\ndell\u2019imperiale corona le sopraddette cose utili e necessarie al buono\nstato di que\u2019 cittadini, e l\u2019eletto con grande allegrezza e festa li\nricevette, e promise nella sua fede liberamente ci\u00f2 che per loro era\ndomandato. Allora gli ambasciadori gli promisono trentamila fiorini\nd\u2019oro in aiuto alla spesa della sua coronazione, e altri trentamila\nper lo consentimento della citt\u00e0 di Lucca, il quale consentimento\nnon onorevole alla maest\u00e0 imperiale, comprese sotto la ragione del\npadre suo re Giovanni, quando la citt\u00e0 di Lucca gli fu data. Della\nquale promessa i grandi mercanti, e gli altri usciti di Lucca, che si\npensavano tornare in libert\u00e0 per la venuta dell\u2019imperadore, si tennono\nmal contenti: e cos\u00ec fu fatta la concordia dall\u2019eletto imperadore\na\u2019 Pisani, della quale i cittadini feciono in Pisa per molti giorni\nsingulare e grande festa, ignoranti del futuro avvenimento della loro\nruina.\nCAP. XXXVI.\n_Rottura della pace del re di Francia e d\u2019Inghilterra._\nEssendo per lungo tempo trattato per lo cardinale di Bologna e per\naltri prelati di volere fare accordo tra il re di Francia e quello\nd\u2019Inghilterra, e sotto questa speranza pi\u00f9 volte prolungate le triegue\ntra l\u2019uno re e l\u2019altro; e non potendo trarlo a fine, provvidono di\ncomune consiglio quelli che menavano il trattato, che abboccandosi i\ndue re insieme nella presenza del papa, o i loro pi\u00f9 confidenti baroni,\nche pace ne dovesse seguire; e per seguire questo consiglio il re di\nFrancia vi mand\u00f2 il duca di Borbona suo consorto, e il conestabile\ndi Francia: e il re d\u2019Inghilterra vi mand\u00f2 il duca di Lancastro suo\ncugino, e il vescovo di Vervic, e catuno giunse a corte del mese di\ndicembre: e abboccatisi insieme per pi\u00f9 riprese nella presenza del\npapa, tanto volea catuno mantenere l\u2019onore del titolo del suo signore,\nche mezzo non seppono trovare di recarli in pace. Il papa, o per\nsoperchia arroganza che trovasse in loro, o per poco ardire ch\u2019avesse\ndi sforzare gli animi de\u2019 signori, non vi s\u2019interpose come avrebbe\npotuto la sua autorit\u00e0, con la quale poteva catuno sostenere con suo\nonore, e trovare mezzo di recarli a concordia e pace; nol fece, che\nforse non erano ancora puniti i peccati de\u2019 Franceschi: e per\u00f2 del mese\ndi gennaio del detto anno, catuna parte in discordia con poco onore del\nsanto padre e de\u2019 suoi cardinali si torn\u00f2 al suo signore.\nCAP. XXXVII.\n_Come un gatto uccise un fanciullo in Firenze._\nAvvegnach\u00e8 assai paia cosa strana e non degna di memoria quello che\nseguita, perocch\u00e8 fu inaudito caso, non l\u2019abbiamo saputo tacere. In\nFirenze era da san Gregorio un lasagnaio con una sua moglie, aveano un\npiccolo loro fanciullo di tre mesi, e avendolo la madre governato e\nrimessolo nella culla al modo usato, una gatta accresciuta e nutricata\nin quella casa se n\u2019and\u00f2 al fanciullo, e cominciolli a rodere la testa,\ne trassegli gli occhi e manicosseli, e poi rodendo la testa se n\u2019and\u00f2\nfino al cervello; e avendo lungamente pianto il fanciullo, il padre\ne la madre soccorsono tardi, non pensando che cotale caso fosse, e\ntrovarono il fanciullo storpiato, e la gatta sopr\u2019esso ancora vivo,\nma incontanente mor\u00ec; e sparata la maladetta gatta le trovarono gli\nocchi del fanciullo in corpo. Questa \u00e8 quasi cosa incredibile, ma per\nesperienza del vero di questo fatto si dee alle donne e alle balie\naccrescere sollecitudine e accrescimento di buona guardia a\u2019 piccoli\nfanciulli. Avvenne questo inopinato caso a d\u00ec 6 di dicembre 1354.\nCAP. XXXVIII.\n_Come l\u2019imperadore fe\u2019 fare triegua da\u2019 Lombardi a\u2019 signori di Milano._\nAvendo fino a qui dimostrato i trattati tenuti per l\u2019eletto imperadore\ne la sua venuta a Mantova, al presente ci strigne il tempo a venire\ndimostrando i cominciamenti in fatti delle sue proprie operazioni.\nCostui secondo il suo supremo titolo, conoscendo se medesimo e il suo\npiccolo podere, e abbattendo nell\u2019animo suo ogni elezione, provvide\nche per astuta e dissimulata suggezione gli convenia procedere per\nvenire all\u2019ottato fine della sua coronazione, e per questo in fatto\nprese abito, forma, e operazione umile, e sommissione incredibile\nall\u2019imperiale nome in fondamento de\u2019 suoi principii: e venuto a Mantova\nsenz\u2019arme, e fattosi trattatore della pace da\u2019 signori di Milano a\u2019\nlegati lombardi, avendo seguito il fatto dall\u2019entrata di novembre\nal Natale senza frutto, essendo montata la superbia de\u2019 Genovesi e\nde\u2019 loro signori, per la vittoria avuta in mare sopra i Veneziani,\nper la quale mutando in prima i patti li voleano pi\u00f9 larghi per loro\nin vergogna degli allegati, ed eglino sdegnosi non acconsentivano,\nl\u2019imperadore, ch\u2019avea l\u2019animo pi\u00f9 a\u2019 suo\u2019 fatti propri, si doleva\ndi perdere il tempo invano, e conoscendo la potenza de\u2019 Visconti di\nMilano maggiore che della lega, e non vedendosi da\u2019 comuni di Toscana\nfuori che da\u2019 Pisani dimostramento d\u2019alcuno favore, comprese che a\u2019\ncollegati non faceva utile, e a se faceva impedimento grande per la\ncoronazione della corona del ferro, ch\u2019era nella potenza de\u2019 signori di\nMilano, e per\u00f2 non dimostrando d\u2019abbandonare il trattato, ma di volerlo\nconducere a fine di pace, facea fare triegua tra\u2019 Lombardi fino al\nmaggio prossimo vegnente; e fatta la triegua, incontanente tratt\u00f2 per\nse accordo co\u2019 signori di Milano, sottomettendo la sua persona, e \u2019l\nsuo onore, e la dignit\u00e0 imperiale oltre al debito modo nell\u2019arbitrio\ne potenza de\u2019 tiranni, prendendo confidenza di quelli, o da purit\u00e0 di\nmente, o da matto consiglio, non per\u00f2 di certo e di chiaro giudicio;\ne il patto fu, che li darebbono abilit\u00e0 d\u2019avere sotto le loro braccia\nla corona a Moncia, ed egli senza entrare in Milano gli lascerebbe\nsuoi vicari in tutta la loro giurisdizione; ed egli avuta promissione\nda loro, che alla sua coronazione a Roma gli donerebbono per aiuto\nalle spese fiorini cinquantamila d\u2019oro, senza alcuna gente d\u2019arme come\nprivato uomo si sottomise nella loro signoria, vincendo gli animi fieri\ne l\u2019usata fallacia tirannesca colla sua persona creduta nelle loro mani\nliberamente, come appresso diviseremo.\nCAP. XXXIX.\n_Come l\u2019imperadore and\u00f2 a Moncia per la corona del ferro._\nL\u2019eletto imperadore avendo fatto la sua concordia co\u2019 signori di\nMilano, pi\u00f9 della pace de\u2019 Lombardi non si travagli\u00f2, ma di presente\nfatta la festa della nativit\u00e0 di Cristo a Mantova, si mise a cammino\nverso Milano con meno di trecento cavalieri, i pi\u00f9 senz\u2019arme, e i\nsignori di Milano ordinarono, che per tutto loro distretto all\u2019eletto e\nalla sua compagnia fosse apparecchiato per loro e per li loro cavalli\nogni cosa da vivere senza torre alcuno danaio: e giugnendo a Lodi,\nmesser Galeazzo gli venne incontro con millecinquecento cavalieri\narmati, e giunto a lui, gli fece la reverenza, e accompagnollo fino\ndentro alla citt\u00e0 di Lodi, e ivi il colloc\u00f2 onoratamente nelle case de\u2019\nsignori, facendo nondimeno serrare le porti della citt\u00e0, e guardarla\nd\u00ec e notte colla gente armata. E albergato in Lodi una notte, la\nmattina appresso mosso il re de\u2019 Romani, messer Galeazzo colla sua\ngente armata l\u2019accompagn\u00f2, avendo ordinata la desinea alla grande badia\ndi Chiaravalle: e appressandosi a Chiaravalle, messer Bernab\u00f2 con\nmolti cavalieri armati gli si fece incontro, e fattagli la reverenza,\ngli present\u00f2 da parte de\u2019 fratelli e cavalli e palafreni covertati\ndi velluto, e di scarlatto e di drappi di seta, guerniti di ricchi\nparamenti di selle e di freni: e fattogli alla badia nobile desinare,\nmesser Bernab\u00f2 il richiese da parte de\u2019 suoi fratelli e da sua che gli\ndovesse piacere d\u2019entrare nella citt\u00e0 di Milano; l\u2019eletto rispose, che\nper niuno modo intendea venire contro a quello che promesso avea loro;\nmesser Bernab\u00f2 gli disse, che questo gli fu domandato pensando che la\ngente della lega il dovesse accompagnare, ma per la sua persona non era\nfatto: e tanto il costrinsono, ed egli e messer Galeazzo, liberandolo\nper loro e per messer Maffiolo dalla promessa, che con loro n\u2019and\u00f2\nin Milano; e entrato nella citt\u00e0, fu ricevuto con maggior tumulto\nche festa, non potendo quasi vedere altro che cavalieri e masnadieri\narmati: e i suoni delle trombe, e trombette, e nacchere, e cornamuse,\ne tamburi erano tanti, che non si sarebbono potuti udire grandi tuoni;\ne come fu in Milano, cos\u00ec furono le porti serrate, e cos\u00ec rinchiuso\nil condussono a\u2019 palazzi della loro abitazione, e assegnateli sale e\ncamere fornite nobilissimamente di letta e di ricchi apparecchiamenti,\nmesser Maffiolo e gli altri fratelli da capo andarono a fargli la\nreverenza, dicendogli con belle parole come tutto ci\u00f2 che possedevano\nriconoscevano avere dal santo imperio, e al suo servigio intendevano\ndi tenerlo. Il d\u00ec appresso feciono fare generale mostra di tutta la\ngente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8 ch\u2019aveano accolta in Milano, e oltre\na ci\u00f2 feciono armare quanti cittadini ebbono che montare potessono a\ncavallo, tutti sforzati di coverte e d\u2019altri paramenti e d\u2019avvistate\nsopravveste, e feciono stare l\u2019imperadore alle finestre sopra la\npiazza a vedere; e passando con gran tumulto di stromenti, feciono\nintendere all\u2019eletto ch\u2019erano seimila cavalieri e diecimila pedoni di\nsoldo: e passata la mostra, dissono: signore nostro, questi cavalieri\ne masnadieri, e le nostre persone, sono al vostro servigio e a\u2019\nvostri comandamenti; dicendo che oltre a questi aveano fornite tutte\nle loro citt\u00e0 terre e castella di cavalieri e di masnadieri per la\nguardia di quelle. E cos\u00ec magnificarono la gran potenza del loro stato\nnell\u2019imperiale presenza, tenendo il d\u00ec e la notte le porte serrate e\nla gente armata per la citt\u00e0, non senza sospetto e temenza dell\u2019eletto\nimperadore, il quale vedendosi in tanta noia di sollecita guardia, fu\nora che innanzi vorrebbe essere stato altrove con minore onore, e in\ntutto fu in servaggio l\u2019animo imperiale alla volont\u00e0 de\u2019 tiranni, e\nl\u2019aquila sottoposta alla vipera, verificandosi la pronosticazione detta\nper previsione d\u2019astrologia, negli anni _Domini_ 1351, per messer frate\nUgo vescovo di...... grande astrologo al suo tempo, il quale predisse\nil cadimento del prefetto da Vico, e la soggezione futura dell\u2019aquila\nimperiale in questi versi:\n _Aquila flava ruet post parum vipera fortis._\n _Moenia subintrat Lombardi prima sophiae_\n _Anno quadrato minori decimonono._\n _Aquila succumbet pro stupri crimine foedo_\n _Nigra revolabit sublimi cardine Romam._\nma egli come savio comport\u00f2 con chiara e allegra faccia la sua cortese\nprigione; e con molta liberalit\u00e0 vinse quello che acquistare non\navrebbe potuto per forza. Dopo alquanti d\u00ec, come a\u2019 signori tiranni\npiacque, il condussono con la loro gente armata a Moncia, e ivi il\nd\u00ec della santa Epifania, a d\u00ec 6 del mese di gennaio di detto anno,\nfu coronato della seconda corona del ferro, con quella solennit\u00e0 e\nfesta che i signori Visconti li vollono fare; e tornato a Milano sotto\ncontinova guardia, fattivi certi cavalieri, ed egli per tornare in\nlibert\u00e0 sollecitando la sua partita, fu accompagnato di terra in terra\ndalle masnade armate de\u2019 signori, facendo serrare la citt\u00e0 e castella\ndov\u2019entrava, e il d\u00ec e la notte tenerle in continova guardia: ed egli\navacciando il suo cammino, non come imperadore, ma come mercatante\nch\u2019andasse in fretta alla fiera, si fece conducere fuori del distretto\nde\u2019 tiranni: e ivi rimaso libero della loro guardia, con quattrocento\ncompagni, i pi\u00f9 a ronzini senz\u2019arme, si dirizz\u00f2 alla citt\u00e0 di Pisa per\nesservi prima che non avea loro promesso, e cos\u00ec li venne fatto.\nCAP. XL.\n_Come il conte di Lando venne di Lombardia in Romagna con la gran\ncompagnia._\nIn questi d\u00ec all\u2019entrata di gennaio, il conte di Lando capitano del\nresiduo della gran compagnia, avendo un d\u00ec lungamente parlamentato a\nsolo coll\u2019eletto imperadore, con duemilacinquecento barbute se ne venne\na Ravenna, e con lui due fratelli della bella contessa, che l\u2019anno\ndel generale perdono andando a Roma capit\u00f2 in Ravenna, e ritenuta\ndal tiranno per conducerla o per amore o per forza a consentire alla\nsua sfrenata libidine, la valente donna vedendo non potere mantenere\nla sua castit\u00e0 contro alla forza dello scellerato tiranno se non per\nvia di morte, trov\u00f2 il modo di finire sua vita innanzi che volesse\ncorrompere la sua castit\u00e0; questi cavalieri credendosi potere vendicare\ndell\u2019onta della loro sirocchia contro al tiranno, s\u2019accostarono con la\ncompagnia, e furono singolare cagione di menarla in sul Ravennese, ove\nstette lungamente ardendo, e predando, e guastando il paese; e dopo la\ndetta stanza e guasto dato, essendosi tenuto alle mura della citt\u00e0 il\nconte, gli domand\u00f2 trentamila fiorini d\u2019oro se volea si partissono di\nsuo terreno, e avendo il tiranno bargagnato, s\u2019era recato il conte a\ndodicimila fiorini d\u2019oro. Allora disse il tiranno, che gli darebbe i\ndetti danari, se \u2019l conte il volesse sicurare di non partirsi con la\ncompagnia per spazio d\u2019un anno continovo del contado di Ravenna: e a\u2019\nsuoi cittadini fece stimare il danno ricevuto delle loro possessioni,\ntenendoli in speranza di pagare loro la restituzione del danno; onde\nil conte e la sua compagnia frustrata del loro intendimento si part\u00ec\ndi l\u00e0, e andossene nella Marca. Lasceremo ora de\u2019 fatti della gran\ncompagnia, e torneremo alle cose che per l\u2019avvenimento dell\u2019imperadore\noccorsono in Toscana.\nCAP. XLI.\n_Come i Fiorentini per la venuta dell\u2019imperadore a Pisa si provvidono._\nSentendo i Fiorentini l\u2019avvenimento dell\u2019eletto imperadore a Pisa, non\navendo alcuna cosa provveduto dinanzi quando era a Mantova, ove ci\u00f2 che\navessono voluto da lui avrebbono di suo buon grado impetrato, stavano\nin consiglio se dovessono ubbidire o contradiare: ed essendone la citt\u00e0\ntutta in vari e indeterminati consigli, presono di fare dodici uficiali\nch\u2019andassono per tutto il contado con ordinata bal\u00eca, di fare riducere\ntutta la vittuaglia nelle terre murate e nelle castella forti, e ogni\naltra cosa di valuta, e diedono voce di volere prendere difesa, e non\ncon accettare l\u2019imperadore, per non sottomettere la franchigia del\ncomune ad alcuna signoria; e quanto che in fatto questa provvigione\navesse poco effetto, pure fu utilmente provveduto, per non mostrare\nvilt\u00e0 o paura, e per dare intendere all\u2019eletto imperadore e al suo\nconsiglio che il comune di Firenze s\u2019apparecchiava alla sua difesa; e\nnondimeno elessono sei cittadini per mandarli a lui come fosse riposato\nin Pisa, per trattare accordo con lui, se rimanendo in libert\u00e0 il\npotessono trovare. E questo fu ordinato e fatto in Firenze a d\u00ec 11 di\ngennaio del detto anno.\nCAP. XLII.\n_Come il legato prese Recanati._\nIn questo mese di gennaio, il legato del papa avendo la citt\u00e0 di\nFermo, e seguitando suo processo contro a messer Malatesta da Rimini\nper le citt\u00e0 ch\u2019egli occupava a santa Chiesa, nondimeno come signore\navvisato e pratico ne\u2019 fatti della guerra, non stava solo a\u2019 processi\nn\u00e8 al suono delle campane, anzi cercava trattati, e co\u2019 suoi cavalieri\nsollecitava gli avversari di continova guerra: e in questi d\u00ec per\ntrattato mise la sua cavalleria in Recanati, e racquist\u00f2 la citt\u00e0\nalla Chiesa di Roma; e in quella, perch\u2019era povera d\u2019abitanti, mise\ngente assai a cavallo e a pi\u00e8 per far guerra a messer Malatesta, e per\nguardare la citt\u00e0 pi\u00f9 sicuramente.\nCAP. XLIII.\n_Come il capitano di Forl\u00ec venne in Firenze._\nQuello che al presente ci muove non \u00e8 per lo fatto della propria\npersona degno di memoria, ma all\u2019indiscreto movimento de\u2019 rettori di\nFirenze a quel tempo, non senza ammirazione ci muove a ricordare come\nnel nostro contado venne messer Luigi marito della reina Giovanna\nfigliuola del re Ruberto, ed egli figliuolo del prenze di Taranto\nfratello carnale del detto re Ruberto, stati sempre protettori del\nnostro comune, e il detto prenze capitano e conducitore delle nostre\nosti, avendo il loro reale sangue e la vita, nelle persone di messer\nCarlo loro fratello e di messer Piero figliuolo del detto re, sparto\nnelle nostre guerre, non dimenticata la memoria di cotanti servigi,\ngli fu vietato non tanto il venire nella nostra citt\u00e0 senz\u2019arme e\nsenza compagnia di gente d\u2019arme, ma lo stare nel nostro contado gli\nfu vietato; e i fratelli carnali e\u2019 cugini tornando di prigione\nd\u2019Ungheria, e domandando di volere fare loro diritto cammino per la\nnostra citt\u00e0, e per lo nostro contado a tornare nel Regno, fu loro\nvietato e contradetto il passo, ove si doveva con singulare festa e\nonore fargli ricevere e accompagnare: ma tanto fu il podere d\u2019alquanti\ncittadini che allora governavano il comune, fortificandosi con non\ngiusti n\u00e8 veri sospetti, che contro al piacere degli altri cittadini\nebbono podere di cos\u00ec fare. Il capitano di Forl\u00ec antico tiranno, sempre\nstato nemico di santa Chiesa e del nostro comune, caporale in Romagna\ndi parte ghibellina, scomunicato e dannato da santa Chiesa, volendo\nandare a Pisa all\u2019imperadore con grande compagnia di gente d\u2019arme, fu\nnella nostra citt\u00e0 ricevuto con disordinato e sobrabbondante onore, e\nconvitato da\u2019 signori e da altri cittadini stette in festa alcuni d\u00ec di\nsuo soggiorno: poi volendo essere nella presenza dell\u2019eletto imperadore\na Pisa, non gli fu conceduto eziandio entrare in quella citt\u00e0,\nperch\u2019era in indegnazione di santa Chiesa. Non \u00e8 l\u2019onore alcuna volta\nfatto al nemico da biasimare, ma molto pare cosa detestabile in luogo\ndel debito onore a fidatissimi amici imporre sospetto e fare vergogna;\nalla matta ignoranza del vario reggimento della nostra citt\u00e0 fu lecito\ndi cos\u00ec fare a questa volta.\nCAP. XLIV.\n_Come l\u2019imperadore Carlo giunse a Pisa._\nL\u2019eletto imperadore diliberato delle mani de\u2019 tiranni di Milano, avendo\nin sua compagnia il fratello naturale patriarca d\u2019Aquilea, giunse alla\ncitt\u00e0 di Pisa domenica a d\u00ec 18 di gennaio, gli anni _Domini_ 1354\ndalla sua incarnazione, in su l\u2019ora della nona. Ed essendo i Pisani\nprovveduti a fargli onore, gli andarono incontro con la processione\ndel loro arcivescovo e di tutto il chericato, e con allegra festa i\ngiovani vestiti a compagnie di nuove assise andavano armeggiando, e i\nrettori del comune con gli altri pi\u00f9 maturi cittadini, e co\u2019 soldati\nsenz\u2019arme gli si feciono incontro fuori della terra facendogli somma\nriverenza, e cos\u00ec tutto l\u2019altro popolo a pi\u00e8 pieno d\u2019allegrezza gli\nsi fece incontro; e addestrato da\u2019 loro cavalieri con ricco palio\nsopra capo, gridando il popolo viva l\u2019imperadore, il condussono nella\ncitt\u00e0. L\u2019imperadore, vestito molto onestamente d\u2019uno paonazzo bruno\nsenza alcuno ornamento d\u2019oro, o d\u2019argento o di pietre preziose, andava\ncon molta umilit\u00e0 salutando i grandi e\u2019 piccoli, pigliando gli animi\ndi molti forestieri che l\u2019erano a vedere col suo benigno aspetto e\numile portamento, e condotto alla chiesa cattedrale, reverentemente\ninginocchiato all\u2019altare fece sue orazioni; e rimontato a cavallo, con\ngrande allegrezza e festa fu condotto a\u2019 nobili abituri de\u2019 Gambacorti,\nov\u2019era il famoso giardino, e apparecchiato da\u2019 detti Gambacorti le\ncamere e le letta di nobilissimi adornamenti, e apparecchiate le\nvivande per la cena, e gli ostieri attorno per tutta la sua compagnia,\nfu con somma letizia consumata la prima giornata, verificandosi\nl\u2019antico proverbio, che dice: gli stremi dell\u2019allegrezza occupa il\npianto, come seguendo appresso in questo processo dell\u2019imperadore si\npotr\u00e0 trovare.\nCAP. XLV.\n_Come l\u2019imperadore band\u00ec parlamento in Pisa, e quello n\u2019avvenne._\nLuned\u00ec vegnente a d\u00ec 19 di gennaio, volendo l\u2019imperadore fare\nragunare i cittadini a parlamento per ricevere il saramento della\nloro ubbidienza, mand\u00f2 il bando da sua parte che tutti si ragunassono\nal duomo per la detta cagione, ed egli s\u2019apparecchi\u00f2 d\u2019andare l\u00e0. Il\npopolo mosso per lo bando si ragunava al duomo. Erano in questo tempo\nin Pisa due sette, l\u2019una reggea lo stato del comune, della quale i\nGambacorti e Cecco Agliati erano caporali, e costoro erano chiamati\nBergolini, l\u2019altra si chiamava la setta de\u2019 Matraversi, e non erano\nconfidenti al reggimento del comune, ed essendo venuto di Lombardia\nappresso all\u2019eletto imperadore uno Paffetta della casa de\u2019 Conti, il\nquale era de\u2019 caporali della setta de\u2019 Matraversi, costui con certi\naltri di quella setta disposti a rimuovere il reggimento della citt\u00e0,\nil quale l\u2019eletto imperadore aveva a Mantova promesso di conservare\ne di mantenere, essendo egli gi\u00e0 mosso per andare al parlamento,\ne valicato il ponte alla Spina, cominciato fu con gran romore per\nli Matraversi a dire, viva l\u2019imperadore e la libert\u00e0, e muoia il\nconservadore. Udendosi nel romore la novit\u00e0 del conservadore, i grandi\ne\u2019 piccoli cominciarono a sospettare per tema, e altri per mala\nindustria, cominci\u00f2 il popolo a correre all\u2019arme. L\u2019eletto sentendo\nquesta novit\u00e0, incontanente diede la volta, e avendo seco Franceschino\nGambacorti, il quale era sindaco del comune a fargli il saramento, e\ncon lui i soldati del comune, se ne venne al palagio degli anziani, e\ndi l\u00e0 mand\u00f2 bandi per la terra, e fece a\u2019 cittadini porre gi\u00f9 l\u2019arme,\ne racchetare il popolo; e lasciati i soldati del comune alcuna parte\narmati in segno di guardia, in quel giorno non si fece altra novit\u00e0, e\nprolungossi il saramento che fare si dovea all\u2019eletto imperadore.\nCAP. XLVI.\n_Come l\u2019imperadore di Costantinopoli racquist\u00f2 l\u2019imperio._\nDel detto mese di gennaio, un\u2019altro giovane Calogianni Paleologo\nimperadore di Costantinopoli, essendo, come addietro \u00e8 narrato, dal suo\nsuocero Mega Domestico balio dell\u2019imperio per lui cacciato di quello,\ned usurpato a se la signoria del detto imperio, aveva lui lungamente\ntenuto in esilio nel reame di Salonicco: il quale giovane imperadore\navendo tenuto lungo trattato con certi de\u2019 suoi baroni, i quali gli\ndicevano che procurasse di comparire a Costantinopoli, ed essendovi\nl\u2019ubbidirebbono, costui povero d\u2019avere e di gente, non trovando altro\naiuto, si fece ad amico un gentile uomo di Genova ch\u2019era ricco in quel\npaese, il quale co\u2019 suoi danari e con l\u2019industria della sua persona\nsegretamente il condusse in Costantinopoli; ed essendo nella citt\u00e0,\nfu manifestato a\u2019 baroni con cui era in trattato, i quali di presente\ngli feciono braccio forte, e sommossono il popolo, che il desiderava\ncome loro diritto imperadore; e presa l\u2019arme, combattendo il castello\ndella signoria, Mega Domestico usurpatore dell\u2019imperio, male provveduto\ndi questo caso, come Iddio volle si fugg\u00ec di Costantinopoli, e il\ngiovane a cui si dovea l\u2019imperio di ragione rimase imperadore, e il\nsuocero per paura si rend\u00e8 calogo cio\u00e8 eremita. E stando in quello\nstato da non prender guardia di lui, trattava col figliuolo e co\u2019\nsuoi amici d\u2019abbattere l\u2019imperadore, e scoperto il trattato si fugg\u00ec,\ne cambiato abito, accolse gente, e cominci\u00f2 a guerreggiare in alcuna\nparte l\u2019imperio, con lieve aiuto di sbanditi e di ribelli. L\u2019imperadore\nper rimunerare il servigio ricevuto dal Genovese, ch\u2019aveva nome messer\n... li diede l\u2019isola di Metelino, e la sirocchia per moglie, ed ebbelo\ncontinovo al suo consiglio.\nCAP. XLVII.\n_Come i Matraversi di Pisa feciono muovere l\u2019imperadore._\nTornando alla materia de\u2019 Pisani, il marted\u00ec a d\u00ec 20 di gennaio del\ndetto anno si ragunarono in Pisa col Paffetta assai della setta de\u2019\nMatraversi, e con loro gran parte d\u2019un\u2019altra nuova setta che si diceano\ni Malcontenti, e in compagnia s\u2019appresentarono dinanzi all\u2019eletto\nimperadore, e con grande istanza il richiesono e pregarono, che per\nbene e contentamento del comune dovesse prendere a se il saramento de\u2019\nloro soldati, che i cittadini erano malcontenti che i suoi soldati\nfossono all\u2019ubbidienza di due privati cittadini, ci\u00f2 era Franceschino\nGambacorti e Cecco Agliati: e Cecco Agliati per alcuna invidia presa,\nvedendo che a\u2019 bisogni i soldati andavano pi\u00f9 a Franceschino che a\nlui, sentendo questo movimento and\u00f2 all\u2019imperadore, e disse, che\ndicevano bene, e che per se era contento che cos\u00ec si facesse. L\u2019eletto\nimperadore vedendo che il movimento di costoro s\u2019accostava alla sua\nvolont\u00e0, quanto che ci\u00f2 fosse contro a\u2019 patti promessi, sott\u2019ombra di\nvolere racquetare la contenzione del comune, e levare materia agli\nscandali gi\u00e0 mossi, and\u00f2 al palagio degli anziani, e ivi fatti ragunare\ni soldati del comune a cavallo e a pi\u00e8, prese il saramento da loro, e\ncominci\u00f2 a venir meno allo stato che reggeva della sua promessa, e a\ndare baldanza a\u2019 suoi avversari; ma per non dimostrare che cos\u00ec tosto\navesse loro rotti i patti, argoment\u00f2, e fecene capitani Franceschino\nGambacorti e Cecco Agliati alla sua volont\u00e0. La cosa era gi\u00e0 condotta\nin termini che dire non s\u2019osava contro a cosa che facesse, n\u00e8 ricordare\ni patti promessi, ma catuno dimostrava essere contento a ci\u00f2 che\nfacesse per accattare la sua benivolenza.\nCAP. XLVIII.\n_Come procedettono i fatti in Pisa._\nAvvedendosi i Gambacorti e i loro seguaci che l\u2019eletto assentiva di\ngrado le novit\u00e0 che moveano i loro avversari, e non vi volea mettere\nriparo, conobbono che il loro stato si veniva abbattendo, e non vi\npoteano riparare con alcuno salutevole consiglio. E per\u00f2 vedendosi a\nmal partito, strignendosi insieme, per lo meno reo presono di volere\nessere motori, innanzi che fatto venisse alla setta contraria a loro\ndi dare la libera signoria del comune all\u2019imperadore, pensando che per\ni patti egli era loro obbligato, e per questa libert\u00e0 sarebbe pi\u00f9:\ne cos\u00ec deliberati furono all\u2019eletto, e con belle e riverenti parole\ndissono, ch\u2019aveano provveduto, per levare gli scandali della citt\u00e0 di\nPisa e del suo contado e distretto, darli la signoria; l\u2019imperadore\nche per via indiretta cercava questo, si mostr\u00f2 molto contento, e di\npresente prese la signoria, e lev\u00f2 le guardie dalle porte che v\u2019avevano\ni Pisani e mise vi la sua gente, e il d\u00ec e la notte faceva guardare la\nterra alla sua cavalleria tanto che vi fosse pi\u00f9 forte, e l\u2019entrate del\ncomune rec\u00f2 a sua stribuizione, e mand\u00f2 bando da sua parte, che chi\nsi sentisse offeso del tempo passato, o per l\u2019avvenire, andasse per\ngiustizia a lui e alla sua corte, dicendo, che intendea che l\u2019agnello\npascesse allato al lupo senza lesione o paura. Tutto questo processo\nper la fretta delle sette e per la volont\u00e0 dell\u2019imperadore, sotto ombra\ndi volere conservare il comune in pacifico stato, fu aoperato di fatto,\nsenza deliberazione di comune consentimento.\nCAP. XLIX.\n_Come gli ambasciadori del comune di Firenze andaro all\u2019imperadore._\nIl comune di Firenze avendo lungamente praticato con quello di Siena\ne di Perugia per la comune libert\u00e0 del reggimento delle dette citt\u00e0,\ne trovato che i Perugini si poteano diliberare dalla suggezione\ndell\u2019imperio, sotto titolo d\u2019essere uomini di santa Chiesa, nondimeno\ndi loro consiglio s\u2019unirono insieme co\u2019 Sanesi a dovere seguitare\nuno s\u00ec e uno n\u00f2 nel cospetto dell\u2019imperadore a mantenere loro stato\ne la franchigia de\u2019 loro comuni; e avendo presa questa concordia,\ni Fiorentini ch\u2019aveano eletti sei cittadini d\u2019autorit\u00e0 a questo\nservigio, gl\u2019informarono della volont\u00e0 del loro comune, dicendo, che\ni Sanesi seguirebbono quello medesimo, secondo la promessa ch\u2019aveano\ndall\u2019ordine de\u2019 nove, che governava e reggeva quello comune; ed avendo\ni capitoli scritti della loro commissione, a d\u00ec 22 di gennaio si\npartirono di Firenze vestiti d\u2019un\u2019assisa tutti di doppi vestimenti,\nl\u2019uno di fine scarlatto, l\u2019altro di fine mescolato di borsella, con\nricchi adornamenti, e con otto famigli a cavallo per uno tutti vestiti\nd\u2019un\u2019assisa, e nel cammino attesono pi\u00f9 giorni gli ambasciadori\nperugini e\u2019 sanesi per comparire tutti insieme nella presenza\ndell\u2019imperadore, come ordinato era, sperando dovere impetrare ogni loro\ndomanda con la benevolenza del signore, ove i Sanesi tenessono la fede\npromessa a\u2019 Fiorentini e a\u2019 Perugini, la qual cosa venne mancata per la\ncorrotta intenzione de\u2019 Sanesi, come poco appresso racconteremo.\nCAP. L.\n_Di novit\u00e0 stata in Montepulciano._\nMercoled\u00ec notte a d\u00ec 21 di gennaio, messer Niccol\u00f2 de\u2019 Cavalieri uscito\ndi Montepulciano, avendo trattato co\u2019 suoi amici ch\u2019erano nel castello,\naccolti dugento cavalieri e cinquecento fanti, essendogli aperta una\nporta, entr\u00f2 nel castello; i Sanesi ch\u2019aveano la rocca e la guardia di\nMontepulciano, sentendo messer Niccol\u00f2 e la sua gente entrati dentro,\nfrancamente con certi terrazzani che non erano nel trattato abbarrarono\nla terra, e intendevano alla difesa, ma poco sarebbe loro valuto, se\nnon che per caso avvenne, che per altra cagione in Montefollonico ivi\nvicino erano venute masnade di Sanesi, i quali sentendo lo stormo di\nMontepulciano di presente furono l\u00e0 al soccorso de\u2019 loro; e aiutato\nsostenere la battaglia e difendere la terra infino al vespero, vedendo\nmesser Niccol\u00f2 e i terrazzani ch\u2019erano con lui che non poteano rompere\ngli avversari, e che il giorno declinava verso la notte, temette che\nnel soprastare maggior gente de\u2019 Sanesi non li sorprendesse, presono\npartito d\u2019ardere la terra, e andarsene: e mettendo prima catuno\nfuoco nella sua casa, e appresso nell\u2019altre, e affocato ogni cosa,\nabbandonarono la terra: e intrigati que\u2019 d\u2019entro a riparare al fuoco\nnon li poterono seguire, e per\u00f2 si ricolsono a salvamento; e per\nl\u2019abbondanza del fuoco messo in molte parti, senza potersi riparare\narse dalla rocca del sasso in gi\u00f9 tutta quanta, con gran danno de\u2019\nterrazzani.\nCAP. LI.\n_Come le sette di Pisa si pacificarono insieme._\nA\u2019 23 di gennaio 1354, avendo l\u2019imperadore recato a se la guardia e\nla libera signoria di Pisa, e messi i Tedeschi in luogo de\u2019 cittadini\nalla guardia, e gi\u00e0 cominciando a prendere per loro, e volere per loro\nalberghi le case de\u2019 buoni cittadini di Pisa e le loro masserizie,\nper paura di peggio catuna setta si ragun\u00f2 a casa degli anziani:\ne vedendosi insieme, catuno dicea, che per le loro discordie e\ndisordinati movimenti l\u2019imperadore avea presa la guardia e la signoria\ndi Pisa contro a\u2019 patti, e senza la deliberazione del comune, e\ndimostrarono in quello consiglio quanto male poteva seguire alla patria\nper le loro discordie; e ivi gli animi avvelenati da catuna parte\ncominciarono a dissimulare, e mostrare di volere tra loro concordia,\ne gli anziani in quello stante elessono dodici cittadini di catuna\nparte, i quali ragunati insieme, senza contasto terminarono che ogni\ndissensione tornasse a unit\u00e0 e concordia. E avuto consiglio con molti\ncittadini, feciono fare pace a coloro ch\u2019aveano briga insieme, e quelli\nche discordavano per cagione di sette si mostrarono a quella volta\nd\u2019uno volere, e di concordia elessono ventiquattro, dodici di catuna\nparte, che riformassono la terra degli ufici e\u2019 reggimenti a volont\u00e0\ndell\u2019imperadore; e cos\u00ec ferma la concordia fra loro andarono insieme\nall\u2019imperadore, il quale avea gi\u00e0 cassi i soldati borgognoni e italiani\ndel comune di Pisa, e in loro luoghi condotti de\u2019 suoi tedeschi, e\nfattili giurare a se. Venuti i Pisani nella presenza dell\u2019imperadore,\ncon belle e savie parole li feciono intendere la loro pace e la loro\nconcordia. L\u2019imperadore, nonostante quello ch\u2019avea inteso da\u2019 dicitori,\nfece domandare il popolo se cos\u00ec era di loro volere, e tutti gridando\nrisposono di s\u00ec; allora l\u2019imperadore scus\u00f2 se, dicendo, che quello\nch\u2019avea fatto non era stato di suo movimento n\u00e8 per sua volont\u00e0, ma\nle discordie e i romori mossi e fatti nel suo cospetto l\u2019aveano fatto\ntemere del suo onore e del pericolo della citt\u00e0, e per\u00f2 avea presa la\nguardia; ora molto allegro della loro pace e concordia restituiva la\nguardia della citt\u00e0 al comune e gli ufici a\u2019 cittadini; e di presente\ncolla sua autorit\u00e0 conferm\u00f2 i ventiquattro eletti a riformare la terra,\npregando e comandando loro che facessono buona e comune elezione agli\nufici de\u2019 loro cittadini, sicch\u00e8 alcuno non si potesse con ragione\nrammaricare: ma le chiavi delle porte della citt\u00e0 non volle per\u00f2\nrendere agli anziani. E chi bene riguarder\u00e0 questo processo, trover\u00e0\nper astuto ingegno abbattuto lo stato di coloro che reggevano, e forse\ndar\u00e0 fede a una fama che corse, che tutto ci\u00f2 ch\u2019\u00e8 avvenuto fosse\nordinato con l\u2019imperadore per lo Paffetta capo de\u2019 Matraversi fino in\nLombardia.\nCAP. LII.\n_Come Gentile da Mogliano si ritolse la citt\u00e0 di Fermo._\nTornando nella fontana de\u2019 tradimenti nella Romagna e nella Marca,\nci occorre Gentile da Mogliano, il quale per dare pi\u00f9 certa fede de\u2019\nsuoi futuri tradimenti, s\u2019era comunicato col cardinale all\u2019altare\ndel corpo di Cristo quando rend\u00e8 la citt\u00e0 di Fermo a santa Chiesa, e\nfu fatto gonfaloniere per lo detto legato contra i nemici di santa\nChiesa di Roma, e capitano della gente della Chiesa contro a messer\nMalatesta da Rimini ch\u2019era suo nemico capitale, e mand\u00f2 il legato,\ncom\u2019era in convegna con Gentile, gente d\u2019arme a cavallo e a pi\u00e8 per\nricevere la tenuta della rocca e fornirla, e mand\u00f2 per loro contanti\nfiorini d\u2019oro ottomila per dare a Gentile, come gli avea promessi\nquando consegnasse la rocca. In questi medesimi d\u00ec, innanzi che le\ncose avessono il suo effetto, messer Malatesta s\u2019avvis\u00f2 non potere\nresistere contro al legato avendo seco Gentile da Mogliano e la\ncitt\u00e0 di Fermo; e \u2019l capitano di Forl\u00ec, quanto che fosse nemico di\nmesser Malatesta, s\u2019accorse, che acquistando la Chiesa sopra messer\nMalatesta, la piena verrebbe poi sopra lui, e per\u00f2 incontanente fece\nsapere a messer Malatesta, che volea dimenticare l\u2019ingiurie ricevute,\ned essere suo amico, e senza attendere risposta, con molta confidanza\nse n\u2019and\u00f2 a lui, il quale veggendo la liberalit\u00e0 del capitano il\nricevette amichevolemente; e ragionando insieme, conobbono il pericolo\ndel loro stato, e che rimedio non avea se non della loro concordia e\ndi Gentile da Mugliano: e presa fede da messer Malatesta che farebbe\npace con Gentile, e che gli renderebbe il porto di Fermo, di presente\nmand\u00f2 messer Lodovico suo figliuolo cognato di Gentile a ordinare che\ntradisse il legato e santa Chiesa: e perocch\u00e8 la natura di que\u2019 tiranni\n\u00e8 molto conforme a\u2019 tradimenti, con poca fatica rec\u00f2 Gentile al fatto;\ne udita la promessa di messer Malatesta, e vedendosi acconcio a potere\ntradire, tutto l\u2019onore ricevuto dal legato, e la speranza di quelli che\ngli si apparecchiavano, e \u2019l saramento prestato nella comunione a santa\nChiesa mise per niente, e fu tanto sfacciato, ch\u2019essendo gi\u00e0 venute\nin Fermo le some de\u2019 soldati del legato con parte della gente, fece\ncercare se i danari vi fossono che il legato mandava per la rocca, e\nper avventura erano ancora fuori della terra; e temendo de\u2019 cittadini,\nche volentieri erano usciti della sua tirannia, mostrando di volere\nfare ci\u00f2 ch\u2019avea promesso, occultamente racchiuse nella rocca messer\nLodovico con dugento cavalieri, e del mese di gennaio, essendo molti\ncittadini fuori della terra a una certa festa, scesono improvviso\ndella rocca nella citt\u00e0 gridando, viva Gentile da Mogliano, e muoia\nla parte della Chiesa, e corsono a serrare le porti, e i soldati che\ndentro v\u2019erano per la Chiesa mandarono fuori. La gente del legato\nuscita di Fermo, e l\u2019altra ch\u2019era fuori, temendo per lo subito e non\npensato tradimento, si ricolsono a Recanati: e fornito Gentile il suo\ntradimento, e fatto pace con messer Malatesta, e riavuto il porto di\nFermo, tutti e tre i tiranni ribelli a santa Chiesa si collegarono\ninsieme contro al legato, ma egli con grande animo per questo non si\nsmag\u00f2, ma prese cuore d\u2019abbatterli, come infine fatto gli venne.\nCAP. LIII.\n_Come gli ambasciadori de\u2019 Fiorentini e\u2019 Sanesi furono ricevuti\ndall\u2019imperadore._\nA d\u00ec 29 di gennaio detto, gli ambasciadori del comune di Firenze,\nin compagnia con gli ambasciadori di Siena, entrarono in Pisa, e\nandarono a fare la riverenza all\u2019imperadore, e con loro furono ancora\ngli ambasciadori del comune d\u2019Arezzo: (quelli del comune di Perugia,\nperocch\u00e8 si voleano appresentare come uomini di santa Chiesa, non\nvollono andare con loro): e come giunsono all\u2019imperadore, trovarono\naccolti con lui tutti i suoi baroni, ed entrando gli ambasciadori de\ndetti comuni, i baroni avvallarono i cappucci, e l\u2019imperadore e\u2019 suoi\nli ricevettono con molta festa e allegrezza: e volendo baciare i piedi\nall\u2019imperadore, nol sofferse: e ricevuta la riverenza da tutti, con\nsingolare dimostramento d\u2019amore prese per mano degli ambasciadori di\nFirenze, e feceseli tutti sedere allato, e tale fu ch\u2019egli abbracci\u00f2 e\nbaci\u00f2 in bocca per mostrare che contro a lui non avesse preso sdegno,\nsapendo ch\u2019altra volta tornato a Firenze dalla Magna avea sparlato\ncontro a lui; e festeggiando con tutti allegramente, domandarono\ngiornata per sporre la loro ambasciata, e fu data loro per lo seguente\ngiorno.\nCAP. LIV.\n_Come i Sanesi scopriro la loro corrotta fede contro a\u2019 Fiorentini._\nL\u2019altro d\u00ec vegnente, a d\u00ec 30 di gennaio detto, gli ambasciadori del\ncomune di Firenze vestiti di scarlatto foderato di vaio con adorni\nparamenti, con gli ambasciadori de\u2019 Sanesi insieme, ch\u2019erano de\u2019\nmaggiori cittadini di quella citt\u00e0, s\u2019appresentarono alla presenza\ndell\u2019imperadore e del suo consiglio: e avendo voluto i Fiorentini che\ncon loro insieme fossono gli ambasciadori d\u2019Arezzo, i Sanesi ch\u2019avevano\nla mente corrotta contro a\u2019 Fiorentini nol vollono acconsentire,\nperch\u00e8 i Fiorentini a quel parlamento non avessono chi li seguisse. E\ncominciando gli ambasciadori fiorentini a sporre l\u2019ambasciata com\u2019era\nloro imposto, per dimostrare pi\u00f9 franchezza del loro comune, usarono\nparole di debita reverenza alla maest\u00e0 imperiale, dicendo _santa\ncorona_, e poi conseguendo _serenissimo principe_, senza ricordarlo\nimperadore, o dimostrargli alcuna riverenza di suggezione, domandando\nche il comune di Firenze volea, essendogli ubbidiente, le cotali e\ncotali franchigie per mantenere il suo popolo nell\u2019usata libert\u00e0, e\navendo tutto detto come fu loro commesso, conchiusono la loro reverenza\ncon poco onore della maest\u00e0 imperiale, della qual cosa seguit\u00f2 poco\nonore a\u2019 rettori di Firenze da cui mosse quello consiglio. Di questo\nnacque tra i baroni e\u2019 consiglieri dell\u2019imperadore, e massimamente\ntra coloro che per animo di parte erano contradi al comune di\nFirenze, sdegno e baldanza di parlare contro al nostro comune, e se\nl\u2019imperadore, e il patriarca, e il vececancelliere non avessono avuta\npi\u00f9 temperanza che gli altri del consiglio, i fatti con la consequenza\nde\u2019 Sanesi, che in quello consiglio ingannarono il comune di Firenze,\nandavano a rovescio con molto sdegno da catuna parte, ma il savio\nsignore con temperanza conobbe quanto pericolo al suo stato portava\na non rimanere in concordia col comune di Firenze, e per\u00f2 sostenne,\nmagnificando quel comune, e mostrando verso quello volere fare quanto\nonestamente potesse fare, non guardando troppo all\u2019onore imperiale:\ne ordin\u00f2 di tornare con pi\u00f9 diligenza altra volta a trattare co\u2019\ndetti ambasciadori, e il suo consiglio ripremette d\u2019ogni oltraggioso\nparlamento quivi fatto. Dopo questo, gli ambasciadori sanesi, ch\u2019aveano\naltro in cuore che non aveano promesso a\u2019 Fiorentini, lieti della poca\nriverenza fatta all\u2019imperadore per gli ambasciadori fiorentini, parendo\nloro venuto il tempo che i loro rettori con coperta malavoglienza\nlungamente aveano aspettato, credendosi col loro tradimento abbattere\ne disfare il comune di Firenze, partendosi da quello che in fede\naveano promesso al nostro comune, cominciarono a sporre innanzi\nall\u2019imperadore, e al suo consiglio, e agli ambasciadori del comune\ndi Firenze la loro ambasciata, magnificando con ornato sermone la\nserenit\u00e0 della maest\u00e0 imperiale, chiamandolo loro signore, e senza\nalcuno patto offersono quello comune liberamente alla sua signoria,\ncon le pi\u00f9 magnifiche lode che pronunziare si possono, e con le pi\u00f9\nlibere offerte, pensando di questo rimanere esaltati e grandi, e aver\nmesso in fondo il comune di Firenze. Onde l\u2019imperadore graziosamente\ne con lieto volto ricevette e accett\u00f2 l\u2019offerte di quello comune,\ne gli ambasciadori commend\u00f2 molto del loro onorevole parlare, in\nonesta riprensione di coloro che con meno reverenza aveano parlato\nall\u2019imperiale maest\u00e0. Ma perocch\u00e8 l\u2019intenzione dell\u2019ordine de\u2019 nove di\nSiena infino a quello punto era stata occulta a molti grandi cittadini\ndi Siena e al comune di Firenze, cominciata a palesare ne\u2019 fatti, ebbe\nravvolgimenti, e seguironne cose assai notevoli, come al suo tempo\ninnanzi racconteremo: ricordando qui, che come a Dio piacque, l\u2019ordine\nde\u2019 nove, che questo tradimento ordinarono, ne fu abbattuto e disfatto,\ne il comune di Firenze n\u2019\u00e8 esaltato in maggiore e migliore stato.\nCAP. LV.\n_De\u2019 falli commessi per lo comune di Firenze, e degl\u2019inganni ricevuti\nda\u2019 suoi vicini._\nAvvegnach\u00e8 quello che seguita non sia cosa notevole, concedesi al\nnostro trattato per ammaestramento delle cose a venire. I rettori del\ncomune di Firenze sentendo passato in Italia l\u2019imperadore e coronato a\nMoncia, per loro non si fe\u2019 alcuna provvisione in utilit\u00e0 o beneficio\ndel nostro comune; stando egli lungamente a Mantova nel lieve stato\nche v\u2019era, se il nostro comune v\u2019avesse mandato a dargli conforto,\nci\u00f2 che avessono voluto avrebbono di grazia impetrato da lui, ove poi\ncon pericolo e con gran costo s\u2019accordarono con lui, come seguendo si\npotr\u00e0 trovare. E ancora lasciarono per matta ignoranza a provvedere\nd\u2019arrecare alla loro volont\u00e0 e disposizione tutte le citt\u00e0 e castella\ne terre vicine, le quali lievemente con alquanta provvedenza arebbono\nrecato a dire e a fare quello che il comune di Firenze avesse voluto,\nove in sul fatto catuna terra e castello senza richiesta del comune\ndi Firenze prese suo vantaggio, non senza pericolo del nostro comune;\nla diligenza e la sollecitudine de\u2019 nostri rettori fu abbandonata al\ncorso della fortuna, come per antico vizio degli uomini del nostro\ncomune \u00e8 consueto, perocch\u00e8 non \u00e8 chi si curi di patrocinare lo stato\ne la provvedenza del nostro comune: e i rettori, c\u2019hanno poco a fare\nall\u2019uficio, intendono pi\u00f9 alle loro private cose che a\u2019 beneficii\ndel comune, e per\u00f2 pi\u00f9 lo conduce fortuna che provvedimento, ma\nmolto l\u2019aiuta Iddio, e gli ordini dati alla grande massa del comune\nper i nostri antichi maggiori. E in questo tempo per questa cagione\navvenne, che i Sanesi non si curarono di rompere in sul fatto la fede\na\u2019 Fiorentini: e i Volterrani, sentendo l\u2019offerte fatte pe\u2019 Sanesi,\nanch\u2019eglino si diedono liberamente all\u2019imperadore contro al volere de\u2019\nFiorentini; e i Pistoiesi contro al volere de\u2019 Fiorentini, e senza con\nloro conferirne vi mandarono ambasciadori per darlisi: ma sentendo che\nil comune di Firenze si turbava contro a loro, si rattennono della\nlibera profferta, e soprastettono pi\u00f9 per paura che per amore: e\u2019\nSamminiatesi cominciarono segretamente, coprendosi a\u2019 Fiorentini, di\ndarsi liberamente all\u2019imperadore, e trovando tra loro concordia, prima\nl\u2019ebbono fatto ch\u2019e\u2019 Fiorentini vi potessono riparare; e se non fosse\nche i rettori d\u2019Arezzo temeano forte de\u2019 Tarlati loro usciti e de\u2019\nghibellini d\u2019entro, avendosi veduti a stanza de\u2019 Sanesi abbandonare\nda\u2019 Fiorentini nella presenza dell\u2019imperadore, si sarebbono dati come\ngli altri, non curandosi del Comune di Firenze, ma per loro medesimi\nsostennono la libert\u00e0 di quello comune, essendo forte impugnati da\u2019\nTarlati Pazzi e Ubertini loro ribelli ch\u2019erano con l\u2019imperadore. E\navvedutisi gli ambasciadori fiorentini dell\u2019inganno de\u2019 Sanesi, e di\nquello ch\u2019aveano fatto i Samminiatesi e\u2019 Volterrani, cominciarono\na parlare per gli Aretini e per i Pistoiesi; l\u2019imperadore per sua\nindustria non li sostenne, ma disse la parola del Vangelo: _aetatem\nhabent ipsi, de se loquantur_, e non lasci\u00f2 dar loro audacia o favore;\ne cos\u00ec per difetto di mala provvedenza, i Fiorentini de\u2019 loro propri\nfatti, e di quelli che s\u2019appartengono alla guardia de\u2019 loro vicini,\nfurono pi\u00f9 e pi\u00f9 giorni a pericoloso partito, e in grande ripitio degli\naltri cittadini.\nCAP. LVI.\n_Di molti Alamanni venuti alla coronazione dell\u2019imperadore._\nStando l\u2019imperadore a Pisa ne\u2019 trattati colle citt\u00e0 e comuni di\nToscana, come detto \u00e8, innanzi che i sindachi fossono venuti a\nfermare le suggezioni, la novella della sua coronazione da Moncia, e\ndell\u2019avvenimento da Pisa, era sparta in Alamagna e nel suo reame di\nBoemia, e come le citt\u00e0 d\u2019Italia erano senza guerra acconce alla sua\nubbidienza: e per questo l\u2019imperatrice si mosse con mille cavalieri di\nbuona gente d\u2019arme e molti baroni a sua compagnia per venire a Pisa, e\nper simile modo molti prelati e grandi signori della Magna di diverse\nprovincie si mossono, catuno con grande compagnia, per venire in Italia\nper essere alla sua coronazione a Roma, e in breve tempo giunsono a\nPisa l\u2019imperatrice e pi\u00f9 di quattromila cavalieri della pi\u00f9 bella e\nricca baronia del mondo, bene montati, e con nobili paramenti, e molti\narnesi, ma con lieve armadura, e molti ne vennono per la nostra citt\u00e0,\nalbergandone seicento e settecento per notte, ove con cortese e buona\nguardia onorevolmente furono veduti e albergati. L\u2019imperatrice volea di\ngrazia venire per Firenze, ma perocch\u00e8 ancora per lo nostro comune non\nera presa fermezza d\u2019accordo con l\u2019imperadore, temendo che l\u2019ignorante\ne indiscreto popolo minuto non movesse parole villane contro a\u2019\nforestieri essendo l\u2019imperadrice nella citt\u00e0, o contro i rettori del\nnostro comune, per lo meno reo e pi\u00f9 sicuro fu diliberato e preso, che\ncon grande compagnia o piccola ella non venisse nella citt\u00e0 di Firenze.\nCAP. LVII.\n_Di novit\u00e0 della Marca per Recanati._\nMesser Malatesta da Rimini, e il capitano di Forl\u00ec, e Gentile da\nMogliano, collegati insieme contro al legato, sentendo che i signori\ndi Milano aveano tregua con gli allegati Lombardi, e catuno stava\nsospeso per cagione dell\u2019imperadore, aveano cassi cento bandiere di\nsoldati, e perch\u00e8 non tornassono loro addosso per via di compagnie non\nli lasciavano partire del loro distretto se non per la via della Magna:\ne per questo li ritennono a manicare sopra la pelle pi\u00f9 d\u2019un mese, e\nmolti se ne tornarono nella Magna, perocch\u2019erano tutti Tedeschi, e\nquando gli ebbono assottigliati, concedettono al resto la via per la\nLombardia, i quali senza arresto improvviso giunsono in Romagna: e\narrestati quivi senza far danno da millecinquecento barbute, i tiranni\nsopraddetti romagnuoli s\u2019accolsono con loro, e fatto loro alcuno aiuto\ndi loro danari, e promesse d\u2019una buona terra dove potrebbono vernare ad\nagio, li condussono a Recanati, pensando per forza poterla vincere e\nracquistare. Il legato ammaestrato de\u2019 fatti della guerra e de\u2019 baratti\nde\u2019 suoi avversari, avendo per suo capitano di guerra messer Ridolfo\nda Camerino, pro\u2019 e valente cavaliere, avea fatta guernire di gente\nd\u2019arme da cavallo e da pi\u00e8 la citt\u00e0 di Recanati: sicch\u00e8 sopravvenendo\ni tiranni con quella cavalleria, e sforzandosi di combatterla, la\ntrovarono s\u00ec guernita alla difesa, che ne perderono tosto ogni\nsperanza: e non potendovi soprastare, con vergogna se ne partirono\ntornandosi addietro.\nCAP. LVIII.\n_Come la gran compagnia del conte di Lando entr\u00f2 nel Regno._\nEssendo per l\u2019avvenimento dell\u2019imperadore in triegua i fatti di\nLombardia, la gran compagnia del conte di Lando era tornata nella\nMarca: e ricordandosi che l\u2019anno dinanzi il re Luigi non avea mandato\nloro quarantamila fiorini d\u2019oro ch\u2019egli avea promessi, e sentendo\nche il duca di Durazzo e il conte Paladino erano in rubellione della\ncorona, ed erano contenti che la compagnia entrasse nel Regno,\nnondimeno il conte di Lando, perch\u00e8 il re non si provvedesse contro a\nloro, tenea trattato d\u2019accordarsi al soldo della Chiesa: ma non gli\nera bisogno, che \u2019l traccurato re era stato assai dinanzi avvisato\ndall\u2019imperadore e da pi\u00f9 altri che si provvedesse, che di certo la\ngrande compagnia dovea entrare nel Regno, e la provvigione che di ci\u00f2\nfatta era, era di stare continovo in danzare e in festa colle donne: e\nper\u00f2 la detta compagnia facendo la via della marina d\u2019Abruzzi, senza\ntrovare contasto o riparo entr\u00f2 nel Regno: e nella prima entrata\npresono Pescara, e Villafranca, e san Fabiano, e trovandoli pieni di\nvittuaglia e d\u2019arnesi si dimorarono in essi fino al marzo, recando in\npreda ci\u00f2 che venne loro alle mani, scorrendo le contrade d\u2019intorno.\nE d\u2019altra parte il conte Paladino, con trecento cavalieri e molti\nmasnadieri, in questo medesimo tempo correva predando le terre di\nPuglia, facendo noia e danno assai a\u2019 paesani; e avvegnach\u00e8 messer\nLuigi di Durazzo non si scoprisse in questi fatti, tutto si riputava\nche fosse di suo consentimento e volont\u00e0. Il re facea fortificare\nle terre alla difesa contro alla compagnia, e confortavali che si\nguardassono bene per non cadere nelle mani de\u2019 predoni: altro aiuto non\ndava loro, che non n\u2019era provveduto n\u00e8 fornito di poterlo fare.\nCAP. LIX.\n_Come l\u2019imperadore and\u00f2 a Lucca._\nEssendo stato l\u2019imperadore in Pisa, e lasciato fare a\u2019 cittadini\nle novit\u00e0 che narrate avemo, stimando che quelle divisioni fossono\nfavorevoli alla sua signoria, e in iscusa a\u2019 patti rotti, intra\u2019\nquali era la suggezione di Lucca, gi\u00e0 immaginandone alcuna cosa a sua\nutilit\u00e0, volle andare a vedere la citt\u00e0, e a d\u00ec 13 di febbraio anno\ndetto si mosse con piccola compagnia di gente d\u2019arme, e stettevi quel\nd\u00ec e l\u2019altro, e prendendo la riverenza da\u2019 cittadini, il pregavano\ndella loro libert\u00e0. Il savio e avveduto imperadore, volendo compiacere\na\u2019 Pisani e mostrare di volere mantenere i patti, quanto che altro\navesse nell\u2019animo, disse, com\u2019e\u2019 sapeva che i cittadini di Lucca erano\nstati per lungo tempo ribelli all\u2019imperio, e per\u00f2 li reputava degni di\nquello ch\u2019avevano ricevuto: e confortandoli disse, che comportassono\ncon pazienza quello che sosteneano per penitenza del peccato commesso,\ntanto che meritassono la liberazione: e nell\u2019agosto lasci\u00f2 que\u2019\nmedesimi cittadini che i Pisani v\u2019aveano deputati alla guardia, e non\nrimosse uficiali nell\u2019ordine di quel reggimento in alcuna parte, e\nl\u2019altro d\u00ec se ne torn\u00f2 a Pisa.\nCAP. LX.\n_Come al Galluzzo nacque un fanciullo mostruoso._\nIn questo mese di febbraio nacque presso a Firenze in un luogo che si\nchiama il Galluzzo, a uno barbiere, un fanciullo mostruoso e diminuto,\nche \u2019l viso era come di vitello con gli occhi bovini, e dove doveano\nessere i bracci, dagli omeri delle spalle uscivano due branche quasi\ncome d\u2019una botta, da ogni parte la sua, e avea il corpo e la natura\numana senza coscie: ma dove le coscie dall\u2019imbusto doveano discendere,\nuscivano due branche da catuno lato una, ravvolte che non aveano\ncomparazione: e\u2019 vivette parecchie ore, e appresso mor\u00ec, lasciando\nammirazione di se. Ma di questo e degli altri corpi umani nati\nmostruosi nella nostra citt\u00e0 non potemmo comprendere che fosse vestigio\no pronosticatori d\u2019alcuni accidenti, come credeano gli antichi, ma gli\nsconci e disonesti peccati spesso sono cagione di mostruosi nascimenti,\ne alcuna volta l\u2019empito delle costellazioni.\nCAP. LXI.\n_De\u2019 fatti di Siena con l\u2019imperadore._\nEra per lunghi tempi governato il reggimento della citt\u00e0 di Siena per\nl\u2019ordine de\u2019 nove, il quale era ristretto in meno di novanta cittadini\nsotto certo industrioso inganno: perocch\u00e8 quando il tempo veniva di\nfare i loro generali squittini, acciocch\u00e8 ogni degno cittadino popolare\nentrasse nell\u2019ordine de\u2019 nove, coloro ch\u2019aveano gi\u00e0 usurpati gli ufici\nsi ragunavano segretamente in una chiesa, e ivi disponevano d\u2019alcuni\ncui voleano che rimanessono nell\u2019ordine, fermandoli tra loro per\nsaramento, e prometteano tutti dare a\u2019 detti le loro boci co\u2019 lupini\nneri, e tutti gli altri ch\u2019andavano allo squittino, ch\u2019erano molti\nbuoni e degni cittadini, li riprovavano co\u2019 lupini bianchi, sicch\u00e8\nl\u2019ordine non crescea pi\u00f9 che volessono, n\u00e8 alcuno v\u2019entrava che tra\nloro prima non fosse deliberato: per la qual cosa erano in odio a tutti\ngli altri popolani, e a gran parte de\u2019 nobili con cui non s\u2019intendeano.\nEranvi certi che manteneano questa setta, e guidavano il comune com\u2019e\u2019\nvoleano; costoro furono quelli che con loro tradimento credettono\nabbattere il comune di Firenze, e disfare sua franchigia e reggimento\ncon la forza dell\u2019imperadore, ed esaltare loro, sottomettendo la\nlibert\u00e0 del loro comune alla libera signoria dell\u2019imperio, come\npoco addietro abbiamo narrato: avvenne, che manifestata in Siena\nl\u2019intenzione de\u2019 loro rettori, strana all\u2019intenzione de\u2019 Fiorentini\ne della maggior parte de\u2019 loro cittadini grandi e popolani, essendo\nmandato per gli ambasciadori al comune di Siena che facessono il\nsindaco a fare la sommissione, la cosa cominci\u00f2 a intorbidare gli animi\nde\u2019 cittadini, e a impedirsi il sindacato con grandi ripitii de\u2019 loro\nrettori e dell\u2019ordine de\u2019 nove che questo aveano fatto, e fu la citt\u00e0\nin grave sospetto di ravvolgimento e di romore, e tutte le case de\u2019\ngrandi feciono ragunata di gente d\u2019arme. L\u2019imperadore in Pisa volea che\ngli ambasciadori sanesi facessono la sommessione ch\u2019aveano promessa di\nfare, e per questa cagione avea fatto bandire il parlamento. Allora uno\ndegli ambasciadori ch\u2019era della casa de\u2019 Tolomei disse a\u2019 compagni,\nche non intendea senza nuovo sindacato palese a\u2019 suoi cittadini fare\nquella sommessione: e per questo traendosene catuno addietro, la\ncosa soprastette, e rimandarono a Siena: di che l\u2019imperadore ebbe\nmalinconia e gran sospetto, e tutti i d\u00ec di questo aspetto stette\nrinchiuso senza dare alcuna udienza o mostrarsi ad alcuno. I grandi\ncittadini di Siena conoscendo il gran pericolo che occorrere poteva\nal loro comune ribellandosi della promessa fatta all\u2019imperadore, e\navendo fatto conoscere all\u2019ordine de\u2019 nove e al popolo, che senza loro\nvolont\u00e0 non aveano podere di darsi all\u2019imperadore, a d\u00ec 26 di febbraio\nragunato il parlamento, per volere piacere non meno al minuto popolo,\nch\u2019era imperiale, che all\u2019ordine e alla setta de\u2019 nove, feciono fare\nil sindacato pieno a darsi liberamente all\u2019imperadore. Avvenne per\nquesto, che l\u2019imperadore conobbe e seppe che le case de\u2019 grandi di\nSiena ebbono la signoria di fare della citt\u00e0 a loro senno, e da loro\nprincipalmente conobbe la soggezione di quella; e venuto il nuovo\nsindacato agli ambasciadori detti, domenica, a d\u00ec primo di marzo del\ndetto anno, raunato il parlamento, i detti ambasciadori con pieno\nsindacato del loro comune, feciono al detto eletto imperadore per se\ne pe\u2019 suoi successori ricevere libera suggezione del misto e mero\ndominio di quella citt\u00e0 e contado, e de\u2019 loro uomini alla signoria\ndell\u2019imperio, non riserbandosi alcuna franchigia dell\u2019antica libert\u00e0 di\nquello comune: e di questo li feciono fare reverenza, e prestarono il\nsaramento, ed egli l\u2019accett\u00f2 e ricevette per se e pe\u2019 suoi successori\nin futuro in presenza di tutto il parlamento, con grande allegrezza\ne festa del popolo pisano ch\u2019era presente; e accecati dalla coperta\ninvidia che portavano al comune di Firenze, avvisandosi per questo\nabbattere la libert\u00e0 de\u2019 Fiorentini, mattamente sommisono la loro.\nCAP. LXII.\n_Di pi\u00f9 imbasciate ghibelline state in presenza dell\u2019imperadore._\nNon ci parve da lasciare in silenzio quello che al presente seguita.\nMesser Piero Sacconi, e il vescovo d\u2019Arezzo degli Ubertini, e Neri da\nFaggiuola, co\u2019 loro consorti e co\u2019 Pazzi di Valdarno, feciono loro\nsforzo accattando sopra loro possessioni, e vendendone, per mettersi a\ncomperare belli cavalli, e armi orrevoli, e robe e ricchi paramenti,\nper comparire magnifici nella presenza e servigio dell\u2019imperadore,\ncredendosi essere esaltati da lui sopra gli altri Toscani: ed essendo\ngli ambasciadori d\u2019Arezzo per trovare accordo con l\u2019imperadore, i\nloro caporali nominati s\u2019appresentarono nell\u2019udienza imperiale, e in\nquella addomandarono baldanzosamente d\u2019essere rimessi nella loro citt\u00e0\nd\u2019Arezzo, e che a loro fossono rendute le terre e le possessioni.\nGli ambasciadori francamente li ripugnavano. L\u2019imperadore, ch\u2019avea\nl\u2019animo a\u2019 fatti suoi e non a quelli della parte ghibellina, li si\nlev\u00f2 dinanzi, dando loro uditori ch\u2019avessono a riferire a lui: e nella\npresenza degli uditori messer Piero mont\u00f2 in tanta arroganza, che\ncon aspre minacce e villanie domandava di volere essere restituito\nnella capitaneria d\u2019Arezzo e del contado. Gli ambasciadori savi e\ncoraggiosi rimproveravano la sua abbominevole tirannia, e il proprio\nacquisto fatto per violente rapina, e per manifesta ruberia fatta a\u2019\nmeno possenti sotto il titolo del capitanato, conchiudendo, ch\u2019egli\nera degno di ricevere dall\u2019imperio gravi pene, avendo convertita la\ncapitaneria di quella citt\u00e0 in incomportabile tirannia: e che quella\ncitt\u00e0 che gli era accomandata per la santa memoria dell\u2019imperadore\nArrigo, egli per malizia e per somma avarizia l\u2019avea sottoposta e\nvenduta a\u2019 Fiorentini per quarantamila fiorini d\u2019oro, in vergogna\ne detrimento del santo imperio: e grande vergogna gli era ora con\nsfrenata baldanza avere fatto manifesto all\u2019imperiale maest\u00e0 cotanti\nsuoi difetti. Ancora il detto messer Piero avea nella presenza degli\nuditori e degli ambasciadori infamato Neri da Faggiuola, ch\u2019avea\nper amist\u00e0 de\u2019 Perugini fatta la terra del Borgo, ch\u2019era per lui\nacquistata a\u2019 ghibellini, venire in parte guelfa; per Neri gli fu\naltamente risposto, mostrando come tutto era avvenuto per la sua\nmalizia, e per le sue violenze quando v\u2019avea stato: e anche avvenne\nche il vescovo d\u2019Arezzo si lament\u00f2 di messer Piero di gravi ingiurie;\ne cos\u00ec l\u2019uno disse improvviso contro all\u2019altro per modo, che tutti\nimpetrarono grazia nel cospetto dell\u2019imperadore e del suo consiglio\ndi gravi abbominazioni, senza altro acquisto di frutto; e d\u2019allora\ninnanzi gli ambasciadori del comune d\u2019Arezzo ebbono graziosa udienza\ndall\u2019imperadore per l\u2019accordo di quello comune.\nCAP. LXIII.\n_Come i Volterrani si diedero all\u2019imperadore._\nAvvegnach\u00e8 innanzi sia fatta alcuna narrazione della sommissione\ndi Volterra e di Samminiato, qui si torna al termine del fatto.\nI Volterrani sapendo che i Sanesi senza patto erano sottomessi\nall\u2019imperadore, avendo poco amore e meno confidanza al comune di\nFirenze, perocch\u00e8 si reggevano sotto la tirannia de\u2019 figliuoli di\nmesser Ottaviano de\u2019 Belforti, i quali quanto che fossono guelfi di\nnazione, per la tirannia dichinavano ad animo ghibellino come mettesse\nloro bene, e non amavano il comune di Firenze n\u00e8 i Fiorentini per la\ntirannia, ch\u2019era contradia alla libert\u00e0 del nostro comune, e per\u00f2\nsenza volere seguire il consiglio de\u2019 Fiorentini di domandare patti,\nfeciono sindachi i loro ambasciadori con pieno mandato e mandarli a\nPisa, i quali in pubblico parlamento, a d\u00ec 4 di marzo del detto anno,\nsi sottomisono liberamente alla signoria dell\u2019imperatore e de\u2019 suoi\nsuccessori, e feciono l\u2019omaggio e la reverenza per lo detto comune, e\nil saramento come i Sanesi aveano fatto.\nCAP. LXIV.\n_Come i Samminiatesi si diedero all\u2019imperadore._\nI Samminiatesi, che soleano essere pi\u00f9 all\u2019ubbidienza del comune di\nFirenze che i Volterrani, avendo vedute le sopraddette citt\u00e0 di parte\nguelfa gi\u00e0 sottomesse all\u2019imperio, e che il comune di Firenze trattava\nper se d\u2019accordarsi con lui, essendo tra loro divisi per setta per la\nmaggioranza delle due famiglie Malpigli e Mangiadori, temendo l\u2019una\nparte che l\u2019altra non pigliasse vantaggio, s\u2019accostarono insieme\ndopo l\u2019aspetto di pi\u00f9 giorni: e celandosi da\u2019 Fiorentini perch\u00e8 non\nmovessono alcuna delle dette case, e veduto loro tempo convenevole,\ndi concordia feciono loro ambasciadori con pieno mandato e sindacato\ndel comune a darsi liberamente all\u2019imperadore; e mandatili a Pisa, a\nd\u00ec 8 di marzo in parlamento si sottomisono liberamente alla signoria\ndell\u2019imperadore; e fatto il saramento, e volendo fare l\u2019omaggio e\nbaciare i piedi all\u2019imperadore, li lev\u00f2 di terra, e ricevetteli _ad\nosculum pacis_, cosa che non avea fatta a\u2019 sindachi di niuna altra\ncitt\u00e0: la cagione si stim\u00f2 che fosse per l\u2019affezione che l\u2019imperio\nper antico avea a quello castello, ove solea essere la residenza\ndegl\u2019imperadori e de\u2019 loro vicari, perch\u00e8 \u00e8 uno mezzo tra le grandi e\nbuone citt\u00e0 di Toscana. Questo fu prima fatto che il comune di Firenze\nne sentisse alcuna cosa, e quando il seppono, pi\u00f9 grav\u00f2 nell\u2019animo de\u2019\ncittadini di Firenze che la sommissione di Siena e di Volterra, per la\nvicinanza che \u2019l detto castello ha con la nostra citt\u00e0 e con l\u2019altre\ndi Toscana: ma gran cagione ne fu la poca provvedenza gi\u00e0 detta de\u2019\nrettori del nostro comune.\nCAP. LXV.\n_Di disusato tempo stato nel verno._\nNon ci pare da lasciare in silenzio quello che fu singolare alla\nmemoria de\u2019 pi\u00f9 antichi, la cagione si credette che venisse da\ninfluenza di costellazioni: il fatto fu, che dal novembre al marzo il\ntempo fu di d\u00ec e di notte il pi\u00f9 sereno, cheto e bello che per addietro\nsi ricordasse, essendo il freddo senza venti continovo e grande: e le\nnevi ch\u2019erano cadute dal principio si mantennono ghiacciate nel contado\ndi Firenze, e in molte parti bast\u00f2 nella citt\u00e0 pi\u00f9 di tre mesi: il mare\nfu tranquillo e dolce a navicare oltre alla credenza degli uomini;\ntutti i gran fiumi stettono serrati di ghiaccio lungamente per modo\nche niuno si poteva navicare, e il nostro fiume d\u2019Arno, che \u00e8 corrente\ncome uno fossato, stette fermo e serrato di ghiaccio, che lungamente\nsenza pericolo in ogni parte si poteva sopra il ghiaccio valicare: e a\nd\u00ec 8 di marzo cominciarono a rompere le piove dolci e utili a tutte le\nsementa della terra.\nCAP. LXVI.\n_Come il segreto giurato in Firenze fu manifestato all\u2019imperadore._\nSeguendo gli ambasciadori di Firenze il trattato della concordia\ncon l\u2019imperadore, e avendo il mandato di profferirgli per lo comune\ncinquanta migliaia di fiorini d\u2019oro, avendo da lui i patti privilegiati\nche per parte del comune gli si dimandavano, l\u2019imperadore, avvisato\ne malizioso, della moneta, dov\u2019egli avea l\u2019animo, non mostrava di\ncurarsi, ma ne\u2019 patti si mostrava strano e tenace per vendere pi\u00f9 cara\nla sua mercatanzia. Avvedendosi di questo gli ambasciadori, e avendone\nalcuno segreto accennamento di fuori da lui, due degli ambasciadori per\ncomune consiglio degli altri tornarono in Firenze per informare a bocca\ni rettori, e avvisarli di quello che a loro pareva dell\u2019intenzione del\nsignore. Vedendo i rettori che l\u2019imperadore s\u2019addurava, e che le terre\nvicine s\u2019era no date liberamente alla sua signoria, aveano cagione\ndi pi\u00f9 temere: e tennono pi\u00f9 consigli segreti ove si raccontavano\nde\u2019 falli dell\u2019eletto: come manifesto appariva che non avea tenuto\nfede a\u2019 Gambacorti, n\u00e8 allo stato di coloro che reggevano la citt\u00e0\ndi Pisa, dilettandosi de\u2019 romori e della divisione de\u2019 cittadini, e\ntenea con loro che pi\u00f9 erano pronti a movere le novit\u00e0 nella terra\nper averne pi\u00f9 libera signoria, e come si mostrava bisognoso e cupido\ndi trarre a se moneta: e avendo per pi\u00f9 riprese praticato sopra i\nfatti dell\u2019imperadore e sopra quelli del nostro comune, infine d\u2019un\nanimo presono partito per lo meno reo, che non si guardasse a costo\ndi moneta infino in fiorini centomila d\u2019oro, dandoli all\u2019imperadore,\ndove la nostra citt\u00e0 di Firenze rimanesse libera in sua giurisdizione,\ncon altri singolari patti. E commettendo la pratica di queste cose\nne\u2019 detti ambasciadori, avendoli informati che si tenessono forti a\ncinquantamila fiorini, e che non mostrassono n\u00e8 paura n\u00e8 vilt\u00e0 in\ndomandare e sostenere il vantaggio del comune nella quantit\u00e0 della\nmoneta e negli altri patti, ma innanzi si rompessono da lui aveano di\ndarli i detti fiorini centomila d\u2019oro. Questo consiglio fu ristretto\nne\u2019 priori e ne\u2019 loro collegi con piccolo numero d\u2019arroti, e fu\ncomandata a tutti la credenza, e giurata solennemente: e rimandati\ni due ambasciadori a Pisa, essendo con l\u2019imperadore, e sostenendo\nfrancamente quello ch\u2019era stato loro imposto, l\u2019imperadore cominci\u00f2\na sorridere contro a loro, e manifest\u00f2 ci\u00f2 ch\u2019era loro commesso, e\nla deliberazione del loro comune, dicendo, che per scrittura tutto\ngli era manifesto. Gli ambasciadori di presente senza procedere pi\u00f9\ninnanzi significarono all\u2019uficio de\u2019 priori ci\u00f2 ch\u2019aveano di bocca\ndell\u2019imperadore della revelazione del loro segreto consiglio, che per\nquesta cagione, avvegnach\u00e8 per loro non li fosse acconsentita alcuna\ncosa, il trovavano pi\u00f9 duro e pi\u00f9 turbato che prima, dicendo, come non\nera traditore de\u2019 Gambacorti, n\u00e8 che non era cupido di moneta pi\u00f9 del\nsuo onore, n\u00e8 si dilettava nella commozione de\u2019 cittadini. Come questa\nnovella fu divolgata nella nostra citt\u00e0, l\u2019infamia de\u2019 signori, e de\u2019\ncollegi, e degli arroti, in cui era la credenza, fu molto grande: ma\nper\u00f2 non trov\u00f2 il comune chi alcuna cosa ne facesse allora per purgare\nla comune infamia, temendo per la tenerezza dello stato, avendo cos\u00ec\ndipresso l\u2019imperadore, che maggiore pericolo non ne seguisse. Il\nconsiglio non fu reo, se rifermato lo stato del comune con la pace\ndell\u2019imperadore se ne fosse fatta debita inquisizione e giustizia.\nCAP. LXVII.\n_Come l\u2019imperadore mand\u00f2 aiuto di gente al legato._\nEssendo i tiranni di Romagna accozzati insieme, e accolta gente\nd\u2019arme assai venuta di Lombardia per reprimere la forza del legato,\nch\u2019era piccola, il legato mand\u00f2 a richiedere l\u2019imperadore d\u2019aiuto.\nL\u2019imperadore immantinente, per mostrarsi zeloso e divoto a\u2019 servigi\ndi santa Chiesa, vi mand\u00f2 di presente de\u2019 suoi Tedeschi cinquecento\nbarbute, e feciono la via per Siena, veduti e onorati da\u2019 Sanesi\ngraziosamente: e giunti al legato con l\u2019insegna del loro signore,\nrifrenarono la forza e la volont\u00e0 de\u2019 tiranni. Questo non era per\nl\u2019andata di cinquecento barbute cosa da farne memoria, ma consentesi al\nnostro trattato perch\u00e8 fu la prima e l\u2019ultima che l\u2019imperadore facesse\nin Italia in fatti d\u2019arme.\nCAP. LXVIII.\n_Trattati dell\u2019imperadore ai Fiorentini._\nEssendo gli ambasciadori del comune di Firenze quasi ogni d\u00ec con\nl\u2019imperadore per trattare la concordia, ed egli avendo scoperto il\nsegreto del comune, e crescendogli ogni d\u00ec forza grandissima di baroni\ne di cavalieri della Magna, non gli parea volere di meno, e per\u00f2\nsi tenea forte a non condiscendere alla volont\u00e0 de\u2019 Fiorentini: e\nnondimeno temperava per non rompersi da loro, con tutto l\u2019attizzamento\nde\u2019 caporali ghibellini d\u2019Italia ch\u2019erano appresso di lui, che al\ncontinovo l\u2019infestavano, perch\u00e8 si rompesse dai trattato della\nconcordia de\u2019 Fiorentini, mostrandogli che avendo egli Pisa e Siena,\nVolterra e Samminiato, e l\u2019aiuto de\u2019 ghibellini ch\u2019erano ivi a fare i\nsuoi comandamenti, e la gran forza della sua baronia, senza dubbio di\npresente ne sarebbe signore a cheto, e abbatterebbe la loro arrogante\nsuperbia con grande onore e magnificenza dell\u2019imperio. Il savio signore\nconoscea quanto pericolo gli potea incorrere, potendo con suo onore\ne vantaggio avere pace, cercare guerra: e conosceva, che quando il\ncomune di Firenze, ch\u2019era potentissimo, si facesse capo della guerra\ncontro a lui, che tosto gli si scoprirebbono molti nemici: e conoscea\nil servigio che avrebbe dalla gente tedesca, se con larga mano non\nli provvedesse, e quanto erano fallaci le suggestioni de\u2019 ghibellini\nd\u2019Italia: e per\u00f2 serbava il consiglio e la diliberazione nel suo petto,\ne forte si temea che nascesse cagione per la quale i Fiorentini si\nrompessono dal trattato; e per\u00f2 avendo trattato con loro per modo che\npareano assai di presso, l\u2019imperadore disse, che facessono d\u2019avere il\nsindacato pieno dal loro comune come la materia richiedeva: e allora\ndiliberarono che tre degli ambasciadori tornassono a Firenze a fare che\nil sindacato si facesse.\nCAP. LXIX.\n_Raccolti falli de\u2019 governatori del comune in Firenze._\nPerocch\u00e8 gli antichi moderati e virtudiosi che soleano reggere e\ngovernare lo stato della repubblica in grande libert\u00e0, e con maturi\nmovimenti e con diligente provvidenza governavano quella in tempo\ndi pace e di guerra, e non perdonando i falli che si faceano contro\nla patria, n\u00e8 lasciando senza merito l\u2019operazioni che si facevano\nvirtudiose in accrescimento e onore del comune, onde al nostro tempo\n\u00e8 da maravigliare come la cittadinanza si mantiene, essendo strana da\nquelle virt\u00f9, e dalla provvisione di quel reggimento: e in luogo di\nquelli antichi amatori della patria, spregiatori de\u2019 loro propri comodi\nper accrescere quelli del comune, si trovano usurpatori de\u2019 reggimenti\ncon indebiti e disonesti procacci e argomenti, uomini avveniticci,\nsenza senno e senza virt\u00f9, e di niuna autorit\u00e0 nella maggiore parte,\ni quali abbracciato il reggimento del comune intendono a\u2019 loro propri\nvantaggi e de\u2019 loro amici con tanta sollecitudine e fede, che in tutto\ndimenticano la provvisione salutevole al nostro comune: e non \u00e8 chi\nper lui pensi, n\u00e8 per la sua libert\u00e0, n\u00e8 per lo suo esaltamento, n\u00e8\nonore, n\u00e8 per riparare al pericolo che sopravvenire gli pu\u00f2, se non\nnella strema giornata o in sul fatto; e per questo spesso occorrono\ngravi casi al nostro comune, e niuno prende vergogna, o aspetta, per\navere mal fatto al comune, alcuna pena: e per\u00f2 non \u00e8 senza pensiero di\ngrande ammirazione come il nostro comune non cade in grandi pericoli\ndi suo disfacimento. Ma i discreti del nostro tempo tengono che questo\nsia singolare grazia e operazione di Dio, perocch\u00e8 in cos\u00ec gran fascio\ndi cittadini e di religiosi, bench\u00e8 molti ne sieno de\u2019 rei, assai v\u2019ha\nde\u2019 virtuosi e de\u2019 buoni, le cui preghiere conservano la citt\u00e0 da molti\npericoli, e alquanto \u00e8 la gente cattolica e limosiniera, perch\u00e8 Iddio\nla conserva; e oltre a ci\u00f2 gli ordini dati alla massa del comune per\nli nostri antichi, e \u2019l reggimento che ha preso il corso alla comune\ngiustizia per le conservate leggi, \u00e8 grande braccio al conservamene del\ncomune stato. E bench\u00e8 gli usurpatori del non degno uficio sieno molti,\ne male disposti al comune bene, e solleciti e provveduti a\u2019 loro propri\nvantaggi, e occupino la civile libert\u00e0, il tempo di due mesi ordinato\nal reggimento del sommo uficio del priorato per li nostri provveduti\nantichi \u00e8 s\u00ec breve, che fa grande resistenza alla propria arroganza:\ne ancora la riprieme non poco la compagnia di nove priori e de\u2019 loro\ncollegi. Ma non possono ammendare il continovo fallo dell\u2019abbandonata\nprovvedenza: onde avviene, che come fortuna guida le cose, infino al\npubblico destamento del popolo si pena a provvedere, non il migliore\nconsiglio, che nol concede il trapassamento delle debite provvedenze,\nma il meno reo. E questo avviene continovo in tutte grandi e pericolose\ncose e accidenti ovvero imprese che accaggiono al nostro comune.\nCAP. LXX.\n_Come a Firenze si fece il sindacato per l\u2019accordo con l\u2019imperadore._\nAvendo narrato il modo del reggimento del comune di Firenze e de\u2019\nsuoi rettori, si pu\u00f2 dire con verit\u00e0 del fatto, manifestato pi\u00f9 volte\nin pieno consiglio per la bocca dell\u2019imperadore, che avendo mandati\nil comune di Firenze a Mantova suoi ambasciadori a profferirgli\nl\u2019aiuto del comune, e confortarlo della sua coronazione, non avrebbono\ndomandati que\u2019 patti, che largamente senza niuna promessa di moneta\nnon avesse liberamente fatti; ma la provvedenza era, ed \u00e8 per lunghi\ntempi stata in contumace del nostro comune: e per\u00f2 tornati a Firenze\ni tre ambasciadori per far fare il sindacato, sperando la concordia\ncon l\u2019imperadore, a d\u00ec 12 di marzo del detto anno, ragunato il\nconsiglio del popolo secondo l\u2019ordine del nostro comune, che prima\ns\u2019ha a deliberare in quello, poi in quella del comune, avvenne che il\nnotaio delle riformagioni, ch\u2019era natio da..... leggendo i patti che\ns\u2019intendeano d\u2019avere con l\u2019imperadore, per mostrare grande tenerezza\nal popolo della libert\u00e0 pura del comune, non ostante che in quelle\nscritture se ne contenesse assai gi\u00e0 deliberate pe\u2019 signori e pe\u2019\ncollegi, si ruppe a piagnere per modo, che la proposta non si pot\u00e8\nleggere; e gli animi de\u2019 consiglieri a quelle lagrime si commossono dal\nloro proponimento, e per\u00f2 si rimase il consiglio e il sindacato per\nquella giornata, e convenne che di nuovo si rifacessono altri privati\nconsigli, ne\u2019 quali il movimento del notaio non fu riputato fatto\ncon movimento di ragionevole carit\u00e0, ma piuttosto per adulazione per\naccattare benivoglienza dal popolo. E pertanto tutti i privati consigli\nfermarono l\u2019intenzione a fare quello s\u2019addomandava dagli ambasciadori,\ne da capo a d\u00ec 13 del detto mese si mosse la proposta al consiglio del\npopolo, e sette volte l\u2019una dopo l\u2019altra si perd\u00e8: all\u2019ultimo levati\nmolti cittadini d\u2019autorit\u00e0 a dire, e a mostrare il beneficio che di\nquesto seguitava al comune, e il pericolo che venia del contrario,\nsi vinse, e fu dato la bal\u00eca di pieno sindacato a tutti e sei gli\nambasciadori del comune, a potere promettere per lo comune ci\u00f2 ch\u2019era\ntrattato o di nuovo si trattasse: e appresso l\u2019altro d\u00ec, a d\u00ec 14 del\nmese, con minore fatica si riferm\u00f2 nel consiglio del comune, e gli\nambasciadori col mandato pieno si tornarono a Fisa.\nCAP. LXXI.\n_Quello si fe\u2019 per alcuno cardinale per la coronazione dell\u2019imperadore._\nIn questi d\u00ec il cardinale d\u2019Ostia, a cui s\u2019appartiene la coronazione\ndell\u2019imperadore, giunse in Pisa, ricevuto dall\u2019eletto a grande onore.\nEra consuetudine di santa Chiesa di mandare tre cardinali alla\ncoronazione degl\u2019imperadori, quello d\u2019Ostia, c\u2019ha l\u2019uficio d\u2019andare\na coronare l\u2019imperadore alle sue spese e alla sua provvisione, gli\naltri due debbono andare alle spese di santa Chiesa: ma a questa\nvolta essendone fatto gran procaccio in corte, e per questo avuto\nla grazia il cardinale di Pelagorga, e quello di Bologna in su \u2019l\nmare, ch\u2019erano di maggiore legnaggio, il papa e gli altri cardinali\nnon acconsentirono che la Chiesa facesse loro le spese, dicendo, se\nvoleano andare ch\u2019aveano la benedizione, ma altro non aspettassono.\nI cardinali considerarono la spesa grande, e l\u2019imperadore povero di\nmoneta e stretto d\u2019animo, e per\u00f2 con poco loro onore per lo procaccio\nfatto si rimasono di quella legazione, e il papa per non accrescere\nloro vergogna non ve ne mand\u00f2 alcuno altro: e di questo non si turb\u00f2\nl\u2019imperadore per non avere a stendere in loro il suo onore.\nCAP. LXXII.\n_Come si ferm\u00f2 l\u2019accordo e\u2019 patti dall\u2019imperadore al comune di Firenze._\nSentendo l\u2019imperadore tornati gli ambasciadori del comune di Firenze\ncon pieno mandato e sindacato da fare l\u2019accordo con lui, e come a\u2019\nFiorentini era paruto malagevole, e conosciuto ch\u2019egli avea recati\ngli ambasciadori a promettergli centomila fiorini d\u2019oro, pi\u00f9 per\nla revelazione ch\u2019egli avea fatta loro del segreto del comune che\nper altro piacere, e trovando che i Pisani per mala suggestione gi\u00e0\ngli aveano domandato che li dovesse liberare della franchigia ch\u2019e\u2019\nFiorentini aveano in Pisa per li patti della pace, ed egli sostenea\ndicendo, che il loro movimento non era buono; e vedendo che il suo\nconsiglio era insuperbito per la gente alamanna che crescea al suo\nservigio tutto d\u00ec, e per la forte inzicagione che i ghibellini\nitaliani faceano loro, temette del suo consiglio, e poi volle gli\nambasciadori avere in camera seco col patriarca e col vececancelliere\nsoli: e cominciando a chiarire i patti, l\u2019imperadore vi s\u2019allarg\u00f2\nmolto pi\u00f9 che infino allora non avea fatto, per tema che discordia\nnon rinascesse, e per non avere a riferire la sua volont\u00e0 col suo\nconsiglio. Nondimeno quando vennero al saramento per fermezza delle\ncose che si trattavano, gli ambasciadori al tutto voleano il salvo\nmanifesto e palese fermato col detto saramento; l\u2019imperadore si\nferm\u00f2 a non volerlo fare: ma volea la sommissione libera, e da parte\nprivilegiare i patti, e che nel saramento de\u2019 sindachi non fosse\neccezione. Gli ambasciadori, in questa parte alquanto indiscreti,\npotendolo fare a salvezza del comune, lungamente lo tennono sospeso\nnon senza sua turbazione, e poi il feciono, e gi\u00e0 era molto infra la\nnotte. Appresso vennono a dire, che il saramento della sommissione\nnon voleano che si stendesse a\u2019 successori dell\u2019imperio, altro che\nalla sua corona; a questo, disse l\u2019imperadore, che non credea che vi\nsi stendesse, perocch\u00e8 questo si dovea fare nominatamente alla sua\npersona, ma dove a\u2019 successori andasse, in niuna maniera intendea a\nderogare le loro ragioni. Appresso domandarono, che tutte le leggi e\nstatuti fatte e fatti, o che per innanzi si facessono per lo comune di\nFirenze, in quanto le comuni leggi nominatamente non le repugnassono,\nle dovesse per suoi privilegi confermare. Questa gli parve sconvenevole\ndomanda, e non la volea consentire: e parendo questo agli ambasciadori\ndubbioso, tre ore o pi\u00f9 di piena notte tennono la contesa con lui, e\ninfine l\u2019imperadore infellonito gitt\u00f2 la bacchetta ch\u2019avea in mano\nper terra, e mostrandosi forte crucciato, giur\u00f2 in alta voce per pi\u00f9\nriprese, che se innanzi ch\u2019egli uscisse di quella camera questo non\nsi consentisse per i sindachi, che con la sua forza e de\u2019 signori di\nMilano e degli altri ghibellini d\u2019Italia distruggerebbe la citt\u00e0 di\nFirenze, dicendo, che troppa era l\u2019altezza della superbia d\u2019uno comune\na volere suppeditare l\u2019imperio. Gli ambasciadori vedendolo cos\u00ec forte\nturbato dissono, che troverebbono modo di venire a fare di ci\u00f2 la sua\nvolont\u00e0: e perocch\u00e8 l\u2019ora era fuori di modo tarda, presono licenza per\nandarsi a posare, e per questa cagione ogni cosa rimase imperfetta in\nquella notte, e in quell\u2019ora significarono il fatto gli ambasciadori a\u2019\nsignori di Firenze, per avere il d\u00ec vegnente da risposta a buon\u2019ora.\nL\u2019imperadore sentendo che gli ambasciadori aveano scritto al comune\ndi Firenze significando le sue parole, temette forte che i Fiorentini\nnon si rompessono dalla concordia, e per\u00f2 la mattina per tempo, non\nattendendo che gli ambasciadori avessono risposta, mand\u00f2 per loro, e\nusate molte savie parole intorno al movimento tedioso della notte, con\ndimostramento di grande amore verso il comune di Firenze, largamente\nacconsent\u00ec ci\u00f2 che gli ambasciadori aveano domandato: e oltre a ci\u00f2 per\nsua liberalit\u00e0, ove gli ambasciadori gli aveano promesso d\u2019essergli\nstadichi per attendere la promessa del comune, poco appresso fatta la\nconcordia disse, ch\u2019alla fede del comune intendea di stare di questo\ne d\u2019ogni gran cosa, e licenzi\u00f2 gli stadichi, e raffermata tutta la\nconcordia, innanzi che da Firenze venisse la risposta: nondimeno il\ncomune avea risposto, che per le dette cose non volea che la concordia\nrimanesse: e questo fu a d\u00ec 20 di marzo del detto anno.\nCAP. LXXIII.\n_Come i Fiorentini per mala provvedenza errarono a loro danno._\nAvvegnach\u00e8 molto sia detto de\u2019 falli del nostro comune, uno singolare\nnon ci si lascia passare senza fare in questo luogo memoria di lui.\nFatta e ferma la concordia con l\u2019imperadore di dargli fiorini d\u2019oro\ncentomila per avere fine e remissione da lui delle condannagioni e\npene, in che \u2019l nostro comune era incorso per decreti dell\u2019imperadore\nArrigo e degli altri suoi antecessori, si ritrov\u00f2 il saramento fatto\nper lo detto eletto a papa Clemente sesto e alla Chiesa di Roma,\nquando fu promosso per operazione del detto papa e di santa Chiesa\nall\u2019elezione dell\u2019imperio, ch\u2019egli libererebbe i comuni di Toscana\nd\u2019ogni condannagione fatta per i suoi antecessori, e d\u2019ogni debito a\nche si trovassono obbligati per addietro all\u2019imperio, massimamente\nil comune di Firenze, il quale per l\u2019imperadore Arrigo era stato\ncondannato con i suoi cittadini in loro singolarit\u00e0, la qual cosa\nera manifesta a santa Chiesa. E ancora giur\u00f2, che i detti comuni non\ngraverebbe, n\u00e8 farebbe contro alcuno di quelli muovere guerra, n\u00e8\nsottometterebbe la loro libert\u00e0. Grande ignoranza fu trattare presso\na due mesi con l\u2019imperadore, e non avere memoria di cotanto fatto. Io\nreputo essere stata degna compensagione, avendo cos\u00ec fatta ignoranza\ncompensata con prezzo di cento migliaia di fiorini d\u2019oro, i quali il\ncomune pag\u00f2 per avere con fatica e con paura quello che aver potea\nsenza costo, per la benigna provvedenza di santa Chiesa: e quello che\npag\u00f2 per debito in piccola parte, potea in luogo di servigio e di\ngrazia compensare. Vergognomi ancora di scrivere la seguente arrota:\navendo nella fama dell\u2019avvenimento in Italia dell\u2019imperadore, mandato a\ncorte al papa e a\u2019 cardinali per avere aiuto e favore da santa Chiesa,\nle lettere furono impetrate piene e graziose e favorevoli per lo\nnostro comune all\u2019imperadore, ove il papa e\u2019 cardinali gli ricordavano\nla promessa fatta sotto il suo saramento; le lettere stettono in\ncancelleria per spazio di tre mesi, innanzi che modo si trovasse di\npagare fiorini trenta d\u2019oro per le comuni spese della cancelleria: e\nper questo, poco appresso che la sommissione del comune e la promessa\ndella moneta fu fatta, giunsono le lettere bollate al nostro comune,\ncon grande ripitio e vergogna de\u2019 nostri rettori.\nCAP. LXXIV.\n_Della statura e continenza dell\u2019imperadore._\nSecondo che noi comprendiamo da coloro che conversano intorno\nall\u2019imperadore, la sua persona era di mezzana statura, ma piccolo\nsecondo gli Alamanni, gobbetto, premendo il collo e \u2019l viso innanzi non\ndisordinatamente: di pelo nero, il viso larghetto, gli occhi grossi,\ne le gote rilevate in colmo, la barba nera, e \u2019l capo calvo dinanzi.\nVestiva panni onesti e chiusi continovamente, senza niuno adornamento,\nma corti presso al ginocchio: poco spendea, e con molta industria\nragunava pecunia, e non provvedeva bene chi lo serviva in arme. Suo\ncostume era eziandio stando a udienza di tenere verghette di salcio in\nmano e uno coltellino, e tagliare a suo diletto minutamente, e oltre\nal lavorio delle mani, avendo gli uomini ginocchioni innanzi a sporre\nle loro petizioni, movea gli occhi intorno a\u2019 circostanti per modo,\nche a coloro che gli parlavano parea che non dovesse attendere a loro\nudienza, e nondimeno intendea e udiva nobilemente, e con poche parole\npiene di sustanzia rispondenti alle domande, secondo sua volont\u00e0, e\nsenza altra deliberazione di tempo o di consiglio faceva pienamente\nsavie risposte. E per\u00f2 furono in lui in uno stante tre atti senza\noffendere o variare l\u2019intelletto, il vario riguardo degli occhi,\nil lavorare con le mani, e con pieno intendimento dare l\u2019udienze e\nfare le premeditate risposte; cosa mirabile, e assai notevole in uno\nsignore. La sua gente, avendo in un\u2019ora in Pisa pi\u00f9 di quattromila\ncavalieri tedeschi, faceva mantenere onestamente, eziandio astenere\ndalle taverne e dalle disoneste cose per modo, che innanzi alla sua\ncoronazione in Pisa non ebbe zuffa n\u00e8 riotte tra\u2019 forestieri e\u2019\ncittadini d\u2019alcuna cosa. Il suo consiglio ristrignea con pochi suoi\nbaroni e del suo patriarca, ma la deliberazione era pi\u00f9 sua che del\nsuo consiglio: perocch\u00e9 \u2019l suo senno con sottile e temperata industria\nvalicava il consiglio degli altri; e molto si guard\u00f2 di muoversi alla\nstigazione e conforto de\u2019 ghibellini d\u2019Italia, usati d\u2019incendere e\nd\u2019infocare l\u2019imprese all\u2019appetito parziale, pi\u00f9 che al singolare onore\ndell\u2019imperiale corona, i cui vizi nobilemente conoscea.\nCAP. LXXV.\n_Come si band\u00ec in Firenze l\u2019accordo con l\u2019imperadore._\nSabato mattina, a d\u00ec 21 di marzo del detto anno, l\u2019imperadore\nprovvedutamente fece ragunare tutti i forestieri ch\u2019erano in Pisa e\u2019\nPisani a parlamento nel duomo di Pisa, e con dimostramento di singolare\nallegrezza fece venire dinanzi da se tutti e sei gli ambasciadori e\nsindachi del comune di Firenze: i quali giunti nel parlamento furono\nguardati da tutti con ammirazione grande, perocch\u00e8 alla memoria di\ncoloro ch\u2019erano vivi, n\u00e8 di molto tempo innanzi, si trovava che il\ncomune di Firenze fosse stato altro che nemico all\u2019imperadore, e ora\nvedeano che con pace aveano dall\u2019imperadore que\u2019 patti ch\u2019aveano saputi\ndimandare: e da loro ricevette l\u2019omaggio e il saramento della fede che\npromisero all\u2019imperadore, sotto la condizione de\u2019 patti e convenienze\nche ferme aveano con lui per lo comune di Firenze, le quali su brevit\u00e0\nappresso in sostanza diviseremo: e l\u2019eletto imperadore come re de\u2019\nRomani ne fece a loro privilegi reali, e promise ricevuta l\u2019imperiale\ncorona di farli imperiali. E a d\u00ec 23 del detto mese, luned\u00ec sera,\nsi pubblic\u00f2 in Firenze la concordia presa con l\u2019imperadore, sonando\nle campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo. Poca gente, a\nrispetto del nostro comune, si ragun\u00f2 al parlamento, e senza alcuna\nvista d\u2019allegrezza ogni uomo si torn\u00f2 a casa. Il comune fece in sulle\ntorri e in su i palagi festa e luminaria: ma nella citt\u00e0 pe\u2019 cittadini\nnon si fece fal\u00f2 per segno d\u2019alcuna allegrezza, conoscendo quanto\ncostava caro al comune l\u2019ignoranza de\u2019 loro cittadini governatori per\nl\u2019abbandonata provvedenza.\nCAP. LXXVI.\n_I patti e le convenienze da\u2019 Fiorentini all\u2019imperadore._\nQuesti furono i patti che messer Carlo re di Boemia eletto imperadore\nimpromise al comune di Firenze, e co\u2019 suoi reali privilegi conferm\u00f2.\nIn prima cass\u00f2 e annull\u00f2 ogni sentenza e condannagione le quali per\naddietro fossono fatte contro alla citt\u00e0, e\u2019 cittadini e comune di\nFirenze e\u2019 suoi contadini, e contra i conti da Battifolle, e da\nDoadola, e da Mangona, e Nerone d\u2019Alvernia per gl\u2019imperadori romani\novvero re de\u2019 Romani suoi antecessori: e tutti e catuno integr\u00f2 e\nrestitu\u00ec ne\u2019 suoi onorie giurisdizioni e dominii personali e reali. E\nconcedette che il comune e popolo, e la citt\u00e0 e contado e distretto\ndi Firenze si reggesse secondo gli statuti e le leggi municipali e\nordinamenti consueti del detto comune: e di singolare grazia conferm\u00f2\nal detto comune per suoi privilegi quello che pi\u00f9 gli parve grave,\ncio\u00e8, la confermazione delle leggi dette e statuti fatti, e che per\ninnanzi si facessono, approvandoli e confermandoli in quanto le comuni\nleggi nominatamente non le riprovassono: dicendo, la moltitudine delle\nleggi \u00e8 tanta, che se a questo non hanno provveduto, io a\u2019 Fiorentini\nnol vo\u2019 negare. Ancora, che i priori dell\u2019arti e il gonfaloniere della\ngiustizia, che sono e che per li tempi saranno all\u2019uficio del priorato,\nsieno irrevocabili suoi vicari tutto il tempo della sua vita. E il\ndetto imperadore graziosamente, avendo affezione a volere mantenere il\npacifico stato e tranquillo riposo del comune di Firenze, acciocch\u00e8 per\nlo suo avvenimento in quella citt\u00e0 non nascesse tumulto o mutazione,\npromise e concedette di grazia speziale di non volere entrare nella\ncitt\u00e0 di Firenze n\u00e8 in alcuna sua terra murata. I sindachi predetti\na vice e a nome del comune di sopra detto feciono a lui in pubblico\nla sommessione e l\u2019ubbidienza, e giurarono liberamente riconoscendolo\nper vero eletto e futuro imperadore: e la reverenza li feciono in\nsegno del debito omaggio; e promisongli in nome del comune di Firenze\nper satisfazione intera di ci\u00f2, che obbligati fossono per lo tempo\npassato infino al presente d\u00ec, a lui e a tutti i suoi antecessori, per\nqualunque ragione o cagione dire o nominare si potesse, e ancora per\ntutte le terre che \u2019l detto comune tiene, e ha tenute in suo contado e\nin suo distretto, fiorini centomila d\u2019oro in quattro paghe in cinque\nmesi, finendo per tutto il mese d\u2019agosto del detto anno 1355: e per lo\ntempo avvenire promisono di dare ogni anno del mese di marzo al detto\nimperadore Carlo, alla sua vita solamente, fiorini quattromila d\u2019oro\nper compensagione di censo, in quanto le citt\u00e0 di Toscana fossono\ntenute di ragione all\u2019imperio, e oltre a ci\u00f2, per tutte e singule\nquelle cose le quali il detto comune per se e per lo suo contado e\ndistretto dire si potesse ch\u2019all\u2019imperio fossono per alcuna cosa\nobbligati; e di tutti i detti patti e convenienze, oltre a\u2019 privilegi\nreali, fu contento l\u2019imperadore futuro che ser Agnolo di ser Andrea\ndi messer Rinaldo da Barberino, notaio pubblico imperiale, ne facesse\ncarta e pubblico istrumento al detto comune. Aggiugnesi qui, bench\u00e8\nquello che seguita avvenisse dopo la sua coronazione, acciocch\u00e8 insieme\nsi trovi la memoria de\u2019 patti e de\u2019 privilegi imperiali, e dell\u2019arrota\ndella graziosa libert\u00e0 del detto imperadore inverso il nostro comune.\nE a d\u00ec 3 di maggio 1355 nella citt\u00e0 di Siena, tornando l\u2019imperadore\ndalla sua coronazione, tutte le dette convenienze e promesse fatte\nrinnov\u00f2, e comand\u00f2 che si dessono al nostro comune sotto la fermezza\nde\u2019 suoi privilegi imperiali roborati delle bolle dell\u2019oro. E avendo\nnel processo del tempo il detto imperadore trovato il comune di Firenze\nin molta fede e dirittura delle sue promesse, non ostante che i Pisani,\ne\u2019 Sanesi e gli altri Toscani l\u2019avessono tradito e messo in grave caso\ndi fortuna, essendo ridotto a Pietrasanta per partirsi d\u2019Italia, e\navendogli i Fiorentini con gran pericolo mandato l\u00e0 il compimento de\u2019\ncentomila fiorini promessi, avendolo egli molto a grado, e commendando\nl\u2019amore e la fede del comune, in vituperio degli altri comuni\nch\u2019aveano mostrato la libera suggezione all\u2019imperio, e poi l\u2019aveano\ntradito, s\u2019offerse singolarmente a\u2019 Fiorentini, e di suo proprio\nmovimento privilegi\u00f2 al nostro comune generalmente ci\u00f2 che tenea in\nsuo distretto, e mandonne i suoi privilegi imperiali bollati d\u2019oro al\nnostro comune, fatti in Pietrasanta a d\u00ec 3 di giugno 1355. In questo\ntempo il comune di Firenze tenea in suo distretto la Valdinievole, il\nValdarno di sotto, Pistoia, e \u2019l castello di Serravalle, e tutta la\nmontagna di sotto, e Colle, e Laterina, e Montegemmoli, e la terra di\nBarga con pi\u00f9 castella di Garfagnana, e Castel san Niccol\u00f2 col suo\ncontado, e la montagna fiorentina, e molte altre terre e castella che\nqui per brevit\u00e0 non si nominano, e la nobile terra di Sangimignano e di\nPrato, avvegnach\u00e8 gi\u00e0, come \u00e8 detto, erano ridotte a contado di Firenze.\nCAP. LXXVII.\n_Come fu offesa la libert\u00e0 del popolo di Roma da\u2019 Toscani._\nVedendo i falli commessi per li comuni di Toscana, che liberamente\nsottomisono la loro libert\u00e0 al nuovo imperadore, ci d\u00e0 materia di\nricordare per esempio del tempo avvenire, come col popolo romano i\ncomuni d\u2019Italia, e massimamente i Toscani, sotto il loro principato\nparteciparono la cittadinanza e la libert\u00e0 di quello popolo, la cui\nautorit\u00e0 creava gl\u2019imperadori: e questo medesimo popolo, non da se, ma\nla Chiesa per lui, in certo sussidio de\u2019 fedeli cristiani, concedette\nl\u2019elezione degl\u2019imperadori a sette principi della Magna. Per la qual\ncosa \u00e8 manifesto, avvegnach\u00e8 assai pi\u00f9 antiche storie il manifestino,\nche \u2019l popolo predetto faceva gl\u2019imperadori, e per la loro reit\u00e0\nalcuna volta gli abbattea, e la libert\u00e0 del popolo romano non era in\nalcun modo sottoposta alla libert\u00e0 dell\u2019imperio, n\u00e8 tributaria come\nl\u2019altre nazioni, le quali erano sottoposte al popolo, e al senato e al\ncomune di Roma, e per lo detto comune al loro imperadore: e mantenendo\na\u2019 nostri comuni di Toscana l\u2019antica libert\u00e0 a loro succeduta dalla\ncivilt\u00e0 del popolo romano, \u00e8 assai manifesto, che la maest\u00e0 di quel\npopolo per la libera sommessione fatta all\u2019imperadore per lo comune di\nPisa, e di Siena, e di Volterra, e di Samminiato fu da loro offesa,\ne dirogata la franchigia de\u2019 Toscani vilmente, per l\u2019invidia ch\u2019avea\nl\u2019uno comune dell\u2019altro, pi\u00f9 che per altra debita cagione.\nCAP. LXXVIII.\n_Di quello medesimo._\nSeguitiamo ancora a dire le cagioni per le quali, oltre a ci\u00f2 ch\u2019\u00e8\ndetto nel precedente capitolo, a\u2019 comuni italiani, senza offesa\ndel sommo impero, \u00e8 loro lecito anzi debito il patteggiare con\ngl\u2019imperadori. L\u2019Italia tutta \u00e8 divisa mistamente in due parti, l\u2019una,\nche seguita ne\u2019 fatti del mondo la santa Chiesa, secondo il principato\nche ha da Dio e dal santo imperio in quello, e questi sono dinominati\nGuelfi, cio\u00e8 guardatori di f\u00e8: e l\u2019altra parte seguitano l\u2019imperio,\no fedele o infedele che sia delle cose del mondo o santa Chiesa, e\nchiamansi Ghibellini, quasi guida belli, cio\u00e8 guidatori di battaglie,\ne seguitano il fatto, che per lo titolo imperiale sopra gli altri\nsono superbi, e motori di lite e di guerra. E perocch\u00e8 queste due\nsette sono molto grandi, ciascuna vuole tenere il principato, ma non\npotendosi fare, ove signoreggia l\u2019una, e ove l\u2019altra, quanto che tutti\nsi solessono reggere in libert\u00e0 di comuni e di popoli. Ma scendendo\nin Italia gl\u2019imperadori alamanni, hanno pi\u00f9 usato favoreggiare i\nghibellini ch\u2019e\u2019 guelfi, e per questo hanno lasciato nelle loro citt\u00e0\nvicari imperiali con le loro masnade: i quali continovando la signoria,\ne morti gl\u2019imperadori di cui erano vicari, sono rimasi tiranni, e\nlevata la libert\u00e0 a\u2019 popoli, e fattisi potenti signori, e nemici\ndella parte fedele a santa Chiesa e alla loro libert\u00e0. E questa non\n\u00e8 piccola cagione a guardarsi di sottomettersi senza patti a\u2019 detti\nimperadori. Appresso \u00e8 da considerare, che la lingua latina, e\u2019 costumi\ne\u2019 movimenti della lingua tedesca sono come barbari, e divisati e\nstrani agl\u2019Italiani, la cui lingua e le cui leggi, e\u2019 costumi, e\u2019\ngravi e moderati movimenti, diedono ammaestramento a tutto l\u2019universo,\ne a loro la monarchia del mondo. E per\u00f2 venendo gl\u2019imperadori della\nMagna col supremo titolo, e volendo col senno e con la forza della\nMagna reggere gl\u2019Italiani, non lo sanno, e non lo possono fare: e\nper questo, essendo con pace ricevuti nelle citt\u00e0 d\u2019Italia, generano\ntumulti e commozioni di popoli, e in quelli si dilettano, per essere\nper contraversia quello ch\u2019essere non possono n\u00e8 sanno per virt\u00f9, o\nper ragione d\u2019intendimento di costumi e di vita. E per queste vive e\nvere ragioni, le citt\u00e0 e\u2019 popoli che liberamente gli ricevono conviene\nche mutino stato, o di venire a tirannia, o di guastare il loro usato\nreggimento, in confusione del pacifico e tranquillo stato di quella\ncitt\u00e0, o di quello popolo che liberamente il riceve. Onde volendo\nriparare a\u2019 detti pericoli, la necessit\u00e0 stringe le citt\u00e0 e\u2019 popoli,\nche le loro franchigie e stato vogliono mantenere e conservare, e non\nessere ribelli agl\u2019imperadori alamanni, di provvedersi e patteggiarsi\ncon loro: e innanzi rimanere in contumacie con gl\u2019imperadori, che senza\ngran sicurt\u00e0 li mettano nelle loro citt\u00e0. Quello che di ci\u00f2 abbiamo\nqui di sopra fatto memoria, a beneficio e ammaestramento della libert\u00e0\nde\u2019 comuni d\u2019Italia, si prova per gli antichi esempi, chi li vorr\u00e0\nricercare, e per li nuovi, chi li vorr\u00e0 ricercare e appresso leggere il\nnostro trattato.\nCAP. LXXIX.\n_Come la gran compagnia rub\u00f2 il Guasto in Puglia._\nIl conte di Lando con la gran compagnia avendo soggiornato in\nAbruzzi infino all\u2019entrata di marzo, si mosse da Pescara e da san\nFabiano, e and\u00f2 verso il Guasto. Que\u2019 della terra male provveduti da\nloro, e peggio dal re loro signore, trattarono con la compagnia, e\nfidaronsi mattamente nelle loro promesse, che non li ruberebbono, e\nche torrebbono della roba derrata per danaio, li misono nella terra;\nma come furono entrati dentro, i predoni usarono crudelmente la loro\nrapina uccidendo e rubando tutta la terra, e appresso con fuoco\nn\u2019arsone gran parte: per lo cui esempio tutte l\u2019altre terre di Puglia\nsi disposero a ogni pericolo per difendersi da loro, e afforzaronsi\nfrancamente per modo, che quanto ch\u2019elli stessono lungamente a campo\nsenza potere pi\u00f9 acquistare citt\u00e0 o castella. Appresso valicarono a\nsan Siverno in Puglia, e ivi s\u2019accamparono e stettono lungamente,\nscorrendo e predando e facendo danno assai a\u2019 paesani: e dall\u2019altra\nparte il Paladino aggiuntosi gente della compagnia tribolava la marina\ndella Puglia, ed era palese a\u2019 regnicoli che messer Luigi di Durazzo\nfavoreggiava la compagnia.\nCAP. LXXX.\n_Come l\u2019imperadore richiese di lega i Fiorentini, e non l\u2019ebbe._\nAvendo l\u2019imperadore compiuto e fermo l\u2019accordo co\u2019 Fiorentini, mand\u00f2\na Firenze suoi ambasciadori a richiedere il comune di Firenze con\ngrande stanza, che piacesse loro per bene e stato di tutte le citt\u00e0 di\nToscana, e per levare ogni pericolo che venire potesse loro addosso per\nla forza de\u2019 tiranni e della gran compagnia, per vivere i detti comuni\ninsieme in unit\u00e0 e in pace, di fare lega insieme, e quella gente per\nvia di taglia che a\u2019 Fiorentini piacesse, e offerendo l\u2019aiuto suo ove\nche fosse a ogni loro bisogno molto largamente, dicendo, che presa la\ncorona intendea d\u2019andare in Lombardia o nella Magna, ove il comune di\nFirenze consigliasse. I Fiorentini in pi\u00f9 consigli privati e palesi\npraticarono se questa lega fosse da fare o no: e infine considerato\nil pericolo dell\u2019imprese, e temendo di non correre ad essere indotti\na rompere la pace a\u2019 signori di Milano, e che la gente d\u2019arme raunata\nsotto un capitano dato dall\u2019imperadore non potesse essere cagione\ndi novit\u00e0 contro alla libert\u00e0 del comune, al tutto deliberare che\nla lega per lo nostro comune non si facesse, e con belle e oneste e\nlegittime cagioni si diliberarono di quella richiesta. L\u2019imperadore\nessendo in movimento per andare a vicitare le citt\u00e0 e le terre che gli\ns\u2019erano date, e andare per la corona, soprastette senza accettare la\nscusa, e domand\u00f2 che il nostro comune apparecchiasse dugento cavalieri\nche l\u2019accompagnassono a Roma: e da Pisa si part\u00ec a d\u00ec 23 di marzo e\nandossene a Volterra, ove fu ricevuto secondo la loro possa assai\nonoratamente; e albergatovi una notte, l\u2019altro d\u00ec venne a Samminiato, e\nda loro fu ricevuto come signore; e a d\u00ec 23 di marzo giunse a Siena la\nsera, ove fu ricevuto con singolar festa e onore.\nCAP. LXXXI.\n_Come si mut\u00f2 lo stato de\u2019 nove di Siena._\nE\u2019 pare degna cosa, che coloro i quali ingannano in comune i loro\ncittadini, e rompono la fede a\u2019 loro amici, che alcuna volta per quella\nmedesima sieno puniti, e portino pena de\u2019 peccati commessi. L\u2019ordine\nde\u2019 nove di Siena, avendo per lungo tempo ingannati e detratti dagli\nufici del comune con malo ingegno i loro cittadini, come gi\u00e0 abbiamo\nnarrato, e tradito il comune di Firenze nel cospetto dell\u2019imperadore,\nseguitando la rea intenzione della setta di Giovanni d\u2019Agnolino Bottoni\nloro caporale, quando liberamente si dierono all\u2019imperadore, credendo\nper quello essere esaltati, e avere abbattuto lo stato e la libert\u00e0 del\ncomune di Firenze; il comune di Firenze per la sua costanza e savia\nprovvisione rimase grande nel cospetto dell\u2019imperadore e privilegiato\nda lui, e mantenea accrescendo suo stato, la sua libert\u00e0 e il suo\nonore. Entrato l\u2019imperadore in Siena il marted\u00ec sera, il mercoled\u00ec\nvegnente, il d\u00ec dell\u2019Annunziazione di nostra Donna, gli _anni Domini_\n1355 a d\u00ec 25 di marzo, Tolomei, Malavolti, Piccolomini, Saracini, e\nalcuno de\u2019 Salimbeni, contrari a Giovanni d\u2019Agnolino Bottoni loro\nconsorto, con seguito del minuto popolo levarono il romore nella citt\u00e0,\ndicendo: Viva l\u2019imperadore, e muoiano i nove e le gabelle: e in questa\nfuria furono morti due cittadini: e corsi alle case del capitano\ndella guardia, e trovandolo gravemente malato in sul letto, rubarono\ntutto l\u2019ostiere e ci\u00f2 che aveva la famiglia, e l\u2019arme e\u2019 cavalli, e\nlasciato il capitano in sulla paglia in terra, in poch\u2019ore appresso\nmor\u00ec: e di l\u00e0 corsono al palagio de\u2019 nove, e cacciatine in furia i\nnove e la loro famiglia vi misono l\u2019imperadore, e feciono mandare per\nla cassa dov\u2019erano insaccati i cittadini dell\u2019ordine de\u2019 nove e gli\naltri loro uficiali, e usando la loro besseria, con grande dirisione\nla feciono tranare per la terra, andandola scopando, e poi impetrato\nil comandamento dall\u2019imperadore l\u2019arsono con gran romore in sul campo,\ne appresso tutti gli atti e ordini de\u2019 nove, e tutti gli ufici della\ncitt\u00e0; e le persone di coloro ch\u2019aveano avuti gli ufici furono in\npersecuzione e in pericolo grande nella cittadinanza, come leggendo si\npotr\u00e0 trovare.\nCAP. LXXXII.\n_Di quello medesimo._\nAvendo veduto l\u2019eletto imperadore il romore e le novit\u00e0 fatte nella\ncitt\u00e0 di Siena con dimostrazione d\u2019esserne stato contento, con poco\nonore dell\u2019imperiale fama, il seguente d\u00ec fece ragunare tutti i\ncittadini a parlamento; e quando gli ebbe ragunati, fece separare i\ngrandi dal popolo, e i popolani maggiori dal minuto popolo, e a catuno\nper se fece fare un sindaco con pieno mandato a sottomettersi da capo\nliberamente senza alcuno eccetto, e da capo si diedono all\u2019imperadore,\nsottomettendo all\u2019imperiale signoria il comune, il popolo, e la citt\u00e0,\ne il contado, e il distretto e la giurisdizione di Siena, dandogli in\ntutto il misto e mero imperio di quella citt\u00e0, contado e distretto: e\nincontanente licenziati tutti gli uficiali e rettori della terra ne\nfece suo vicario l\u2019arcivescovo di Praga: e fatta pigliare la tenuta\ne la guardia di tutte le loro terre e castella, per decreto cass\u00f2,\ne annull\u00f2, e viet\u00f2 in perpetuo l\u2019uficio e ordine de\u2019 nove. Coloro\nch\u2019erano stati di quell\u2019ordine, villaneggiati da\u2019 cittadini, veggendosi\na pericolo stando nella terra, chi se n\u2019and\u00f2 in una parte e chi in\nun\u2019altra partendosi della citt\u00e0; ed essendo dalle loro vicinanze con\ngiusta infamia guardati come traditori della propria patria e de\u2019 loro\nvicini, con grande vituperio traevano la loro vita nell\u2019altrui terre.\nCAP. LXXXIII.\n_Il modo trov\u00f2 il comune di Firenze per avere danari._\nE\u2019 non sarebbe da fare memoria di quello che seguita, se il modo\ncol quale il comune di Firenze ebbe i danari con agevolezza non ce\nne sforzasse, per buono esempio delle cose avvenire. Incontanente\nche l\u2019imperadore fu riposato in Siena, i Fiorentini non aspettando\nil termine della prima paga, gli mandarono contanti a Siena fiorini\ntrentamila d\u2019oro, i quali si pagarono a d\u00ec 27 di marzo 1355; della\nqual cosa l\u2019imperadore si tenne molto contento, perocch\u00e8 li vennono a\ngran bisogno, perch\u00e8 era in su l\u2019andare da Roma, e avea necessit\u00e0 di\nprovvedere a\u2019 suoi baroni per aiuto alle spese. Il comune di Firenze\nper avere questi danari e gli altri, ordin\u00f2 nella citt\u00e0 a\u2019 suoi\ncittadini un estimo che si chiam\u00f2 la sega, che fu posto a\u2019 cittadini\nper casa certi danari il d\u00ec: e fatta la sega, si fece pagare soldi\nquindici per ogni danaio, e catuno pagava questa piccola somma a\ncolta. Nondimeno, perch\u00e8 i meno possenti parevano troppo gravati a\nrispetto degli altri, il comune elesse d\u2019ogni gonfalone certi uomini,\ne commise loro ch\u2019abbattessono il quarto di quello che montava la loro\nsega sgravandone gl\u2019impotenti; e questo si fece subito e comunalmente\nbene: e per\u00f2 appresso la detta paga si raccolse un\u2019altra volta a soldi\ntrenta il danaio per modo, che in termine di due mesi, o in meno,\nebbono contanti i fiorini centomila che si diedono all\u2019imperadore,\nsenza andare alcuni esattori per la citt\u00e0, o essere alcuno gravato\nper forza. \u00c8 vero che leggi s\u2019ordinarono per lo comune, che chi non\npagasse la sega per se o altri per lui non potesse avere uficio di\ncomune, n\u00e8 dovesse essere udito in alcuno uficio in suo beneficio: e\nordin\u00f2 il comune, che catuno che prestasse danari di questa sega, fosse\nin certo tempo assegnato in su le sue gabelle con provvisione a dieci\nper centinaio l\u2019anno: e per questo molti cittadini mobolati pagavano\nper chiunque volea dar loro alcuno vantaggio, e cos\u00ec gl\u2019impotenti per\npiccola cosa che si cavavano di borsa trovavano chi pagava per loro\ne prendevano l\u2019assegnamento. Il comune mantenne la fede di pagare a\u2019\ntermini ch\u2019avea promesso, e per\u00f2 a molti cittadini era grande guadagno,\ne agli altri non era gravezza; e per questo, quanti danari fossono\nbisognati al comune avea senza alcuna fatica, e il merito che pagava\ntornava nelle mani de\u2019 suoi cittadini, non per\u00f2 senza alcuna invidia.\nAbbianne fatta questa memoria per li tempi avvenire, a dimostrare\nquanto \u00e8 utile al soccorso della repubblica mantenere il comune la\nfede a\u2019 suoi cittadini, e quanto bene seguita al comune l\u2019ordine di\nrestituire le prestanze: perocch\u00e8 nella nostra ricordanza \u00e8 di veduta,\nche il comune soleva fare libbre ed imposte le quali generavano molte\nmortali nimicizie tra\u2019 cittadini, perocch\u00e8 si facevano disordinatamente\nsconce, e se pure ventimila fiorini imponeva il comune, pi\u00f9 di cento\ncase se n\u2019abbattevano in Firenze, e recavansi i beni tra quelli de\u2019\nrubelli per cessanti delle fazioni del comune, e i cittadini erano\npegnorati o presi, e molti s\u2019uscivano in bando per le dette cagioni, e\ngli esattori e\u2019 messi se n\u2019andavano per loro col quarto dell\u2019imposta,\nin grave confusione della cittadinanza.\nCAP. LXXXIV.\n_L\u2019ordine diede l\u2019imperadore agli Aretini._\nGli ambasciadori del comune d\u2019Arezzo avendo sostenuto molte battaglie\nin giudicio da\u2019 Tarlati e dagli Ubertini nell\u2019udienza dell\u2019imperadore e\ndel suo consiglio, che domandavano di volere tornare nella loro citt\u00e0\nd\u2019Arezzo, e avendoli gli ambasciadori convinti con ragione come non\nerano degni di tornare cittadini in quella citt\u00e0, dov\u2019avevano per loro\nsfrenata potenza usate le tirannie manifeste e l\u2019ingiuste operazioni,\nper le quali aveano per pi\u00f9 riprese fatto manifesto all\u2019imperadore e\nal suo consiglio, che quello comune sosterrebbe innanzi ogni altro\npericolo di fortuna, che coloro consentissono di rimettere nella citt\u00e0\nsotto alcun patto. L\u2019imperadore avendo assai sostenuto a riceverli in\nservigio de\u2019 Tarlati e degli Ubertini, vedendo la giusta costanza degli\nambasciadori, diliber\u00f2 che tutti i cittadini non ribelli di quello\ncomune raccomunassono gli ufici, e che tanti vi fossono de\u2019 ghibellini\nquanto de\u2019 guelfi; ma che le due castella della citt\u00e0 si guardassono\nsolo per i guelfi, com\u2019erano usate di guardare, per pi\u00f9 fermezza dello\nstato della citt\u00e0; e che catuno dovesse avere il frutto de\u2019 suoi\npropri beni, e non potessono domandare altro a quello comune. Gli\nambasciadori col sindacato del loro comune gli feciono la sommessione\ndi quello comune e l\u2019omaggio, promettendoli ogni anno per censo fiorini\nquattrocento d\u2019oro del mese di marzo: e oltre a ci\u00f2 gli donarono per\naiuto alla sua coronazione fiorini cinquemila d\u2019oro, e l\u2019imperadore\nfuturo per suoi privilegi reali privilegi\u00f2 loro tutto il contado: e\nquesto fu fatto nella citt\u00e0 di Siena all\u2019uscita del mese di marzo 1355.\nCAP. LXXXV.\n_Come fu preso Montepulciano dalla casa de\u2019 Cavalieri._\nEssendo per lunga esperienza certificati messer Niccol\u00f2 e messer\nIacopo de\u2019 Cavalieri di Montepulciano, che la loro discordia gli avea\nabbattuti della signoria, e cacciati in esilio della loro terra e della\ncitt\u00e0 di Siena, si ridussono a pace e a concordia; e innanzi che il\nbollore del popolo sanese s\u2019acchetasse in fermo stato, messer Niccol\u00f2\ndi volont\u00e0 di messer Iacopo suo consorto torn\u00f2 in Montepulciano,\nricevuto da\u2019 terrazzani che dentro v\u2019erano con allegra faccia, perocch\u00e8\nvolentieri tornavano al loro antico reggimento: nondimeno la rocca\nch\u2019era in mano e in guardia de\u2019 Sanesi non pot\u00e8 avere. La novella\nvenne a Siena di presente dov\u2019era l\u2019imperadore, e messer Iacopo de\u2019\nCavalieri ch\u2019era di ci\u00f2 avvisato, avendo in sua compagnia alquanti\ngrandi uomini di Siena, incontanente fu in presenza dell\u2019imperadore,\ne informollo pienamente del manifesto torto che il popolo di Siena\navea fatto loro, non attenendo i patti n\u00e8 le convenienze ch\u2019aveano\npromesse per la corrotta fede de\u2019 nove; e que\u2019 grandi cittadini\nch\u2019erano con lui feciono chiaro l\u2019imperadore che quello che diceva era\nin fatto vero: e per\u00f2 in quello stante, quanto ch\u2019e\u2019 s\u2019avesse altro in\ncuore, disse ch\u2019era contento che tenessono la terra di Montepulciano\ncome suoi vicari; e il terzo d\u00ec appresso, cavalcando l\u2019eletto verso\nRoma, volle andare a desinare nella terra. I signori allegramente\ngli apparecchiarono la desinea; e com\u2019ebbe mangiato ne men\u00f2 seco a\nRoma l\u2019uno e l\u2019altro, e nella terra mise altra gente alla guardia: ed\nessendo in Roma, e sentendo alcuna cosa contro a messer Niccol\u00f2, o\nche per sospetto si movesse, il fece citare, ed egli ingelosito per\nsospetto della sua persona si part\u00ec di Roma, senza comparire e senza\nprendere comiato.\nCAP. LXXXVI.\n_Come il papa riprese in concistoro certi dissoluti cardinali._\nIl cardinale di Pelagorga di Guascogna baldanzoso e superbo, non meno\nper la potenza dei suo legnaggio che per lo cappello rosso, oltre a\nmolte grandi e sconce cose fatte per la sua arroganza, singolari nella\ncorte di Roma, in questi d\u00ec del mese di marzo, nella santa Quaresima,\nessendo per loro bisogne venuti a corte nella citt\u00e0 d\u2019Avignone alquanti\ncavalieri guasconi, disordinati, della setta sua e di suo lignaggio,\nsenz\u2019altra singolare cagione ne fece uccidere tre, che niuna guardia\nsi pensavano avere a fare, non guardando alla reverenza de\u2019 pastori\ndi santa Chiesa, n\u00e8 a\u2019 santi giorni quaresimali. E altri giovani\nfatti cardinali per papa Clemente erano stati, e in questi d\u00ec erano\nin tanta disonesta e dissoluta vita, che niuni giovani dissoluti\ntiranni gli avanzavano: e intra l\u2019altre cose (con vergogna il dico)\nfacevano nella citt\u00e0 a\u2019 loro scudieri rapire le giovani donne a\u2019 loro\nmariti manifestamente, e senza vergogna le teneano palesi nelle loro\nlivree; e molte cose violenti usavano in vituperio di santa Chiesa.\nOnde papa Innocenzio sesto udendo molta infamia nella corte di questi\ncardinali, facendo dell\u2019edima santa singolare consistoro per questa\ncosa, li riprese in pubblico aspramente, dicendo: Voi vi portate s\u00ec\ndissolutamente in vituperio di santa Chiesa, che mi conducerete a\nessere in parte, ch\u2019io far\u00f2 abbassare la vostra superbia; minacciandoli\ndi tornare la corte in Italia: ma poco se n\u2019ammendarono; e il tempo non\nera ancora ordinato da Dio di tornare alla sedia apostolica di Roma i\nsuoi pontefici per l\u2019antico peccato de\u2019 prelati italiani, che ancora\nnon si mostravano soperchiati dagli oltramontani.\nCAP. LXXXVII.\n_Di alcuna novit\u00e0 di Pisa per gelosia._\nEssendo l\u2019imperadore a Siena, era in Pisa rimaso un suo vicario con\nseicento cavalieri tedeschi: i Pisani per le divisioni e per l\u2019invidia\ndelle loro sette mormoravano l\u2019uno contro l\u2019altro, e catuno contro\nall\u2019imperadore. Il vicario per reprimere la volont\u00e0 de\u2019 malcontenti, e\nper accrescersi favore del minuto popolo ch\u2019era tutto imperiale, a d\u00ec\n29 di marzo 1355 fece improvviso a\u2019 Pisani di subito armare tutte le\nsue masnade tedesche, e con loro insieme corse tutta la citt\u00e0 gridando,\nviva l\u2019imperadore, e il popolo rispondea per tutte le contrade, viva\nl\u2019imperadore; e senza alcuna altra novit\u00e0 fare s\u2019acquetarono: e tornati\na\u2019 loro alberghi puosono giuso l\u2019armi, e a\u2019 Pisani delle sette crebbe\nil mal volere contro all\u2019imperadore.\nCAP. LXXXVIII.\n_Della gente che i Fiorentini mandarono con l\u2019imperadore._\nL\u2019eletto imperadore volendo andare a prendere la corona a san Piero\na Roma, si pens\u00f2, che non ostante la sua copiosa compagnia, grande\nsicurt\u00e0 gli sarebbe per tutto ad avere in sua condotta l\u2019insegna del\ncomune di Firenze, e alla guardia della sua persona de\u2019 suoi cittadini\ncon parte della loro gente d\u2019arme; e per\u00f2 richiese i Fiorentini che\ngli mandassono de\u2019 loro cavalieri dugento con l\u2019insegna del comune, e\ncon alcuni cittadini alla sua compagnia. Il comune elesse di presente\ndue cittadini, uno grande e uno popolare, ambedue cavalieri, e dugento\nbarbute di gente eletta molto bene montati e armati nobilemente, e bene\nguerniti di robe e d\u2019arnesi, e diedono l\u2019insegna del popolo, il giglio\ne il rastrello, senza alcuna aguglia: e giunti a Siena, l\u2019imperadore\nli ricevette graziosamente, e costituilli alla guardia del suo corpo,\nperocch\u00e8 gran confidanza avea de\u2019 Fiorentini, e tra tutta sua gente\nnon avea altrettanti cavalieri s\u00ec bene a cavallo n\u00e8 s\u00ec bene armati:\ne in sua compagnia andarono, e stettono, e tornarono da Roma infino\nalla citt\u00e0 di Siena, e ivi licenziati dall\u2019imperadore si tornarono a\nFirenze. Abbiamo di questa lieve cosa fatta memoria, non tanto per lo\nfatto, quanto che fu cosa disusata e strana per lunghi tempi passati,\nvedere l\u2019insegna del comune di Firenze a guardia dell\u2019imperadore.\nCAP. LXXXIX.\n_Come l\u2019imperadore si part\u00ec da Siena._\nAvendo l\u2019imperadore veduto la subita revoluzione fatta per i cittadini\ndi Siena, d\u2019avere disfatto e abbattuto il loro antico reggimento e\nl\u2019ordine de\u2019 nove, avendo di presente ad essere a Roma il d\u00ec della\nPasqua della santa Resurrezione a d\u00ec 5 d\u2019aprile, prese sospetto di\nlasciarla in libert\u00e0, e lasciovvi l\u2019arcivescovo di Praga cui n\u2019avea\nfatto vicario, prelato di grande autorit\u00e0, e sperto delle cose del\nmondo, e pro\u2019 e ardito in fatti d\u2019arme, e in sua compagnia e per suo\nconsiglio lasci\u00f2 il signore di Cortona, e i Tarlati d\u2019Arezzo, e\u2019 conti\nda Santafiore, e pi\u00f9 altri caporali di parte ghibellina, mostrando pi\u00f9\nconfidanza in loro che nelle case guelfe di Siena, che liberamente\ngli aveano data la signoria di quella citt\u00e0: per la qual cosa i\ngentili uomini di quella terra e i popolani grassi molto si turbarono\ne rimasono malcontenti, bench\u00e8 in apparenza allora non ne feciono\ndimostrazione; e a d\u00ec 28 di marzo 1355 l\u2019eletto si part\u00ec da Siena, e\nseguit\u00f2 a gran giornate il suo viaggio, e infino alla sua tornata i\nSanesi vivettono senza niuno loro ordine sotto il volontario reggimento\ndel vicario.\nCAP. XC.\n_Della gran compagnia ch\u2019era in Puglia._\nIn questo tempo, all\u2019entrare d\u2019aprile del detto anno, la compagnia\ndel conte di Lando era cresciuta nel Regno in quattromila barbute, e\nin molti masnadieri, e in grande popolo di bordaglia, e tenendo loro\ncampi sopra Nocera e sopra Foggia correvano la Puglia piana predando\ne pigliando uomini e femmine, e bestiame e roba ovunque ne poteano\ngiungnere, e strignevano per paura i casali e le ville a portare\nvittuaglia al campo. Nel paese faceano danno assai; ma niuna terra\nmurata poterono acquistare, perocch\u00e8 non aveano argomenti da vincerle\nper battaglia, e per la fede ch\u2019aveano rotta a quelli del Guasto quando\nsi dierono loro, niuna terra si volea pi\u00f9 confidare alle loro promesse,\nma tutte s\u2019erano armate e afforzate alla difesa. Stando la compagnia\nper questo modo in Puglia, il re Luigi poco mostrava che si curasse\ndella compagnia, e meno del danno de\u2019 suoi sudditi, con mancamento\ndi suo onore, perocch\u00e8 n\u00e8 aiuto n\u00e8 consiglio dava loro: ma in questi\nd\u00ec mand\u00f2 messer Niccola Acciaiuoli di Firenze suo grande siniscalco\nal legato, per trattare pace da lui a messer Malatesta da Rimini, e\nambasciadore all\u2019imperadore, e appresso al comune di Firenze, per\navere da catuno aiuto di gente contro alla compagnia, e per sentire\nla volont\u00e0 e \u2019l processo dell\u2019imperadore: ma da se nel Regno niuna\nprovvisione fece, fuori che festeggiare e danzare con le donne, in\ndetrimento della sua fama.\nCAP. XCI.\n_Come il gran siniscalco cambi\u00f2 sua fama in Firenze._\nNoi avremmo volontieri trapassato quello che seguita senza memoria,\nse senza potere essere incolpato d\u2019adulazione per tacere l\u2019avessimo\npotuto fare. Il grande siniscalco del re Luigi partitosi dalle mollizie\ndel suo signore, e inviscato da quelle, venne al legato in Romagna,\ne cercato secondo la commissione a lui fatta dal re Luigi di tentare\nla pace dal legato a messer Malatesta da Rimini, non ebbe autorit\u00e0 di\npoterla in alcuno atto disporla: e partitosi dal legato, venne a Siena\nall\u2019imperadore, e spuosegli la sua ambasciata, dal quale fu ricevuto\ngraziosamente per amore del re, e ancora della sua persona, perocch\u2019era\ncittadino popolare di Firenze, e vedevalo montato in cotanta dignit\u00e0, e\na Roma il men\u00f2 con seco, e fu alla sua coronazione: e tornato a Siena\ncon lui senza avere impetrata alcuna cosa di sua domanda, se ne venne\na Firenze del mese d\u2019aprile del detto anno, con grande comitiva di\nbaroni e di cavalieri napoletani, giovani ornati di diverse e strane\nportature, e abiti di loro robe, con maravigliosi paramenti d\u2019oro e\nd\u2019argento, e di pietre preziose e di perle, e in Firenze cominci\u00f2 a\nfare molti conviti, e continovolli lungamente in citt\u00e0 e in contado,\navendo le giovani donne le quali faceva invitare con grande istanza\nsera e mattina a\u2019 suoi corredi, e tutto d\u00ec le tenea in danza e in festa\nco\u2019 suoi cavalieri; le quali femminili mollizie molto nella patria\nindebolirono la sua fama; e considerando i cittadini il tempo nel\nquale la compagnia tribolava il Regno, e le novit\u00e0 dell\u2019imperadore,\ne le mutazioni degli stati delle citt\u00e0 e delle terre di Toscana, e\nla nuova gravezza, e sollecita provvedenza e guardia ch\u2019avea il suo\ncomune di Firenze, facevano manifesto che allora bisognavano cose\nvirtuose e virili, e non disoneste mollezze di donne. Crediamo che il\nmale esempio del suo signore, e la vanit\u00e0 che \u2019l movea a accattare\nbenevolenza de\u2019 giovani e vani baroni e cavalieri ch\u2019erano con lui gli\nfeciono dimenticare le sue usate virt\u00f9, e la fortezza del suo animo. E\nper merito di questo, avendo domandato al suo comune per parte del re\nalcuno sussidio di gente d\u2019arme contro alla compagnia, cosa che altra\nvolta si sarebbe fatta senza domandare, per pi\u00f9 riprese gli fu negata;\npotendo conoscere che poco onore della sua citt\u00e0 riport\u00f2 al re suo\nsignore contra l\u2019usato modo: e dove la sua persona era per addietro\nnominatissima in altezza d\u2019animo e in molte virt\u00f9, per la vana mollezza\nfemminile, a questa volta nella sua patria rec\u00f2 in memoria de\u2019 suoi\ncittadini la detestabile vita di Sardanapalo.\nCAP. XCII.\n_Come l\u2019imperadore giunse a Roma._\nCarlo nominato nel battesimo Vincislao, figliuolo del re Giovanni,\nfigliuolo dell\u2019imperadore Arrigo di Luzimborgo re di Boemia, eletto\nimperadore, giunto a Roma il gioved\u00ec santo, entr\u00f2 nella citt\u00e0\nsconosciuto, e a modo di romeo vestito di panno bruno con molti suoi\nbaroni, e and\u00f2 il venerd\u00ec e il sabato santo a vicitare le principali\nchiese di Roma in forma di pellegrino, e per modo che da niuno\nforestiero o paesano potea essere conosciuto chi fosse l\u2019imperadore:\ne la mattina innanzi d\u00ec, vegnente la Resurrezione, usc\u00ec di Roma con\nla maggiore parte della sua gente, per entrare la mattina della\nsanta Pasqua palesemente in Roma, per venire alla sua coronazione\nmanifestamente. Il popolo di Roma per ordine de\u2019 loro Rioni, co\u2019 suoi\nprincipi e con tutto il chericato con solenne processione gli uscirono\nincontro fuori della citt\u00e0, e trovaronlo apparecchiato; e fattogli la\ndebita salutazione e reverenza, con somma allegrezza e festa, e con\ngrande moltitudine di cavalieri romani e paesani e strani, oltre alla\nsua cavalleria, condussono lui innanzi e l\u2019imperatrice appresso nella\ncitt\u00e0 di Roma, e menaronlo alla Basilica del principe degli Apostoli\nsan Piero, la mattina innanzi la messa, e l\u00e0 smontati. Qui si faccia\nfine al nostro quarto libro, per fare cominciamento al quinto della sua\ncoronazione.\nTAVOLA DEI CAPITOLI\n _Qui comincia il terzo libro della Cronica di Matteo\n _CAP. II. La potenza dell\u2019arcivescovo di Milano, e il\n procaccio fece a corte per la sua liberazione_ 6\n _CAP. III. Come papa Clemente sesto propose tre cose\n a\u2019 comuni di Toscana, perch\u00e8 pigliassono l\u2019una_ 9\n _CAP. IV. Come il papa e\u2019 cardinali annullarono i processi\n _CAP. V. Come gli ambasciadori de\u2019 Toscani si partirono\n _CAP. VI. Come i tre comuni di Toscana s\u2019accordarono\n _CAP. VII. Quali furono i patti dall\u2019imperadore a\u2019 tre\n _CAP. VIII. Come il re Luigi e la reina Giovanna furono\n _CAP. IX. Commendazione in laude di messer Niccola\n _CAP. X. Come fu cacciato messer Iacopo Cavalieri di\n _CAP. XI. Come si die\u2019 il guasto a Bibbiena, e sconfitti\n _CAP. XII. Come si rubell\u00f2 a\u2019 Fiorentini Coriglia e\n _CAP. XIII. Come i tre comuni di Toscana mandarono\n ambasciadori in Boemia a far muovere l\u2019imperadore_ 24\n _CAP. XV. Dell\u2019inganno ricevette il comune di Firenze\n _CAP. XVII Come la gente del Biscione cavalcarono\n _CAP. XVIII. Come i Romani andarono per guastare\n _CAP. XIX. Come il re Luigi ebbe Nocera_ 32\n _CAP. XX. Come fu sconfitto il conte di Caserta_ 33\n _CAP. XXI. La novit\u00e0 in Casole di Volterra_ 34\n _CAP. XXII. Come furono decapitati degli Ardinghelli\n _CAP. XXIII. Come gente del re di Francia fu sconfitta\n _CAP. XXIV. Come i Perugini assediarono Bettona_ 37\n _CAP. XXV. Come fu liberato Montecchio dall\u2019assedio\n _CAP. XXVI. Come i Perugini ebbono Bettona e arsonla,\n _CAP. XXVII. Come la citt\u00e0 d\u2019Agobbio s\u2019accord\u00f2\n _CAP. XXVIII. Come ser Lallo s\u2019accord\u00f2 con il re Luigi\n _CAP. XXIX. Come i Perugini e\u2019 Fiorentini tornarono\n _CAP. XXX. Come gli ambasciadori de\u2019 tre comuni di\n Toscana tornarono dall\u2019imperadore senza accordo_ 43\n _CAP. XXXI. Come l\u2019arcivescovo cercava pace co\u2019 Toscani_ 44\n _CAP. XXXII. Come il prefetto da Vico fu fatto signore\n _CAP. XXXIV. Come la gente del Biscione assediarono\n _CAP. XXXV. Come i Fiorentini soccorsono Barga e\n _CAP. XXXVI. Come si difese il borgo d\u2019Arezzo per\n _CAP. XXXVII. D\u2019un segno mirabile ch\u2019apparve_ 49\n _CAP. XXXVIII. Come i Tarlati arsono il borgo di\n _CAP. XXXIX. Come gli usciti di Montepulciano venuti\n alla terra ne furono poi cacciati_ 52\n _CAP. XL. Come fra Moriale fu assediato, e rendessi\n _CAP. XLI. Come i Fiorentini fornirono Lozzole_ 54\n _CAP. XLII. Maraviglie fatte a Roma per una folgore_ 56\n _CAP. XLIII. Come mor\u00ec papa Clemente sesto, e di sue\n _CAP. XLIV. Come fu fatto papa Innocenzio sesto_ 59\n _CAP. XLV. Come usciti di prigione i reali del Regno\n _CAP. XLVI. Di novit\u00e0 state in Sangimignano_ 61\n _CAP. XLVII. Come i comuni di Toscana mandarono\n solenni ambasciadori a Serezzana a trattare pace_ 63\n _CAP. XLVIII. Di grandi tremuoti vennono in Toscana\n _CAP. XLIX. Come i Sanesi andarono a oste a Montepulciano_ 65\n _CAP. L. Come Gualtieri Ubertini fu decapitato_ 66\n _CAP. LI. Come il duca d\u2019Atene assedi\u00f2 Brandizio_ 67\n _CAP. LII. Come i Perugini feciono pace co\u2019 Cortonesi_ 68\n _CAP. LIII. Come il popolo di Gaeta uccisono dodici\n loro cittadini per la carestia ch\u2019aveano_ 69\n _CAP. LIV. Come il papa volle trattare pace da\u2019 Genovesi\n _CAP. LV. Come i Fiorentini osteggiaro Sangimignano,\n _CAP. LVI. Come in Italia fu generale carestia_ 72\n _CAP. LVII. Come i Romani uccisono colle pietre Bertoldo\n _CAP. LVIII. Come fu tagliata la testa a Bordone\n _CAP. LIX. Come si pubblic\u00f2 la pace dall\u2019arcivescovo\n _CAP. LX. L\u2019inganno ricevette il comune di Firenze\n _CAP. LXI. Di questa medesima materia_ 79\n _CAP. LXII. Come messer Piero Sacconi de\u2019 Tarlati\n tent\u00f2 di fare grande preda innanzi che fosse\n _CAP. LXIII. Come il corpo di messer Lorenzo Acciaiuoli\n fu recato del Regno a Firenze, e seppellito a\n Montaguto a Certosa onoratamente_ 81\n _CAP. LXIV. Come si fe\u2019 l\u2019accordo da\u2019 Sanesi a Montepulciano_ 83\n _CAP. LXV. D\u2019una notabile grandine venuta in Lombardia,\n _CAP. LXVI. Come sotto le triegue procedettono le\n _CAP. LXVII. Come i Genovesi spregiarono la pace\n _CAP. LXVIII. Come i Veneziani si provvidono_ 87\n _CAP. LXIX. Come fu guasto il castello di Picchiena,\n _CAP. LXX. Come Ruberto d\u2019Avellino fu morto dalla\n _CAP. LXXI. Come furono cacciati i ghibellini del Borgo_ 90\n _CAP. LXXII. Di quattro leoni di macigno posti al\n _CAP. LXXIII. Come Sangimignano fu recato a contado\n _CAP. LXXIV. D\u2019un segno apparve in cielo_ 94\n _CAP. LXXV. Come fu assediata Argenta_ 94\n _CAP. LXXVI. Come si temette in Toscana di carestia_ 96\n _CAP. LXXVII. Come in Messina fu morto il conte\n Mazzeo de\u2019 Palizzi a furore, e la moglie e due figliuoli_ 97\n _CAP. LXXVIII. Come fu creato nuovo tribuno in Roma_ 99\n _CAP. LXXIX. Come furono sconfitti in mare i Genovesi\n _CAP. LXXX. Come i Catalani perderono loro terre\n _CAP. LXXXI. Come il prefetto venne a oste a Todi_ 107\n _CAP. LXXXII. Come fu presa e lasciata Vicorata_ 108\n _CAP. LXXXIII. Come il conte di Caserta si rubell\u00f2 dal\n _CAP. LXXXIV. Come il cardinale legato venne a Firenze_ 111\n _CAP. LXXXV. Rinnovazione del palio di santa Reparata_ 112\n _CAP. LXXXVI. Come i Genovesi si misono in servaggio\n _CAP. LXXXVII. Come i Pisani feciono confinati_ 115\n _CAP. LXXXVIII. Come i Sanesi ruppono i patti a\n _CAP. LXXXIX. Come si cominci\u00f2 la gran compagnia\n _CAP. XC. Dice de\u2019 leoni nati in Firenze_ 119\n _CAP. XCI. Come i Romani si dierono alla Chiesa di\n _CAP. XCII. Le novit\u00e0 seguite in Pistoia_ 121\n _CAP. XCIII. Come l\u2019arcivescovo richiese di pace i\n _CAP. XCIV. Come i Veneziani ordinarono lega contro\n _CAP. XCV. Come il conestabile di Francia fu morto_ 124\n _CAP. XCVI. Come si cominci\u00f2 la rocca in Sangimignano,\n _CAP. XCVII. Del male stato dell\u2019isola di Sicilia_ 126\n _CAP. XCVIII. Come il legato del papa procedette col\n _CAP. XCIX. Come si rubell\u00f2 Verona al Gran Cane\n _CAP. C. Come messer Bernab\u00f2 con duemila barbute\n _CAP. CI. Come messer Gran Cane racquist\u00f2 Verona,\n _CAP. CII. Come messer Gran Cane riform\u00f2 la citt\u00e0\n di Verona, e fece giustizia de\u2019 traditori_ 136\n _CAP. CIII. Come fu deliberato per la Chiesa l\u2019avvenimento\n _CAP. CIV. D\u2019un gran fuoco ch\u2019apparve nell\u2019aria_ 139\n _CAP. CVI. Di certe rivolture di tiranni di Lombardia,\n e di pi\u00f9 cose per lo tradimento di Verona_ 144\n _CAP. CVII. Del processo della grande compagnia di\n _CAP. CVIII. Come il legato prese Toscanella_ 147\n _CAP. CIX. Come messer Malatesta si ricomper\u00f2 dalla\n _CAP. CX. D\u2019un fanciullo mostruoso nato in Firenze_ 151\n _CAP. CXI. Come furono cacciati i guelfi di Rieti e\n LIBRO QUARTO\n _CAP. I. Comincia il quarto libro, e prima il Prologo_ 153\n _CAP. II. Comparazione dal re Ruberto al re Luigi_ 154\n _CAP. III. Come gran parte dell\u2019isola di Cicilia venne\n _CAP. IV. Come l\u2019arcivescovo cominci\u00f2 guerra contro\n _CAP. V. Come il re d\u2019Ungheria pass\u00f2 con grande\n esercito contra un re de\u2019 Tartari_ 157\n _CAP. VI. De\u2019 grilli ch\u2019abbondarono in Barberia e poi\n _CAP. VII. D\u2019una notabile maraviglia della reverenza\n della tavola di santa Maria in Pineta_ 160\n _CAP. VIII. Come il vicario di Bologna mand\u00f2 l\u2019oste\n sopra Modena con due quartieri di Bologna_ 162\n _CAP. IX. Come il legato e i Romani guastarono il\n _CAP. X. Come il prefetto s\u2019arrend\u00e8 al legato liberamente_ 163\n _CAP. XI. Come il popolo di Bologna si lev\u00f2 a\n romore per avere loro libert\u00e0, e fu in maggiore\n _CAP. XII. Come fu tolta l\u2019arme al popolo di Bologna_ 168\n _CAP. XIII. Come il legato ebbe la citt\u00e0 d\u2019Agobbio_ 169\n _CAP. XIV. Come i Perugini non tennono fede a\u2019 Fiorentini\n _CAP. XV. Come procedettono i rettori di Firenze in\n questa sopravvenuta tempesta della compagnia di\n _CAP. XVI. Come si provvedde a Firenze contra la\n _CAP. XVII. Come fu morto messer Lallo_ 176\n _CAP. XVIII. Come il re di Spagna cacciata la non\n vera moglie coron\u00f2 la legittima_ 178\n _CAP. XIX. Come i collegati di Lombardia condotta\n la compagnia mandarono all\u2019imperadore_ 181\n _CAP. XX. Come i Bordoni furono cacciati di Firenze,\n _CAP. XXI. Come il re d\u2019Araona venne con grande\n _CAP. XXII. Come i Genovesi feciono armata contro\n _CAP. XXIII. Come il tribuno di Roma fece tagliare\n _CAP. XXIV. D\u2019una sformata grandine venuta a Mompelieri,\n _CAP. XXV. Come mor\u00ec l\u2019arcivescovo di Milano_ 189\n _CAP. XXVI. Come il tribuno di Roma fu morto a\n _CAP. XXVII. Come l\u2019imperadore Carlo venne in Lombardia_ 192\n _CAP. XXVIII. Come i tre fratelli de\u2019 Visconti di Milano\n furono fatti signori, e loro divise_ 194\n _CAP. XXIX. Come l\u2019imperadore stando a Mantova\n _CAP. XXX. Come furono presi i legni ch\u2019andavano\n _CAP. XXXI. Come si cominci\u00f2 guerra il Puglia tra loro._ 198\n _CAP. XXXII. Come i Genovesi sconfissono i Veneziani\n _CAP. XXXIII. Come Gentile da Mogliano diede fermo\n _CAP.XXXIV. Come il re d\u2019Araona ebbe la Loiera,\n _CAP. XXXV. Come i Pisani si diliberarono di mandare\n _CAP. XXXVI. Rottura della pace del re di Francia\n _CAP. XXXVII. Come un gatto uccise un fanciullo in\n _CAP. XXXVIII. Come l\u2019imperadore fe\u2019 fare triegua\n _CAP. XXXIX. Come l\u2019imperadore and\u00f2 a Moncia per\n _CAP. XL. Come il conte di Lando venne di Lombardia\n in Romagna con la gran compagnia_ 214\n _CAP. XLI. Come i Fiorentini per la venuta dell\u2019imperadore\n _CAP. XLII. Come il legato prese Recanati_ 217\n _CAP. XLIII. Come il capitano di Forl\u00ec venne in Firenze_ 218\n _CAP. XLIV. Come l\u2019imperadore Carlo giunse a Pisa_ 219\n _CAP. XLV. Come l\u2019imperadore band\u00ec parlamento in\n _CAP. XLVI. Come l\u2019imperadore di Costantinopoli racquist\u00f2\n _CAP. XLVII. Come i Matraversi di Pisa feciono muovere\n _CAP. XLVIII. Come procedettono i fatti in Pisa_ 224\n _CAP. XLIX. Come gli ambasciadori del comune di Firenze\n _CAP. L. Di novit\u00e0 stata in Montepulciano_ 226\n _CAP. LI. Come le sette di Pisa si pacificarono insieme_ 227\n _CAP. LII. Come Gentile da Mogliano si ritolse la citt\u00e0 di\n _CAP. LIII. Come gli ambasciadori de\u2019 Fiorentini e\u2019 Sanesi\n furono ricevuti dall\u2019imperadore_ 231\n _CAP. LIV. Come i Sanesi scopriro la loro corrotta fede\n _CAP. LV. De\u2019 falli commessi per lo comune di Firenze,\n e degl\u2019inganni ricevuti da\u2019 suoi vicini_ 235\n _CAP. LVI. Di molti Alamanni venuti alla coronazione\n _CAP. LVII. Di novit\u00e0 della Marca per Recanati_ 238\n _CAP. LVIII. Come la gran compagnia del conte di Lando\n _CAP. LIX. Come l\u2019imperadore and\u00f2 a Lucca_ 240\n _CAP. LX. Come al Galluzzo nacque un fanciullo mostruoso_ 241\n _CAP. LXI. De\u2019 fatti di Siena con l\u2019imperadore_ 242\n _CAP. LXII. Di pi\u00f9 imbasciate ghibelline state in presenza\n _CAP. LXIII. Come i Volterrani si dierono all\u2019imperadore_ 247\n _CAP. LXIV. Come i Samminiatesi si dierono all\u2019imperadore_ 248\n _CAP. LXV. Di disusato tempo stato nel verno_ 249\n _CAP. LXVI. Come il segreto giurato in Firenze fu\n _CAP. LXVII. Come l\u2019imperadore mand\u00f2 aiuto di gente\n _CAP. LXVIII. Trattati dall\u2019imperadore a\u2019 Fiorentini_ 253\n _CAP. LXIX. Raccolti falli de\u2019 governatori del comune di\n _CAP. LXX. Come a Firenze si fece il sindacato per\n _CAP. LXXI. Quello si fe\u2019 per alcuno cardinale per la\n _CAP. LXXII. Come si ferm\u00f2 l\u2019accordo e\u2019 patti\n dall\u2019imperadore al comune di Firenze_ 259\n _CAP. LXXIII. Come i Fiorentini per mala provvedenza\n _CAP. LXXIV. Della statura e continenza dell\u2019imperadore_ 263\n _CAP. LXXV. Come si band\u00ec in Firenze l\u2019accordo con\n _CAP. LXXVI. I patti e le convenienze da\u2019 Fiorentini\n _CAP. LXXVII. Come fu offesa la libert\u00e0 del popolo di\n _CAP. LXXIX. Come la gran compagnia rub\u00f2 il Guasto\n _CAP. LXXX. Come l\u2019imperadore richiese di lega i Fiorentini,\n _CAP. LXXXI. Come si mut\u00f2 lo stato de\u2019 nove di Siena_ 275\n _CAP. LXXXIII. Il modo trov\u00f2 il comune di Firenze\n _CAP. LXXXIV. L\u2019ordine diede l\u2019imperadore agli Aretini_ 279\n _CAP. LXXXV. Come fu preso Montepulciano dalla casa\n _CAP. LXXXVI. Come il papa riprese in concistoro certi\n _CAP. LXXXVII. Di alcuna novit\u00e0 di Pisa per gelosia_ 283\n _CAP.LXXXVIII. Della gente che i Fiorentini mandarono\n _CAP. LXXXIX. Come l\u2019imperadore si part\u00ec da Siena_ 285\n _CAP. XC. Della gran compagnia ch\u2019era in Puglia_ 286\n _CAP. XCI. Come il gran siniscalco cambi\u00f2 sua fama in\n _CAP.XCII. Come l\u2019imperadore giunse a Roma_ 289\n TOMO SECONDO\n p. 36 v. 15 sbarrattati sbarattati\n \u2014 121 \u2014 19 uomini della uomini, della\nNota del Trascrittore\nOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo\nsenza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in\nfine libro sono state riportate nel testo.", "source_dataset": "gutenberg", "source_dataset_detailed": "gutenberg - Cronica di Matteo Villani, vol. II\n"}, +{"source_document": "", "creation_year": 1343, "culture": " Italian\n", "content": "VOL. V ***\n A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA\nLIBRO DECIMO\nCAPITOLO PRIMO.\n_Il Prologo._\nLa superbia, la quale prima nel cielo mostr\u00f2 la sua malizia, se nelle\nmenti terrene si trova non \u00e8 da maravigliare, considerato che l\u2019umana\nnatura indebilita per lo peccato del primo uomo \u00e8 ne\u2019 vizii inchinevole\ne pronta. Questo peccato quanto sia grave, e quanto sia in ira di\nDio, per lo suo fine l\u2019ha sovente mostrato; porne alcuno esempio in\nnostri ricordi forse non fia da biasimare, se non da coloro che per\nmorbidezza d\u2019animo sono amatori delle brevi leggende, o da coloro che\nper tema di spesa veggendo la moltitudine de\u2019 fogli non osano fare\nscrivere. Serse re d\u2019Asia, avendo avuto pi\u00f9 tempo nelle guerre prospera\ne felice fortuna, insuperbito, lo mare coperse di navi, e intra Sesto\ne Abido, due isolette di mare, per pomposa memoria di suo innumerabile\nesercito sopra le navi f\u00e8 ponte, e a riceverlo tutta la Grecia non\nparea sofficiente, n\u00e8 a ricevere n\u00e8 a pascere la sua brigata; e infine\nda poca gente vituperato e sconfitto, e in uno piccolo legno torn\u00f2 in\nsuo paese morta tutta sua gente. Sennacherib maravigliosamente esaltato\nper beneficio della ridente fortuna, con l\u2019animo altero mont\u00f2 sopra\nle stelle spregiando gli Dii, e massimamente quello degli Ebrei, come\nse fossono minori e meno possenti di lui; costui veggendo l\u2019esercito\nsuo tagliato, vilmente fugg\u00ec, e nel tempio degl\u2019Idoli suoi da\u2019 suoi\nproprii figliuoli vilmente fu tolto di vita. Dario re potentissimo, pi\u00f9\nvolte sconfitto dalla poca gente d\u2019Alessandro re di Macedonia, infine\nda\u2019 suoi propri congiurenti vilmente fu morto. Ciro re di Persia e di\nMedia, eccellentissimo di potenza....\n_Il codice Ricci \u00e8 mancante in questo luogo di una pagina, che dovrebbe\ncontenere il rimanente del Proemio, il capitolo secondo, e il principio\ndel terzo, e con mio sommo rincrescimento non son riescito a riempire\nquesta laguna col soccorso di un altro codice, poich\u00e8 non m\u2019\u00e8 stato\npossibile trovarne copia. La Biblioteca Riccardiana possiede tre\ncodici di Matteo Villani, e uno la Laurenziana, ma non oltrepassano\nil nono libro. Per supplire in qualche modo a questa laguna mi\nson servito d\u2019un\u2019Epitome fatta da Domenico Boninsegni delle storie\nfiorentine di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, che si conserva nella\nBiblioteca Laurenziana, e che un giorno faceva parte della Biblioteca\nMediceo-Palatina, segnato di num. 160._\nCAP. II.\n_Dell\u2019atto e rilevato stato della casa de\u2019 Visconti di Milano._\n\u00abPi\u00f9 era infocato che mai messer Bernab\u00f2 nell\u2019impresa di Bologna,\ne impuose e trasse da\u2019 cherici del suo tenitorio in tre mesi pi\u00f9 di\ntrecento migliaia di fiorini d\u2019oro, e da\u2019 secolari per nuova imposta\ncirca trecentosessanta migliaia di fiorini d\u2019oro; e venne in tanta\nsuperbia, forse per lo parentado fatto in Francia, che nessuno accordo\nsi pot\u00e8 trovare tra lui e \u2019l legato, n\u00e8 per il gran siniscalco n\u00e8\naltri, usando di dire, che non temeva potenza di signore terreno\nche gli potesse trarre Bologna di mano, e molto sparlando contra il\nlegato. Ma per lo contrario il legato ricorse all\u2019aiuto di Dio, e per\ncomandamento del papa a ogni prete d\u2019Italia fece fare in ogni messa\ndietro al _Pater noster_ speziale orazione de\u2019 fatti di Bologna, e\nmand\u00f2 al re d\u2019Ungheria per gente, ed ebbe da lui duemila Ungari bene\ncapitanati, e poi tremila di loro volont\u00e0, e subito furono in Lombardia\ne in Romagna al servigio del legato.\u00bb\nCAP. III.\n_Del pauroso e vile partimento dell\u2019oste di messer Bernab\u00f2 da Bologna._\n\u00abPer la venuta di questi Ungari, e per l\u2019operazione d\u2019Anichino di\nBongardo, entr\u00f2 paura alle genti di messer Bernab\u00f2 per modo che non\nubbidivano al capitano, e tutto d\u00ec si fuggivano; per la qual cosa al\ncapitano\u00bb montata la paura, vedendo partire l\u2019un l\u2019altro, e non sapendo\nil perch\u00e8, ch\u00e8 per la forza e autorit\u00e0 che \u2019l capitano avesse non gli\npotea ritenere; onde vedendosi il capitano a questo pericolo richiese\nAnichino che lo accompagnasse infino valicato Bologna verso Modena, e\navuta la compagnia, volendo da s\u00e8 fare buona condotta, fu costretto da\u2019\nvili d\u2019andarsene di notte sconciamente abbandonato il campo con assai\nfornimento e arnesi, e campati per lo beneficio della notte valicarono\nCastelfranco, ove s\u2019arrestarono per non parere rotti, e ivi la mattina\nfermarono il campo; e stativi pochi d\u00ec, il primo d\u2019ottobre valicarono\na Modena, e tornarsi con gli orecchi bassi al loro signore, il quale\nquasi arrabbiato pi\u00f9 d\u00ec stette rodendo in s\u00e8 medesimo il suo orgoglioso\nfurore, acciocch\u00e8 riposatamente ai forestieri dimostrasse, ch\u2019alla\nfesta si ragunavano, per magnanimit\u00e0 questa cosa avere per niente,\ned essere intervenuto per lo peggiore del legato, come di sua bocca a\nmolti pronunzi\u00f2.\nCAP. IV.\n_Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite._\nSentito in Bologna la vile partita dell\u2019oste di messer Bernab\u00f2, tutto\nche ancora del tutto non fosse del Bolognese partito, il popolo prese\ncuore, e per lo essere tenuto affamato, furioso, giusta la sentenza\ndi Lucano che dice, che il popolo digiuno non sa che sia il temere,\nstraboccatamente e senza aspettare condotta o regola usc\u00ec di Bologna,\ne con grand\u2019ardire assal\u00ec la bastita che guardava verso Romagna, e\nquella aspramente combattendo e con grida ch\u2019andavano al cielo ebbono\nper forza, e tagliati e fediti molti di quelli ch\u2019erano alla difesa\nla rubarono e arsono, e con quell\u2019empito e gloria corsono ad altre\ndue, e per simile modo l\u2019ebbono, rubarono e arsono. Quando giunsono\na quella di Casalecchio in sul Reno trovarono il becco pi\u00f9 duro a\nmugnere, perocch\u00e8 era ben guernita di gente da pi\u00e8 e da cavallo, e dato\ndi cozzo in essa con loro dammaggio si ritornarono a Bologna, nullo\nassedio lasciato alla bastita: onde que\u2019 d\u2019entro scorreano fino alle\nporti di Bologna facendo danni, nondimanco aperti i cammini di Romagna\ncominciarono a venire della roba a Bologna; e dagli Ungheri i quali\nalloggiati erano fuori della citt\u00e0 tenuti erano a freno quelli della\nbastita da Casalecchio, e in Romagna s\u2019apparecchiava grande carreggio e\nsalmeria di vittuaglia per conducere in Bologna alla venuta del legato.\nCAP. V.\n_Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli ambasciadori del re\nd\u2019Ungheria._\nIn questo mese di settembre furono in Firenze tornati di corte di\nRoma gli ambasciadori del re d\u2019Ungheria, e andaronne al re, avendo\nimpromesso al papa, in quanto il bisogno occorresse, che la persona del\nre d\u2019Ungheria verrebbe incontro al signore di Milano con patto, che\nci\u00f2 che egli acquistasse delle terre de\u2019 detti signori, fossero sue\ned egli avea fatto dire al papa che con meno di diecimila cavalieri\nnon potrebbe venire, ed era in accordo d\u2019avere ogni mese fiorini\nquarantamila d\u2019oro, de\u2019 quali dovea avere dalla lega de\u2019 Lombardi sotto\nil titolo di Genovesi fiorini sedicimila, e fiorini quattordicimila\ndovea pagare il legato traendoli della Marca e del Ducato, del\nPatrimonio e di Romagna, e diecimila ne dovea mettere la camera del\npapa. La cosa fu divolgata per tutto, ma i signori di Milano poco se ne\ncuravano, s\u2019altra fortuna non avesse barattata loro intenzione.\nCAP. VI.\n_Dell\u2019avvenimento del legato a Bologna._\nPartita l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 dall\u2019assedio di Bologna, il legato\nfatto conducere di Romagna in Bologna molta vittuaglia, e fatta\nla condotta degli Ungheri, col grande siniscalco del Regno, e con\nmesser Malatesta e altri valenti uomini della Romagna e della Marca,\nall\u2019entrata d\u2019ottobre del detto anno entr\u00f2 in Bologna, dove da\u2019\nBolognesi fu ricevuto a gran festa e onore, e prestamente intese a\nordinare e riformare e la guardia e il reggimento della citt\u00e0, e i\nfatti della guerra contro a\u2019 nemici suoi, non come prelato, ma come\nesperto e ammaestrato capitano di guerra cominci\u00f2 a trattare, come\nconseguendo l\u2019opere sue ne dimostreranno.\nCAP. VII.\n_Cominciamento della nuova compagnia d\u2019Anichino di Bongardo Tedesco._\nLevatasi la gente di messer Bernab\u00f2 del distretto di Bologna, Anichino\ndi Bongardo Tedesco, non senza infamia d\u2019avere maculata sua fede,\nall\u2019entrata d\u2019ottobre s\u2019accolse a Salaruolo presso di Faenza a tre\nmiglia con ottocento barbute e trecento Ungheri, ricettato dal legato,\ne datoli vittuaglia; e s\u00ec avea il legato circa a milledugento barbute\ne quattromila Ungheri da poterlo prendere o cacciarlo di suo paese,\nper la qual cosa assai fu manifesto che il legato per nuovo servigio\ngli fosse obbligato: e avvegnach\u00e8 assai fosse segreto, egli stette\ntanto a Salaruolo, che pagati gli furono quattordicimila fiorini,\novvero genovini d\u2019oro; il perch\u00e8 egli tantosto crebbe sua compagnia\ne di Tedeschi e masnadieri, e di volont\u00e0 del legato a mezzo ottobre\ncavalc\u00f2 il contado de\u2019 conti d\u2019Urbino; appresso entr\u00f2 nella Ravignana,\ne di l\u00e0 valic\u00f2 ad Ascoli del Tronto in servigio della Chiesa per certa\nrivoltura fatta in quella citt\u00e0 contro al legato, e stettono alquanti\nd\u00ec nel paese, e poi di novembre valicarono il Tronto, e arrestaronsi\nnel paese verso Lanciano, ove soffersono lungamente gran disagio,\ncome al suo tempo diremo. Stando in questa compagnia nel numero di\nduemila cinquecento tra Ungheri e Tedeschi, e molti fanti a pi\u00e8 nella\nRavignana, e dando boce di valicare da Firenze, i Fiorentini ne tennono\nconsiglio, e infine deliberaro di provvedersi alle difese, e imposono\nper legge personale a chi consigliasse, trattasse o parlasse occulto\no palese del prender accordo alcuno con la detta compagnia: e ci\u00f2 fu\nassai utile cagione e materia a tutti i Toscani, perocch\u00e8 le compagnie\nvanno cercando chi fugga e fannone preda, e fuggono le resistenze,\nperocch\u00e8 dove e\u2019 le trovano non possono durare, n\u00e8 trarne furtivo\nguadagno.\nCAP. VIII.\n_La rivoltura d\u2019Ascoli della Marca_\nAscoli della Marca era all\u2019ubbidienza del legato, e Leggieri\nd\u2019Andreotto di Perugia v\u2019era alla guardia per la Chiesa, e di fuori\nn\u2019erano ribelli l\u2019arcidiacono e messer Filippo.... con altri molti di\nloro animo e volere; costoro del mese di settembre detto anno accolta\ngente in loro aiuto rientrarono nella citt\u00e0, e trovando il seguito\nd\u2019assai cittadini corsono alle case de\u2019 loro nemici, e uccisonne\nventidue; gli altri che poterono campare s\u2019uscirono della terra, e\nLeggieri d\u2019Andreotto fu preso, e tanto ritenuto, che quivi fece dare\nla fortezza che v\u2019era per la Chiesa, dicendo che teneano la citt\u00e0\nall\u2019ubbidienza di santa Chiesa, ma che voleano potere stare sicuri\nin casa loro. La novella forte dispiacque al legato, e pensossi con\nla compagnia d\u2019Anichino farla tornare al suo volere, ma i tornati in\nAscoli di quella poca cura pigliavano; il legato come savio e astuto\ns\u2019infinse di non se n\u2019avvedere, perch\u00e8 mostrando cruccio non si\nmettessono a pi\u00f9 grave ribellione.\nCAP. IX.\n_Come a petizione del legato fu preso messer Ridolfo da Camerino._\nAll\u2019uscita d\u2019ottobre detto anno, messer Ridolfo da Camerino essendo\nstato principio col suo consiglio e con le savie e sollecite operazioni\ndi sua persona di vincere e riducere i Malatesti all\u2019ubbidienza del\nlegato, ed appresso continovato intorno a\u2019 fatti di santa Chiesa\noperazioni leali e degne di merito, tanto seppe operare messer\nMalatesta, ch\u2019era divenuto il pi\u00f9 segreto consiglio ch\u2019avesse il\nlegato, che ritornandosi messer Ridolfo da Bologna a Camerino, e\ncapitato nella citt\u00e0 di Fermo, invitato da messer Giovanni da Oleggio\nmarchese della Marca, e fattali allegra accoglienza, come ebbe\nmangiato, prendendo da lui messer Ridolfo congio, fugli detto ch\u2019era\nprigione, dicendoli messer Giovanni, che ci\u00f2 gli convenia fare contra\nsuo grado per mandato del legato, e mostr\u00f2 le lettere che mandate gli\navea. Il valoroso cavaliere messer Ridolfo niente per tale presura\nsbigottito, il fece di presente sapere a\u2019 suoi, dicendo, ci\u00f2 essere\nsenza niuna sua colpa, e confortando che di lui nessuna minima cura\nprendessono, e che n\u00e8 per minacce n\u00e8 per tormenti, n\u00e8 per morte che\na lui data fosse, n\u00e8 di loro terre n\u00e8 di loro giurisdizione dovessono\ndare per ricomperare la vita sua, e ci\u00f2, come cara avessono la grazia\nsua. I fratelli teneri di tanto uomo, e ubbidienti a lui, con i sudditi\nloro feciono consiglio, i quali loro offersono quarantamila fiorini\ni quali di presente impuosono tra loro, e fornirsi di gente d\u2019arme, e\nintesono a buona guardia, e al legato mandarono ambasciadori per sapere\nche ci\u00f2 volea dire. Di tale presura il legato forte fu biasimato da\ntutta maniera di gente, e quale che si fosse il suo movimento, altro\nnon se ne manifest\u00f2 che detto sia, ma valicato il mese di sua presura\nil legato il f\u00e8 diliberare: messer Ridolfo senza tornare al legato\nsdegnoso e pieno d\u2019ira e di mal talento si torn\u00f2 a Camerino.\nCAP. X.\n_Del maestrevole processo del legato co\u2019 suoi Ungari in questo tempo._\nEra, come addietro \u00e8 detto, capitano degli Ungari il maestro Simone\nconte, e il legato avea condotto con tremila Ungari, e gli altri\nUngari con alcuna provvisione nutricava: il maestro Simone in segreto\ncon gli Ungari ch\u2019erano di fuori s\u2019intendea e con quelli ch\u2019erano\nseco, e come era con loro fuori di Bologna gli mantenea quasi in\ndiscordia col legato rubando i Bolognesi come nemici, e facea alla sua\ngente usare parole, nelle quali lodavano messer Bernab\u00f2, e dicevano\ns\u00e8 essere al servigio suo, biasimando il legato: per tale astuzia\nsi divolg\u00f2 per tuttoch\u00e8 gli Ungari erano rivolti dal servigio della\nChiesa. E continovando la cosa in questa contumacia, e messer Bernab\u00f2\nveggendosi avere fatte disordinate spese nella guerra, e vedendosi al\ncominciamento del verno, cominci\u00f2 a cassare de\u2019 suoi cavalieri, i quali\nnel suo paese s\u2019accoglieano col grido di fare compagnia; e maestro\nSimone con i suoi Ungari scorreano in preda in guisa di compagnia,\nsenza gravare i paesani come nemici: e nondimeno il legato mantenea\nl\u2019oste alla bastita di Casalecchio, e mostrava di volere rivocare gli\nUngheri a s\u00e8 per la fede avea avuta dal re d\u2019Ungheria, e mostrava\ndi mandare lettere perch\u00e8 il re rinfrenasse gli Ungheri, che non\ntrasandassono contro a santa Chiesa.\nCAP. XI.\n_Come s\u2019ebbe per i Bolognesi la bastita di Casalecchio sopra il Reno. _\nEssendo la bastita fatta per l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 sopra il Reno\nluogo detto Casalecchio lungamente tenuta in grande confusione de\u2019\nBolognesi, avendo per quella tolta l\u2019acqua delle mulina di Bologna, ed\nessendo presso alla terra luogo forte e ben fornito, facea continua\ne tediosa guerra infino alle porti. Partita l\u2019oste del Biscione,\nnon potendola i Bolognesi avere per battaglia, l\u2019assediarono, e\nsopravvenendo i difetti dentro, e non essendo soccorsi da messer\nBernab\u00f2, furono costretti d\u2019arrendersi, e fatto il patto salvo le\npersone, a d\u00ec 11 di novembre detto anno s\u2019arrend\u00e8, e gli Ungari pronti\ne con pi\u00f9 forza la presono, e mostrarono di volerla tenere per loro\ncontro la volont\u00e0 del legato; e mostrandosi la riotta grande tra il\nlegato e gli Ungari per la bastita, il legato fece venire lettere dal\nre a maestro Simone comandandoli che rendesse la bastita al legato,\ne che non si partisse dal suo volere. E fatto questo comandamento la\nbastita fu renduta a\u2019 Bolognesi, e maestro Simone di nuovo condotto\ncon mille Ungari, e gli altri furono licenziati; e partitisi di l\u00e0 per\nfare compagnia, arrestandosi tra Bologna e Imola, avendo la vittuaglia\ndal legato: e fatta questa dissensione, messer Bernab\u00f2 prese fidanza,\ne cass\u00f2 pi\u00f9 di sua gente, sicch\u00e8 al bisogno non pot\u00e8 riparare agli\nUngari, come seguendo nostro trattato diviseremo.\nCAP. XII.\n_ La venuta a Giadra del re d\u2019Ungheria e della moglie._\nIn questi tempi lo re d\u2019Ungheria non potendo avere figliuoli della\nreina sua moglie, alla quale portava grande amore, avvegnach\u00e8 figliuola\nfosse d\u2019un suo suddito barone, a lui e a tutto il regno ne parea male,\nche trascorresse il tempo senza speranza d\u2019avere successore e di lui\nerede nel regno. E la moglie medesima per l\u2019amore che portava al re\nn\u2019era in afflizione, e ben disposta di fare ci\u00f2 che piacesse di s\u00e8 e\nch\u2019ella potesse perch\u00e8 al suo signore non mancasse rede, sentendosi in\nistato da non potere portare figliuoli, e per questa cagione si disse\npalese che il re e la reina erano venuti a Giadra, e l\u00e0 dimorarono\nparecchi mesi facendo edificare un grande e nobile munistero a onore\ndi santo..... nel quale si dicea che dovea con la dispensazione di\nsanta Chiesa entrare la reina in abito e stato monachile, e lo re dovea\npotere torre altra donna. Se ci\u00f2 fu vero, l\u2019amore della donna lo vinse,\ne solo la fama della volont\u00e0 rimase.\nCAP. XIII.\n_La presa di Gello fatta per quelli di Bibbiena, e la compera ne fece\npoi il comune._\nGello \u00e8 un bello castelletto presso a Bibbiena a due miglia, e possiede\nbuoni terreni. Messer Luzzi figliuolo bastardo di messer Piero Tarlati\nl\u2019avea lungo tempo occupato all\u2019abate di Magalona, e rispondevali\ncerta cosa per anno. I fedeli occupati vedendo loro tempo per uscire\ndi servaggio, diedono il castello a coloro ch\u2019erano in Bibbiena per\ni Fiorentini all\u2019entrata del mese di novembre, e accomandaronsi al\ncomune. Messer Luzzi in questo d\u00ec era accomandato de\u2019 Sanesi, i quali\nmandarono ambasciadori a Firenze, e tanto operarono, che \u2019l comune\na d\u00ec 15 di gennaio detto anno per riformagione di consigli diedono a\nmesser Luzzi per compera del castello di Gello fiorini milledugento, ed\negli fece consentire all\u2019abate; e le carte fece ser Piero di ser Grifo\nnotaio delle riformagioni del comune di Firenze.\nCAP. XIV.\n_Come il comune di Firenze mand\u00f2 ambasciadori al legato e a messer\nBernab\u00f2 per trattare accordo._\nEssendo l\u2019impresa di Bologna barattata nelle mani di messer Bernab\u00f2\nper altro modo che non istimava, e ripiena d\u2019Ungheri la Lombardia,\nil comune di Firenze avvisando che tempo fosse atto a trovare via\nd\u2019accordo, mand\u00f2 di novembre di detto anno a smuovere il legato a\nlasciare trovare modo alla concordia, lo quale trovarono in vista e\nnelle parole bene disposto, e per\u00f2 andarono a Milano a messer Bernab\u00f2,\ne cercato pi\u00f9 volte di poterli parlare, non poterono da lui in Milano\navere udienza, perocch\u00e8 la notte innanzi mattutino messer Bernab\u00f2 era\na cavallo e andava alla caccia, e la sera tornava tardi, e non dava\nudienza, perch\u00e8 convenne che la notte il seguitassono sponendo loro\nambasciata, e cavalcando forte il signore senza arrestarsi, e non\ndi meno parea desse speranza al trovare de\u2019 modi; e cos\u00ec segu\u00ec pi\u00f9\nd\u00ec senza avere udienza altro che cavalcando, sopravenne quello, che\nil legato tratt\u00f2 co\u2019 suoi Ungheri, come appresso diviseremo; per la\nqual cosa sdegnato messer Bernab\u00f2 non volle pi\u00f9 udire da quella volta\ninnanzi gli ambasciadori di Firenze, e senza onore si ritornarono al\nloro comune.\nCAP. XV.\n_Come il legato mand\u00f2 gli Ungari sopra la citt\u00e0 di Parma._\nIl valente legato conoscendo l\u2019animo di messer Bernab\u00f2 niuna fede\nprendea di lui, e avendo lungamente dimostrato discordia con gli\nUngheri come narrato avemo, e sentendo inverso Reggio mille barbute\ncasse da messer Bernab\u00f2, con l\u2019aiuto di messer Feltrino da Gonzaga\nper certa provvisione le condusse, e improvviso a tutti in una notte\nfece pagare per certo tempo gli Ungari ch\u2019avea cassi e quelli ch\u2019avea\ncondotti, e mostrando d\u2019andarsene gli Ungari di verso Ferrara, avendo\navuta la licenza del passo, si rivolsono, e valicarono Modena e Reggio,\ne furono prima in sul Parmigiano, ch\u2019alcuna novella n\u2019avessono avuta\ni paesani, e per questo improvviso corso feciono di bestiame grosso e\nminuto preda senza misura. E appresso agli Ungari vi mand\u00f2 il legato\nmesser Galeotto con mille barbute, e a lui feciono capo l\u2019altre mille\ncondotte a Reggio per modo di compagnia, valicarono la Fossata, e poi\nil fiume della Parma, e stettono in larga preda pi\u00f9 di venticinque d\u00ec,\nperocch\u00e8 per comandamenti di messer Bernab\u00f2 il paese non era lasciato\nsgombrare. La stanza e la ritornata fu senza contasto, e a Bologna\nsi ritornarono a d\u00ec 11 di dicembre, con fama d\u2019avere avuti danari da\nmesser Bernab\u00f2; per la qual cosa il capitano degli Ungari tornato poi\nin Ungheria dal suo signore fu messo in prigione.\nCAP. XVI.\n_Della presura del conte da Riano._\nIl re Luigi avendo sentito come Anichino di Bongardo con la sua\ncompagnia s\u2019avviava nel Regno, o che \u2019l conte da Riano gli fosse di\nci\u00f2 infamato, o ch\u2019egli avesse sospetto di lui, lo fece mettere in\nprigione, con minacce di farli torre la persona. Il conte si sentia\nsenza colpa, e non temea, confidandosi nella verit\u00e0, e nel grande\nparentado che avea con i maggiori baroni del Regno, i quali riprendeano\nil re di quella presura, per la quale non piccola dissensione era nel\nreame, e per l\u2019aspetto della compagnia, e ancora perch\u00e8 il duca di\nDurazzo non si fidava del re; e il gran siniscalco si stava a Bologna,\ne mostrava non curarsi di ritornare nel Regno, accortosi che \u2019l re\navea troppa fede data ai baroni ch\u2019erano a lui in contradio. Lo re non\nera sano, e il prenze perduto per le donne e per lo vino dalla cintura\nin su, e per queste cagioni il re sollecitava con lettere il gran\nsiniscalco che tornasse a lui, ed egli sostenea per soccorrere al tempo\ndel gran bisogno, e per fare ricredenti gli avversari suoi, come poscia\naddivenne.\nCAP. XVII.\n_Come la compagnia d\u2019Anichino sostenne fame all\u2019entrata del Regno._\nAnichino di Bongardo con la sua compagnia essendo valicato nel\nRegno, tentato l\u2019andare all\u2019Aquila, e trovato i passi forniti alla\ndifesa, fu costretto arrestarsi del mese di novembre, essendo i passi\nstretti e male agiati di vittuaglia, verso Lanciano, per la qual cosa\nsoffersono gran fame e assalto a\u2019 passi da\u2019 paesani, onde in quel\nluogo perderono circa a ottocento tra cavalieri ungari e masnadieri;\ne non potendo in quel paese acquistare se non fame, presono la via di\nverso la Puglia, e all\u2019entrata di dicembre furono in Giulianese: le\nterre trovarono afforzate e sgombro il paese, sicch\u00e8 poco di preda vi\npoterono avanzare, nondimeno gli Ungari e i soldati cassi nel paese di\nl\u00e0 seguivano la compagnia sentendosi entrare nel Regno, e accrescevanle\nforza.\nCAP. XVIII.\n_Come messer Cane Signore rimand\u00f2 la moglie che fu di messer Cane\nGrande al marchese di Brandisborgo._\nMorto messer Gran Cane dal fratello, e tornato messer Cane Signore\nin Verona, presa la signoria dopo il lamento fatto della morte del\nmarito, la donna che fu di messer Gran Cane sirocchia del marchese\ndi Brandisborgo con disonesta fama di messer Cane Signore lungamente\ncontro suo volere fu ritenuta in Verona. E in quei giorni addivenne,\nch\u2019a un parlamento fatto dai principi d\u2019Alamagna con l\u2019imperadore, il\nmarchese di Brandisborgo si dolse dell\u2019oltraggio fatto alla sirocchia\nper messer Cane Signore; onde dall\u2019imperadore e dagli altri principi\nd\u2019Alamagna fu confortato ch\u2019attendesse a vendicare sua ingiuria,\npromessogli fu in ci\u00f2 loro aiuto. Come ci\u00f2 pervenne agli orecchi\ndi messer Cane Signore cagione gli fu di rendere la donna, la quale\nrimand\u00f2 del mese di novembre detto anno con quello onore e con quella\ncompagnia ch\u2019a lui piacque infino fuori de\u2019 suoi confini, e quivi\ntrovato di sua gente che gli si faceano incontro la lasciarono, udendo\nminacce grandi contro al signore loro. Il detto duca fece partire di\nsuo paese tutti i sudditi del signore di Verona, e a tutti vietare le\nfiumane e\u2019 passi come a suoi nimici.\nCAP. XIX.\n_Come la compagnia d\u2019Anichino di Bongardo prese Castello san Martino._\nEssendo di Giulianese entrata la compagnia nel distretto del duca\ndi Durazzo, avendo difetto di pane, e mostrandolo maggiore, quelli\ndi Castello san Martino essendo molto forniti di vittuaglia, per\ningordigia del prezzo i villani di quello cominciarono a vendere\nil pane un gigliato. La gente d\u2019arme maliziosa e cauta, veggendo i\nvillani allargarsi all\u2019esca del danaio, mandavano a uno e a due nel\ncastello insieme con le mani piene di gigliati a comperare del pane, ed\neglino si stanziavano di fuori senza fare alcuna guerra al paese; onde\navvenne, che dimesticata la gente matta e avara, per potere vendere pi\u00f9\ndel pane lasciarono entrare nel castello degli uomini della compagnia,\ni quali dato segno a quelli di fuori furono di subito alla porta, e\ncon quelli d\u2019entro cominciarono la mischia, e cacciarono le guardie\ndalla porta, e misono dentro la compagnia, facendo per ci\u00f2 sussidio\ngrande al loro stremo bisogno, ch\u2019erano nel dicembre, e per loro non\ntrovavano pane n\u00e8 strame per i cavalli, e nel castello abbondantemente\nne trovarono, e pertanto gran parte del verno vi dimorarono sovente\ncavalcando il paese, e riducendosi all\u2019ostellagione senza costo loro\ncon le prede faceano nel paese.\nCAP. XX.\n_Come il re d\u2019Araona di\u00e8 per moglie la figliuola a don Federigo di\nCicilia._\nDel mese di novembre detto anno, lo re d\u2019Araona diliber\u00f2 di dare per\nmoglie a don Federigo figliuolo di don Piero di Cicilia la figliuola,\ne a d\u00ec 27 di dicembre seguente giunse nell\u2019isola di Cicilia con\nquattordici galee ben armate, e fatto porto a Cattania, dove il giovane\nre facea suo dimoro, ricevuta la donna con quella festa che far le pot\u00e8\nsecondo il suo povero stato la dispos\u00f2; e pensandosi che le galee de\u2019\nCatalani facessono guerra a Messina e all\u2019altre terre del re Luigi,\nsenza arresto alcuno fornita la festa delle nozze se ne ritornarono in\nCatalogna.\nCAP. XXI.\n_Come messer Bernab\u00f2 si provvedde per avere gente, nuova per\nguerreggiare Bologna._\nMesser Bernab\u00f2 mostr\u00f2 di non curarsi dell\u2019avvenimento degli Ungheri\ne de\u2019 Tedeschi che alquanto del verno stettono sopra le terre sue,\nanzi scrisse al legato parole di scherno, volendo mostrare, che quello\nche fatto avea tornerebbe tosto in sua confusione. E a certi suoi\nconfidenti mostr\u00f2 un grandissimo tesoro accolto di nuovo senza toccare\nquello della camera sua, il quale passava il numero di secento migliaia\ndi fiorini, i quali affermava s\u00e8 avere diputati per vincere la gara di\nBologna. E per ci\u00f2 cominciare e con danari e con doni mand\u00f2 il conte\ndi Lando in Alamagna a sommuovere baroni e cavalieri a sua provvisione\nper averli al primo tempo; il quale trovando che per l\u2019imperadore e per\nlo doge d\u2019Osteric, e per lo marchese di Brandisborgo, e per gli altri\nprincipi d\u2019Alamagna fatto era comandamento, che niuno arme prendesse\ncontro a santa Chiesa, del mese d\u2019aprile seguente torn\u00f2 con dieci\nbandiere di ribaldi, i quali per non avere che perdere non curarono i\ncomandamenti de\u2019 loro signori, golando il soldo di messer Bernab\u00f2. Ora\nnel processo nostro per lo verno dando sosta all\u2019altre fortune ci si\napparecchia a narrare cosa spiacevole alla nostra citt\u00e0 di Firenze, e\nall\u2019altre citt\u00e0 a lei vicine.\nCAP. XXII.\n_Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del Regno venne in\nFirenze, e della novit\u00e0 che per sua venuta ne seguio._\nMesser Niccola Acciaiuoli fatto per lo legato conte di Romagna e del\nsuo segreto consiglio, sollicitato dal re Luigi co\u2019 comandamenti, e da\u2019\nFiorentini e dagli altri comuni di Toscana procacciava aiuto contro\nalla compagnia d\u2019Anichino; onde egli fatto vececonte in Romagna, e\nprovveduto d\u2019uficiali alle terre commesse al suo governo per santa\nChiesa, a d\u00ec 9 di dicembre venne a Firenze, dove da\u2019 parenti e dagli\namici, e dagli altri cittadini discreti e da bene a grande onore\nfu ricevuto. Lo suo dimoro e portamento nella citt\u00e0 era onesto e di\nbella maniera, mettendo ogni d\u00ec tavola cortesemente, e senza alcuna\nburbanza, chiamando i cittadini, e i grandi, e i popolari alla mensa,\nonorandoli successivamente: e cos\u00ec stando in Firenze, con ogni onesta\nsollecitudine che potea procacciava di fornire il comandamento del\nsuo signore, e richiedeva sovente con riverenza i suoi signori priori\ne collegi d\u2019aiuto, e simile in spezialit\u00e0 gli altri cittadini che\nin ci\u00f2 gli prestassono favore. E in questo stante novit\u00e0 occorsono\nnella nostra citt\u00e0, che tutta la terra puosono in confusione, come nel\nseguente capitolo diremo.\nCAP. XXIII.\n_Come per sospetto nato nella citt\u00e0 di Firenze di messer Niccola\nindegnamente egli ne ricevette vergogna._\nAnichino di Bongardo, com\u2019\u00e8 di sopra scritto, e con sua compagnia\nera passato nel regno di Puglia, con animo d\u2019offendere il re Luigi a\nsuo podere, il quale sollecitamente si dava a\u2019 ripari, il perch\u00e8 il\ngran siniscalco n\u2019era venuto a Firenze per avere aiuto, e promessa\navea avuta d\u2019avere trecento cavalieri; or come piacque alla fortuna\noccorse, ch\u2019al nuovo priorato, che trar si dovea per legge di comune,\nfar si dovea lo squittino nuovo de\u2019 priori e collegi, e fallare non\npotea che stando messer Niccola a Firenze o vicino non fosse priore,\nperocch\u00e8 nelle borse vecchie niuno v\u2019era rimaso se non egli, e delle\nnuove trarre non si potea se non si votasse le vecchie, ed egli a\nogni nuovo priorato era tratto, e rimesso per assenza: il caso che\nparea appensato, e l\u2019uomo per la grandezza sua nella citt\u00e0 per tema di\ntirannia verisimilmente sospetto, con assai colorata credenza facendo\ni governatori della citt\u00e0 fortemente sospettare, e mormorio n\u2019era tra\nloro, il quale per lo procaccio si stendea nel volgo, e se ne parlava\ne in piazza e a\u2019 ridotti, ma per quello che veramente sentimmo l\u2019animo\ndel nobile cavaliere della detta intenzione era tutto rimoto, e per\ntanto per quetare il mormorio sollecitava d\u2019avere la gente dell\u2019arme\nche il comune gli avea promessa, e proposto s\u2019era al tutto nell\u2019animo\nche se necessario caso l\u2019avesse ritenuto di renunziare l\u2019uficio.\nOccorse in quei giorni, che licenziandosi i nostri ambasciadori dal\nlegato di Spagna, il quale come di sopra \u00e8 scritto presa avea la\nsignoria di Bologna, ed egli avendo l\u2019uno di loro conosciuto per uomo\ngrave e intendente e d\u2019autorit\u00e0, e a cui molta fede era data nel suo\ncomune, avanti che a loro desse il congio, quel tale segretamente\nchiam\u00f2 nella camera sua, e datali la credenza, prima gli rivel\u00f2 come\ncertamente sentia che in Firenze era trattato e congiura per sovvertere\nlo stato loro. Il discreto e accorto ambasciadore gli rispuose,\nche tale credenza tenendola a lui era pericoloso, e simile al suo\ncomune, e che per tanto a lui piacesse che a\u2019 suoi signori il potesse\nmanifestare, non domandando come savio pi\u00f9 oltre, per non avere materia\nd\u2019abominare i suoi cittadini, senza i quali non pensava ragionevolmente\npotere essere trattato. Lo cardinale non glie n\u2019aperse pi\u00f9, ma\ngli concedette licenza che di quello che detto gli avea ne facesse\nfede a\u2019 signori suoi come gli avea domandato. Per la rivelazione di\ncostui generale e oscura il sospetto preso di messer Niccola crebbe a\nmaraviglia, e in tanto, che senza niuno intervallo di tempo provvisione\nsi f\u00e8, la quale in effetto contenne, che niuno ch\u2019avesse giurisdizione\ndi sangue, o sotto s\u00e8 citt\u00e0 o castella non potesse essere all\u2019uficio\ndel priorato: ma per non fare pi\u00f9 vergogna al valente cavaliere\ntrovandosi egli alla tratta de\u2019 nuovi priori, affrettarono di dare\nla gente promessa perch\u00e8 avesse onesta cagione di partirsi, il quale\navendo ricevuto la gente, al modo del buono Scipione Affricano per\nliberare dal sospetto la patria e s\u00e8 da vergogna, con la gente datagli\ndi presente prese viaggio, e giunto a Siena, e appresso a Perugia,\nloro in nome del re Luigi richiese d\u2019aiuto, e altro che belle parole\nnon ne pot\u00e8 riportare. In questo fortunoso ravviluppamento assai per\nli savi non odiosi si comprese della magnanimit\u00e0 del gran siniscalco,\nperocch\u00e8 n\u00e8 in atto n\u00e8 in parole in lui veruno turbamento si vide o\nsent\u00ec, ma piuttosto tranquillit\u00e0 d\u2019animo, quasi come se ci\u00f2 s\u2019avesse\nrecato a onore che in tanta citt\u00e0 fosse preso che tanto animo avesse: e\ntutto che per lo trattato che poco appresso si scoperse si manifestasse\nl\u2019innocenza sua e purit\u00e0 d\u2019animo, non di meno la legge rimase, e fu\nriputata utile e buona, perch\u00e8 si dirizzava a conservamento di libert\u00e0,\nla quale in questo mondo certano \u00e8 riputata la pi\u00f9 cara cosa che sia.\nCAP. XXIV.\n_Come si scoperse congiura di certi cittadini di Firenze, e trattato\nper sovvertere lo stato che reggea._\nVedendosi manifesto per ogni qualunque intendente, che la legge fatta\nin favore della parte, tutto ch\u2019ad altro fine fosse principiata, era\nin s\u00e8 utile e buona ma male praticata, e che coloro che ne doveano\nsecondo il proponimento di coloro che l\u2019aveano creata essere disfatti\nn\u2019erano sormontati e aggranditi, e che la citt\u00e0 n\u2019era in molte parti\nstracciata e divisa, e di male talento piena ne stava in tremore e\nsospesa, e\u2019 rimedi sufficienti al male non si vedeano, e se si vedeano\nerano posti a silenzio, il perch\u00e8 quasi per una boce comune forte si\ndubitava di cittadinesca commozione. Ed era per certo da dubitare,\ncome l\u2019esperienza poco appresso ne f\u00e8 manifesto, perocch\u00e8 tale mala\ndisposizione conosciuta da certi cittadini mal sofferenti e d\u2019animo\ngrande, e che mal contenti viveano, massimamente veggendo alzare\ntroppo i loro avversari, e da certi che per ammunizione erano a loro\nparere contra ragione offesi, ed eranne poco pazienti, loro diede\naudacia e materia di cercare novit\u00e0, e gli mosse a congiura, e in una a\ncercare de\u2019 modi e delle vie da levare dello stato coloro i quali per\nloro nemici teneano. Costoro loro capo feciono Bartolommeo di messer\nAlamanno de\u2019 Medici, uomo animoso troppo, e che si sarebbe messo a\nogni gran pericolo per abbattere gli avversari suoi; al quale parendo\nche il tempo abile a ci\u00f2 fare fosse venuto, riscaldato e sollecitato\nda Niccol\u00f2 di Bartolo del Buono, e da Domenico di Donato Bandini, i\nquali erano stati ammuniti e levati dagli ufici e onori del comune come\nsospetti della parte, non perch\u00e8 fossono, ma per operazione di chi gli\navea con quel bastone voluti fare ricomperare, ristrettosi con loro,\ncominciarono segretamente a cercare de\u2019 modi e delle vie da pervenire\nall\u2019intento loro: e cos\u00ec cercando, trovarono che Uberto d\u2019Ubaldino\ndi messer Uguccione Infangati, uomo cupido e vago di novitadi, e atto\nassai a dovere e potere cercare, e avendo rispetto al male disposto e\nintrigato stato della citt\u00e0, come per quella scritta avemo di sopra\ncomprendere si pu\u00f2, per suo proprio movimento, e senza averne con\nalcuno conferito, sotto la speranza d\u2019avere il seguito de\u2019 malcontenti,\nde\u2019 quali allora il numero era grandissimo ogni ora che gli avesse\nrichiesti, avea tenuto trattato con uno Bernarduolo Rozzo Milanese,\nil quale era cameriero di messer Giovanni da Oleggio de\u2019 Visconti per\nallora signore di Bologna, e stato era suo tesoriere, uomo sagace,\nastuto e d\u2019animo grande, il quale entrato n\u2019era in ragionamento col\ndetto messer Giovanni, mostrandoli per assai belle e apparenti ragioni\ncome se volea il potea fare signore di Firenze. Il tiranno giusta\nil costume de\u2019 tiranni vi prest\u00f2 l\u2019orecchie, ma infra il tempo per\nnecessario caso occorse ch\u2019esso tiranno per lo migliore suo s\u2019accord\u00f2\ncon la Chiesa, e rend\u00e8 Bologna a messer Egidio d\u2019Albonazio di Spagna\ncardinale e legato di santa Chiesa nelle parti d\u2019Italia, il perch\u00e8 il\ntrattato cominciato per messer Bernarduolo Rozzo si rimase. I predetti\nBartolommeo, Niccol\u00f2, e Domenico avendo segretamente odorato che per\nUberto si cercava rivoltura di stato, e che per tanto verificando\nil titolo e nome della famiglia sua s\u2019era Infangato, tutto che il\nmodo e le persone con cui trattava non sapessono, conoscendolo uomo\nsufficiente e atto a fornire delle intenzioni loro, e di quello che\nloro andava per l\u2019animo, e stimando che per l\u2019errore gi\u00e0 commesso per\nlui loro dovesse essere fedele, lo tirarono ne\u2019 loro segreti consigli,\ne intorno a loro impresa gli dierono faccenda e pensiero, con dirli\ncercasse consiglio e aiuto pronto col quale loro intenzione potessono\nfornire. Parendo a Uberto che i suoi vecchi pensieri fossono di nuovo\nappoggiati e di consiglio e di forza, senza ai suddetti niuna coscienza\nfarne col detto Bernarduolo Rozzo ricominci\u00f2 il vecchio trattato,\nparendoli avere migliorato condizione, offerendoli al servigio\nsufficiente seguito a fornire il cominciato trattato con lui, e diedeli\ncerte scritture di sua testa compilate, dove soscritto apparea non\npiccolo numero di cittadini e grandi e popolani, e de\u2019 maggiori e de\u2019\nmezzani e de\u2019 minori, tutti persone e da nome e da fatti. Il detto\nBernarduolo, parendoli avere in mano la detta cosa per fornita, di\ntanta audacia e presunzione fu, che avendo cercato questa faccenda\ncon messer Giovanni da Oleggio, e veggendo che sua intenzione gli era\nfaltata per lo dare che fatto avea di Bologna a santa Chiesa, fu di\ntanta audacia e presunzione, che sentendo il cardinale di Spagna uomo\nd\u2019alto animo, fattivo e cupido di fama mondana, e desideroso oltre a\nmodo di temporali signorie, e per tanto quasi senza considerazione,\ne per tanto di grandi imprese lo richiese, mostrandoli, che senza\nniuno dubbio con poca spesa e fatica potea essere signore di Firenze.\nIl legato, tutto fosse cupido e animoso, era savio e temperato, e\nconoscea che fallandoli l\u2019impresa potea essere il suo disfacimento,\ne promessa credenza di tutto, il trasse fuori di pensiero de\u2019 fatti\nsuoi; poi come detto \u00e8 di sopra a uno degli ambasciadori fiorentini il\ndetto cardinale in genere revel\u00f2 che trattato era in Firenze. N\u00e8 per\u00f2\nristette Bernarduolo di cercare, e seguendo la via cominciata, port\u00f2 il\ntrattato a messer Bernab\u00f2, il quale mostr\u00f2 d\u2019averlo caro e accetto, ma\ncome signore di grande sentimento e pratico delle baratte del mondo,\nnon parendoli che la cosa dovesse avere effetto, secondo l\u2019offerte\nche gli erano fatte dava e toglieva parole e tenea in tranquillo,\nmettendo per lunga via la mena, e per simile il detto Uberto dicea\nai detti Bartolommeo e i compagni che cercava cose ch\u2019anderebbono\na loro intenzione, ma che per ancora non avea tanto che loro niente\neffettualmente ne potesse dire.\nCAP. XXV.\n_Come si scoperse il trattato che era in Firenze, e certi ne furono\npuniti._\nMentre le dette cose si cercavano per Bernarduolo, parendo ai detti\ntre Bartolommeo, Niccol\u00f2 e Domenico, che ogni piccolo indugio loro\nfosse pericoloso, poich\u00e8 incominciato aveano, e temendo che lunghezza\ndi tempo non impedisse, e scoprisse quello che intendeano di fare,\nsollecitavano continovamente, e un\u2019ora non si lasciavano fuggire di\nmano, pensando d\u00ec e notte de\u2019 modi come loro proponimento potessono\nfornire, intra i quali uno loro ne cadde nell\u2019animo, il quale poi si\nconobbe sufficiente a muovere scandalo grande e pericoloso, ma non\na terminare secondo il concetto dell\u2019animo loro; e per mandarlo ad\nesecuzione. I detti caporali con inventivi modi e argomenti sottili\ne sagaci trassono in loro congiura e trattato messer Pino di messer\nGiovanni de\u2019 Rossi, Niccol\u00f2 di Guido da Sanmontana de\u2019 Frescobaldi,\nPelliccia di Bindo Sassi de\u2019 Gherardini, Beltramo di Bartolommeo\nde\u2019 Pazzi, Pazzino di messer Apardo Donati, Andrea di Pacchio degli\nAdimari, Luca Fei, Andrea di Tello dell\u2019Ischia (questi ultimi due\nper molti si tenne che senza colpa fossono messi nel ballo) e frate\nCristofano di Nuccio de\u2019 monaci di Settimo, il quale era stato\nlungo tempo alla guardia della camera dell\u2019arme, e quindi per alcuno\nprocaccio d\u2019altrui era stato rimosso: di molti altri si disse, ma non\nsi trov\u00f2 esser vero, e se fu, si tacque, e ammorz\u00f2 per lo migliore, e\nper fuggire disordinato fascio, ma agl\u2019intendenti parve, non essendo\nmatti i detti nominati di sopra, s\u00ec grande tentamento dovesse avere\nmaggiore appoggio e sequela e nel numero. La motiva loro fu pi\u00f9 per\nodio e nimist\u00e0 speziale che vogliosamente portavano a certa famiglia\ndi popolari grandi e in comune, e per levarli di stato e cacciarli,\nche per zelo che avessono alla repubblica o ad altri loro cittadini.\nL\u2019ordine per i detti dato a fornire loro impresa fu di questa maniera,\nche l\u2019ultimo d\u00ec di dicembre frate Cristofano, che per le reliquie\ndel vecchio uficio che gli era stato levato ancora liberamente usava\nl\u2019entrata e l\u2019uscita del palagio de\u2019 priori, ed era signore delle\nchiavi, dovea segretamente mettere quattro fanti in sulla torre del\npalagio de\u2019 signori, e rinchiuderli in una camera che v\u2019\u00e8, e non\ns\u2019usava, e poi di notte dovea aprire lo sportello della porta del\npalagio di verso tramontana, che non s\u2019usava, e mettere quetamente\nper quella ottanta fanti, e riporli ivi di presso nella camera dove si\nriducono gli uficiali delle castella, ch\u2019allora non vi stava persona,\ne la seguente mattina, quando escono i signori vecchi ed entrano i\nnuovi, rimanendo dentro un fante solo che serra la porta, mentre che\nle dicerie e solennit\u00e0 a tali atti usati si fanno, i detti ottanta\nfanti doveano uscire della detta camera, e uccidere o prendere il detto\nportiere, e serrare la porta, e salire sul corridoio del palagio, e\ncon le pietre percuotere chiunque fosse sulla ringhiera, e i fanti\ndella torre doveano sonare le campane a stormo, e in quell\u2019ora si\ndoveano muovere i detti congiurati col seguito loro, stimando che molti\ncittadini offesi e malcontenti, e quelli che stavano indubbio dello\nstato loro traessono a loro, e gli dovessono seguire; con volere che\nper altro ordine si governasse la terra, della quale s\u2019immaginavano\nessere principali e maestri, com\u2019erano principali della matta impresa,\ncon mostrare di volere che a neuno fosse fatto oltraggio o torto. Il\npensiere loro fu riputato da molti folle, perch\u00e8 non avendo altro\nbraccio, rimaneano in podest\u00e0 del furore del popolo, se non avesse\nconsentito al loro movimento. Altri stimavano, che essendo il popolo\nconfastidiato come detto avemo, e per natura mobile e vago di novit\u00e0,\ne che scorrere si lascia quando \u00e8 scommosso l\u00e0 dove non possono i savi\nstimare, che loro pensiero potesse avere effetto: ma Dio che \u00e8 guardia\nde\u2019 semplici e innocenti, e che talora per rispetto loro tempera\nl\u2019ira sua contra i rei, perch\u00e8 il caso parea come suole fare, o per\nfortuna o per privati odii contra loro straboccare, volle si scoprisse\nil trattato, e fu in questo modo. Detto avemo come il legato sotto\nparole generali avea fatto sentire come nella citt\u00e0 era trattato, ma\nd\u2019esso non avea dato indizio veruno; e stando per questo i governatori\ne i cittadini di Firenze nel tenebroso sospetto, Bernarduolo Rozzo,\nche vedea suo ragionamento tornato in fummo, pens\u00f2 di fare civanza,\ne trarre vantaggio delle fatiche che avea ordinato in male operare,\ne venuto a Santa Gonda, mand\u00f2 per uno suo amico della casa degli\nAntellesi, e a lui disse, che quando il comune di Firenze gli volesse\ndare venticinque migliaia di fiorini, ch\u2019egli manifesterebbe il\ntrattato, e chi lo conducea. Ci\u00f2 sentito per i signori, e tenuto\nsegreto consiglio, per trarre il popolo di periglio, e di sospezione\ne paura, diliberarono gli fosse dati danari, e alla promessa d\u2019essi\ns\u2019obbligarono i signori, e\u2019 collegi, e\u2019 richiesti, e se ne f\u00e8 scrittura\nobbligatoria con saramento, e il pagamento se ne dovea fare in Siena,\nmanifestato ch\u2019avesse in forma bastevole la verit\u00e0 del fatto. Anzi che\nfosse il detto ragionamento fornito, o fattone esecuzione, fu noto\na Bartolommeo che \u2019l fatto si venia a scoprire, non perch\u00e8 il detto\nBernarduolo il sopraddetto processo e ordine sapesse, ma che per quello\nche tenuto avea con Uberto Infangati sapea i nomi di coloro che sapea\nche teneano al suo, si manifest\u00f2 e apr\u00ec a Salvestro suo fratello, e\nquello che occultato avea, e a lui e a\u2019 suoi consorti pales\u00f2. Salvestro\nudito il voglioso e poco savio movimento del fratello, per ricoverare\nl\u2019onore suo e della casa sua, che per la detta impresa potea cadere\nin sospicione, e per trarre il fratello di pericolo e d\u2019abominio, con\ncerti dello stato discreti e fidati, e alla famiglia sua, di presente\nne fu a\u2019 signori, e da loro prese sicurt\u00e0 per Bartolommeo, dicendo,\nche da lui avrebbono tanto, che potrebbono trarre di sospetto e di\npaura il comune, il quale quasi per lusinghe tirato nel trattato, con\ninfingere di non sapere se non la corteccia, dissono a\u2019 signori, che\nse avessono Niccol\u00f2 e Domenico di Donato Bandini che ne saprebbono\nil tutto, come da\u2019 caporali e guide del trattato; di che i signori di\nsubito mandarono per loro in forma e in modo, che se si fossono voluti\ncessare non aveano il podere, e quelli per loro prima esaminati li\ndierono al podest\u00e0. Gli altri congiurati sentito questo si cessarono\nsubitamente; e i detti presi confessato il loro eccesso furono\ndicapitati: gli altri nomati, eccetto il detto Bartolommeo, furono\nper lo potest\u00e0 senza vituperevole titolo condannati nella persona. Il\ndetto Bernarduolo Rozzo, avendo per la detta sua operazione certificato\nil comune che \u2019l suo palesare il trattato era per vendere la vita di\nmolti cittadini, e non per palesare il suddetto trattato, del quale\nniente sapea, fu di tanta presunzione e ardire, che sotto la promessa\ndi dare al comune scritta di mano propria de\u2019 congiurati, alla quale\nerano sottoscritti molti cittadini di loro propria mano, e suggellato\ndi loro proprio suggello, domand\u00f2 ed ebbe fidanza di venire a Firenze,\ne a\u2019 signori la detta scritta diede, la quale si trov\u00f2 essere di mano\nd\u2019Uberto Infangati, fittamente e coloratamente composta, secondo che\nfuori n\u2019usc\u00ec la boce, se vera fu, o no. Ragunato il consiglio, _coram\nomnibus_ la scritta fu arsa senza altrimenti farne dimostrazione. A\nBernarduolo Rozzo furono donati cinquecento fiorini d\u2019oro, e tratto\ndel nostro contado dato gli fu il congio. La legge, ch\u2019era stata in\ngran parte cagione e materia di tanto male, e peggio per l\u2019avvenire\npromettea, per tutto ci\u00f2 ammendata non fu, n\u00e8 regolata n\u00e8 aggiustata in\nniuna sua parte.\nCAP. XXVI.\n_Come si comper\u00f2 Montecolloreto, e la giurisdizione di Montegemmoli\ndell\u2019Alpe per lo comune di Firenze._\nOttaviano e Giovacchino figliuoli di Maghinardo e Albizzo degli\nUbaldini, essendo male in accordo co\u2019 figliuoli di Vanni di Susinana,\ne con gli altri Ubaldini teneano Montecolloreto, e possedeano l\u2019Alpi\ncon millecinquecento fedeli e\u2019 fitti perpetui, e costoro cercavano\ndi volere vendere Montecolloreto e l\u2019Alpe, e le ragioni ch\u2019aveano in\nMontegemmoli, e in Cornacchiaia e nell\u2019altre villette dell\u2019Alpe al\ncomune di Firenze per loro vantaggio, e dispetto de\u2019 loro consorti.\nIl comune intendea alla compera. Gli altri Ubaldini che si teneano\navere ragione nell\u2019edificio di Montecolloreto mandarono a Firenze a\ncontradire la vendita. La cosa stette lungamente in dibattito, infine\nil comune comper\u00f2 la propriet\u00e0 da coloro che teneano Montecolloreto, e\ntutta l\u2019Alpe, e la giurisdizione ch\u2019aveano i figliuoli di Maghinardo,\ne comper\u00f2 tutti i fitti perpetui ch\u2019aveano nell\u2019Alpe, sicch\u00e8 il paese e\ngli uomini rimasono liberi del comune di Firenze, e i detti Ottaviano,\nGiovacchino, e Albizzo, e tutti i loro congiunti e loro famiglie furono\nfatti per riformagione del comune, a d\u00ec 30 di dicembre del detto anno,\ncittadini e popolari di Firenze, e fatte le carte della detta vendita\nper ser Piero di ser Grifo delle riformagioni, ed ebbono contanti\nfiorini seimila d\u2019oro, com\u2019elli furono in concordia e in patto d\u2019avere\ndal comune di Firenze. L\u2019Alpe fu recata a contado, e gli uomini liberi\nda\u2019 fitti perpetui.\nCAP. XXVII.\n_Come una compagnia creata novellamente prese Santo Spirito._\nFinite le guerre, e fatta la pace fra i due re d\u2019Inghilterra e di\nFrancia, tornato il re Giovanni in Francia, e intendendo dolcemente a\nrassettare il reame, fece gridare per tutto suo reame che tutta mala\ngente si dovesse partire, e sgombrare il suo reame sotto gravi pene;\ne per tale cagione diverse compagnie s\u2019adunarono, le quali l\u2019una dopo\nl\u2019altra poi trassono ad Avignone. Sicch\u00e8 dove speranza era che il\nre liberasse la Chiesa seguit\u00f2 il contrario, e pi\u00f9 si credette per\ntutti che i paesi si posassono, e s\u2019intendesse a\u2019 mestieri e alle\nmercatanzie, ma incontanente seguit\u00f2 in Parigi e nel paese di Francia\ngrandissima carestia e mortalit\u00e0, e coloro ch\u2019erano usi in guerra,\ne pi\u00f9 atti alle prede e alle rapine ch\u2019alle mercatanzie e mestiere,\nudito il grido e il comandamento del re in diverse parti s\u2019accolsono\ninsieme per modo di compagnia, e feciono diversi capitani, e chi vern\u00f2\nin un paese e chi in un altro alle spese de\u2019 paesani, conturbando le\nprovincie; e un\u2019accolta si fece verso Lione sopra Rodano, in grasso e\nabbondante paese, e ivi stettono senza contasto, e dimorati alquanto\nnel paese, si misono verso Lione per valicare in Provenza: il vicario\ndi Lione coll\u2019aiuto de paesani occuparono i passi, che sono stretti e\nforti, e non gli lasciarono passare; e vedendosi la compagnia impedire,\nun\u2019altra volta maliziosamente si strinsono sopra Lione, ove tutta la\nforza della citt\u00e0 e delle vicinanze trassono alle difese, e i capitani\ndella compagnia aveano fatto eletta di mille barbute, e ordinato quando\nla gente traesse a loro che prendessono un altro cammino per l\u2019alpe\ndella Ricodana, e cos\u00ec fatto fu senza trovare chi loro contradicesse,\ne tra il giorno e la notte appresso l\u2019alpe passarono, che di mala via\nfurono oltre a miglia quaranta, e alla dimane si trovarono nel piano\npresso a Santo Spirito in sul Rodano, e quivi per lo freddo sostenuto\nla notte con fuochi si ristorarono, e a\u2019 loro cavalli provvidono e a\nloro di vivanda per riprendere forza della gran fatica che la notte\nper lo gran cammino aveano sostenuta; e ci\u00f2 fatto, montati a cavallo\nsi dirizzarono a Santo Spirito, dove trovarono la gente sprovveduta,\ne nullo resistente s\u2019entrarono nel borgo. La rocca si tenea per uno\ncastellano lucchese, e quella col castellano presono: e perch\u00e8 il fatto\nfu incredibile per la fortezza del luogo, molti pensarono che fatto\nfosse per ordinamento del Delfino, e perch\u00e8 il castellano fu lasciato\ne poi ripreso ad Avignone, stimossi che il papa il sentisse, e per\nlo meno male lo si tacesse. I terrazzani da bene uomini e donne si\nridussono nella chiesa ch\u2019\u00e8 forte, e aspettando il soccorso de\u2019 vicari\ncircostanti e dal re di Francia per spazio di sei d\u00ec, si patteggiarono\ndi dare fiorini seimila d\u2019oro, salvo l\u2019avere e le persone: i danari\nfurono pagati, ma i patti non furono attesi, che tutti furono rubati,\ne molte femmine giovani ritenute al servigio della compagnia. Santo\nSpirito \u00e8 vicino ad Avignone a otto leghe di piano. E il nobile ponte\nsopra il Rodano di presente occupato fu per quelli della compagnia,\nd\u2019onde aveano libera l\u2019entrata nel Venis\u00ec, e poteano a loro piacere\ncavalcare fino ad Avignone: per tale cagione il papa e i cardinali\nebbono gran paura, e la citt\u00e0 tutta prese l\u2019arme serrate le botteghe,\ne solo s\u2019intendea a fare steccati e bertesche s\u00ec alla citt\u00e0 e s\u00ec al\ngran palagio del papa, e a provvedersi di vittuaglia, e con soldati\ns\u2019attendea a buona guardia, e di d\u00ec e di notte. E oltre a questa\nprovvisione il papa band\u00ec la croce sopra la compagnia, credendo subito\navere gran concorso di gente d\u2019arme e da pi\u00e8 e da cavallo, e nullo\nsi trov\u00f2 che la prendesse, onde lentamente cominci\u00f2 a fare gente di\nsoldo, e f\u00e8 capitani il cardinale d\u2019Ostia con certi altri prelati, e li\nmand\u00f2 nel Venis\u00ec a fornire le castella della frontiera contro i nemici\nperch\u00e8 non potessono stendere n\u00e8 verso Avignone n\u00e8 verso la Provenza,\nmassimamente perch\u00e8 sentiva che la compagnia era per avere maggior\nforza in corto tempo da quelli che rimasi erano di l\u00e0 da Lione. Al\nmodo delle guerre de\u2019 prelati la boce fu grande, e la difesa fu piccola\nquando alla compagnia parve il tempo da valicare, ma per allora essendo\npochi, ed avendo roba assai, gran tempo stettono senza fare cavalcate,\ne il ponte afforzarono in forma, che le navi che veniano di Borgogna\nad Avignone con vittuaglia non poteano passare, onde la corte sostenne\ngrave carestia. Lasceremo per ora questa materia la quale ebbe lungo\nprocesso, e seguiteremo le cose d\u2019Italia, che nel tempo richieggiono il\nluogo debito loro.\nCAP. XXVIII.\n_Come tornati gli Ungari e messer Galeotto da Parma si misono a Lugo._\nTornati gli Ungari del Parmigiano, il legato, perch\u00e8 non gravassono\ndentro i Bolognesi, gli mand\u00f2 sopra Lugo, dando boce di volere\nrivolgere un fiumicello che corre verso Castello san Piero sopra\nLugo; e per fare la mostra apparente ragun\u00f2 maestri paesani a ci\u00f2\nfare, e niuno effetto ne segu\u00ec. Stando gli Ungari a campo a Lugo\nmesser Galeotto cavalc\u00f2 sopra Castelfranco, e mancandogli i soldi\npagati per lo legato agli Ungari e ai soldati, si partirono del detto\nmese di gennaio e da Lugo e da Castelfranco, e di loro una parte\ndal Biscione prese soldo, ed entr\u00f2 in Lugo a fare guerra contro al\nlegato, e alquanti il legato se ne ritenne. Mille o pi\u00f9 a piano passo\nsi dirizzarono in Romagna, e quindi nella Marca vivendo a legge di\ncompagnia, e parte di loro s\u2019aggiunse alla compagnia del Regno. Poco\nappresso il legato s\u2019accord\u00f2 con quelli ch\u2019erano passati nella Marca, e\ndi febbraio gli fece tornare sopra Lugo, per rattenere quelli ch\u2019erano\nin Lugo dal conturbare la Romagna, ma poco tempo l\u00e0 durarono per la\npovert\u00e0 del legato, ch\u2019avea l\u2019animo grande e la fonda vota.\nCAP. XXIX.\n_D\u2019alquanti trattati tenuti in diverse parti che tutti si scopersono._\nIn questi giorni, certi d\u2019una casa di Forl\u00ec che si nomava di Capo\ndi Ferro, i quali il legato avea rimessi in Forl\u00ec, con altri loro\namici e congiurati cercarono di mettere una notte in Forl\u00ec la gente\ndi messer Bernab\u00f2 ch\u2019era in Lugo. Il trattato si scoperse, e furono\npresi venticinque cittadini, e trovati colpevoli, due di quelli di\nCapo di Ferro ed altri due del mese di gennaio furono decapitati, e\ndodici di loro seguito mandati a\u2019 confini. La terra si rassicur\u00f2 con\nsollecita guardia. Seguendo simili cose e\u2019 pare, che quando il verno\nnon lascia campeggiare la sfrenata rabbia degl\u2019Italiani, non resti\ndi procurare scandali e commuzioni. I Perugini in questi d\u00ec trovarono\ncerti loro grandi che voleano rompere il popolo, e mutare il reggimento\ndi quella citt\u00e0, e furono tanto e s\u00ec potenti, che scoperto il fatto non\ns\u2019ard\u00ec a fare punizione. In Siena fu sospetto di mutamento di stato,\ne lungamente se ne stette in gelosia e in guardia. In Volterra fu il\nsimigliante, e con gli ambasciadori del comune di Firenze si quet\u00f2 la\nmateria dello scandalo. In Bologna in questo verno si scoperse un altro\ntrattato, che alcuni cercavano con messer Bernab\u00f2, de\u2019 quali erano\ndue de\u2019 Bianchi caporali, non sapendo l\u2019uno dell\u2019altro. Ed avendo il\npodest\u00e0 condannati Giovanni e Federigo de\u2019 Bianchi nella persona per\nquesto tradimento, e mandandoli alla giustizia con due altri, il legato\nfece liberare Giovanni ch\u2019era meno colpevole, e Federigo e\u2019 compagni\nfurono decapitati. I Perugini, con trattato ch\u2019aveano con certi loro\nsbanditi ch\u2019erano al soldo del signore di Cortona, il doveano fare\nuccidere: il fatto scoperto, i traditori furono presi, e fattone quello\nche meritavano.\nCAP. XXX.\n_Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno, e quello ne segu\u00ec._\nPer inzigamento di messer Giannotto dello Stendardo, e di messer\nRamondo dal Balzo e de\u2019 seguaci loro, allora governatore del re, messer\nNiccola Acciaiuoli gran siniscalco al giudicio de\u2019 cortigiani parea in\npoca grazia del re, e giunto in Napoli, e scavalcato al castello del\nre, convenne che quel giorno col seguente solo a solo col re dimorasse,\ne con lui a quelle cose che nel Regno erano a fare diede il modo, e lo\nre lo f\u00e8 suo luogotenente, e per suo decreto e a\u2019 baroni e a\u2019 popolani\ncomandamento fece, che ubbidito fosse come la persona sua. Quindi a\npochi d\u00ec fatto suo apparecchiamento, colla gente del comune di Firenze\ne quella pot\u00e8 avere del paese cavalc\u00f2 in Puglia verso la compagnia, e\nmisesi nelle terre vicine alla frontiera loro, e li comimci\u00f2 forte a\nristrignere di loro gualdane.\nCAP. XXXI.\n_D\u2019un segno nuovo ch\u2019apparse in cielo sopra la citt\u00e0 di Firenze._\nA d\u00ec 9 di febbraio detto anno, alle quattro ore di notte, in aire\napparve sopra la citt\u00e0 di Firenze un vapore grosso infocato di tale\naspetto, che a molti parve che fosse fuoco appresso nella citt\u00e0 vicino\na loro vista, e per tanto cominciarono a gridare al fuoco, e le campane\ndella chiesa di santo Romeo sonarono a stormo, e lungamente, come \u00e8\nusanza di sonare per lo fuoco; per lo quale romore molti cittadini si\nlevaro da dormire, e vedendo ch\u2019erano vapori incesi nell\u2019arie uscirono\ndelle case, e andarono a\u2019 luoghi aperti, e vidono il tempo sereno, e il\nlume della luna, e di qua e di l\u00e0 dal vapore sua larghezza rosseggiante\na guisa di fuoco per spazio di miglio, e sua lunghezza di quattro, e\nil suo montare alto del basso tanto era, che le stelle si mostravano\nin esso come faville di fuoco; e levatosi in distanza alcuna di sopra\na Firenze valic\u00f2 Fiesole, tenendo forma di ponte da Montemorello a\nFiesole, e poi con assai lento andamento trapass\u00f2 nel Mugello, e in\nun\u2019ora e mezzo consumato si mostr\u00f2 a coloro che di Firenze n\u2019aveano\naspetto. Di tal segno niuna altra influenza si vide da farne menzione,\nse altra per pi\u00f9 lunghezza di giorni non dimostrasse, se non alcuno\nsecco, che danno f\u00e8 assai alle terre sottili di nostre montagne per\ntutto nostro paese.\nCAP. XXXII.\n_Dimostramento di smisurato amore di padre a figliuolo._\nE\u2019 ne parrebbe degno di riprensione lasciando in dimenticanza un caso\noccorso in questo tempo, perch\u00e8 ci pare esempio di mirabile carit\u00e0\nintra padre e figliuolo, ed e\u2019 converso, tutto che apparito sia in\nuomini di bassa condizione. Nel contado di Firenze e comune della\nScarperia, villa di santa Agata, uno garzoncello nome Iacopo di Piero,\nsprovvedutamente uccise un suo compagno, e ci\u00f2 fatto, lo manifest\u00f2\nal padre, il qual turbato gli disse, che subito si partisse, e si\nriducesse in luogo salvo, e cos\u00ec fece. Il malifizio fu portato alla\nsignoria, e incolpato e preso ne fu il padre del garzone, il quale\ntormentato, per non accusare il figliuolo confess\u00f2 s\u00e8 avere commesso il\npeccato all\u2019uficiale della Scarperia, e mandato a Firenze al podest\u00e0,\nconfessando questo medesimo e raffermando, fu condannato nel capo. Il\nfigliuolo, che segretamente era venuto a Firenze per vedere che fine\navesse, vedendo il padre innocente andare a morire per lo difetto suo,\nmosso da smisurato amore da figliuolo a padre, diliberato di morire\nperch\u00e8 il padre campasse, il quale liberamente vedea andare alla\nmorte per campare lui, con molte lagrime si rappresent\u00f2 alla signoria,\ndicendo: Io sono veramente colui che commessi il peccato; io sono colui\nche ne debbo portare la pena, e non per me questo mio padre innocente,\nche \u00e8 tanto acceso di carit\u00e0 verso di me perch\u00e8 io campi, che soffera\ndi morire per me. L\u2019uficiale udito il garzone, quasi stupefatto ritenne\ne sostenne l\u2019esecuzione che si facea del padre, e trovato la verit\u00e0\ndel fatto, il padre fu liberato, e il figliuolo, per la necessit\u00e0\ndella corte, a d\u00ec 6 di marzo con pietose lagrime a chiunque l\u2019udirono\no vidono fu decapitato. E certo se stato fosse commesso il malificio\nsenza malizia e casualmente, tanto atto di piet\u00e0 a un benigno signore\ncredere si dee ch\u2019arebbe meritato perdono almeno della vita.\nCAP. XXXIII.\n_Contrario esempio d\u2019incredibile crudelt\u00e0 di madre._\nAvvegnach\u00e8 quello che segue appresso alla narrata piet\u00e0 di padre e\nfigliuolo dopo i sei mesi occorresse, per collazione del bene col male,\nvolendo operare la sfrenata lussuria operatrice d\u2019incredibile crudelt\u00e0\ndi madre contra figliuolo, contra la forma di nostro ordine giugneremo\ni tempi lontani. All\u2019entrata d\u2019agosto detto anno, nella citt\u00e0 di\nPerugia, una donna di legnaggio non basso avendo avuto d\u2019un onorevole\npopolano suo marito un figliuolo di buono aspetto, morto il padre, dopo\ncerto tempo la donna giovane si rimarit\u00f2 a un altro cittadino dabbene,\nil quale amava il figliastro quanto che figliuolo, s\u00ec per l\u2019ubbidienza,\ns\u00ec per l\u2019industria, s\u00ec per li buoni costumi vedea in lui, il quale era\nd\u2019et\u00e0 di dieci anni. La madre per disordinata concupiscenza fu presa\ndell\u2019amore d\u2019un altro giovane perugino assai accorto e dabbene, e lui\npens\u00f2 d\u2019avere per marito, e godersi con lui e sua dote, ch\u2019era grande,\ne l\u2019eredit\u00e0 del figliuolo, ch\u2019era maggiore, e altro successore non\navea che lei. E con l\u2019adultero tenuto trattato diedono certo ordine\nalla morte del figliuolo, che lo dovea la notte strangolare, ed ella\ndovea avvelenare il marito; e dato l\u2019ordine, la madre empia mand\u00f2 il\nfigliuolo a casa l\u2019amico con certe cose, e gli comand\u00f2 non si partisse\nda lui se non lo spacciasse; giunto il fanciullo al buono uomo, e\ndatogli quello che gli mandava la madre, con molta purit\u00e0 con istanza\ngli domandava d\u2019essere spacciato: vedendo l\u2019uomo la semplicit\u00e0 del\nfanciullo, glie ne venne piet\u00e0 e cordoglio, e gli disse: Vattene a tua\nmadre, che tempo non \u00e8 a quello ch\u2019ella vuole. Vedendo la madre tornato\nil fanciullo si turb\u00f2 forte, e lo domand\u00f2 perch\u00e8 non l\u2019avea spacciato,\ne il fanciullo le f\u00e8 la risposta. La sfacciata meretrice rimand\u00f2 il\nfigliuolo, e gli comand\u00f2, che non tornasse a lei, ma tanto stesse,\nch\u2019egli fosse spacciato di ci\u00f2 che ragionato avea con lui.\nIl fanciullo ubbidiente alla madre torn\u00f2 all\u2019amico di lei, e con\nmolte preghiere lo richiedea, che fare dovesse quello che la madre\ngli avea imposto; ed egli molto pi\u00f9 intenerito, quasi lacrimando gli\ndisse: Di\u2019 a tua madre, che non istia a mia fidanza, ch\u2019io nol voglio\nfare: e il figliuolo tornato alla crudelissima madre le disse quello\nche gli era stato detto. La bestiale scellerata ci\u00f2 udito, in esso\nstante comand\u00f2 al figliuolo ch\u2019andasse nella cella, ed ella gli tenne\ndietro, dicendo: Quello che non ha voluto fare egli far\u00f2 io; e con le\ndiaboliche mani seg\u00f2 la gola al figliuolo, e quivi lo lasci\u00f2 morto.\nPoco il marito torn\u00f2 in casa, e domand\u00f2 la madre del figliuolo: la\ndonna presa l\u2019astuzia del serpente con fronte audace gli rispose:\nBen lo sai tu, va\u2019 nella cella e vedrailo. Il marito ignorante e puro\nscese al luogo, e trov\u00f2 il fanciullo morto, il perch\u00e8 e\u2019 venne meno, e\nforte sba\u00ec, e perd\u00e8 la favella: la moglie lo serr\u00f2 dentro, e levato il\npianto, traendo guai incominci\u00f2 a gridare, e dire, che il traditore del\nmarito le avea morto il figliuolo per godere la sua eredit\u00e0; e tratta\nla vicinanza a romore, ella squarciandosi il viso e\u2019 capelli mai non\nlasci\u00f2 aprire l\u2019uscio della cella infino che la famiglia della signoria\nnon venne, la quale apersono l\u2019uscio, e trovarono il malificio, e a\nfurore ne menarono il marito, il quale tormentato confess\u00f2 s\u00e8 aver\nfatto il malificio, e la cagione per godere l\u2019eredit\u00e0 del figliastro. E\napparecchiandosi la signoria a farne aspra giustizia, all\u2019amico della\npessima donna venne compassione di tanto male, e del sangue innocente\nsparto e che spargere si dovea, e del fallo suo presa sicurt\u00e0 da\u2019\nsignori manifest\u00f2 la verit\u00e0 del fatto, e la donna venuta in giudicio,\nsenza alcuno tormento confess\u00f2 la sua iniquitade, e condannata alla\ntanaglia, e pi\u00f9 a esserle levate le carni a pezzo con i rasoi, fece\nterribile esempio all\u2019altre. Questo peccato tanto enorme forse meritava\nsilenzio di penna, per l\u2019orrore d\u2019udire tra\u2019 cristiani s\u00ec alto e s\u00ec\nsfacciato male, conchiudendolo con un verso di Giovenale poeta, che\ndice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter audent, parlando\ndelle femmine che da s\u00e8 hanno scacciata la pudicizia e la vergogna, il\nquale in volgare suona: Forte animo prestano alle cose che sozzamente\nardiscono di fare.\nCAP. XXXIV.\n_Delle compagnie ch\u2019entrarono in Provenza per conturbare i paesani e la\ncorte di Roma._\nAvvegnach\u00e8 grave cosa fosse alla corte di Roma la presura che una\ncompagnia avea fatto di Santo Spirito sul Rodano di sopra a Avignone\notto leghe, nondimeno altre compagnie sommosse di Guascogna del reame\ndi Francia del mese di gennaio, febbraio e marzo, fuggendo la pace,\nla carestia e la mortalit\u00e0, in poco tempo l\u2019una appresso l\u2019altra\nvennono in Provenza; e l\u2019una che si nomava la Compagnia bianca, venne\nappresso a Avignone a trenta miglia, e teneva mercato d\u2019avere danari\ndal papa, e di levare quella di Santo Spirito, che per cagione ch\u2019avea\nil Rodano di sopra in sua signoria gravava la corte, non lasciando\nuscire la vittuaglia di Borgogna; e appresso un\u2019altra di Guascogna e\ndi Spagna partita dalla guerra di quello di Foc\u00ec e d\u2019Armignacca, che\nlungamente aveano accolta gente per guerreggiare insieme. Per questa\ntempesta che conturbava i paesi d\u2019intorno e il papa e i cardinali\nerano in grave travaglio, e la corte il d\u00ec e la notte sotto l\u2019arme,\ne con molte gravezze di fortificare la citt\u00e0 di muri, di fossi, e di\nsteccati, e di cittadinesca guardia, e lo re di Francia non avea podere\ndi liberare le sue terre dalle loro mani non che d\u2019aiutare la Chiesa:\ne in queste tribolazioni stette Avignone come assediata lungamente, e\nnon vi si potea entrare n\u00e8 uscire con sicurt\u00e0, e l\u2019arti, e\u2019 mestieri,\ne le mercatanzie tutte v\u2019erano perdute, e la carestia d\u2019ogni bene vi\nmont\u00f2 in sommo grado. Il papa richiese Franceschi, Provenzali, Guasconi\ne Catalani che lo atassono dalle compagnie; catuno chiedeva danari\nper fare l\u2019impresa, e la Chiesa non si fidava d\u2019accogliervi pi\u00f9 gente\nd\u2019arme che v\u2019avesse: e cos\u00ec in tribolazione grande stette lungamente,\ninfino che per operazione del marchese di Monferrato col danaio della\nChiesa, come al tempo innanzi diviseremo, vi si mise rimedio. Daremo\nora sosta a queste compagnie e a\u2019 fatti della corte, per ritornare\nall\u2019altre novit\u00e0 che in questo tempo occorsono alla nostra citt\u00e0 di\nFirenze.\nCAP. XXXV.\n_Come per comperare gli onori del comune alquanti che li venderono ne\nfurono condannati_\nRade volte occorse che i cittadini sieno condannati per baratteria,\nnon perch\u00e8 sovente non caggino in tale errore, ma per la negligenza\nde\u2019 rettori, che passano il vizio a chiusi occhi: e perch\u00e8 l\u2019eccesso\nche scrivemo fu tanto palese a tutti i cittadini, il rettore a cui la\ncognizione s\u2019appartenea di ci\u00f2 non pot\u00e8 senza sua evidente vergogna\npassare non ne conoscesse. Dalla morte di Carlo duca di Calavria in\nqua, per ordinazione e costume di nostro comune osservata, e che \u00e8\ndi tre anni in tre anni, del mese di gennaio e di febbraio si fa lo\nsquittino solenne de\u2019 cittadini degni dell\u2019onore del comune, s\u00ec del\npriorato come de\u2019 dodici, e gonfalonieri ed altri ufici. Avvenne nel\n1360, che certi de\u2019 collegi per danari trassono a essere del numero\ndegli squittinatori certi pochi degni per loro antichit\u00e0 o virt\u00f9, il\nperch\u00e8 finito lo squittino, e scoperta la cattivit\u00e0, tali de\u2019 collegi\ntrovarono colpevoli dall\u2019esecutore degli ordinamenti della giustizia\nfurono condannati per baratteria, chi in libbre duemila, e chi in\nmille, e pur tale pena puose freno al disonesto peccato.\nCAP. XXXVI.\n_Come i fatti di Francia verso il primo tempo procedeano._\nTornato il re di Francia, trov\u00f2 il reame assai rotto e mal disposto, e\npoco era ubbidito, e da s\u00e8 nullo vigore avea di potere riducere le cose\nal consueto e primo loro corso, e gastigare non potea chi fallasse,\ne per questo gli uomini d\u2019arme s\u2019accostarono insieme a contristare le\nprovincie del reame: e intra l\u2019altre tribolazioni, nel pieno del verno,\nla contessa la quale fu moglie del sire di Ricorti, a cui lo re di\nFrancia avea fatto tagliare la testa quando torn\u00f2 per ricomperarsi dal\nre d\u2019Inghilterra, ch\u2019era suo prigione, preso cuore e animo virile fece\nraccolta di Spagnuoli, di Guasconi, e di Normandi, e dicea di volere\ndal re ammenda; e certo assai di male e dammaggio avrebbono fatto al\nreame, se la fame che strignea il paese non l\u2019avesse vietato: questa\npoi con grossa compagnia trascorse in Proenza, la quale compagnia poi\npass\u00f2 in Lombardia. Il conte d\u2019Armignacca e quello di Foc\u00ec manteneano\nguerra in Tolosana e nelle loro terre, l\u2019uno contro all\u2019altro, il\nperch\u00e8 troppo ne conturbavano il reame; il re reprimere non potea i\nfalli de\u2019 suoi baroni, n\u00e8 porre ordine in suo reame.\nCAP. XXXVII.\n_Come fu guasta la bastita che \u2019l cardinale di Spagna facea fare in sul\ncanale della Pegola._\nNell\u2019entrata di marzo del detto anno, il legato per tenere sicuro il\ncammino e \u2019l canale dalla Pegola a Bologna facea fare con grande studio\nuna bastita in sul canale, ed era quasi che compiuta. I cavalieri di\nmesser Bernab\u00f2 ch\u2019erano in Lugo, intorno di ottocento barbute, una\nnotte si mossono, e vennono alla bastita, e s\u00ec improvviso a coloro\nche la guardavano che vi entrarono dentro, e mortine assai il resto\npresono, e rubato quella parte stimarono di portarne il resto arsono\ncon la bastita, e senza contasto alcuno della preda, e\u2019 prigioni ne\nmenarono a Lugo. Della qual cosa a\u2019 Bolognesi parve rimanere in male\nstato, per tema che quel cammino non fosse loro tolto, e per tal tema\ncostretti rimisono mano a rifare la detta bastita, e a custodirla\ncon pi\u00f9 cauta e sollecita guardia, e poco appresso l\u2019ebbono fatta e\nafforzata per modo non ne temeano. Lasceremo alquanto le tempeste de\u2019\ncristiani, per dar luogo un poco a quelle degl\u2019infedeli che apparirono\nin questi tempi.\nCAP. XXXVIII.\n_Della grande pestilenza che percosse i saracini._\nIn questo anno pestilenza di febbri fu in Damasco e al Cairo tanto\nfuori di modo, che senza niuno riparo quasi generalmente ogni gente\nuccidea; il perch\u00e8 si credette, che le provincie di l\u00e0 rimanessono\ndisolate e senza abitatore, e se guari tempo fosse durata avvenia.\nI morti furono tanti, che stimare numero certo o vicino non si pot\u00e8.\nLa cagione onde mosse, a Dio solo, o cui lo rivela, \u00e8 manifesta. La\nnaturale necessit\u00e0, la quale surge dall\u2019influenza de\u2019 cieli e delle\nstelle, d\u00e0 luogo alla necessit\u00e0 soluta, che procede dalla sua volont\u00e0.\nCAP. XXXIX.\n_Come fu morto il soldano di Babilonia, e rifattone un altro, il quale\nuccise molti de\u2019 suoi baroni._\nAvvenne innanzi poco a questa mortalit\u00e0, ch\u2019essendo il soldano di\nBabilonia uscito a campo contro a quelli che rubellati gli s\u2019erano, i\nbaroni che con lui erano, qual cosa si fosse la cagione, s\u2019intesono\ninsieme alla morte sua, ed egli non prendendosi guardia di loro nel\ncampo l\u2019uccisono, e tornarsene al Cairo, e quivi un suo fratello\nfeciono soldano; il quale presa la signoria, e confermato nel regno,\nnon seguendo la volont\u00e0 de\u2019 suoi ammiragli, sent\u00ec che contro a lui\ns\u2019erano congiurati per farlo morire, onde esso si provvedea di buona\nguardia, e niente mostrava di sentire contro a loro, ma l\u2019un d\u00ec trovava\ncagione contra l\u2019uno, e facealo morire, e l\u2019altro d\u00ec contra l\u2019altro\nfacea il simile, e per questa via in pochi mesi la maggior parte fece\nmorire, e nella fine la volta tocc\u00f2 a lui, e morto fu per le mani de\u2019\nsuoi ammiragli del mese di febbraio detto anno, e feciono soldano un\nsuo fratello piccolo, e rimaso di dodici l\u2019ultimo, perch\u00e8 non si potea\ntraslatare il regno in altri senza gran confusione di tutti i sudditi\nsuoi.\nCAP. XL.\n_Come un signore de\u2019 Turchi tratt\u00f2 di fare uccidere l\u2019imperadore di\nCostantinopoli._\nLo signore di Boccadave possente tra i Turchi, ed ai Greci vicino,\navendo molte volte tentato con palese guerra di vincere Costantinopoli,\ne non ne possendo avere suo intendimento, cerc\u00f2 con doni larghi e\ncon impromesse grandi fatte a certi Greci costantinopoletani, i quali\nerano della setta di Mega Domestico cacciati dall\u2019imperadore, a modo\ntirannesco di farlo uccidere, pensando che morto lui per la inimicizia\nch\u2019avea nella provincia, e per molte terre ch\u2019avea acquistate sopra\nl\u2019imperio, d\u2019essere del tutto signore; ma come piacque a Dio si\nscoperse il trattato, e quale de\u2019 traditori fugg\u00ec, e quale rimase o\npreso o morto, ma non di manco la citt\u00e0 ne rimase in mala disposizione.\nIl Turco nondimeno tenendo Gallipoli e altre terre vicine, con suoi\nlegni in mare e con i suoi Turchi per terra tribolava e consumava\nil paese, senza trovarsi per i Greci alcun riparo fuori che delle\nmura. E in questi medesimi giorni il signore d\u2019Altoluogo in Turchia\nsi guerreggiava con un suo zio, e l\u2019altro signore della Palata si\nguerreggiava col fratello; e portante guerre e divisioni de\u2019 Turchi i\npaesi loro erano rotti e in grande tribolazione, e per questa cagione i\nGreci aveano minore persecuzione da loro; e pi\u00f9 ci\u00f2 fu materia al re di\nCipro di fare l\u2019impresa sopra loro con onore e vittoria grande, come a\nsuo tempo racconteremo.\nCAP. XLI.\n_Come il legato si part\u00ec di Bologna per andare al re d\u2019Ungheria._\nTornando alle italiane fortune, il legato di Spagna, uomo savissimo\ne pratico delle mondane volture, vedendosi per allora e a tempo senza\npotenza da resistere a messer Bernab\u00f2, e povero di danari, e veggendo\nla poca gente d\u2019arme ch\u2019avea alla difesa, conoscendo che il tiranno\nsuo avversario era di sue entrate abbondante, e di quello che gravava\ni sudditi suoi, il perch\u00e8 non si curava di mantenere la guerra, e per\ncontinovare la guerra gli parea essere certo di vincere Bologna, e\nperci\u00f2 mantenea a Castelfranco e a Priemilcuore, a Pimaccio, e a Lugo\ntanta gente a cavallo e a pi\u00e8, che con le loro cavalcate teneano s\u00ec\nassediata Bologna di verso la Lombardia e la Romagna, che poca roba vi\npotea dentro entrare, e di verso l\u2019Alpe facea agli Ubaldini rompere le\nstrade, perch\u00e8 al legato ne parea essere a mal partito, e a\u2019 cittadini\na peggiore: e vedendo ch\u2019a petizione di santa Chiesa niuno tiranno,\ncomune o signore italiano si volea scoprire ad atare Bologna contro a\nmesser Bernab\u00f2, avendo la Chiesa lungamente trattato col re d\u2019Ungheria,\nil quale s\u2019affermava che farebbe l\u2019impresa con la persona, al primo\ntempo parve al legato d\u2019uscire di Bologna sotto scusa d\u2019andare a lui,\ne nel vero e\u2019 non si fidava potervi stare con suo onore, n\u00e8 senza grave\npericolo. E per\u00f2 contro la volont\u00e0 de\u2019 cittadini prese d\u2019andare al re,\npromettendo di tornarvi del mese di maggio prossimo, e a d\u00ec 17 di marzo\nse ne part\u00ec facendo la via d\u2019Ancona, e l\u00e0 soggiornato alquanto mand\u00f2\nal re d\u2019Ungheria, come seguendo nostro trattato diviseremo. In Bologna\nlasci\u00f2 messer Malatesta e messer Galeotto suo figliuolo capitani de\u2019\nsoldati e de\u2019 cittadini alla guardia.\nCAP. XLII.\n_Della ribellione fatta per messer Giovanni di messer Riccardo Manfredi\nal legato._\nIsidoro nelle sue etimologie afferma, che per la differenza e natura\nvaria de\u2019 climati i Greci per natura sono lievi, i Romani gravi, gli\nAffricani astuti e maliziosi, e gl\u2019Italiani feroci e d\u2019agro consiglio.\nQuesto vedemo nella piccola provincia di Toscana, dove sono i Sanesi\nreputati lievi per natura, i Pisani astuti e maliziosi, i Perugini\nferoci e d\u2019agro consiglio, i Fiorentini gravi, tardi, e concitati,\ne cos\u00ec per natura i Romagnuoli hanno corta la fede: e pertanto per\nantico proverbio si dice, che il Romagnuolo porta la fede in grembo:\ne per\u00f2 non \u00e8 da maravigliare quando i tiranni di Romagna mancano di\nfede, conciosiach\u00e8 sieno tiranni e Romagnuoli: i tiranni per paura\ndi loro stato, e cupidi ancora di pi\u00f9 signoria, usano e fanno arte di\ntradimenti. Messer Giovanni figliuolo naturale di messer Manfredi di\nFaenza avendo pace col legato, vide suo vantaggio per le promesse di\nmesser Bernab\u00f2, e rubellossi alla Chiesa, e cominci\u00f2 a fare guerra\ne da Bagnacavallo, e da Salervolo, e da altre sue tenute a Faenza e\nad altre terre della Chiesa di Romagna, e avuta cavalieri da messer\nBernab\u00f2 ch\u2019erano a Lugo, cavalc\u00f2 a Porto Cesenatico, dove trov\u00f2 molta\nmercatanzia, le case arse e \u2019l porto, e la mercatanzia e grossa e\nsottile e\u2019 prigioni ne menarono in preda, e in quel porto peggior\u00f2\ni cittadini di Firenze oltre a dodicimila fiorini d\u2019oro di loro\nmercatanzie, e senza impedimento alcuno si torn\u00f2 a Bagnacavallo. Per\nquesta rebellione i suoi palagi di Faenza furono disfatti.\nCAP. XLIII.\n_Come il marchese di Monferrato trasse delle compagnie da Avignone per\nconducere in Piemonte._\nEssendo lungamente la Provenza di l\u00e0 dal Rodano, e \u2019l Venis\u00ec, e la\nProvenza di qua dal Rodano, e la corte di Roma stata in grandissime\npersecuzioni delle compagnie addietro narrate, e tenuto il papa con\nloro per le mani di pi\u00f9 baroni trattati di trarli del paese senza avere\neffetto, in fine il valente marchese di Monferrato, per la guerra\nch\u2019avea co\u2019 signori di Milano, essendo molto amato dai buoni uomini\nd\u2019arme, e favoreggiato co\u2019 danari della Chiesa, in prima s\u2019accord\u00f2 con\nla compagnia ch\u2019era a\u2019 Mongiulieri, Inghilesi, Guasconi e Normandi,\ncon la donna del siri di Ricorti: ed avendo fatto questo accordo del\nmese di marzo, non tennono il patto, ma sotto la sicurt\u00e0 del trattato\npassarono il Rodano, e mutarono pastura; e un\u2019altra maggiore compagnia\nvalic\u00f2 nel Venis\u00ec, e consumando il paese infino al maggio. Cominciata\nla fame e la mortalit\u00e0 in quelle provincie, la compagnia di Santo\nSpirito, avuto dal papa trentamila fiorini con patto di seguire il\nmarchese lasciata la terra, e l\u2019altra che \u2019l marchese con danari\ndella Chiesa avea prima patteggiata s\u2019accozzarono a volere passare\nin Piemonte, e non meno per fuggire la pestilenza e \u2019l paese, che per\nservire la Chiesa e il marchese, con tutto che pi\u00f9 di centomila fiorini\ncostasse al papa la spesa di levarlisi d\u2019intorno. E spandendosi di\nci\u00f2 la boce per la Provenza, una gran parte se n\u2019avvi\u00f2 a Marsilia,\ne credendosi entrare nella terra e non potendo, e non avendo da\u2019\nMarsiliesi il mercato, arsono i borghi della citt\u00e0, e feciono assai\ndanno nel paese, e poi s\u2019addirizzarono verso Nizza, e a parte a parte\nvalicarono seguendo il marchese nel Piemonte, non senza grave danno de\u2019\nProvenzali. E nondimeno essendo di Provenza partiti da seimila cavalli,\nne rimasono due altre compagnie, una di qu\u00e0 una di l\u00e0 dal Rodano,\nlungamente a vivere di preda e di rapina sopra i paesani, e teneano la\ncorte in paura e in travaglio. Lasceremo delle compagnie, e torneremo\nad altre pi\u00f9 degne cose di nostra memoria.\nCAP. XLIV.\n_Della morte del duca di Lancastro cugino del re d\u2019Inghilterra._\nEgli \u00e8 strano al nostro trattato fare memoria della naturale morte\nd\u2019uomo, ma considerando l\u2019altezza della superbia umana con la fragilit\u00e0\ndi quella recata alla mente degli uomini, non pu\u00f2 passare senza alcuno\nfrutto. Il conte d\u2019Aui duca di Lancastro, cugino carnale del valente\nre Adoardo d\u2019Inghilterra, avendo lungo tempo fatte grandi e notevoli\ncose d\u2019arme, essendo sopra i Franceschi stato venticinque anni grave\nflagello, e riposata la guerra in pace con grande sua fama e onore, a\nd\u00ec 22 del mese di marzo gli anni Domini 1360 lasci\u00f2 l\u2019arroganze delle\nguerre, e le fallaci fatiche del mondo con la sua morte, lasciando\nsenza ereda maschio due figliuole femmine ne\u2019 suoi baronaggi.\nCAP. XLV.\n_Come riusc\u00ec l\u2019impresa del re d\u2019Ungheria, dove la speranza del legato\ndi Spagna si riposava._\nLa Chiesa avea richiesto il re d\u2019Ungheria al soccorso di Bologna,\ned il re avea dato speranza alla Chiesa di fare l\u2019impresa con la sua\npersona, e mandati per\u00f2 suoi ambasciadori a corte per fermare i patti,\nde\u2019 quali per diversi modi si sparse la fama in Italia, in prima che\ndovea avere titolo dalla Chiesa e dall\u2019imperio, e danari assai dal\npapa, che le terre ch\u2019acquistasse fossono sue: l\u2019altra boce era, che\n\u2019l papa il dovesse assolvere del saramento si dicea ch\u2019avea fatto di\nfare il passaggio d\u2019oltremare, e che dovea dispensare che la moglie, la\nquale apparve per infino a qui sterile, si rinchiudesse in un munistero\ndi sua volont\u00e0, ch\u2019egli potesse avere anche un\u2019altra moglie, acciocch\u00e8\n\u2019l reame non rimanesse senza successione di sua generazione, e che di\nquesto il legato avea dal papa piena legazione: verisimile e non senza\ngrande cagione il legato and\u00f2 a lui in Sagravia del mese di maggio del\ndetto anno. Il re in quei giorni avea fatto bandire generale oste per\ntutto suo reame, per titolo di porre confini al suo regno, per lo quale\ntutti i baroni e popoli lo debbono servire, e credettesi che ci\u00f2 fosse\nper intendere al servigio della Chiesa; ma come che la cosa s\u2019andasse\ngli ambasciadori di messer Bernab\u00f2 erano a lui, e ricevuti avea doni\nda parte di messer Bernab\u00f2. E per\u00f2, o perch\u00e8 non avesse dalla Chiesa\nquello che volesse, o avesse promesso al tiranno di non venire contro a\nlui, la vista fu ch\u2019egli intendea d\u2019andare con la sua gente per l\u2019oste\ngi\u00e0 bandita in altra parte; e quello che rispondesse al legato non si\npot\u00e8 per parole comprendere, ma l\u2019effetto si dimostr\u00f2 per opere, che\nsenza alcuno aiuto il legato del detto mese di maggio si ritorn\u00f2 ad\nAncona, perduta la speranza del soccorso di Bologna, in grave pericolo\ndi quella citt\u00e0, cresciuta la baldanza e l\u2019oste dei suoi avversari.\nCAP. XLVI.\n_Della pestilenza dell\u2019anguinaia ricominciata in diversi paesi del\nmondo, e di sua operazione._\nIn Inghilterra d\u2019aprile e di maggio si cominci\u00f2, e seguit\u00f2 di giugno e\npi\u00f9 innanzi, la pestilenza dell\u2019anguinaia usata, e fuvvi tale e tanta,\nche nella citt\u00e0 di Londra il d\u00ec di san Giovanni e il seguente morirono\npi\u00f9 di milledugento cristiani, e in prima e poi per tutta l\u2019isola.\nGran fracasso fece per simile nel reame di Francia; nella Provenza\ntrafisse ogni maniera di gente. Avignone corruppe in forma che non vi\ncampava persona: morironvi nove cardinali, e pi\u00f9 di settanta prelati\ne gran cherici, e popolo innumerabile. E di maggio e giugno si stese e\npercosse la Lombardia, e prima Como e Pavia, con tanta roina, che quasi\nle rec\u00f2 in desolazione. In Milano mise il capo, dove altra volta non\nera stata, e tir\u00f2 a terra il popolo quasi affatto, con grande orrore e\nspavento di chi rimanea. Vinegia tocc\u00f2 in pi\u00f9 riprese, e tolsele oltre\na ventimila viventi. La Romagna oppress\u00f2 forte e assai quasi per tutte\nsue terre, ma pi\u00f9 l\u2019una che l\u2019altra, e nell\u2019entrata del verno cominci\u00f2\na restare in Lombardia, e a gravare la Marca, e la citt\u00e0 d\u2019Agobbio\nforte premette. L\u2019isola della Maiolica perd\u00e8 oltre alle tre parti\ndegli abitanti. N\u00e8 lasci\u00f2 l\u2019Alpi degli Ubaldini senza macolo per molti\nde\u2019 luoghi suoi. E molti paesi del mondo in uno tempo erano di questa\npestilenza corrotti, n\u00e8 gi\u00e0 quelli a cui parea che Dio perdonasse\nnon ritornavano a lui per contrizione, partendosi dalle iniquitadi\ne dalle prave operazioni ostinate, e come le bestie del macello,\nveggendo l\u2019altre nelle mani del beccaio col coltello svenare, saltavano\nliete nella pastura, quasi come a loro non dovesse toccare, ma pi\u00f9\ndimenticando gli uomini il giudicio divino si davano sfacciatamente\nalle rapine, alle guerre, e al mantenere compagnie contra ogni uomo,\nalle ingiurie de\u2019 prossimi, e alla dissoluta vita, e a\u2019 mali guadagni\nassai pi\u00f9 che negli altri tempi, corrompendo la speranza della\nmisericordia di Dio per lo male ingegno delle perverse menti; e ci\u00f2 per\nmanifesta sperienza si vide in tutte le parti del mondo dove la detta\npestilenza mostr\u00f2 il giudicio di Dio.\nCAP. XLVII.\n_Come per la fama delle compagnie che scendevano in Piemonte i signori\ndi Milano si provvidono alla difesa._\nMesser Galeazzo Visconti sentendo che il marchese di Monferrato venia\nin Piemonte con le compagnie tratte di Provenza del mese d\u2019aprile\ndel detto anno, e sapendo ch\u2019ell\u2019erano per poco tempo provvedute di\nsoldi, e che gi\u00e0 la mortalit\u00e0 era tra loro, e cominciata nel Piemonte,\nprovvide di gente d\u2019arme tutte le sue terre e le loro frontiere per\nfare buona guardia, e sostenere l\u2019impeto de\u2019 nemici, senza mettersi\na partito di battaglia; e per\u00f2 messer Bernab\u00f2 ritrasse della gente\nch\u2019avea a Lugo e a Castelfranco sopra Bologna la maggiore parte per\ndare favore al fratello, pensando straccare quella gente, come in parte\nvenne loro fatto, con piccolo danno di loro distretto, come appresso si\npotr\u00e0 nel suo tempo vedere. Nondimeno tra per lo riparo del Piemonte,\ne del fare la guerra a Bologna, continovo si fornivano di gente d\u2019arme,\nnon curandosi della grande spesa, perocch\u00e8 bene la poteano comportare a\nquella stagione.\nCAP. XLVIII.\n_Come messer Bernab\u00f2 venne sopra Bologna, e assedi\u00f2 e prese Pimaccio._\nAll\u2019uscita del mese d\u2019aprile del detto anno, messer Bernab\u00f2 accolse\ngente, li pi\u00f9 cittadini di sue terre, e con duemila cavalieri in\npersona venne da Milano a Castelfranco dov\u2019era il forte di sua gente,\ne di nuovo fece combattere il castello di Pimaccio per due riprese,\ne appresso il fece assediare intorno, e a d\u00ec 9 di maggio per patto\nebbe la terra, e la rocca si tenne. Di l\u00e0 poi si part\u00ec lasciando\nfornita la terra, e la rocca assediata, e con la gente sua cavalc\u00f2 a\nPanicale presso di Bologna facendo danno assai; e del detto mese di\nmaggio ebbe la rocca di Pimaccio, e andossene a Lugo, e l\u2019accomand\u00f2\na messer Francesco degli Ordelaffi, e diegli gente d\u2019arme, con che\negli guerreggiasse Bologna da quella parte e la Romagna; e fornite\nl\u2019altre terre, e confortati gli amici suoi a fare guerra, e lasciato\nil marchese Francesco al ponte del Reno a campo, con milledugento\ncavalieri si torn\u00f2 a Milano, e la sua gente ebbe fatta forte e ben\nguernita di tutto all\u2019entrata di giugno la bastita dal ponte del Reno.\nCAP. XLIX.\n_Come il legato procurava aiuto contro messer Bernab\u00f2._\nIl legato del papa, tornato senza niuna speranza d\u2019aiuto dal re\nd\u2019Ungheria, pur tanto s\u2019aoper\u00f2, che \u2019l detto re scrisse e fece\ncomandamento agli Ungheri ch\u2019erano al servigio di messer Bernab\u00f2, che\nse ne partissono, e assai furono quelli che l\u2019ubbidirono. Anche tanto\noper\u00f2 con l\u2019imperadore, che egli mand\u00f2 comandando a messer Bernab\u00f2\nche si dovesse rimanere di fare guerra contro la Chiesa a Bologna,\ne quegli che f\u00e8 il detto comandamento fu messer Giovanni da.... ed\nassegnogli termine infra i venti d\u00ec seguenti, com\u2019era determinato per\nl\u2019imperadore, e se questo non facesse fra il termine gli signific\u00f2,\ncom\u2019egli il privava d\u2019ogni onore, e dignit\u00e0 e privilegio che avesse\ndall\u2019imperio; ma per tutto questo messer Bernab\u00f2 non si rimanea\ndell\u2019impresa, ma a suo potere continuo fortificava la guerra, dicendo:\nIo voglio Bologna mi. E questo fu del mese di maggio a\u2019 12 d\u00ec del detto\nanno. E in questo medesimo tempo per apostolica sentenza messer Bernab\u00f2\nfu condannato per eretico e contumace a santa Chiesa, e per tutta\nItalia in d\u00ec solenni fu da\u2019 prelati scomunicato in presenza de\u2019 popoli,\nma di questo poco si cur\u00f2, sollecitando per ogni modo pure di volere\nBologna.\nCAP. L.\n_Come la compagnia d\u2019Anichino di Bongardo ch\u2019era nel Regno si\nrassottigli\u00f2 e venne al niente._\nDel mese d\u2019aprile erano nella compagnia d\u2019Anichino di Bongardo in\nPuglia gli Ungari tanto moltiplicati, che passavano il numero di\ntremila. Il re loro avendo di questo sentore loro mand\u00f2 comandando, che\nnon fossono contro i suoi consorti, per la qual cosa s\u2019accordarono col\nre Luigi una gran parte, e partironsi dalla compagnia de\u2019 Tedeschi, e\npromisono di dare vinta o cacciata la compagnia del Regno per trentasei\nmigliaia di fiorini d\u2019oro, de\u2019 quali si convennono col re: e seguitando\nil gran siniscalco ridussono Anichino co\u2019 suoi Tedeschi in Basilicata,\ne ridussonli in Atella terra tolta per loro al duca di Durazzo, e ivi\nli assediarono, stando d\u2019intorno alle frontiere; e durando il giuoco\nlungamente, molti se ne tornarono nella Marca e nella Romagna, e\ngli altri rimasono al servigio del re, e senza cacciare o vincere la\ncompagnia catuno consumava i paesani.\nCAP. LI.\n_Come i Sanesi ebbono Santafiore._\nIn questi d\u00ec, del mese di maggio del detto anno, i Sanesi avendo molto\nassottigliati e annullati i conti di Santafiore, in fine di questo mese\nmedesimo ebbono Santafiore a patti.\nCAP. LII.\n_Come i Fiorentini comperarono il castello di Cerbaia._\nIl comune di Firenze avea dato bando a Niccol\u00f2 d\u2019Aghinolfo de\u2019 conti\nAlberti conte di Cerbaia perch\u00e8 avea morto un popolare di Firenze;\ne vedendo che la Cerbaia era una chiave forte alla guardia del suo\ncontado da quella parte, gli venne voglia d\u2019avere quel castello, e\nfece trattato di comperarlo; il conte per uscire di bando, ed essere\ncittadino popolano di Firenze, e considerando che a tenere quella\nfortezza gli era non meno di spesa che d\u2019entrata, e sempre ne vivea in\ngelosia, ne domand\u00f2 per prezzo fiorini settemila d\u2019oro, e \u2019l comune si\nferm\u00f2 a sei, e \u2019l conte non vi si volle arrecare, e per\u00f2 si mise alla\ndifesa, ed il comune, come contro a suo sbandito, a d\u00ec 21 di maggio\nvi pose l\u2019assedio. Il conte vedendosi ribellato il fratello carnale,\ne collegato co\u2019 Fiorentini e fattosi loro accomandato, vedendosi\nmal parato, l\u2019ultimo d\u00ec di maggio diede il castello liberamente\na\u2019 Fiorentini, e rimisesi alla misericordia del comune: il comune\nlo riband\u00ec, e fecelo suo popolare, e per via di diritta compera\nsolennemente fattone le carte per ser Piero di ser Grifo notaio delle\nriformagioni, glie ne di\u00e8 contanti fiorini seimiladugento d\u2019oro, e fu\ndescritto il castello di Cerbaia in possessione e contado del comune\ndi Firenze, e tutti i fedeli dalla fedelt\u00e0 furono liberati, e fatti\ncontadini di Firenze.\nCAP. LIII.\n_Come il capitano gi\u00e0 di Forl\u00ec, e messer Giovanni Manfredi si puosono\ntra Imola e Faenza._\nCome messer Francesco Ordelaffi fu fatto capitano di messer Bernab\u00f2,\ne messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi collegato con lui\ns\u2019intesono insieme, e puosonsi a campo tra Imola e Faenza per attendere\nl\u2019avvenimento di quello ch\u2019aveano trattato con uno pi\u00f9 stretto e\nconfidente famiglio ch\u2019avesse messer Ramberto signore d\u2019Imola, il quale\nper grandi promesse ricevute avea promesso d\u2019uccidere il suo signore,\nma come a Dio piacque il trattato si scoperse, e il famiglio fu preso,\ne negli occhi de\u2019 nemici impiccato a\u2019 merli delle mura della citt\u00e0; e\nincontanente l\u2019oste ch\u2019attendea l\u2019omicidio si part\u00ec e torn\u00f2 a Lugo:\ne poco appresso del detto mese di maggio cavalcarono sopra Forl\u00ec, e\nguastarono e predarono intorno e nel paese quello che poterono senza\ntrovare contasto.\nCAP. LIV.\n_D\u2019un gran fuoco che s\u2019apprese nella citt\u00e0 di Bruggia._\nIn questo mese di maggio del detto anno, nella citt\u00e0 di Bruggia in\nFiandra s\u2019apprese il fuoco in alcuna casa, il quale cominci\u00f2 ad ardere\nquelle ch\u2019erano vicine, e a forte a montare con l\u2019aiuto del vento, e\ndelle case di legname ch\u2019erano atte e disposte a riceverlo, e avvalor\u00f2\nper s\u00ec fatto modo, che niuno rimedio mettere vi si potea per operazione\no ingegno d\u2019uomini, che nella citt\u00e0 non consumasse oltre a quattromila\ncase, con grandissimo danno de\u2019 cittadini: e in questi giorni medesimi\nil fuoco gran danno fece nella villa di Ganto e di Melina in Brabante.\nCAP. LV.\n_Delle compagnie d\u2019oltramonti._\nAppare che la penna non si possa passare senza fare memoria delle\ncompagnie, che maravigliosa cosa \u00e8 il vederne e udirne tante creare\nl\u2019una appresso dell\u2019altra in flagello de\u2019 cristiani, poco osservatori\ndi loro legge o fede. La moglie che fu del siri di Ricorti accolse\nda millecinquecento cavalieri di diverse lingue per volere fare\nguerra in suo paese, poi fu tirata dalla compagnia, e in persona\ncon la sua gente venne in servigio della Chiesa e del marchese di\nMonferrato in Piemonte, e quivi lasci\u00f2 con gli altri la sua compagnia\na guerreggiare. E appresso a questa scese in Provenza un\u2019altra gran\ncompagnia d\u2019Inghilesi, Guasconi e Normandi, e un\u2019altra se n\u2019adun\u00f2 in\nquesti tempi medesimi presso Avignone di Spagnuoli, Navarresi e altra\ngente, e questa venne sopra la citt\u00e0 d\u2019Arli, e corse voce che venia\na petizione del Delfino, che si dicea che volea essere re d\u2019Arli, ma\nnon fu vero, per loro procaccio venne la compagnia, e una seguiva il\nPetetto Meschino Alvernazzo, che poi crebbe, e fece grave danno al re\ndi Francia. Il paese di Provenza di l\u00e0 da Rodano e di qua, e \u2019l Venis\u00ec\ne la corte di Roma ne stava in continova tribolazione.\nCAP. LVI.\n_Come Francesco Ordelaffi si lev\u00f2 da Forl\u00ec, e andonne a oste a Rimini._\nEssendo Francesco Ordelaffi stato d\u2019intorno a Forl\u00ec, e fatto il guasto\ncome a lui piacque, del mese di giugno del detto anno si lev\u00f2 da Forl\u00ec,\ne con duemila barbute e cinquecento Ungari si puose presso alle porti\ndi Rimini, e ferm\u00f2 il campo a Santa Giustina, ardendo e guastando le\nville d\u2019intorno, e facendo gran preda, e poi si rivolse dall\u2019altra\nparte e valic\u00f2 il fiume, e cavalc\u00f2 infino agli antiporti di Rimini,\ne tutto men\u00f2 a fiamma il paese, facendo oltraggio e onta a\u2019 Malatesti\nvolontariamente, senza trovare chi gli facesse resistenza alcuna.\nCAP. LVII.\n_Come i Fiorentini manteneano Bologna per la strada dell\u2019Alpe._\nI Fiorentini erano stati molto sollecitati dal legato, poich\u00e8 perd\u00e8 la\nsperanza del re d\u2019Ungheria, che prendessono la difesa di Bologna, e\nnon pure il legato, ma i signori di Lombardia, e i guelfi di Romagna\ne della Marca continovamente per loro segreti ambasciadori glie ne\nsollecitavano, mostrando che Bologna non potea pi\u00f9 durare, che convenia\nche venisse alle mani di messer Bernab\u00f2, perocch\u00e8 \u2019l suo contado era\ntutto consumato, e in podere de\u2019 nemici infino alle porte d\u2019ogni lato.\nE mostravano, come che venuta ella fosse a messer Bernab\u00f2, che Firenze\nsarebbe in pericolo, e male da potersi difendere da lui, allegando\nil verso di Orazio, il quale dice: Nam tua res agitur, paries cum\nproximus ardet: in volgare suona: Quando il pariete prossimo a te\narde il fatto tuo si fa: soggiugnendo, che la pace e la guerra stanno\nnella volont\u00e0 del potente tiranno, che ben sa a tempo con trovare le\ncagioni; per la qual cosa molte volte ne fu grande controversia intra\ni nostri cittadini ne\u2019 segreti consigli, ma al tutto si sostenne che\nsi mantenesse la pace promessa fedelmente, non ostante il pericolo che\nse ne stimava, e ancora l\u2019autorit\u00e0 di santa Chiesa, che d\u2019ogni cosa\nliberava con giustizia il nostro comune. \u00c8 vero che per i discreti\ncittadini si stimava, che fatta l\u2019impresa tutto il carico sarebbe\nlasciato a\u2019 Fiorentini, e non potendola i Fiorentini liberare, cadevano\nin maggiore pericolo, consumato l\u2019avere alla loro difesa: non dimeno\nper savio e diritto consiglio, non facendo contro a\u2019 capitoli e ordine\ndella pace, il comune intese con sollecitudine a sostenere la vita\na\u2019 cittadini di Bologna aprendo la strada dell\u2019Alpe, e levando ogni\ndivieto, per la qual cosa tanto grano, biada, olio e carne andavano\ndi continovo in Bologna, ch\u2019ella se ne reggea, e mantenea assai\nconvenevolemente senza grande carestia. E gli Ubaldini non aveano\nardire d\u2019impedire i Fiorentini, e i Bolognesi per loro distretto\nfacevano campo a Caburaccio; e per questo modo avendo Bologna perdute\ntutte le strade e canali, per questa strada si nutric\u00f2 lungamente.\nE tanto era l\u2019abbondanza a quel tempo ch\u2019avea il contado di Firenze\nche poco rincar\u00f2 ogni cosa, e se questo spaccio non fosse occorso, a\nniente sarebbe stato il grano e \u2019l biado e l\u2019olio in quell\u2019anno. Se\nnon fossono nati quattro leoni, due maschi e due femmine, il d\u00ec di san\nBarnaba, passato mi sarei del non iscriverlo.\nCAP. LVIII.\n_Come l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 volle rompere la strada da Firenze, e\nricevette danno._\nMesser Giovanni da Bileggio, valoroso e savio cavaliere milanese, e\nmolto amato da messer Bernab\u00f2, era in quel tempo capitano generale\ndella gente del Biscione sopra Bologna e di quella di Romagna, il quale\navendo alla citt\u00e0 tolte tutte le strade, e vedendo che rimaso non gli\nera altro sostegno che la strada dell\u2019Alpe che venia a Firenze, si\npens\u00f2 di romperla, e ordin\u00f2 una cavalcata a Pianoro. Il capitano di\nBologna, che era Malatesta Ungaro, sent\u00ec il fatto, e mise la notte\ngente fuori, i quali si misono in aguato, e venendo i nemici uscirono\nloro addosso, ed ebbono vittoria di quella gente, ch\u2019erano dugento\nbarbute, che pochi ne camparono che non fossono o morti o presi, per la\nqual cosa il capitano dell\u2019oste prese sdegno, e ordin\u00f2 di strignersi\npi\u00f9 alla terra, e di fare correre fino alle porte d\u2019ogni parte, e\na mezzo il mese di giugno lasciate fornite l\u2019altre bastite si mise\ninnanzi con l\u2019oste, e puosesi al Ponte maiore in sulla strada tra\nBologna e Imola, e ivi ferm\u00f2 il campo presso alla citt\u00e0 un miglio.\nCAP. LIX.\n_Come fu sconfitto l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 al Ponte a san Ruffello._\nVedendo il capitano messer Giovanni da Bileggio avere recata la citt\u00e0\ndi Bologna a grandi stremi, che rimasa non l\u2019era via d\u2019aiuto altro\nche la strada da Firenze, avendo animo di trarre quella guerra al suo\ndesiderato fine, sentendo che nella citt\u00e0 non avea oltre a trecento\nuomini d\u2019arme a cavallo, e che \u2019l capitano che fu di Forl\u00ec era sopra\nd\u2019Arimini, e correa senza contasto con millecinquecento cavalieri\ntutto il paese, pens\u00f2 di porre una grossa e forte bastita al Ponte a\nSan Ruffello presso a Bologna in sulla strada da Pianoro, acciocch\u00e8\nal tutto si levasse alla citt\u00e0 ogni soccorso, e questo mise in opera,\ne mossesi con tutta la sua oste, ch\u2019erano pi\u00f9 di millecinquecento\ncavalieri, e duemila masnadieri, e molti altri fedeli degli Ubaldini,\ne con lui nel vero era tutto il fiore della gente di messer Bernab\u00f2,\navendo mandati trecento altri cavalieri per scorta alla vittuaglia\nche venia di verso Ferrara, con grande apparecchio di vittuaglia e\nd\u2019altro arnese, e a d\u00ec 16 di luglio del detto anno si misono per lo\nfiume della Savena, e senza trovare contasto furono al Ponte a san\nRuffello, e quivi fermarono il campo per edificare la bastita, e con\ngrande sollecitudine attendeano a fare i fossi, e conducere il legname\nd\u2019ogni parte. In questo stante, come fu volont\u00e0 di Dio, messer Galeotto\nde\u2019 Malatesti da Rimini, cavaliere di grande ardire e maestro di\nguerra, avea ricolti in Faenza cinquecento barbute e trecento Ungari\nper danneggiare la gente di messer Francesco degli Ordelaffi, ch\u2019era\nsopra Arimini, come detto \u00e8, il quale sentendo l\u2019oste da Bologna messa\nin mal passo, di presente cavalc\u00f2 a Imola, e da Imola la sera a d\u00ec 19\ndi luglio improvviso a\u2019 nemici cavalc\u00f2 per modo, ch\u2019alle cinque ore\ndi notte fu a Bologna, non sapendo i Bolognesi alcuna cosa. Messer\nMalatesta Unghero suo nipote capitano in Bologna il ricevette la notte\ns\u00ec contamente, che i nemici non lo sentirono, n\u00e8 eziandio i Bolognesi\nche erano a dormire, pensando fossono gente di guardia, e in quel resto\ndella notte agiarono le persone e\u2019 cavalli come poterono il meglio:\nla mattina per tempo serrate le porte della citt\u00e0 fece assentire a\u2019\ncittadini, come volea assalire i nemici, i quali inanimati e confortati\ndalla grazia la quale Dio mandava loro, tutti di volont\u00e0, con piena\nsperanza di vittoria presono l\u2019arme, e gran parte i falcioni in mano,\ne dato il segno d\u2019uscire fuori al suono della campana della giustizia,\nla domenica mattina a d\u00ec 20 di luglio, ordinate le battaglie, e dato\nil nome, messer Galeotto col potest\u00e0 di Bologna, ch\u2019era pro\u2019 e valente\ncavaliere, e messer Malatesta Ungaro con settecento barbute, e con\ntrecento Ungari, e con quattromila Bolognesi i pi\u00f9 bene armati, feciono\naprire le porti, e uscirono della terra, e non tennono per la diritta\nstrada, anzi si misono maestrevolmente per lo piano del fiume della\nSavena onde erano entrati i nemici, acciocch\u00e8 quindi non potessono\ntornare, e alcuna parte del popolo misono per le ripe a traverso sopra\ndove erano i nemici. Il cammino fu corto, sicch\u00e8 si veddono prima\nquelli del campo la gente addosso da due parti, che sapessono che gente\nd\u2019arme fosse venuta in Bologna, nondimeno come uomini esperti in arme\ne di gran cuore, bench\u00e9 \u2019l subito caso gli smarrisse, presono ardire\ne feciono testa, ordinandosi alla battaglia in fretta come poterono\nil meglio, e di presente misono gente in su un colle sopra il ponte\nper riparare a quelli che scendevano per la valle; ma vedendo venire\nquelli della citt\u00e0 baldanzosi e con gran cuore, abbandonarono il colle,\ne tornarsi all\u2019altra oste. Messer Galeotto e i suoi gli assalirono\nmolto arditamente innanzi alla venuta del popolo co\u2019 falcioni, e i\nnemici francamente gli ricevettono, combattendo con loro aspramente;\nma sopraggiugnendo il popolo, e cominciandosi a mescolare tra\u2019 nemici\ncon loro falcioni, dopo lunga difesa gl\u2019invilirono e ruppono, e molti\nn\u2019uccisono, e perch\u00e8 erano in parte da non potere fuggire, quasi\ntutti s\u2019arrenderono a prigioni, che pochi ne camparono. Il podest\u00e0\ndi Bologna fu fedito a morte in quella battaglia, e poco appresso\nmor\u00ec in Bologna. Trovarsi morti in picciolo spazio di campo dove\nporre si dovea la bastita quattrocentocinquantasei uomini, i quali\ntutti furono sotterrati nel fosso che fatto aveano, e per l\u2019altro\ncampo qua e l\u00e0 pi\u00f9 d\u2019altrettanti; in tutto numerati furono i morti\nnovecentosettanta, e quattrocento cavalli. I presi furono oltre a\nmilletrecento: a\u2019 forestieri tolte furono l\u2019armi e\u2019 cavalli e lasciati\nalla fede, che furono pi\u00f9 d\u2019ottocento; gl\u2019Italiani furono ritenuti, s\u00ec\nper lo scambiare, s\u00ec per porre loro la taglia. De\u2019 caporali fu preso\nmesser Giovanni da Bileggio capitano generale dell\u2019oste, e Guasparre\ne Giovanni di Nanni da Susinana, e Andrea delle Piaggiuole tutti\ndegli Ubaldini, e pi\u00f9 altri; costoro furono rassegnati al legato, e\nimprigionati in Ancona. La vittuaglia che nell\u2019oste trovarono fu grande\nquantit\u00e0, e gli arnesi che presono furono di gran valuta, perocch\u00e8\nmolto adorna era la cavalleria e i masnadieri d\u2019arnesi d\u2019argento,\nd\u2019armadure e robe, e aveano danari assai, e venticinque migliaia di\nfiorini d\u2019oro ch\u2019erano giunti nel campo per fare la paga a\u2019 soldati.\nLa vittoria fu grande e singolare, che essendo Bologna abbandonata\ndall\u2019aiuto della Chiesa, dall\u2019imperadore, da\u2019 signori di Lombardia\ne da\u2019 comuni di Toscana, e posta negli estremi, per occulta via fu\nliberata, perocch\u00e8 molti affermarono, e per intendimenti si tenne\nessere il vero, che veggendo il legato di Spagna, il quale era in\nAncona tornato dal re d\u2019Ungheria senza aiuto e senza consiglio, che\nBologna era in termine che senza riparo dovea venire nelle mani di\nmesser Bernab\u00f2, e per tanto temendo, e non osando di tornare a Bologna\nper non venire nel cruccio del popolo, o nelle mani del tiranno,\nche per le sue virt\u00f9 e grande animo forte l\u2019odiava, stando in forti\npensieri, mand\u00f2 per il vecchio messer Malatesta da Rimini, col quale\npi\u00f9 giorni stato in segreto sopra i fatti di Bologna, e per loro\ntirato in considerazione, che la forza del tiranno era tale, alla\nquale unita resistenza non era, e che messer Giovanni da Bileggio era\nvoglioso al terminare dell\u2019impresa per riportarne l\u2019onore, e gli parea\nche il suo desiderio ritardasse la strada ch\u2019era aperta a\u2019 Bolognesi\ndi verso Firenze; da questi luoghi il savio messer Malatesta prese il\nsottile avviso, che fatto gli venne, e con coscienza del legato mand\u00f2\nsuo segreto ambasciadore nel campo a messer Giovanni da Bileggio con\nverisimili argomenti avvisandolo, che nel segreto amico non era del\nlegato per le terre che tolte gli avea, e che di lui fidare non si\npotea, che venendo nel colmo di quello che appetia non gli togliesse\nil resto, e che per\u00f2 volentieri attenderebbe ad abbassare il legato e\nil suo orgoglio; ma perch\u00e8 il legato gli avea sopra capo il castello\ndi sant\u2019Arcangiolo, non osava levare il dito, nel quale fermava avere\ntrattato per torlo al legato se avesse spalle e forza di gente d\u2019arme,\nla quale dicea non potere essere meno di millecinquecento barbute:\ngiugnendo al fatto, che come messer Galeotto, ch\u2019era in Bologna con\nmesser Malatesta vicario, fosse da lui avvisato, sotto colore di\nsoccorrere a Rimini, come verso l\u00e0 sentisse cavalcato la gente del\nsignore di Milano, trarrebbe di Bologna tutta la buona gente d\u2019arme,\nlasciando la trista sott\u2019ombra di guardia della terra, e il simile\nfarebbe dell\u2019altre terre della Chiesa, e che venendo il pensiere ad\neffetto, come ragionevolmente dovea, esso messer Giovanni liberamente\ne senza contasto veruno potea porre bastite e rompere la strada\nfiorentina. A messer Giovanni piacque il trattato, e diede piena fede\nall\u2019ambasciadore, lettera, suggelli, e carte a lui presentate da parte\ndi messer Malatesta, e di presente elesse capitano di millecinquecento\nbarbute, come detto \u00e8 di sopra, messer Francesco degli Ordelaffi, e\nlo f\u00e8 cavalcare sopra Rimini, come avvis\u00f2 del tutto messer Galeotto\navvisato della baratta di messer Malatesta, onde f\u00e8 gli atti e le\nmostre dette di sopra, il perch\u00e8 ne segu\u00ec la sconfitta al ponte a\nsan Ruffello. Non so se pi\u00f9 sagace e malizioso trattato s\u2019avesse\nsaputo ordinare Ulisse o il conte Guido da Montefeltro. Cesare non\nlasciava ragunare la gente di Pompeo, temendo il numero e la bont\u00e0 de\u2019\ncavalieri; costui con astuzia la raunata divise, e indusse il savio\ncapitano in folle impresa, della quale segu\u00ec la pi\u00f9 notabile sconfitta\ndi morte d\u2019uomini pregiati d\u2019arme che fosse in Italia di nostro ricordo\ndi cento anni addietro.\nCAP. LX.\n_Come segu\u00ec appresso alla sconfitta di san Ruffello._\nI trecento cavalieri che conduceano per loro scorta la vittuaglia nel\ncampo, essendo in sul Bolognese, sentendo la novella della sconfitta\nabbandonaro la roba, e camparono le persone. Quelli delle bastite\nle lasciarono prima fossono assaliti, e salvaronsi in Pimaccio, e\u2019\nBolognesi l\u2019arsono, e la roba recarono alla citt\u00e0. Per questa vittoria\ni Bolognesi alquanto ne stettono in festa e in riposamento: il legato\nne prese cuore di potere la citt\u00e0 aiutare e sostenere: mostra ne f\u00e8,\nma poca operazione ne f\u00e8 in que\u2019 tempi, perocch\u00e8 sopra modo era la\npossanza del suo avversario e la volont\u00e0 pertinace. Messer Bernab\u00f2\nquando questa novella sent\u00ec ne mostr\u00f2 dolore singolare rodendosi dentro\na guisa di cane arrabbiato, e vestissene a nero, e molti giorni stette\nche niuno gli pot\u00e8 parlare. Sentissi che di ci\u00f2 contro a\u2019 Fiorentini\nprese grave sdegno, affermando ch\u2019erano cagione del suo danno e\nvergogna per lo mantenere della strada, ma non se ne scoperse, perocch\u00e8\ntutto che irato fosse ben conosceva che a\u2019 Fiorentini era lecito di\ncos\u00ec fare senza corruzione di pace. Messer Francesco Ordelaffi come\nseppe la novella scorse la Marca, e di notte con sua brigata prese\nil congio per la via della marina, e in ventiquattro ore cavalc\u00f2\ncinquantasei miglia, e con la gente a lui accomandata si ricolse in\nLugo.\nCAP. LXI.\n_Come messer Bernab\u00f2 si credette prendere Correggio per trattato, e sua\ngente vi rimase presa._\nL\u2019animo che \u00e8 insaziabile del tiranno, che sempre \u00e8 con desiderio\ndi sottomettere i popoli liberi, e gli altri tirannelli che sono\nminori, tenea messer Bernab\u00f2 oltre alla presa di Bologna trattato di\ntorre Correggio, n\u00e8 la gastigatura di san Ruffello l\u2019avea rimosso dal\nseguirlo; onde all\u2019uscita di giugno detto anno, credendosi avere il\ncastello di Correggio, messer Ghiberto che n\u2019era signore, e da esso\naveano il titolo di loro casa e famiglia, sentito il fatto, senza farne\nmostra procur\u00f2 aiuto da\u2019 signori di Mantova, i quali segretamente gli\nmandarono quindici bandiere di cavalieri, i quali di notte entrarono\nin Correggio: venuta la cavalleria di messer Bernab\u00f2 nel fare del\ngiorno, come era dato l\u2019ordine, che furono diciassette bandiere, furono\nlasciati entrare nelle barre che erano davanti al castello, e fatto\nvista di volerli mettere nella terra, secondo l\u2019ordine dato apersono\nle porti della terra, e calarono i ponti, e la gente da cavallo\nch\u2019era nel castello con molta fanteria si strinsono loro addosso con\ngrandi grida, e rinchiusi tra le barre, e storditi per lo subito e\nnon pensato assalto perderono il cuore alla difesa, e per\u00f2 gli ebbono\ntutti a prigioni, e guadagnate l\u2019arme e\u2019 cavalli liberaro il castello\ndall\u2019aguato del tiranno.\nCAP. LXII.\n_Dell\u2019armata del re di Cipro, e il conquisto di Setalia e del\nCandeloro._\nDando alcuna parte agli avvenimenti d\u2019oltremare, lo re di Cipro avendo\nfatta sua armata, e non sapendo dove si dovesse andare, a d\u00ec 24 di\nluglio 1361 con ventiquattro galee armate, con l\u2019aiuto di tre galee\ndello Spedale armate di franchi e valorosi frieri, e con altri legni\ne armati e di carico in numero di cento vele si part\u00ec di Cipro, e del\nmese seguente d\u2019agosto percosse sopra la citt\u00e0 di Setalia, la quale\nera d\u2019un signore di Turchi di gran possanza, e avendo sua gente posta\nin terra, e combattendo la terra, che avea tre procinti di mura, de\u2019\nquali nel primo stavano mercatanti e Giudei, nel secondo i saracini, e\nnel terzo i Turchi ch\u2019erano signori della terra, ed essendo tutta gente\nsprovveduta e poco atta alla difesa, il perch\u00e8 i cristiani entrarono\ndentro per forza, onde il signore che v\u2019era con poca gente se n\u2019usc\u00ec,\ne la terra fu presa. Ma poco stante il Turco torn\u00f2 con pi\u00f9 di tremila\nTurchi tra a cavallo e a pi\u00e8, e senza dubbio arebbe ripresa la terra,\nse non fosse la provveduta guardia che feciono li frieri, i quali\nsapendo loro costumi del continovo stavano apparecchiati: e ci\u00f2 venne a\ngran bisogno, perocch\u00e8 ritennono l\u2019empito e subito assalto de\u2019 Turchi,\ntanto che l\u2019altra gente s\u2019arm\u00f2, e venne alla difesa. I Turchi veggendo\nche loro impresa venia stolta, con loro vergogna e dannaggio si\npartirono. Lo re di Cipro avuta questa vittoria mont\u00f2 in galea, e con\nsua armata se n\u2019and\u00f2 al Candeloro, il quale era al governo e signoria\nd\u2019un altro Turco, il quale senza volere fare difesa s\u2019acconci\u00f2 con il\nre, e riconobbe la terra da lui, e li promise certo censo e tributo\nd\u2019anno in anno: e il re lasciata fornita Setalia si torn\u00f2 nell\u2019isola di\nCipro.\nCAP. LXIII.\n_Come i Turchi di Sinopoli assalirono Caffa, e furono vinti da\u2019\nGenovesi._\nIn questa state i Turchi di Sinopoli armarono quattordici galee nel\nMare maggiore, e assalirono il Caffa terra e porto di Genovesi, e\nfecionvi danno assai e per mare e per terra, perch\u00e8 i Genovesi di ci\u00f2\nnon si guardavano; ma tantosto in Caffa e in Pera armarono quattordici\ngalee come in fretta il meglio poterono per seguitare i Turchi nel\nritorno che fare doveano a Sinopoli, e trovatili, li seguirono,\nfuggendo i Turchi, tanto che per forza li feciono dare a terra colle\nbalestra loro, avendone molti e morti e fediti, onde i Turchi per\nforza costretti furono a disarmare, e disarmati i Turchi, i Genovesi\nlasciarono in que\u2019 mari due galee armate, e l\u2019altre disarmarono. I\nTurchi veggendo queste due galee rimase tra loro, di subito cinque\nn\u2019armarono, e vennono contro quelle de\u2019 Genovesi, le quali cominciarono\na fuggire, e\u2019 Turchi a seguitare, tanto che essi si trovarono insieme\nin alto mare. Come i Genovesi si vidono dilungati da terra, girarono\nle loro galee contro le cinque de\u2019 Turchi, e misonsi tra loro, essendo\nbene ordinati, e colle loro balestra non gettavano verrettone in vano,\nma fedivano soprassaglienti e galeotti senza rimedio, onde i Turchi si\nmisono alla fuga, e i Genovesi li seguitarono tanto che si diedono a\nterra, e salvarono i corpi delle loro galee, mortine assai di loro, e\nfediti e magagnati.\nCAP. LXIV.\n_Come le compagnie condotte in Piemonte cominciarono a guerreggiare._\nLe compagnie tratte per lo marchese e per la Chiesa di Provenza,\ncondotte in Piemonte in questi tempi della moria cominciata in\nMilano del mese d\u2019agosto, cominciarono a guerreggiare nel Piemonte,\ndove acquistarono al marchese sette castella le pi\u00f9 loro arrendute.\nMesser Galeazzo si ridusse a Moncia fuggendo di Milano la mor\u00eca che\nasprissimamente li perseguitava, avendo le sue terre fornite di buona\nguardia, e in campo non mise persona: ben tent\u00f2 di trarne al suo soldo\ndi quelli della compagnia, e d\u2019alcuna parte li venne fatto per la forza\ndel fiorino d\u2019oro, non dimanco il resto rimase s\u00ec grande, che corse\ninsino al Tesino senza contasto. Messer Bernab\u00f2 veggendo la pestilenza\nsformata in Milano, che per giorno fu che lev\u00f2 ottocento, e mille e\nmilledugento, e tal fu d\u00ec de\u2019 millequattrocento, e ben parea volesse\nristorare i Milanesi, cui per l\u2019altre mor\u00ede non avea assaggiati,\nsi part\u00ec di Milano con tutta sua famiglia, e andonne al suo nobile\ncastello di Marignano, il quale \u00e8 verso Lodi, il luogo foresto e di\nsana aria, facendo gran guardia che nessuno non gli andasse a parlare,\navendo ordinato col campanaro della torre, che per ogni uomo che\nvenisse a cavallo desse un tocco. Occorse che certi gentili e ricchi\nuomini di Milano andarono a Marignano, ed entrarono dentro; il signore\nli ricevette bene, ma turbato contro il campanaro mand\u00f2 su la torre\nsuoi sergenti, e comand\u00f2 lo gettassono della torre; i quali andati su,\ntrovarono il campanaio morto appi\u00e8 della campana: per la qual cagione\nmesser Bernab\u00f2 terribilmente spaventato di presente senza arresto\nabbandon\u00f2 il castello, e si mise nel pi\u00f9 salvatico e foresto luogo, ove\npi\u00f9 di due miglia da lunga fece rizzare pilastri con forche ne\u2019 quali\nera scritto, che chi li passasse su vi sarebbe appeso. Per allora in\navanti sua vita fu tanto remota e solitaria, che voce corse, e dur\u00f2\nlungamente, ch\u2019egli era morto, ed egli n\u2019era contento per farne a tempo\nsuo vantaggio. Giugneremo a questo, per non fare nuovo capitolo, che in\nquesti tempi della moria, che anche requistava in Vinegia, mor\u00ec il doge\nloro, e funne fatto un giovane di quarantasei anni, il quale non era di\ngran famiglia, nomato Lorenzo Celso: costui per la maturit\u00e0 de\u2019 suoi\ncostumi e virt\u00f9 mont\u00f2 a questo onore, e innanzi ai pi\u00f9 antichi e pi\u00f9\nnobili cittadini oltre a loro consuetudine: e pertanto notato l\u2019avemo,\ne per la sequela del fatto.\nCAP. LXV.\n_Di grandi terremoti che furono in Puglia, e assai guastarono della\ncitt\u00e0 d\u2019Ascoli._\nA d\u00ec 27 di luglio del detto anno, in su l\u2019ora del vespero, furono in\nPuglia grandissimi terremuoti, e apersono la citt\u00e0 d\u2019Ascoli di Puglia,\ne quasi tutta la subissarono con morte d\u2019oltre a quattromila cristiani.\nA Canossa caddono parte delle mura della terra, e molti dificii puose\nin ruina; in altre parti fece poco danno. Furono ancora in questo anno\ngrandine molte e sfoggiate, le quali ai grani e agli ulivi feciono\ndanno assai pi\u00f9 che nell\u2019altre stati.\nCAP. LXVI.\n_Delle rivolture del paese di Fiandra in questa state._\nDel mese di luglio del detto anno, nella citt\u00e0 di Bruggia fu grande\nbattaglia tra\u2019 tesserandoli e folloni dall\u2019una parte, e da\u2019 borgesi\ndall\u2019altra per assai lieve e subita cagione, e non senza molti morti\ne magagnati da catuna delle parti: e poco appresso seguit\u00f2 ch\u2019e\u2019\ntesserandoli e folloni della citt\u00e0 depuosono il balio del conte senza\ncolpa apponendoli tradigione. E in que\u2019 giorni il conte Audinarda facea\nla festa della figliuola, la quale avea data per moglie al duca di\nBorgogna, il quale ci\u00f2 sentendo mand\u00f2 pregando li Schiavini e gli altri\nch\u2019elli attendessono tanto che egli avesse sua festa fornita, dicendo,\nche poi terrebbe giudizio del balio suo, e che se lo trovasse colpevole\nsi rendessono certi che ne farebbe a loro sodisfazione rilevata\ngiustizia e vendetta. I bestiali e arroganti di quei mestieri recando\na vile la preghiera del conte, in vergogna e dispetto suo appendere\nlo feciono alle finestre del suo palagio: onde il conte con tutto suo\nseguito forte ne furono turbati, ma assisesi al mostrare di non calere,\nn\u00e8 mostrare di sua onta.\nCAP. LXVII.\n_Come fu decapitato messer Bocchino de\u2019 Belfredotti signore di\nVolterra, e come la citt\u00e0 venne alla guardia de\u2019 Fiorentini._\nE\u2019 ne pare di necessit\u00e0 per pi\u00f9 brevit\u00e0 della nostra opera, e per\nmeglio dare ad intendere il fatto di che dire intendiamo, raccogliere\nalquante cose, le quali in piccolo trapassamento di tempo hanno fine\nstraboccato. Messer Francesco de\u2019 Belfredotti da Volterra sopra il\nciglio di Volterra tenea la forte rocca di Montefeltrano, e messer\nBocchino di messer Ottaviano suo consorto era signore della terra, il\nquale cupido d\u2019aumentare sua tirannia, con solleciti aguati cercava\ndi torre a messer Francesco detta fortezza, e dopo la morte di\nmesser Francesco, messer Bocchino non lasciava stare i figliuoli in\nVolterra. Il perch\u00e8 il comune di Firenze sentendo la detta dissensione,\nperch\u00e8 non terminasse a peggio, s\u2019interpose tra loro, e li ridusse\na concordia, e obbligaronsi insieme a pena, la quale per l\u2019uno e per\nl\u2019altro promise il comune di Firenze per osservanza di pace; per la\nquale i figliuoli di messer Francesco tornarono in Volterra sotto\nl\u2019ubbidienza di messer Bocchino. E stando senza alcuno sospetto,\nall\u2019uscita d\u2019agosto del detto anno, il tiranno a un Volterrano,\na cui nella guerra era stato morto un suo congiunto da un altro\nVolterrano amico e servidore de\u2019 figliuoli di messer Francesco, con\nsegreta licenza di messer Bocchino, trovando il suo nemico a dormire\nlo fece uccidere, e colui che morto l\u2019avea con suoi parenti e amici\nfece testa, perch\u00e8 la terra si commosse a cittadinesca battaglia,\ne alquanti degli amici de\u2019 figliuoli di messer Francesco vi furono\nmorti traendo al romore, e i detti figliuoli di messer Francesco, come\nera per lo tiranno ordinato, furono presi contro le convenenze per\nle quali il comune di Firenze era mallevadore; il perch\u00e8 il comune\nper suoi ambasciadori mand\u00f2 ricordando al tiranno li dovesse piacere\nnon farli questa vergogna, dicendo, come a richiesta e preghiera di\nlui avea promessa sua fede. Il tiranno con simulate parole tenea gli\nambasciadori a parole, e dal malvagio proponimento non si toglieva.\nI Fiorentini veggendo che le parole non ammollavano le parole finte\ne mal disposte del tiranno, e sentendo che ci\u00f2 che fatto avea era\ncontro alla comune volont\u00e0 de\u2019 Volterrani, e temendo che la cosa\nnon avesse mal fine e pericoloso per lo comune, non furono lenti, ma\nprestamente mandarono gente d\u2019arme, e fornirono la rocca de\u2019 figliuoli\ndi messer Francesco, minacciando di guerra se non si facesse ammenda.\nIl tiranno veggendo l\u2019animo de\u2019 Fiorentini contro a lui giustamente\nirato si forniva di gente di sua amist\u00e0, e spezialmente de\u2019 Pisani,\nper riparare alla forza e mantenere sua fellonia, perseverando nel\ndetto malvagio proponimento. Certi cittadini di Firenze per trattato\nche dentro aveano d\u2019avere il torrione del monte, che \u00e8 fuori delle\nmura, domenica mattina a d\u00ec 24 d\u2019agosto vi cavalcarono, e dalla gente\nde\u2019 Pisani vi furono scoperti, e ributtati con vergogna senza altro\ndanno, il perch\u00e8 il comune v\u2019ingross\u00f2 gente, e pose oste a Volterra.\nLa quale essendo in sul Volterrano, messer Bocchino per dispetto de\u2019\nFiorentini tratt\u00f2 di dare la signoria a\u2019 Pisani per trentadue migliaia\ndi fiorini d\u2019oro. Il popolo di Volterra sentendo ch\u2019e\u2019 si trattava\ndi venderlo, e farli schiavi de\u2019 Pisani, tutti d\u2019uno volere presono\nl\u2019arme, e corsono all\u2019ostiere dove erano i cavalieri de\u2019 Pisani, a\u2019\nquali incauti e sprovveduti tolsono le selle e\u2019 freni de\u2019 cavalli,\ne ci\u00f2 fatto, senza far loro altra villania li misono fuori della\nterra, e loro renderono freni, selle, cavalli e armadure, e i fanti\nforestieri accomiatarono, e si partirono. Ci\u00f2 fatto, appresso furono\nal palagio del tiranno, il quale con lunga e composta diceria volendo\ntiranneggiare li animava a mantenere loro libert\u00e0 e franchigia, e\nquinci li credette dal loro proponimento levare, ma i terrazzani\ntrafitti dalle sue crudeli operazioni a suo dire non prestarono\norecchie, ma sdegnosamente rispuosono, che bene saprebbono usare loro\nlibert\u00e0, e che per ci\u00f2 fare voleano in guardia lui, e sua famiglia, e\ncerti suoi congiunti, e a Firenze mandarono per capitano di guardia, e\na Siena per podest\u00e0. Il capitano prestamente vi fu mandato un popolano,\ne dietro ad esso mandati furono quattro ambasciadori, e simile feciono\ni Sanesi. I Fiorentini temendo i movimenti de\u2019 popoli vari, e vani e\ninstabili, al continovo vi facevano cavalcare gente d\u2019arme, e a cavallo\ne a pi\u00e8, ancora perch\u00e8 a loro parea che i Volterrani volessono col\nbraccio de\u2019 Sanesi raffrenare il nostro comune: il perch\u00e8 alla gente\nde\u2019 Fiorentini segretamente fu comandato, che procacciassono delle\ncastella de\u2019 Volterrani, i quali cavalcarono a Montegemmoli, ed ebbonlo\nper forza, ed a il loro Montecatino, e anche l\u2019ebbono, e cos\u00ec pi\u00f9 altre\ncastellette. I Volterrani mandarono a Firenze loro ambasciadori per i\nquali domandavano libert\u00e0 con l\u2019ammenda de\u2019 loro dannaggi, eleggendo\ncapitano di guardia di Firenze: la cosa per pi\u00f9 giorni stette in\ncontroversia e in dibattimento. I Fiorentini che in Volterra aveano i\nloro ambasciadori, e il capitano, e gran parte de\u2019 nove, e di buoni\npopolani la maggior parte a loro segno feciono strignere la gente\ndell\u2019arme vicino alle mura di Volterra, avendo presentito che la setta\nche voleva i Sanesi la notte vi doveano mettere gente d\u2019arme, e cos\u00ec\ndi vero seguiva, che la notte cinquanta cavalieri e centocinquanta\nfanti alla condotta d\u2019alcuno de\u2019 Malavolti, giugnendo con la gente alla\nfonte presso alla terra, cadde nell\u2019aguato de\u2019 Fiorentini, e fu preso\ncon tutta la gente, e facendo vista di non conoscerli, loro fu tolta\nl\u2019arme e\u2019 cavalli, ma poich\u00e8 per lingua e nome si furono palesati,\nripresi da\u2019 capitani dell\u2019impresa facevano contro al comune di Firenze,\nassai cortesemente fu loro renduta l\u2019arme e\u2019 cavalli, e rivolti per\nla via ond\u2019erano venuti, con assai vergogna di loro matta arroganza e\npresunzione. Il popolo di Volterra di suo errore ravveduto la guardia\ndel cassero della citt\u00e0 diedono a\u2019 Fiorentini. I Sanesi ch\u2019erano in\nVolterra senza aspettare comiato si partirono, e\u2019 Fiorentini del tutto\nrimasono signori, con certe convegne, che i Volterrani promisono in\nperpetuo d\u2019avere gli amici del comune di Firenze per amici, e i nemici\nper nemici, e che la rocca dieci anni si guardasse per i Fiorentini,\ne del continovo debbino prendere capitano di popolo di Firenze; e per\nloro ordine hanno fatto, che da Pisa, n\u00e8 nella citt\u00e0 n\u00e8 nel contado\nloro non possa venire uficiali n\u00e8 alcuno altro d\u2019alcuna citt\u00e0 o terra\npresso a Volterra a trenta miglia; e passato il tempo di quelli nove\nuficiali ne furono altri. E il popolo di Volterra al tutto volle che\n\u2019l capitano di Firenze che v\u2019era facesse tagliare la testa a messer\nBocchino, e cos\u00ec fece una domenica mattina a d\u00ec 10 d\u2019ottobre del detto\nanno, messo prima nella terra la cavalleria de\u2019 Fiorentini con volont\u00e0\ndel popolo, il quale la ricevette a grande onore.\nCAP. LXVIII.\n_Come il patriarca d\u2019Aquilea fu a tradimento preso dal doge d\u2019Osteric._\nFama era per tutta Italia per lungo tempo, la quale si trov\u00f2 in\nfine non vera, che \u2019l doge d\u2019Osteric era dall\u2019imperadore fatto re di\nLombardia, ma quale la cagione si fosse, mosse di suo paese con grande\ncompagnia di gente d\u2019arme, e pass\u00f2 nel patriarcato d\u2019Aquilea del mese\ndetto, dove confidentemente fu ricevuto. Il patriarca avea ripresi\ndi sue ragioni certi paesi d\u2019entrata di fiorini cinquemila per anno o\npi\u00f9 al patriarcato, i quali dal duca vecchio erano stati occupati al\ntempo della vacazione del patriarcato. Questo duca movendo questione\nal patriarca di queste terre, vennono a concordia di stare di ci\u00f2 alla\nsentenza dell\u2019imperadore suocero del detto duca: e per trarre la cosa\na pacifico fine di concordia si mossono di l\u00e0, e in compagnia andavano\nall\u2019imperadore, ed entrati nelle terre del duca nella citt\u00e0 di Vienna,\nsotto colore di fare onore al patriarca il duca li fece apparecchiare\nun grande ostiere, e credendo il patriarca l\u2019altro d\u00ec con lui seguire\nil suo viaggio, vi si trov\u00f2 arrestato e preso; e domandandoli delle\nterre del patriarcato, il valente patriarca, messo sua persona a\nnon calere, fece per suo segreto e fidato messo, e con sua lettera e\nsuggello comandamento a tutti i sudditi suoi, che per niuno caso che\ngli avvenisse niuna glie ne dessono. Il patriarca era messer.... della\nTorre di Milano, prelato antico e di buona fama. Questa fu la riuscita\ndella grande fama del detto duca per lo reame d\u2019Arli, la quale per\npi\u00f9 riprese fece ristrignere a parlamento i signori di Lombardia per\nprovvedere a loro difesa.\nCAP. LXIX.\n_Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san Giovanni Laterano._\nEgli \u00e8 da dolere a tutti i cristiani quello che ora sono per narrare\ndella nobile e venerabile chiesa di san Giovanni Laterano di Roma, e\nci\u00f2 pare piuttosto ammirabile che degno di fede. Uno maestro ricopriva\nil tetto della nave maggiore della detta chiesa, la quale essendo\ncoperta di piombo conveniva che con ferri roventi le congiunture delle\npiastre si congiugnessero per ammendare i difetti, ed avendo il maestro\nil fuoco acceso di carboni sopra il tetto, per sinistro avvenimento\nun poco di carbone cadde, e come che si entrasse, senza avvedersene il\nmaestro si pos\u00f2 sopra una trave, e quella incese, e appresso con quella\ntutto l\u2019altro edifizio senza potere essere atato a spegnere, non che\ngrande popolo non vi traesse con ogni argomento, ma quasi come fosse\nvolont\u00e0 di Dio tutta la nave della chiesa, e tutte l\u2019altre parti di\nquella, e tutte le cappelle con quella di Sancta Sanctorum arse, che\nnulla vi rest\u00f2 fuori che le mura, con danno inestimabile del costo di\ntale e tanto edificio: \u00e8 vero che le reliquie di Sancta Sanctorum si\ncamparono; e ci\u00f2 avvenne del mese d\u2019agosto del detto anno. Giugnendo\nfuoco a fuoco, in questo medesimo tempo nelle contrade di Bossina fuoco\ncadde da cielo, e arse gran paese senza riparo nessuno.\nCAP. LXX.\n_Del maritaggio del duca di Guales primogenito del re d\u2019Inghilterra._\nContato avemo addietro le prodezze e grandi valentrie del duca di\nGuales primogenito del famoso re Adoardo d\u2019Inghilterra, a cui vivendo\nla corona succed\u00e8. Costui in questi giorni si tolse per moglie una sua\nconsobrina contessa di Chienne, la quale era di tempo, e vedova di due\nmariti di piccoli baronaggi, e aveva fatti pi\u00f9 figliuoli. La maraviglia\nche di ci\u00f2 prese chiunque sapea suo alto stato, vita e condizione, ce\nn\u2019ha fatto qui fare nota, forse con iscusa alcuna.\nCAP. LXXI.\n_Come papa Innocenzio riform\u00f2 santa Chiesa de\u2019 cardinali morti per la\nmor\u00eca._\nErano morti in pochi d\u00ec nella corte di Roma il vicecancelliere di\nPreneste, il cardinale Bianco, quello d\u2019Ostia e di Velletri, quello\ndi Calamagna, messer Andrea da Todi detto il cardinale di Firenze,\nil cardinale della Torre, e quello che fu generale de\u2019 frati minori,\ne un altro. Il papa volendo riformare santa Chiesa di cardinali, nel\ntempo delle digiune del mese di settembre dello anno ne fece altri\notto: il cancelliere di Francia, l\u2019arcivescovo di Ravenna assente, che\npoi mor\u00ec in cammino, ed era Caorsino, l\u2019abate di Clugn\u00ec Borgognone,\nil vescovo di Nemorsi Francesco, l\u2019arcivescovo di Carcassone nipote\ndel papa, messer Guglielmo suo referendario ch\u2019era di Limosi, il\nfigliuolo di messer Pietro da san Marcello, e l\u2019arcivescovo d\u2019Aques in\nGuascogna, tutti oltramontani, e niuno ne fece Italiano, dimostrando\nche di visitare la cattedra di san Piero a Roma era strano al tutto del\ndesiderio e appetito degl\u2019Italiani.\nCAP. LXXII.\n_Come il re Buscialim della Bellamarina fu morto, e delle rivolture di\nGranata._\nRegnando Buscialim in Fessa, ed essendo tornato al regno con l\u2019aiuto\ndel re di Castella, certi caporali cristiani e mori del detto re si\nlevarono senza cagione debita contro al re, e uccisonlo, dicendo,\nche loro non dava loro soldi, ma il vero fu, che morire lo feciono\nperch\u00e8 egli era troppo amico del re di Castella, e la cagione si\nprese, perocch\u00e8 avendo il re di Castella guerra col re di Granata,\nmosse Maomet cacciato dal detto re di Granata, che dovea essere re\negli, a ritornare nel paese, e il re Buscialim a petizione di quello\ndi Castella avea scritto a tutti i rettori delle sue terre ch\u2019avea in\nIspagna, che ubbidissono il detto Maomet come la sua persona, della\nqual cosa turbati i Mori uccisono il loro re Buscialim; e morto costui,\nfeciono re un Busciente, ch\u2019era in prigione fratello del detto re,\nma non era di sana mente, e per\u00f2 altri governava il reame, e costoro\nincontanente contramandarono a\u2019 balii delle terre di Spagna, che non\nlasciassono entrare Maomet in loro terre. E poco appresso, del mese\ndi novembre del detto anno, quelli di Fessa, vedendosi avere il re\nsmemoriato, mandarono ambasciadori a Sibilia a un giovane della casa\nreale di Bellamarina, il quale si stava a Sibilia con un altro suo\nfratello minore assai poveramente: gli ambasciadori lo addomandarono,\nil re di Castella li fece armare una galea e menarlo a Setta, e di l\u00e0\nper terra il condussono a Fessa, e in ogni parte fu ricevuto per loro\nre, e l\u2019altro ch\u2019era mentecatto fu rimesso in prigione: e allora il re\ndi Castella fece pace co\u2019 Mori, e con il loro novello re ritenne grande\namist\u00e0, e da lui ricevette ricchi doni.\nCAP. LXXIII.\n_Come la compagnia spagnuola ch\u2019era nel vescovado d\u2019Arli prese Vascona,\ne poi ne furono cacciati._\nIn questi d\u00ec la compagnia degli Spagnuoli ch\u2019era in Provenza per una\nnotte feciono una lunga cavalcata ed entrarono in Venis\u00ec, e improvviso\na quelli di Vascona entrarono nella citt\u00e0, e uomini e femmine con\narnesi con grandissimo danno e di cittadini e di forestieri recarono in\npreda; e intendendo cos\u00ec fornito a volersi partire, ma i paesani d\u2019ogni\nparte sopravvennono prestamente loro addosso, e furono tanti, che per\nforza vinsono la compagnia, e con gran danno d\u2019essa racquistarono la\npreda, e cacciaronli del paese.\nCAP. LXXIV.\n_Come si scoperse che messer Bernab\u00f2 era vivo, e \u2019l trattato tenea del\ncastello di Bologna._\nEssendo tanto stata la fama di non sapere novelle di messer Bernab\u00f2,\nche li pi\u00f9 affermavano che morto fosse per molti indizi e congetture\nche ci\u00f2 parevano mostrare, esso in questi giorni lavorava alla coperta\ncolla lima sorda, nulla dimostranza dando di s\u00e8, ma piuttosto ampiando\nla fama della morte sua, e cercava trattato, lo quale ordinato avea\ncon uno Spagnuolo e due suoi famigli, a\u2019 quali in grande confidanza\nil legato di Spagna avea accomandato la guardia del castello della\nporta che va verso Modena di Bologna: costui per ingordo boccone di\ndanari per tornarsi ricco a casa l\u2019avea promesso a messer Bernab\u00f2, e di\nci\u00f2 era stato il motore a messer Bernab\u00f2 messer Giovanni da Bileggio\nmentre che l\u00e0 era in prigione, anzi che mandato fosse ad Ancona, e\ndovea averlo la notte di san Bartolommeo d\u2019agosto: e scopersesi questo\ntrattato per un ragazzino che venne al castellano di notte, e fu preso.\nPer questa cagione messer Bernab\u00f2 venne in persona a Parma con duemila\nbarbute non sapendosi la cagione n\u00e8 il perch\u00e8, se non che scoperto il\ntradimento si torn\u00f2 alla caccia, e il castellano con gli altri che gli\nerano consenzienti in Bologna furono attanagliati e impiccati.\nCAP. LXXV.\n_Come si scoperse in Perugia una gran congiura di notabili cittadini\nper mutare stato e reggimento._\nErano nella citt\u00e0 di Perugia in questi tempi molti e molti cittadini,\ne gentili uomini e popolari di buone e antiche famiglie d\u2019animo\nguelfo, le quali quasi del tutto erano schiusi dagli ufici e governo\ndella citt\u00e0, reggendosi la terra per popolani mezzani e minuti, sotto\nla guida e consiglio della famiglia de\u2019 Michelotti e di Leggieri\nd\u2019Andreotto, il quale a quel tempo era il da pi\u00f9, e il maggiore\ncittadino di Perugia, e il pi\u00f9 creduto dal popolo, e molte altre\nfamiglie di buoni popolari e uomini singolari da molto che teneano con\nloro sotto il nome e titolo di Raspanti. Quelli ch\u2019allora s\u2019appellavano\ni mali contenti, e mossi e sollecitati con ammirabile astuzia da uno\nTribaldino di Manfredino spirito malizioso, sagacissimo e inquieto, le\ncui operazioni dipoi scoperte li feciono dai suoi cittadini meritare il\nnome del secondo Catilina; e forse non indegnamente, perocch\u00e8 facendo\ncomparazione da citt\u00e0 a citt\u00e0, non era minore quella di Tribaldino\nverso di s\u00e8, che quella di Catilina verso di s\u00e8. La congiura fu per\nlui lungamente guidata tanto copertamente e cautamente, che niuno\nsegno se ne pot\u00e8 vedere n\u00e8 scorgere per i reggenti, e infra l\u2019altre\nsagaci cautele, che ne us\u00f2 molte, fu questa, che per li parenti e\namici ch\u2019avea intra i reggenti sovente facea falsamente muovere che\ntrattato v\u2019era nella terra, il quale criato era, e trovato non vero,\nil perch\u00e8 spesseggiando ai priori e a\u2019 camarlinghi di Perugia in cui\nstava il tutto del reggimento, era venuto a rincrescimento e a niente\nche si ragionasse di trattato, n\u00e8 prestavano orecchi n\u00e8 davano fede: e\nci\u00f2 fece il malvagio traditore, perch\u00e8 quando il vero trattato venisse\nin campo senza prendere avviso il governo della citt\u00e0, pi\u00f9 certamente\ne pi\u00f9 liberamente avesse l\u2019effetto suo. Quelli cui \u2019l malvagio\nuomo trasse in congiura furono questi: messer Averardo di...... da\nMontesperello, messer Guido dalla Cornia, messer Alessandro.......\nmesser Giovanni di....... da Montemellino, messer Niccol\u00f2 di......\ndelle Mecche, messer Tivieri di...... da Montemellino, tutti cavalieri,\nColaccio di Cucco de\u2019 Baglioni, Francesco di messer Rinuccio da......\ndetto il Zeppa, Francesco di messer Andrea e Iacopo di messer Guido da\nMontemellino, Piero di Neri delle Mecche, Erculano di........ Mattiolo\ndi....... e....... detto lo Squatrano, con altri simili in numero di\npi\u00f9 di quarantacinque gentili uomini e popolani, con seguito d\u2019altri\nnovantaquattro che ne furono condannati, ed oltre a quattrocento altri\ncittadini, i quali per non fare troppo gran fascio furono lasciati\naddietro. Costoro aveano fatto loro capitani Colaccio di Cucco de\u2019\nBaglioni, il Zeppa di messer Rinuccio e Mattiolo di...... e nelle loro\nmani aveano giurato. Costoro a un giorno preso doveano correre la\npiazza, e pigliare il palagio de\u2019 priori e delle signorie, perocch\u00e8\ncome detto \u00e8 pensavano per le beffe de\u2019 trattati non veri trovare i\npriori addormentati: per la citt\u00e0 a\u2019 loro seguaci dispersi in vari\nluoghi deveano fare infocare case per tenere alla bada de\u2019 fuochi\ni cittadini, doveano uccidere i priori e\u2019 camarlinghi, e qualunque\ninnanzi loro si parasse senza riguardo d\u2019amico o di parente. Messer\nAverardo dovea stare di fuori a sollecitare i loro lavoratori, e amici\ndel contado e le loro amist\u00e0, e a ribellare delle castella. E per\ncerto il sollecito reo uomo seguendo lo stile di Catilina avea dato\nordine, che se Dio non avesse posto il rimedio a tanto pericolo, per\ncerto la citt\u00e0 ne venia in desolazione e tirannia. Esso Signore che\ntutto vede puose nel cuore a messer Tivieri da Montemellino, uno de\u2019\nprincipali congiurati, che lo revelasse, acciocch\u00e8 tanto pericolo e\nmale non fosse; il quale essendo quasi vicino a Leggieri d\u2019Andreotto,\nsotto sicurt\u00e0 della sua persona senza domandare altro merito gli\nrivel\u00f2 il fatto, il quale di presente n\u2019and\u00f2 in palagio de\u2019 signori,\ne quivi con loro, e co\u2019 camarlinghi, e con gli altri dello stato si\nmise a\u2019 ripari. Fu preso messer Niccol\u00f2 delle Mecche, e Ceccherello\nde\u2019 Boccoli con quattro loro masnadieri di nome, e con sette altri\nmascalzoni, gli altri congiurati tutti si dierono alla fuga. Seguette,\nche il d\u00ec di santo Michel Agnolo si fece l\u2019adunanza generale, che noi\ndiciamo parlamento, nella quale si determin\u00f2, che i detti cavalieri,\ngentili uomini e popolani, insino nel numero di quarantacinque,\nfossono condannati per traditori e rubelli del comune di Perugia\ninfino...... e che altri novanta secondo loro gravezze di loro colpe\nfossono condannati di danari, e alcuni a stare a\u2019 confini; gli altri\nper meno male passati furono sotto silenzio. Pi\u00f9 vi si provvide, che\nTribaldino guidatore e ordinatore del male, con messer Averardo, e con\nalquanti degli altri pi\u00f9 focosi principali fossono dipinti _ad eternam\nrei memoriam_ colle mitere in capo in pi\u00e8 della piazza nella faccia\ndel casamento del maggior sindaco: e cos\u00ec seguit\u00f2, che messer Niccola\ndelle Mecche, e Ceccherello de\u2019 Boccoli con i quattro masnadieri furono\ndecapitati, e i sette mascalzoni furono appesi; gli altri tutti ebbono\nbando come nell\u2019adunanza era ordinato, e cos\u00ec furono dipinti quelli che\ndoveano esser dipinti. Bollendo e ribollendo ragionevolmente la citt\u00e0\nin questo stato dubbioso e sospetto, come il male venne agli orecchi\ndel nostro comune tantosto vi mand\u00f2 ambasciadori con cento uomini di\ncavallo. I Pisani domandato licenza di mandarvi cento cavalieri per\nlo nostro contado, e liberamente ottenuto, anche vi mandarono loro\nambasciadori con la detta gente, i quali co\u2019 nostri insieme assai\ntemperarono l\u2019animo voglioso e crucciato debitamente de\u2019 Perugini.\nCAP. LXXVI.\n_Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di loro stato, e della\ndifensione che saviamente ne presono._\nIn questi medesimi d\u00ec all\u2019entrata d\u2019ottobre, essendo Piero Gambacorti\nin Firenze, rotti i confini i quali avea a Vinegia, alquanti artefici\ne certi mercatanti pisani, che per lo partimento che i Fiorentini\naveano fatto di Pisa e per loro cagioni, anzi quasi tutti i mercatanti\nforestieri che trafficavano co\u2019 Fiorentini, e i reggenti che n\u2019erano\nstati cagione udivano e sentivano costoro e molti altri di ci\u00f2\nrammaricare, dicendo, come al tempo de\u2019 Gambacorti godeano la pace co\u2019\nFiorentini, e\u2019 guadagni del porto, e delle mercatanzie e dell\u2019arti,\ne che loro era faltato e il procaccio e \u2019l guadagno; o che questa\nfosse la cagione, o che di loro sentissono alcuno trattato con Piero\nGambacorti, ventidue ne presono, e a quattro de\u2019 mercatanti feciono\ntagliare la testa; li altri si riserbarono in prigione, e a molti\ndiedono i confini.\nCAP. LXXVII.\n_Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono la signoria di Montalcino._\nIn questo mese d\u2019ottobre del detto anno, Giovanni d\u2019Agnolino Bottoni\ncon centocinquanta cavalieri e ottocento pedoni cavalc\u00f2 improvviso\nsopra Montalcino per rimettervi gli usciti ch\u2019erano suoi amici, e\nquesto fece con ordine d\u2019alcuno trattato ch\u2019avea nella terra, ma i\nterrazzani presti alla difesa tolsono ardire di muoversi dentro a chi\nn\u2019avea sentimento. Vedendo Giovanni che \u2019l trattato ordinato non gli\nvenia fatto, per ricoprire sua intenzione si stava loro intorno. I\nterrazzani, che erano ubbidienti e in pace co\u2019 Sanesi, maravigliandosi\ndi questa novit\u00e0 mandarono a Giovanni di fuori a sapere perch\u00e8 facea\nquesto, e quello volea da loro: il savio e accorto disse, che volea\nche fossono in accordo col comune di Siena: i semplici terrazzani,\nsentendosi amici e ubbidienti al comune di Siena, elessono ventiquattro\ndella loro terra i maggiori e pi\u00f9 potenti che v\u2019erano, e mandaronli\nper ambasciadori a Siena. Giovanni avvis\u00f2 l\u2019uficio de\u2019 signori, come\nera tempo d\u2019avere libera la signoria di quella terra, avendo appo\nloro li ventiquattro ambasciadori ch\u2019erano il tutto della terra, ed\negli essendo l\u00e0 con forza d\u2019arme, la quale si f\u00e8 accrescere, diceva\ndi strignerli e tenerli in paura. Gli ambasciadori giunti a Siena, e\nfatta la riverenza, e sposta la loro ambasciata, ebbono per risposta,\nche non si partirebbono da Siena, che Montalcino sarebbe libero alla\nguardia de\u2019 Sanesi; la cosa non pot\u00e8 avere contradizione, e per\u00f2\nconvenne ch\u2019avessono libero Montalcino, e avuto, rimandarono indietro\ni ventiquattro ambasciadori sani e salvi, e smisurata festa in Siena se\nne fece.\nCAP. LXXVIII.\n_Come i Turchi presono la citt\u00e0 di Dometico ch\u2019era dell\u2019imperadore di\nCostantinopoli._\nDel mese di novembre del detto anno, un grande signore de\u2019 Turchi\ndi Boccadave, sentendo l\u2019imperadore di Costantinopoli giovane, e in\ndiscordia co\u2019 suoi per la ragione gi\u00e0 detta di Mega Domestico cui egli\nperseguitava, e altre volte essendo suo balio avea occupato l\u2019imperio,\naccolse di suoi Turchi grande esercito, e vennesene ad assedio alla\nnobile e antica citt\u00e0 oggi chiamata Dometico, la quale siede tra\nCostantinopoli e Salonicco, presso a quattro giornate a Costantinopoli,\nla quale appresso Costantinopoli solea essere sedia imperiale. I\ncittadini sentendo che Orcam con grande quantit\u00e0 di Turchi venia loro\naddosso, e non vedendo onde potesse a loro venire soccorso, inviliti\n(come \u00e8 la volont\u00e0 di Dio per la loro contumacia contro a santa\nChiesa) abbandonarono la citt\u00e0 forte e difendevole per lungo tempo, e\nabbondevole a sostenere sua vita. Orcam trovandola abbandonata v\u2019entr\u00f2\ndentro co\u2019 suoi Turchi, e misevi gente ad abitare e alla guardia con\nvittoria senza fatica, e si ritorn\u00f2 in suo paese con gran vergogna e\nvitupero e abbassamento dell\u2019imperio di Romania.\nCAP. LXXIX.\n_Come il re di Castella mosse guerra a\u2019 Mori di Granata, e al loro re\nVermiglio._\nFermata la pace dal re di Castella a quello d\u2019Araona del mese di\nsettembre del detto anno, e tornato il re di Spagna in Sibilia con\nsua cavalleria, Maometto gi\u00e0 stato re di Granata e cacciato dal re\nVermiglio, come di sopra dicemmo, esso re di Spagna col detto Maometto\ncavalc\u00f2 in Granata, e nel paese fece danno assai e d\u2019arsione e di\npreda, e lasciato Maometto alle frontiere con sue genti e co\u2019 cavalieri\ncastellani a sufficienza a poter far guerra, del mese d\u2019ottobre si\ntorn\u00f2 a Sibilia. Di poi a tempo ritorn\u00f2 a oste sopra il re di Granata,\ne stato sopra lui lungamente, in fine non avendo soccorso da\u2019 suoi\nsaracini del Garbo e di Bellamarina, perch\u00e8 erano collegati col re di\nSpagna, disperato s\u2019arrend\u00e8 a quello di Spagna, il quale avuto e lui\ne suo reame ne f\u00e8 che al re Vermiglio fece tagliare la testa, e fece\nre uno de\u2019 reali della Bellamarina suo confidente, il quale da lui\nriconobbe il reame, e gli promesse suo aiuto e di suoi saracini in\ntutte sue guerre, e appresso li promesse ogni anno certo tributo.\nCAP. LXXX.\n_Come gli usciti Perugini presono per furto Civitella de\u2019 Benazzoni, e\npoi l\u2019abbandonarono._\nI nuovi usciti di Perugia avendo per vilt\u00e0 abbandonate le loro\nforti tenute al comune di Perugia, in una cavalcata di due bandiere\ndi cavalieri per furto entrarono poco appresso in Civitella de\u2019\nBenazzoni, assai forte castello e ben guernito. I Perugini di presente\nvi mandarono quaranta bandiere di cavalieri e con popolo grande, e\npuosonvisi ad oste. Gli usciti veggendosi male ordinati da potere\nattendere soccorso, per lo mene reo, come per furto l\u2019aveano preso,\ncos\u00ec per furto se n\u2019uscirono, avendo il nome la notte di quelli del\ncampo, e ridussonsi a un castello ivi presso ch\u2019era degli Spuletini,\ne quindi se ne vennono ad abitare ad Arezzo, cercando rimedii a loro\nfortuna.\nCAP. LXXXI.\n_Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare sopra gli Ubaldini._\nEssendo in Bologna speranza della pace, la quale parea ferma dal\nlegato a messer Bernab\u00f2, e per tanto avendo alcuna speranza di potere\nsollevare le fatiche, sentendo che gli Ubaldini per tutta la boce della\npace non si rimaneano di far danno e noia alla strada, cavalcarono\nsopra di loro, e raccolsono preda, e feciono danno nel paese. Gli\nUbaldini gli lasciarono cavalcare, e ridussonsi a\u2019 passi, e alla\nritratta assalirono i Bolognesi, e rupponli, e racquistarono la preda,\ne vendicarono loro ingiuria. I Bolognesi all\u2019uscita di novembre detto\nanno ricavalcarono con pi\u00f9 ordine e forza sopra loro, e arsono e\nguastarono pi\u00f9 e pi\u00f9 villate, e senza contasto si tornarono a casa.\nCAP. LXXXII.\n_Del trattato delle compagnie che doveano entrare in Avignone._\nLa compagnia spagnuola accozzata con un\u2019altra in Provenza aveano\ntrattato con certi forestieri di pi\u00f9 lingue ch\u2019erano in Avignone come\ndi furto potessono entrare nella citt\u00e0, dove speravano fare il sacco,\nma non fuori di misura, con l\u2019aiuto di quelli d\u2019entro, che prometteano\ndare l\u2019entrata, e per questa cagione di subito cavalcarono, e vennono\ninfino presso alla citt\u00e0. La cosa si scoperse perch\u00e8 era vogliosa,\ne con poco ordine e meno forza: dentro furono presi circa a trenta;\nalcuni ne furono decapitati, e alcuni impiccati, e la compagnia si\ntorn\u00f2 addietro senza fare altro danno, e per l\u2019innanzi in Avignone si\nf\u00e8 pi\u00f9 sollecita guardia, e ci\u00f2 fu all\u2019uscita del mese di novembre del\ndetto anno.\nCAP. LXXXIII.\n_Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi puosono l\u2019assedio, dove\nstando vollono torre Sommacolonna per incitare i Fiorentini a guerra._\nFu di sopra a suo luogo narrato, come i Pisani per soperchio d\u2019astuzia\naveano costretto i Fiorentini levare il porto da Pisa e recarlo\na Talamone, e tutto ch\u2019a\u2019 Fiorentini sconcio e spesa fosse, tutto\nlietamente si comportava, mostrando a\u2019 Pisani che poteano fare senza\nloro. E del fatto a littera ne seguiva quello che Piero Gambacorti\ndetto n\u2019avea a quelli mercatanti che al detto tempo si trovarono su il\nRialto in Vinegia, dove il detto Piero era confinato quando la novella\nvi venne, che fu in questa maniera: Fiorentini, Fiorentini, se state\nfermi in vostro proponimento, Pisa in piccolo tempo diventer\u00e0 un bosco:\ne veramente cos\u00ec ne seguia, perocch\u00e8 essendo partiti i Fiorentini da\nPisa, tutti coloro che con loro mercatavano e trafficavano, con quelli\nch\u2019a\u2019 loro servigi rispondeano aveano fatto il simigliante, il perch\u00e8\nle case, i fondachi, e la terra tutti rimaneano oltre a mezza vota, e\ni mestieri degli artefici in gran dannaggio, onde il soprassenno de\u2019\nPisani raccortosi di suo errore cerc\u00f2 per molte vie oneste e piacevoli,\ne a\u2019 Fiorentini vantaggiose e onorate, di ritornarli a Pisa, e ci\u00f2 non\npotendo ottenere, e seguendo del fatto, che quelli che teneano lo stato\ne governo della citt\u00e0 n\u2019erano caduti nell\u2019odio e mal volere del popolo\ne de\u2019 mercatanti, e stavano in paura del perderlo, avendo del continovo\nalla coda gli aderenti, seguaci e amici de\u2019 Gambacorti, i quali erano\ndi fuori e li sollecitavano; onde essi sottilmente pensarono di fare\ndisfare due chiovi a uno caldo col fuoco della guerra, l\u2019uno, di\nunire il popolo consueto nemico de\u2019 Fiorentini e sopra modo parziale\ncon la guerra, l\u2019altro, che seguendo pace della guerra, come suole,\npatteggiare nella pace la tornata del porto: e per dette cagioni con le\nloro vie coperte e sagaci, per non parere d\u2019essere i motori al rompere\ndella pace, presono questa cautela, che una volta e pi\u00f9 fittizziamente\ne simulatamente bandeggiarono di loro cittadini, contadini e\ndistrettuali, uomini atti a cercare mutazioni e riotte, nominati e di\nseguito, disposti a fare piuttosto il male che \u2019l bene, e questi in\ndiversi luoghi e tempi tolsono certe tenutelle del distretto del comune\ndi Firenze di poca importanza; onde il comune secondo i tempi pi\u00f9 volte\nne mand\u00f2 ambasciadori a\u2019 Pisani, e quello ne rapportavano era: E\u2019 ce\nne pesa, sono nostri forbannuti, e loro appresso di voi semo acconci a\nperseguitare infino a morte e desolazione. Il comune di Firenze per non\nessere abominato di corrompere la pace se la portava pazientemente, e\ncon infignere di non se n\u2019avvedere; n\u00e8 pertanto si rimaneano i Pisani\ndi seguire la mala regola presa, cercando al continovo per questa via\ndi torre delle terre a\u2019 Fiorentini, e non delle peggiori, il perch\u00e8\na\u2019 Fiorentini fu forza a prendere loro costume, e con un Giovanni da\nSasso famoso caporale e atto all\u2019arme feciono tentare segreto trattato,\nche togliesse a\u2019 Pisani il castello di Pietrabuona, il quale \u00e8 vicino\na Pescia, e cos\u00ec segu\u00ec, avendo prima per colorati misfatti ricevuto\nbando a Firenze della persona. A\u2019 Pisani parendo loro avere ottenuto\nloro talento subitamente con grande ordine e sforzo assediarono il\ncastello per forma, che niuna forza d\u2019arme glie ne arebbe potuti\nlevare, n\u00e8 tor loro non lo racquistassono. Stando al detto assedio,\nveggendo non bastavano l\u2019occulte a incitare e muovere i Fiorentini alla\nguerra, vennero alle aperte, e del mese di gennaio preso loro tempo si\ncredettono furare Sommacolonna, e cavalcaronvi sforzatamente, ma non\nvenne loro fatto. E per arrogere all\u2019ingiuria, avendo i Fiorentini loro\ngente alla guardia di Pescia e dell\u2019altre terre della Valdinievole,\ncerti conestabili de\u2019 loro a loro diletto usavano d\u2019andare il d\u00ec\nsul poggio della Romita sopra a Pietrabuona, il quale era terreno\nde\u2019 Fiorentini, e ivi si stavano a vedere badaluccare e gittare i\ntrabocchi; i Pisani posto loro aguati li assalirono e uccisonne sette,\ne gli altri ne menarono a prigioni, e diedono palese e aperto principio\ndella guerra.\nCAP. LXXXIV.\n_Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla compagnia bianca co\u2019 suoi\nbaroni, e ricomperaronsi con gran quantit\u00e0 di moneta._\nIn questo medesimo tempo, essendo venuto il conte di Savoia di qua\nda\u2019 monti a una sua terra che si chiama...... con molti baroni e\ncavalieri di sua contea, non prendendosi guardia, la compagnia bianca,\nla quale era vicina a quelli paesi, si mosse una notte facendo molto\nlungo e disordinato cammino, e sorprese il conte e\u2019 baroni alla terra\nsenza alcuna resistenza, salvo che \u2019l conte con pochi si rifugg\u00ec nel\ncastello, gli altri tutti furono prigioni: e il conte assediato e\nsprovveduto, veggendosi a mal partito, trasse accordo, e tra di s\u00e8 e di\nsuoi baroni, e de\u2019 cittadini della terra e delle cose loro, che tutto\nera in preda, venne a composizione di dare alla compagnia in diversi\ntermini fiorini centottantamila d\u2019oro, parte allora, e del resto\nfermezza, sicch\u00e8 tutto lasciarono, e tornarsi in Piemonte.\nCAP. LXXXV.\n_La cavalcata che Piero Gambacorti f\u00e8 sopra i Pisani._\nEssendo Piero Gambacorti in Firenze, e avendo da\u2019 suoi amici di Pisa\nsollecito conforto, che procacciasse d\u2019appressarsi alla terra con\nalcuna forza, dicendo, che dove i cittadini il sentissono farebbono\nnovit\u00e0 contro i reggenti, ch\u2019erano comunemente mal voluti. Avvenendoli\nper caso che all\u2019uscita di gennaio a Firenze erano col conte Niccola\nUnghero settecento Ungari usciti del Regno, i quali doveano andare in\nPiemonte in servigio del re Luigi, ma non avendo loro paga ordinata\nper lo re cercavano condotta, e i Fiorentini non li voleano, perch\u00e8 non\nn\u2019aveano bisogno, e non voleano un capo con tanta gente d\u2019una lingua;\nin questo a Piero Gambacorti crebbe l\u2019animo per lo conforto de\u2019 suoi\namici, e condusse questo conte co\u2019 suoi Ungari, ed ebbe alcuno aiuto\nda certi usciti di Lucca, e seguito di pi\u00f9 di dodici centinaia di\nfanti, niente essendoli contradetto dal comune di Firenze, e a d\u00ec 27\ndi gennaio uscirono di Firenze, e a d\u00ec 28 furono in Valdera, e certe\nterricciuole l\u2019ubbidirono, e non volea far guasto n\u00e8 lasciare fare\npreda, di che gli Ungari e i briganti n\u2019erano assai malcontenti. I\nPisani di presente mandarono a Firenze per sapere se il comune movea\nquesto, e fu risposto di no; e per abbondante mandarono bando l\u2019avere\ne la persona che niuno Fiorentino contadino o distrettuale non dovesse\nandare contra i Pisani, e chi andato vi fosse, sotto la detta pena se\nne dovesse partire. I briganti non potendo guadagnare se ne partirono\nper lo disagio pi\u00f9 che per lo bando, e rimase Piero con gli Ungari e\ncon gli altri forestieri. Gli astuti e maliziosi Pisani vedendo che\naltri che Piero non era a guidare questa gente, costrinsono per forza i\npi\u00f9 intimi amici ch\u2019avesse in Pisa, e fecionli scrivere da pi\u00f9 parti a\nun modo, che si dovesse guardare la persona, perocch\u00e8 gli Ungari aveano\ntrattato di darlo preso a\u2019 Pisani, e d\u2019averne fiorini ventimila d\u2019oro.\nEgli era a Peccioli quando le lettere di pi\u00f9 parti li vennono, cominci\u00f2\na dubitare, e a stare a riguardo, e vedendo l\u2019adunanze degli Ungari\nparlare insieme, e non intendendoli, pens\u00f2 che eglino il dovessono\npigliare, e vedendosi presso a Volterra, senza congio con sua gente di\u00e8\ndegli sproni al cavallo, e partissi dagli Ungari. Fu detto che alcuni\nil seguitarono, ma il vero fu poi certo che tutto fu fatto a mano per\nl\u2019astuzia de\u2019 Pisani. Gli Ungari il primo d\u00ec di febbraio senza far\ndanno in alcuna parte si ritornarono a santa Gonda, e poi a Firenze.\nCAP. LXXXVI.\n_Come il re Luigi prese le terre di messer Luigi di Durazzo e lui mise\nin prigione, e trasse del Regno la compagnia._\nEra Anichino di Bongardo stato lungamente stretto dagli Ungari in certe\nterre che teneano di messer Luigi di Durazzo, e non avendo potuto\nguadagnare erano in male stato, e cominciando a perdere delle terre\nvennono a patti d\u2019avere sicurt\u00e0 dal re, e uscirsi del Regno sotto la\nsua guardia e sotto la sua bandiera, e cos\u00ec fu promesso, e fatto a\nci\u00f2 fine. A messer Luigi dopo questo si rubell\u00f2 sant\u2019Angiolo, ed egli\nvedendosi povero e mal parato si rend\u00e8 al re Luigi suo cugino, e venuto\na Napoli, rendute tutte sue terre, fu messo in prigione nel castello\ndell\u2019Uovo, sperandosi per molti che il re li dovesse perdonare, ma\nla sua fortuna dopo la morte del detto lo fece morire in prigione.\nAnichino con la sua compagnia assai male in arnese, alla condotta di\ncerti baroni del re, com\u2019era promesso, del mese di gennaio del detto\nanno usc\u00ec del Regno.\nCAP. LXXXVII.\n_Come le compagnie si partirono di Provenza._\nIn questo medesimo mese di gennaio, le due compagnie ch\u2019erano in\nProvenza presono accordo co\u2019 paesani per certa quantit\u00e0 di danari, e\nl\u2019una se n\u2019and\u00f2 verso la Francia, e l\u2019altra tenne in Borgogna, chiamata\nda certi baroni di Borgogna, perocch\u00e8 era morto il loro duca, e temeano\ndel re di Francia.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come fu sconfitta la gente del re di Castella dal re di Granata._\nAvendo lasciato il re di Castella in Granata lo re Maometto che n\u2019era\nstato cacciato, e con lui il maestro di Ialatrenu, il detto maestro\navendo quattromila cavalieri spagnuoli e gran popolo seco, badaluccando\ncon la gente del re Vermiglio di Granata, con mala provvisione\nringross\u00f2 il badalucco: il re mise loro addosso subitamente molta\ngente a cavallo e a pi\u00e8, e combattendo insieme lungamente, in fine i\nMori sconfissono quelli di Castella, e presono il capitano e pi\u00f9 altri\ncaporali, e de\u2019 Castellani vi rimasono morti in sul campo tra cavalieri\ne pedoni pi\u00f9 di tremila, li milleottocento cavalieri; e avuto il re\nVermiglio questa vittoria, del mese di gennaio 1361, prese baldanza,\ne corse colle sue genti in sulle terre del reame di Castella, facendo\nspesso danno e vergogna al re di Spagna.\nCAP. LXXXIX.\n_Come per vendicare sua onta il re di Spagna and\u00f2 sopra il re di\nGranata._\nDel mese di febbraio del detto anno, il re di Castella sdegnato e\ninfellonito contro al re Vermiglio, e contro ai suoi Mori, in furore\ndell\u2019animo suo usc\u00ec di Sibilia a d\u00ec 20 del mese, avendo prima fatto\ncomandamento di cuore e d\u2019avere che catuno che potesse portare arme\nil dovesse seguire in sul terreno di Granata, e subito vi si trov\u00f2\ncon diecimila cavalieri e trentamila pedoni in arme da combattere, e\noltre a duemila carrette con vittuaglia e dificii da combattere le\nterre: e combattendo le castella, per infino a d\u00ec 22 d\u2019aprile 1362\nprese dieci forti castella piene e ubertuose, e molte altre ville di\nminore fortezza, e gli uomini tutti fece servi e schiavi, e quelli\nsi difendevano erano morti, e quelli si rendevano salvi: per questo\navvedendosi i Mori di Malica e di Saletta che lo re di Castella era\nper divenire loro signore, per non essere sottoposti a\u2019 cristiani\ndeliberarono di rimettere Maometto, ch\u2019era con il re di Castella, in\nre di Granata, e incontanente lo misono in Malica, e poco appresso in\nGranata, e lo re di Spagna contento di questo, avendo fornite le terre\nprese, e ritenendole in sua guardia, si part\u00ec di Granata, e tornossi in\nSibilia.\nCAP. XC.\n_Come messer Bernab\u00f2 si credette avere Reggio per trattato._\nMesser Bernab\u00f2 mostrandosi poco contento della pace promessa a santa\nChiesa, e usando parole contro il fratello messer Galeazzo, dicendo,\nche egli avea fatto pi\u00f9 che da lui non avea avuto in mandato intorno\nalla pace, dando intendimento di volere fare maggior guerra a Bologna,\naccolse molta cavalleria di sua gente, e in persona con essa ne venne\na Parma del mese di febbraio del detto anno, avvisandosi per tutto che\ndovesse andare sopra Bologna, ed egli avea trattato d\u2019avere Reggio,\ned entrarono dentro nella citt\u00e0 circa a cinquemila masnadieri. Messer\nFeltrino avvedendosi della baratta, avendo grande ardire e gente poca,\nsi fed\u00ec francamente fra loro; i masnadieri inviliti per tema di maggior\nforza vedendo l\u2019ardire pensarono a campare, e molti ve ne furono morti\ne presi: sentitosi la novella, messer Bernab\u00f2 si ritorn\u00f2 addietro.\nAppreso messer Bernab\u00f2 che \u2019l verno era gi\u00e0 passato, e che il tempo\natto alla guerra ne venia, e che la mortalit\u00e0 era a lui riuscita con\ngrande acquisto per quelli che morti erano senza eredi, i beni de\u2019\nquali erano incorporati alla camera del comune la quale era sua, e\nsentendo che la Chiesa era in poco podere di gente d\u2019arme, e Bologna\nmal fornita, cominci\u00f2 a domandare cose che mai non erano state, non\nche addomandate, ma n\u00e8 pensate, e perci\u00f2 mand\u00f2 a corte di Roma suoi\nambasciadori per terminare le dette domande; e infra l\u2019altre arroganti\ndomande fece chiedere che voleva il figliuolo arcivescovo di Milano, e\nvolea che per decreto e rescritto papale l\u2019elezione dell\u2019arcivescovo\nfosse di elezione della casa de\u2019 Visconti di Milano, e voleva il\nvicariato dell\u2019imperadore, ed essere da lui restituito in tutte le\nsue dignitadi, e che lecito li fosse potere guerreggiare ogni terra\ne signore, fuori le terre della Chiesa, con patto che la Chiesa non\nse ne travagliasse, e non desse a quelle le quali egli guerreggiasse\nn\u00e8 favore n\u00e8 aiuto in alcuno modo, mettendo per sospetti i signori e\ncomuni nominati per la guardia di Bologna, tanto ch\u2019egli fosse pagato,\ne volea che la citt\u00e0 di Bologna si guardasse per i Pisani; e domandando\nqueste, e altre cose sconce e villane, al continovo non cessava\ndi crescere la gente dell\u2019arme sopra la citt\u00e0, e di guerreggiarla\nscorrendo tutto giorno fino alle porte. La Chiesa i patti che domandava\ncon suo onore accettare non potea, e non si potea difendere dalla forza\ndel tiranno n\u00e8 dalla superbia sua, ricorse a Dio con singolare orazione\ncomandata per tutta la cristianit\u00e0, e la misericordia sua tosto vi\nprovved\u00e8 di salutevole consiglio, come seguendo nostra leggenda trovare\nsi potr\u00e0.\nCAP. XCI.\n_Come i Pisani feciono cosa da incitare i Fiorentini._\nAll\u2019entrata del mese di marzo 1361, i Pisani feciono cavalcare lor\ngente a pi\u00e8 e a cavallo nella Cerbaia distretto de\u2019 Fiorentini, e\nlevarono preda di bestiame minuto, e condussonlo al Cerruglio. I\nFiorentini di ci\u00f2 sdegnati feciono della lor gente di Valdinievole\ncavalcare infino alle porti di Montecarlo, e la notte misono gente in\naguato in Pietrabuona, ma i Pisani se n\u2019accorsono, e ritennonsi dentro\nal battifolle, onde la gente de\u2019 Fiorentini si ritorn\u00f2 in Pescia.\nQueste furono assai picciole cose, e poco degne di memoria, ma per\nquello che per questi inzigamenti dipoi ne segu\u00ec, che furono grandi\ncose, l\u2019animo nostro ha patito di porre questi lievi principii.\nCAP. XCII.\n_Dell\u2019operazioni delle compagnie in questi tempi._\nTornando a\u2019 tormenti delle compagnie, in questi giorni del verno\navanti alla primavera, la Compagnia bianca col marchese di Monferrato\nacquistate pi\u00f9 castella le quali si teneano per messer Galeazzo\nnel Piemonte, e pi\u00f9 feciono loro cavalcate infino a Pavia passando\nil Tesino, e quivi stati pi\u00f9 giorni si ritornarono in Piemonte. La\ncompagnia la quale era in Borgogna capitanata dal Pitetto Meschino,\nuomo alvernazzo e di niente, e per sua prodezza e maestria di guerra\nmontato in grande stato e pregio d\u2019arme, prese in Borgogna pi\u00f9 terre,\ndove s\u2019adagi\u00f2 con la sua brigata, conturbando forte tutta la parte\ndel re di Francia, riguardando sempre tutti quelli che al re erano\ncontrari, il perch\u00e8 il re condusse la compagnia delli Spagnuoli per\ncacciare il Pitetto Meschino di Borgogna, i quali Spagnuoli ne\u2019 detti\ngiorni erano in Berr\u00ec, e condotti, cos\u00ec faceano di male ad amici come\na nemici, dove stendere potessono le mani senza guastare il paese\no uccidere. La compagnia d\u2019Anichino di Bongardo uscita del Regno, e\ncondotta da messer Bernab\u00f2, in questi giorni se ne venne in Toscana per\nandare sopra Bologna. Cos\u00ec e molto pi\u00f9 era intrigata e avviluppata la\ncristianit\u00e0 dalle maladette compagnie in questi tempi.\nCAP. XCIII.\n_D\u2019una cometa ch\u2019apparve di marzo nel segno del Pesce._\nDel mese di marzo del detto anno, apparve tra \u2019l levante e \u2019l mezzod\u00ec\nsul mattutino una cometa nel segno del Pesce Con la coda lunga di\ncolore cenerognolo, la quale alcuni astrolaghi dissono ch\u2019era chiamata\nAscone. Quello che di sua influenza si vidde fu, che il verno, fu\nbellissimo e asciutto, e non troppo freddo, atto molto alla sementa e\ncoltivamento della terra; la primavera fu fresca e umida, e la state\ntemperata d\u2019acque, onde ne segu\u00ec grande abbondanza. E a d\u00ec 8 d\u2019aprile\nl\u2019anno 1362, alle due ore del d\u00ec, essendo l\u2019aria serena e chiara uno\ngrande tuono si sent\u00ec in aire, lo quale molto fece maravigliare la\ngente, e innanzi li venne un baleno con vapori incesi, che caddono\nin Firenze sopra il fiume d\u2019Arno e da santa Maria in Campo senza fare\nalcuno danno, e l\u2019aria rimase serena e chiara che era.\nCAP. XCIV.\n_Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo Tortonese._\nDel mese di marzo la Compagnia bianca essendo di lungi al contado\ndi Tortona per tanto di spazio, che i paesani non aveano riguardo,\npartendosi di giorno, e cavalcando verso la notte, feciono a gente\nd\u2019arme smisurato viaggio, e in sul d\u00ec seppono s\u00ec fare, che la mattina\nentrarono anzi d\u00ec di furto in Castelnuovo Tortonese, e come furono\ndentro, chi si volle difendere uccisono, il perch\u00e8 i morti si trovarono\nsopra a trecento: il castello era bene di milledugento uomini.\nSentito ci\u00f2 messer Galeazzo v\u2019and\u00f2 con pi\u00f9 di tremila cavalieri e bene\nquindicimila pedoni, e tutto che li paresse essere bene in apparecchio\nda combattere co\u2019 nemici non s\u2019attent\u00f2 di mettersi a partito, ma forn\u00ec\nle castella d\u2019attorno, e tornossi a Milano.\nCAP. XCV.\n_Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse l\u2019oste del re di\nFrancia a Brignai._\nLo re di Francia infiammato d\u2019onta contro la compagnia del Pitetto\nMeschino d\u2019Alvernia suo picciolo servo fuggito, nonostante che avesse\ncondotta la Compagnia spagnuola contro a loro, la quale ancora non era\ngiunta in Borgogna, radun\u00f2 prestamente del mese di marzo un\u2019oste di\nbene seimila cavalieri franceschi, e tedeschi e di altre lingue che\nerano in Francia, e fattone capitano messer Giacche di Borbona della\ncasa di Francia con quattromila sergenti gli mand\u00f2 in Borgogna. E in\nque\u2019 giorni la compagnia del Pitetto Meschino avea preso un castello\ndel re che si chiama Brignai, e lasciatovi alla guardia trecento\ndi sua compagnia, ed egli con tremila barbute e duemila masnadieri\ni pi\u00f9 Italiani ch\u2019erano in sua compagnia era cavalcato nel contado\ndi Forese, facendo loro procaccio: in questo il duca di Borbona con\nl\u2019oste sua giunse e puosesi a campo a Brignai, credendolosi in pochi\ngiorni racquistare: e cos\u00ec standosi all\u2019assedio baldanzosamente, e\nsenza debita provvisione e con poco ordine, avendo con l\u2019animo grande\na vile il loro avversario, il Pitetto Meschino maestro e pratico di\narme con la brigata sua vogliosa di zuffa, e ardita e bene in punto,\nessendo lontano da Brignai giornata e mezzo, avendo lingua come i\nFranceschi con molto disordine si reggevano a campo, confortata sua\nbrigata, e animata della gran preda, con sollecito studio di cavalcare\nraccorciando i cammini, avanti al giorno di pi\u00f9 ore giunse al campo\nsopra gli sprovveduti Franceschi, e senza alcuno arresto gli assal\u00ec\ncon grande tempesta e romore; onde tra per le terribili grida, e per\nlo subito e sprovveduto assalto i Franceschi bairono, e mancarono di\ncuore, e non di manco ciascuno come meglio poteo ricorreva all\u2019armi\nper difendersi, ma quelli della compagnia gli percoteano, e gli\nsollecitavano s\u00ec con l\u2019arme, che non gli lasciavano far testa; e cos\u00ec\nquell\u2019oste ove avea tanti baroni e valenti cavalieri sventuratamente\nfu rotta e sbarattata, con molti di loro morti e magagnati: quelli\nche camparono con loro cavalli e arnesi quasi tutti vennono in preda\ndel vassallo del re di Francia Pitetto Meschino. Messer Giacche duca\ndi Borbona fu a morte fedito di pi\u00f9 fedite, ed essendo preso, vedendo\nche era per morire fu lasciato alla fede, e portato a Lione sopra a\nRodano in pochi giorni pass\u00f2 di questa vita. Preso rimase il conte di\nTrinciaville, il conte di Forese, il maliscalco di Dunan, l\u2019arciprete\ndi Guascogna altra volta stato capo di compagnia, messer Broccardo\ndi Finistagion Tedesco capitano di millequattrocento barbute, messer\nAmelio del Balzo, e il conte di Clugn\u00ec, tutti signori e gran baroni,\ne assai d\u2019altri signori e cavalieri banderesi de\u2019 quali usc\u00ec grande\ntesoro a riscatto. I soldati furono lasciati alla fede, e quelli che\nin sul campo furono morti o fediti lasciarono portar via. La valuta\ndella preda fu tanta, che la compagnia se ne f\u00e8 ricca: e per questa\nvittoria presono tanto d\u2019audacia e d\u2019ardire, che in grande tremore\nstette la corte di Roma, usa di essere pettinata dalle compagnie, che\nnon corressono sopra Avignone, ma tanto dimor\u00f2 la compagnia in Borgogna\nch\u2019ebbono i danari che si riscattarono i baroni e\u2019 cavalieri. Lo re\ndi Francia sentita questa novella sopra modo si turb\u00f2 di cuore, e os\u00f2\ndire, che mai non ristarebbe, ed eziandio con porre la sua persona al\npari d\u2019un soldato, che dell\u2019onta ricevuta si vendicherebbe. E per non\navere pi\u00f9 a tornare sopra la presente materia per infino che altra\ngran cosa non seguisse, il Pitetto Meschino e quelli di sua compagnia\nudite le minacce del re, per accrescere il dispetto e l\u2019onta, mostrando\nd\u2019avere il re e le sue parole a vile, del mese di giugno appresso\nse n\u2019andarono vicini a Parigi, facendo gran preda e danni a\u2019 paesani\nd\u2019intorno alla citt\u00e0. Io non mi posso tenere, che io non dica qui per\ngl\u2019intendenti ragionatori si misuri la gloria vana e fallace degli\nstati mondani; ma nella presente materia quelli massimamente che hanno\navuto notizia della eccellenza del reale sangue di Francia, per cui al\npresente \u00e8 tanto vilmente calcata: e certo il Pitetto Meschino \u00e8 di s\u00ec\noscuro luogo nato, che fuori del sapere che egli \u00e8 Alvernazzo, non si\nsa chi fosse n\u00e8 madre n\u00e8 padre: e questo basti.\nCAP. XCVI.\n_Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori di Lombardia contro a\nmesser Bernab\u00f2._\nVeggendo gli altri signori della Lombardia la pertinacia di messer\nBernab\u00f2 intorno al racquisto di Bologna, e che per averla di sua fede e\npromessa mancava a santa Chiesa, nelle loro menti presono concetto, che\nse vincesse Bologna a loro non perdonerebbe, stimando che con cagioni\ncontrovate contro a loro volgesse la guerra con assai pi\u00f9 vicino e\npossente braccio. Il perch\u00e8 entrati in sospetto e paura, con loro\nsegreti ambasciadori cercarono di far lega e tra loro insieme con la\nChiesa di Roma; e nel trattato occorse che il signore di Verona diede\nla sorella per moglie al marchese di Ferrara; e fornito il parentado\nper modo che non potea tornare addietro, il signore di Verona come a\nstretto parente il f\u00e8 con festa a sentire a messer Bernab\u00f2, il quale\nudito il fatto a maraviglia se ne turb\u00f2, dicendo: Io son fatto cognato\ndi uno sterpone. Il marchese con tutto che di ci\u00f2 avesse obria era\nd\u2019animo nobile e valente uomo, magnanimo e di grande cuore, e compare\ndi messer Bernab\u00f2, e molto l\u2019avea servito contro alla Chiesa nella\nguerra di Bologna, dando libero il passo a sua gente d\u2019arme, el a suo\npiacere vittuaglia e per acqua e per terra. Fermato il parentado intra\ni detti due signori, del seguente mese d\u2019aprile lega e compagnia si\nferm\u00f2 tra il legato di Spagna in nome di santa Chiesa e il signore\ndella Scala, e il signore di Padova, e il marchese di Ferrara; e la\ntaglia della gente della lega fu in nome di tremila cavalieri, de\u2019\nquali la Chiesa dovea pagare i millecinquecento cavalieri, e ciascuno\ndegli altri cinquecento per uno: e oltre a ci\u00f2 ne\u2019 patti della lega\npromesse ciascuno a loro difesa, e della citt\u00e0 di Bologna, e all\u2019offesa\ndi messer Bernab\u00f2, e d\u2019ogni qualunque che contro alla lega facesse.\nE stando le cose in questi termini, messer Bernab\u00f2 mand\u00f2 al Finale\nnavilio grande con molta vittuaglia per fornire le castella ch\u2019avea sul\nBolognese, e il marchese la fece volgere indietro. E appresso i detti\nsignori di concordia per loro ambasciadori mandarono a dire a messer\nBernab\u00f2, ch\u2019a lui piacesse non volere fare pi\u00f9 guerra alle terre di\nsanta Chiesa, con ci\u00f2 fosse cosa che d\u2019allora innanzi con tutto loro\nsforzo si porrebbono alla difesa di questa lega: il superbo tiranno\nebbe singolare e altero sdegno, e nelle sue rilevate parole molto gli\navvil\u00ec, usando queste parole: Essi sono matti fantisini: e seguendo col\nfatto l\u2019altero parlare, a catuno di loro per derisione mand\u00f2 dono di\nvasellamento d\u2019argento, de\u2019 quali nello smalto di quelli da Verona era\nuna scala appesa a un paio di forche, in quelli del signore di Padova\nerano colombi volanti, in quelli del signore di Ferrara una ferza,\ngiusta la considerazione della sua vana e superbia fantasia; ma in\npicciolo tempo le cose seguirono in forma, che per opera vedere si pot\u00e8\nche non avea a fare con fantisini, ma con valenti e savi signori, come\nseguendo nostro trattato racconteremo.\nCAP. XCVII.\n_Come fu morto il re Vermiglio di Granata._\nE\u2019 ne pare venire a scrivere cosa assai disusata e sconvenevole non\nche a re cristiano, ma a qualunque barbaro, ma quale \u00e8 scriver la ci\nconviene. Sentendo il re Vermiglio di Granata come i Mori aveano sopra\ns\u00e8 per loro re esaltato Maometto, cui egli avea altra volta del reame\ncacciato, conobbe che non potea resistere a Maometto avendo seco il re\ndi Castella, e per\u00f2 mand\u00f2 al re di Castella in Sibilia, e gli domand\u00f2\nsua sicurt\u00e0 e fidanza, con dire di volere venire a sua ubbidienza.\nLa sicurt\u00e0 data gli fu libera e piena; ma chi il re volle scusare del\ngran tradimento disse, non seppe che per parte del re domandato fosse\nil salvocondotto, n\u00e8 che per lui dato non gli fu. Costui, quanto che\nfosse Saracino, lasciato il reame a Maometto, con quattrocento tra di\nsuo sangue, e amici e di suo seguito, con molta ricchezza, sotto la\nfidanza del salvocondotto, se ne venne a Sibilia l\u00e0 dove era Pietro di\nCastella re, e a d\u00ec 20 del mese d\u2019aprile, gli anni Domini 1362, venne\ndavanti al re, e gli si gitt\u00f2 a\u2019 piedi con grande reverenza e umilt\u00e0.\nIl re con buono viso il vide e ricevette, e nella Giudecca, che \u00e8 luogo\ndi grandi abituri e d\u2019intorno murato, lo mise, e quello luogo assegn\u00f2\na lui e sua compagnia, e in quel giorno gli mand\u00f2 e doni e presenti\namichevolmente: dipoi venuta la notte lo detto re Pietro fece prendere\nlo re Vermiglio e sua compagnia, e rubare tutto loro tesoro, e arme,\ne cavalli e arnese, e loro tutti mettere in buone prigioni con buone\ncatene: loro tesoro rec\u00f2 tutto a s\u00e8, che pass\u00f2 la stima di ottocento\nmigliaia di fiorini d\u2019oro. E il sabato appresso a d\u00ec 24 d\u2019aprile, il\nre Pietro fece menare davanti da s\u00e8 il detto re Vermiglio in Tavolata,\nche \u00e8 un campo fuori della citt\u00e0 di Sibilla forse una balestrata, in su\nun asino, e con lui appresso tre de\u2019 suoi maggiori baroni, gli altri,\nch\u2019erano quarantuno, tutti grandi Saracini, tutti legati a una fune;\nlo re Pietro a cavallo con molti suoi baroni e cavalieri con lance in\nmano, e colle spade a lato, avendo i Saracini al campo legati, lo re in\nprima lanci\u00f2 e fed\u00ec in prima lo re Vermiglio, e gli altri appresso gli\naltri, e in poco d\u2019ora tutti furono tagliati a pezzi in sul campo, e\nle teste loro fece a Maometto presentare; tutti gli altri ch\u2019erano con\nlui f\u00e8 servi. Questo re Vermiglio fu colui che cacci\u00f2 e volle uccidere\nil re Maometto, e fatto re un giovane fratello del detto re Maometto il\nf\u00e8 morire. \u00c8 fama che tutti quelli che morti furono in Tavolata erano\nstati al re Vermiglio aiutatori, consigliatori e favoreggiatori.\nCAP. XCVIII.\n_Come il re Maometto di Granata si fece uomo del re di Castella._\nAvendo il re Maometto ricevuto il ricco e famoso presente della testa\ndel re Vermiglio suo nemico, e de\u2019 quarantaquattro suoi seguaci i quali\naveano morto il fratello, riconoscendo come per operazione del re Piero\ndi Spagna egli era ritornato nel suo reame di Granata, di presente\nmand\u00f2 suoi ambasciadori con pieno mandato al re Piero, i quali li\nsommisono il reame di Granata, e da lui in vece e nome del re Maometto\ncome da superiore lo riconobbono, e lo re Maometto ne feciono suo uomo,\ne omaggio glie ne fece, e in segno della sommissione del reame a loro\nusanza li mand\u00f2 pennoni di tutte le sue buone citt\u00e0 e terre; e oltre a\nquesto li present\u00f2 ricchi doni, e con essi tutti i cristiani ch\u2019erano\nin suo reame fu donato loro libert\u00e0 per amore del detto re.\nCAP. XCIX.\n_Principio di guerra dai collegati a messer Bernab\u00f2._\nFermata la lega tra santa Chiesa e\u2019 signori di Lombardia, come scritto\n\u00e8 di sopra, anzi che altro movimento per i collegati si facesse, messer\nBernab\u00f2 mand\u00f2 sue genti sopra il signore di Verona verso il Lago di\nGarda, il perch\u00e8 i collegati in questo tempo del mese di maggio con\nduemila cinquecento cavalieri della lega, e con assai gente da pi\u00e8,\nmossono da Modena per occupare il passo a messer Bernab\u00f2, sicch\u00e8 non\npotesse mandare a fornire le castella che tenea sul Bolognese; e stando\nquesta gente a campo, quella di messer Bernab\u00f2 venne sul terreno di\nModena, e puosesi dove gi\u00e0 fu un castello che si chiam\u00f2 Solaro, il\nquale era sopra il canale di Modena, e perch\u00e8 era nelle valli in luogo\ninfermo era abbandonato, e in su quello castellare f\u00e8 porre una forte\nbastita, e quindi avea bal\u00eda da potere ire alle castella del Bolognese.\nLa cavalleria della lega si pinse innanzi verso Reggio, e puosonsi a\nun altro castello abbandonato similmente detto la Massa, che anche\n\u00e8 sul passo, essendovi ancora gli antichi fossi pieni d\u2019acqua gli\nafforzarono; onde Anichino di Bongardo, ch\u2019era a Solaro con l\u2019oste\ndi messer Bernab\u00f2, avendo vittuaglia per fornire Castelfranco, e\nl\u2019altre castella del Bolognese, la si ritenne per l\u2019oste sua, non\nsperando poterne avere stando ferma la bastita della lega. Vedendo\nmesser Bernab\u00f2 che la lega era contro a lui ben fornita, e potente\ndi gente e di danari, si pent\u00e8 d\u2019avere sconcia la pace colla Chiesa,\ne di presente mand\u00f2 lettere a\u2019 suoi amici e protettori in corte, e\nappresso ambasciata con cercare si fermasse la pace, levando via tutti\ngli articoli ed eccezioni che posti avea, e l\u2019altre disoneste dimande,\nrimettendo Bologna nelle mani de\u2019 Fiorentini, o di cui il papa volesse.\nIl papa era contento, non avendo ancora che fosse ferma la lega, ma in\nquello stante le lettere del legato vennero al papa, come la lega era\nferma e possente a resistere al tiranno, e avute queste novelle, il\npapa e\u2019 cardinali al tutto rinunziarono di fare la volont\u00e0 di messer\nBernab\u00f2, e seguirono loro processo, e feciono lui e chi gli desse aiuto\no favore scomunicato, e nominatamente gli Ubaldini, i quali tennono\ncon lui contro alla citt\u00e0 di Bologna. Avendo messer Bernab\u00f2 mandato a\ncorte, anche scrisse al comune di Firenze scusandosi, che per lui non\nrimanea il seguire della pace, e che la guerra non venia da lui.\nCAP. C.\n_Come e quando mor\u00ec Luigi re di Cicilia e di Gerusalemme._\nLuigi re di Cicilia e di Gerusalemme, signore d\u2019assai sconcia e\ndissoluta vita secondo che richiede la reale maest\u00e0, tocco da divina\nspirazione, quasi consapevole di sua morte vicina, lasciando l\u2019usate\nvanitadi, punto dal giudicio di sua coscienza, per penitenza e ammenda\nde\u2019 suoi misfatti e difetti si mise umilmente in pellegrinaggio, e and\u00f2\na visitare i corpi de\u2019 gloriosi apostoli, di messer san Bartolommeo il\nquale \u00e8 a Benevento, quello di san Matteo lo quale giace a Salerno,\ne quello di sant\u2019Andrea il quale sta ad Amalfi, secondo che nel\npaese certamente si tiene per antica e indubitata credenza: e di tale\nviaggio tornato a Napoli cadde in malattia, e come piacque a Dio, senza\ndisporre altrimenti de\u2019 suoi fatti, dicendo che niente avea di suo da\ntestare, ma che tutto era della reina Giovanna, anzi il principio del\nd\u00ec a d\u00ec 26 di maggio, il giorno della santa Ascensione, rend\u00e8 l\u2019anima\na Dio, e in quel d\u00ec fu sepolto con reali esequi a....... avendo tenuto\nil regno dieci anni forniti dal giorno di sua coronazione. Signore\nfu di poca gravezza e meno d\u2019autorit\u00e0, e in aspetto e fatto senza\nscienza alcuna, e in fatti d\u2019arme poi fu re poco si travagli\u00f2. Poco\namore port\u00f2 al suo sangue; il fratello aggrand\u00ec pi\u00f9 per paura che\nper carit\u00e0, i cugini tratt\u00f2 male, e per forza li si fece rubelli. Fu\ndi sue promesse mendace e di ci\u00f2 come di virt\u00f9 si vantava sovente.\nColoro ch\u2019erano pi\u00f9 scellerati peccatori de\u2019 suoi baroni appresso di\nlui erano del pi\u00f9 segreto consiglio e di maggior potenza, e con loro\nnon avea onorevole conversazione di vita. Mobile fu, timido e pauroso\nne\u2019 casi dell\u2019avversa fortuna, perocch\u00e8 appresso di s\u00e8 non volea\nuomini virtudiosi n\u00e8 d\u2019autorit\u00e0. Molto era cupido di fare moneta, e la\ngiustizia mollemente mantenea, e poco si facea temere a\u2019 suoi baroni.\nCon il suo balio messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco, e da cui\na\u2019 suoi bisogni avea aiuto e consiglio alle grandi cose, molte volte\nper punzellamenti e malvagi conforti de\u2019 suddetti suoi baroni venne in\nsospetto, e quando la virt\u00f9 di colui s\u2019allungava dalla corte i fatti\ndel re andavano male. Alla reina facea poco onore, e o per suo difetto,\nch\u2019assai n\u2019avea, o per fallo della reina, molte volte come una vil\nfemmina in grande vituperio della corona la battea, e di quello ch\u2019era\nsuo non le lasciava fare n\u00e8 a s\u00e8 n\u00e8 ad altrui il debito onore. Delle\nmagnifiche cose che a lui parea aver fatto a tempo di guerra e di pace\ntanto si lodava e vantava, che ogni uomo che l\u2019udia tediando facea\nmaravigliare; e di tali frasche fece comporre scritture d\u2019alto dittato,\ncompiacendosi nelle proprie lusinghe.\nCAP. CI.\n_Come i Fiorentini vollono difendere Pietrabuona, e non poterono._\nNel 1362 a d\u00ec 18 di maggio, i priori di Firenze raccolsono un\nparlamento d\u2019oltre a seicento cittadini, nel quale spuosono i termini\nin che stava Pietrabuona, e come quelli che la teneano data l\u2019aveano al\ncomune di Firenze, e come i signori l\u2019aveano presa a parole, pensando\nse si difendesse dalla forza de\u2019 Pisani per quella riavere o Sovrana\no Coriglia, terre da\u2019 Pisani nel vero copertamente e maliziosamente\ntolte al comune di Firenze; non ostante che poco dinanzi per i detti\nsignori fosse stato risposto agli ambasciadori pisani, che \u2019l comune\nnon se ne travagliava, e pi\u00f9 come ne\u2019 prossimi giorni i Pisani aveano\ncavalcato sopra il terreno di Barga terra accomandata al comune di\nFirenze, e dandovi il guasto arando i seminati con pi\u00f9 di cento paia di\nbuoi, e tagliando loro gli alberi dimestichi, e le vigne e\u2019 castagni,\ne come a undici soldati del comune di Firenze in sul distretto del\ncomune di Firenze, i pi\u00f9 conestabili, stando senza arme a vedere\ngittare i trabocchi in Pietrabuona, rabbiosamente ai pi\u00f9 aveano tolta\nla vita e gli altri fatti prigioni; e recando alla mente le altre pi\u00f9\ngravi ingiurie per lo comune pazientemente passate con infignersi\ndi non vederle, nonostante che poco dinanzi al detto parlamento\nper i signori di Firenze risposto fosse agli ambasciadori di Pisa,\nche de\u2019 fatti di Pietrabuona il comune di Firenze non s\u2019intendea di\ntravagliare, si diliber\u00f2 di concordia di tutto il detto consiglio che\nPietrabuona e sua difesa si prendesse. In questi giorni avvedendosi i\nPisani che i masnadieri di Pietrabuona erano caldeggiati dalla gente\nde\u2019 Fiorentini, con molta pi\u00f9 sollecitudine e studio procurarono di\nracquistarla, e combattendo con dodici trabocchi per d\u00ec e per notte\ntutta la macinavano. Dopo il partito preso della difesa, secondo il\ngiudicio di molti intendenti, la difesa era presta dove il comune\navesse fatto afforzare il poggio della Remita, che soprastava i\nbattifolli de\u2019 Pisani, ed era del distretto del comune di Firenze, ma\nnel tardare preso fu e guardato per i Pisani; e i Fiorentini in sul\nloro terreno dirimpetto a Pietrabuona, la Pescia in mezzo, puosono\nun battifolle che dava l\u2019entrata e l\u2019uscita libera agli assediati, il\nperch\u00e8 molto se ne renderono sicuri quelli d\u2019entro, ma dalli dificii\ni quali continovo il d\u00ec e la notte gettavano non poteano essere atati,\ne all\u2019uscita di maggio vi cominciarono a gittare fuoco temperato, che\neziandio offendeva alle pietre, e tanto spesso l\u2019una pietra su l\u2019altra\nvenia disfacendo il castello, e offendeano alle persone, che ai pochi\ndifenditori che stare vi poteano toglieva il vigore alla difesa. Oltre\na queste continove battaglie i Pisani levarono un castello di legname\nsotto la guardia di loro battifolli, un\u2019arcata vicino alla torre della\nrocca, contro al quale i Fiorentini feciono dirizzare un trabocco che\nl\u2019avrebbe spezzato, se \u2019l maestro che \u2019l conducea fosse ito con fede\na\u2019 Fiorentini, ma era Aretino, e d\u2019animo ghibellino, e per\u00f2 non adoper\u00f2\nquello ch\u2019avrebbe potuto; i maestri dal lato pisano avendo alli quattro\ndificii giuntone uno pi\u00f9 grosso, quello de\u2019 Fiorentini sconciarono. In\nquesti d\u00ec messer Bonifazio Lupo da Parma, chiamato da\u2019 Fiorentini per\ntenere luogo di capitano, giunse a Firenze, e di presente and\u00f2 a vedere\nil sito di Pietrabuona, e il modo e forma di suo assedio, e veduto\ned esaminato tutto, scrisse a\u2019 signori di Firenze che impossibile gli\nparea la difesa, e ci\u00f2 fu a d\u00ec 4 di giugno; e a d\u00ec 5 del mese, il d\u00ec\ndella Pentecoste, i Pisani, ch\u2019erano presso al trarre delle balestra,\ncon loro battifolli, con tutta loro forza di gente d\u2019arme, e d\u2019assai\nbuoni balestrieri, movendo loro castello il condussono fino alla rocca.\nQuivi secondo il suo essere fu l\u2019aspra battaglia a petto a petto, e non\ndi manco li dificii de\u2019 Pisani traevano s\u00ec temperati che loro genti non\noffendeano, e quelli del castello non lasciavano scoprire alla difesa;\nvollono gittare il ponte del castello del legname in su la torre di\nl\u00e0, ch\u2019era pi\u00f9 bassa che il castello, e il ponte fu corto, e la difesa\ngrande per l\u2019operazione de\u2019 buoni balestrieri d\u2019entro, e durata questa\npugna per spazio di parecchie ore, i Pisani si ritrassono addietro col\ncastello del legname; quelli di Pietrabuona affannatisi ritrassono\na rinfrescare, e non pensando per quello rimanente del giorno avere\npi\u00f9 battaglia, non di meno al soccorso loro erano tratti i cavalieri\ne\u2019 masnadieri, quelli che stare vi poteano coperti da\u2019 trabocchi.\nI Pisani in questo riposamento rallungarono il ponte al castello, e\ncon pi\u00f9 asprezza ritornarono alla battaglia, e condotto il castello\nlungo la rocca, gettarono il ponte in su la torre, ma per questo non\nsi curavano quelli d\u2019entro, che ben poteano tre a tre combattere;\nma quale che si fosse la cagione quelli d\u2019entro invilirono, e quelli\nch\u2019erano venuti al soccorso incominciarono a abbandonare il castello, e\nquelli ch\u2019erano di que\u2019 d\u2019entro i caporali pensarono a volere salvare\ndanari e altre cose sottili ch\u2019aveano nella rocca, e per\u00f2 affocarono\nla torre e abbandonarono la difesa, onde i Pisani francamente presono\nla terra, e cui giugnere vi poterono misono al taglio delle spade,\nintra i quali fu Nieri da Montegarulli antico e pregiato masnadiere,\nil quale essendo arrenduto alla fede vi fu morto, e altri presi e\nferiti: coloro che l\u2019altro d\u00ec v\u2019andarono pe\u2019 morti, e per ricogliere i\nprigioni, sopra i corpi de\u2019 morti prendendoli furono morti, e simile\ni ricomperatori. La gente de\u2019 Fiorentini abbandonato il battifolle e\narso con non poca vergogna si tornarono a Pescia. Di questa vittoria\nla gloria e la burbanza de\u2019 Pisani troppo fu sopra modo, e la befferia\nsmisurata, e la festa tanto grande, che dove avessono acquistato\nuna provincia non l\u2019avrebbono potuta fare maggiore, dispettando e\navvilendo i Fiorentini, e per loro lettere, e oltre a ci\u00f2 aprendo\nquelle de\u2019 mercatanti fiorentini di loro mano v\u2019aggiugneano villane e\nontose parole del nostro comune. I loro anziani e governatori posto il\nsenno dall\u2019uno lato osarono dire, che se i Fiorentini avessono cuore\na muovere guerra, che i loro soldati ne legherebbe tre uno di loro, e\nse v\u2019andassono i cittadini, li vincerebbono e legherebbono le femmine\nloro, e molte altre altere e brutte parole con la testa levata usarono\ncontro il comune di Firenze per muoverli a cruccio e impresa di guerra,\nignoranti delle rivoluzioni della fortuna, la quale per guerra assai\nloro apparecchi\u00f2 di male.\nCAP. CII.\n_Come quelli della valle di Caprese furono traditi dagli Aretini._\nDel mese di maggio, quelli della valle di Caprese con l\u2019aiuto di\nloro vicini e amici tanto seppeno adoperare, che presono la Rocca\ncinghiata la quale era de\u2019 Tarlati, e teneano questa e la rocca del\nCaprese, e con gli Aretini s\u2019erano accordati di torre da loro potest\u00e0,\ne di dare loro ogn\u2019anno certo censo riconoscendoli per maggiori,\ne doveano i nemici degli Aretini avere per nemici, e gli amici per\namici, e li Aretini li doveano in loro stato conservare e difendere.\nStando cos\u00ec gli Aretini infintamente feciono l\u2019oste bandire sopra un\ncastello di quelli da Pietramala, e richiesono quelli della valle\ndi Caprese d\u2019aiuto, i quali liberamente di buona voglia elessono\ndi loro fanti dugento pi\u00f9 eletti e pregiati, e uscito il podest\u00e0\nd\u2019Arezzo coll\u2019oste quelli della valle Caprese s\u2019aggiunsono con lui,\ned egli vedendosi costoro tra le mani ne presono centoventi, gli\naltri fuggendo camparono. Presi gli amici gli amici per questa via,\ne mandati ad Arezzo, la gente degli Aretini col podest\u00e0 entr\u00f2 nella\nvalle di Caprese, e menarono a tondo guastando e consumando ci\u00f2 ch\u2019era\nin quella; rifuggiti i paesani alla rocca, la quale era da guatarla e\nlasciarla stare. Gli Aretini avendo i prigioni domandavano la rocca;\ni Caprigiani con franchi animi si dispuosono di volere innanzi morire,\ne di vedere i loro prigioni morire, che volessono le rocche dare agli\nAretini, e di presente mandarono sindaco con pieno mandato per darsi\nal comune di Firenze, il quale stette sopra quindici d\u00ec in Firenze per\nci\u00f2 fare: gli Aretini con loro ambasciadori storpiarono che il comune\nnon fece l\u2019impresa, dicendo che le rocche erano in punto che contra\nloro non si poteano tenere, e che il loro comune era amico e fedele del\ncomune di Firenze, e che avendo essi le rocche l\u2019aveano i Fiorentini, e\nin breve tanto seppono dire e operare con gli amici loro, che \u2019l comune\nnon li tolse, il perch\u00e8 di poi si dierono a\u2019 Perugini, e da loro si\ntrovarono ingannati, come appresso a suo tempo diviseremo.\nCAP. CIII.\n_Della mortalit\u00e0 dell\u2019anguinaia._\nIn questi tempi, del mese di giugno e luglio, l\u2019usata pestilenza\ndell\u2019anguinaia con danno grandissimo percosse la citt\u00e0 di Bologna, e\ntutto il Casentino occup\u00f2, salvo che certe ville alle quali perdon\u00f2,\nprocedendo quasi in similitudine di grandine, la quale e questo e quel\ncampo pericola, e quello del mezzo quasi perdonando trapassa; e se\nsimilitudine di suo effetto dare si pu\u00f2, se ci\u00f2 procede dal cielo per\nmezzo dell\u2019aria corrotta, simile pare alle nuvole rade e spesse, per\nle quali passa il raggio del sole, e dove fa splendore e dove no. Or\ncome che il fatto si vada, nel Casentino infino a Dicomano nelle terre\ndel conte Ruberto f\u00e8 grande dannaggio d\u2019ogni maniera di gente: tocc\u00f2\nModona e Verona assai, e la citt\u00e0 di Pisa e di Lucca, e in certe parti\ndel contado di Firenze vicine all\u2019Alpi, e nell\u2019Alpi degli Ubaldini:\na\u2019 Pisani tolse molti cittadini, ma pi\u00f9 soldati. Nell\u2019Isola di Rodi in\nquesti tempi ha fatti danni incredibili: e nel 1362 del mese di luglio\ne d\u2019agosto assal\u00ec l\u2019oste de\u2019 collegati di Lombardia sopra la citt\u00e0 di\nBrescia per modo convenne se ne partisse, e nella citt\u00e0 fece danno\nassai. Nella citt\u00e0 di Napoli e in molte terre dei Regno, ove assai,\ne dove poco facea, ove niente. Nelle case vicine a Figghine cominci\u00f2\nd\u2019ottobre in una ruga, e l\u2019altre vie non tocc\u00f2. In Firenze ove in una\ncasa ove in un\u2019altra di rado e poco per infino a calen di dicembre.\nLIBRO UNDECIMO\nCAPITOLO PRIMO.\n_Il Prologo._\nSogliono naturalmente le cose opposte e contrarie insieme avvicinate\npi\u00f9 le loro contrariet\u00e0 dimostrare. Questo pertanto al presente\ndiciamo, perocch\u00e8 la pace rotta al nostro comune per i Pisani, e la\nguerra per loro e mossa e cercata con molta astuzia sollecitamente\nper riavere il porto, ne presta materia di proemio all\u2019undecimo libro\ndi nostro trattato, prendendo principio dalla natura e condizione\ndella pace fedelmente osservata, la quale \u00e8 certo fermo e indubitato\nfondamento e grado delle mondane ricchezze, e della mondana felicit\u00e0\nsecondo il mondo. Ella \u00e8 madre di unit\u00e0 e cittadinesca concordia;\nella non solo alle piccole, ma eziandio alle menome cose partorisce\naccrescimento e esaltazione. I re del mondo loro reami in pace\nmansuetamente governano; i popoli liberi intenti a loro arti e\nmercatanzie moltiplicano in ricchezze, magnificando la faccia di\nloro cittadi con ricchi e nobili edificii, e per li sicuri matrimoni\ncresce e moltiplica il numero de\u2019 cittadini con aspetto lieto e pieno\ndi festa. E non solo i popoli che vivono in libert\u00e0, ma quelli che\nsottoposti sono al crudelissimo giogo della tirannia, la quale per sua\nmalvagia natura e corrotta d\u2019usanza a\u2019 buoni e valorosi cittadini \u00e8 del\ntutto e sempre nemica, e in palese e in occulto avversa, per la paura\nfitta nelle menti loro di perdere loro stato, maculati dalla coscienza\ndelle loro crudeli e sanguinose operazioni; d\u2019onde surge, che senza\nniuna piet\u00e0 o discrezione ti disfanno e scacciano senza misericordia\nalcuna, affermando meglio essere terra guasta che terra perduta. N\u00e8\ncontenta loro perversa iniquit\u00e0 alle occupazioni delle loro cittadi,\nper cupidigia d\u2019ampliare signoria le nazioni vicine tormentano, e\nmassimamente i popoli che vivono in libert\u00e0, con continove guerre\ngradimenti e trattati. E per potere fornire loro empio proponimento,\ne mandare a esecuzione loro volontadi, i sudditi loro disfanno,\nmoltiplicando gabelle e collette, ma con gravi imposte. Costoro spento\nil seme de\u2019 buoni danno alquanto di respitto e triegua alle servili\nfatiche, un poco in pace patiscono ai loro sudditi respirare. Male\ndunque conosce e molto poco pregia la dolcezza della libert\u00e0 chi per\ncupidigia di mortale vita la perde, se vita dirittamente ponderando\nappellare si pu\u00f2 il servaggio. \u00c8 dunque la pace bene considerata\nmadre di letizia e d\u2019ubert\u00e0, corona e nobilt\u00e0 di potentissimi re e\nsignori, protezione e scudo de\u2019 liberi popoli, del tutto e per tutto\navversa e nimica alla spaventosa, sterile e sanguinosa guerra, per la\nquale l\u2019altissime cose caggiono e vengono meno. Quanti famosissimi\nre e signori nelle passate etadi ha ella straboccato in estrema\nmiseria, con vilissimo e vituperabile uscimento di vita! Quante\nnobili famose e gloriose cittadi ha ella dai fondamenti sovverse,\nlo cui specchio \u00e8 ai mortali manifestissimo argomento d\u2019incredibili\nmali! Quante provincie ha ella lasciate disolate e povere d\u2019abitatori\nin pauroso e spaventevole aspetto! Quanti e innumerabili popoli ha\ntagliati con ferro, e sommersi nel domestico e nel pellegrino sangue,\ni quali hanno lasciato di loro calamit\u00e0, miseria, e avversa fortuna\nagl\u2019ignobili luoghi famosi titoli! Chi potrebbe in piccolo numero di\ncarte comprendere le incredibili e maravigliose cose che ne\u2019 passati\nsecoli il furore e la rabbia della guerra ha prodotte? Essa \u00e8 occulto\ne malvagio seme, e ricettacolo della tirannia, la quale nel letume\nsuo a guisa del fungo s\u2019ingenera e surge, e nella sua pertinacia si\nnutrica e allieva. Dunque bene \u00e8 d\u2019abominare, e da recare dai buoni in\npersecuzione colui lo quale per ambizione, ovvero per propria malizia\no disdegno, o per utilit\u00e0 privata, o per vendetta o per vanagloria la\nsua patria sospigne in guerra; e se noi amiamo il vero, io non conosco\nqual grazia trovare si possa nel cospetto di Dio per suo pentere, tutto\nche quasi stimi che impossibile sia il pentere tale uomo. Come pu\u00f2 egli\nrestituire le morti degl\u2019innocenti e semplici? come gli omicidi? come\ngl\u2019incendii? come le prede? come le violenze fatte alle oneste donne\ne alle pure vergini? come gli scacciamenti? come le povertadi? come le\nnecessarie peregrinazioni? come il perdimento della libert\u00e0 che tutte\ncose sormonta? Di quello che poco dire non si pu\u00f2 \u00e8 meglio il tacere: e\nqui far fine si dee, e dar luogo a chi molto pu\u00f2, e poco sa, e a molti\noffende. Anime tribolate, se potete, datevi in viaggio pace e buon\npiacere.\nCAP. II.\n_Degli apparecchi fatti da\u2019 Fiorentini per la guerra contro a\u2019 Pisani._\nIl comune di Firenze per natura nell\u2019imprese grave \u00e8 e tardo, ma\nnel seguirle avveduto e sollecito, poich\u00e8 deliberato avea di seguire\nl\u2019inviluppata impresa incominciata contro a\u2019 Pisani per Pietrabuona,\ne venia in aperta e palese guerra per vendicare sua onta, essendo i\nsuoi governatori svegliati come da grave sonno, e infiammati per la\nvergogna prossimamente ricevuta, animosamente seguendo il consiglio\ndi messer Bonifazio Lupo da Parma loro capitano, uomo quasi solitario\ne di poche parole, ma di gran cuore, e di buono e savio consiglio, e\nmaestro di guerra, all\u2019entrare del mese di giugno 1362 cominciarono\na provvedersi intorno alle bisogne della guerra. E per coprire la\ntostana e sperata vendetta cominciarono a fabbricare a un\u2019otta sedici\ntrabocchi, nel lavorio de\u2019 quali pigramente si procedea, per mostrare\nche l\u2019assalimento avesse lungo tratto, e continovo sollecitamente si\nprovvedeano di gente d\u2019arme, e da cavallo e da pi\u00e8. E per non mandare\nin arme la vilt\u00e0 delle vicherie, le quali senza lunghezza di tempo e\nlunga dimoranza, la quale \u00e8 sempre nemica e nociva alla guerra, non si\npossono raccogliere, e perch\u00e8 l\u2019amist\u00e0 e grazia de\u2019 possenti sottrae\ndal comune servigio i buoni e\u2019 valenti, e lascia i cattivi, mandarono\ni signori per tutti quelli gentili uomini e popolari di citt\u00e0 e del\ncontado, i quali sentirono abili e sofficienti a fare prestamente\nbrigate di fanti e gente sperta in arme, e loro imposono e comandarono\nquanto pi\u00f9 tosto potessono facessono il pi\u00f9 gente potessono, i quali\nil comandamento senza dilazione mandarono ad esecuzione; sicch\u00e8 il\nd\u00ec 15 di giugno il comune, che di gente di soldo e che di gente col\ndetto ordine ricolta, si trov\u00f2 millecinquecento uomini di cavallo,\ne quattromila pedoni, fra\u2019 quali furono millecinquecento e pi\u00f9\nbalestrieri. Ancora infra i detti giorni richiesono loro amist\u00e0, e\ninfra gli altri richiesti furono i Perugini e\u2019 Sanesi: i Perugini\nrisposono, che per le novit\u00e0 aveano di loro usciti non aveano destro di\npotere sovvenire, e che bene sapeano che \u2019l comune di Firenze era tale\ne tanto, e di tanta forza e podere, che non che si potesse atare dal\ncomune di Pisa, ma che agevolmente il dovea potere sormontare: i Sanesi\nsenza altra scusa risposono, che non aveano gente da poterne loro\nservire: le quali risposte non sono da porre in oblio dalla liberalit\u00e0\ndel nostro comune, lo quale ne\u2019 loro bisogni richiesto, di ci\u00f2 che\npotuto ha non ha detto di no. Pistoiesi, Aretini, il conte Ruberto, e\naltri vicini vennono a servire il comune con quella gente da cavallo e\nda pi\u00e8 che fare poterono, onde il comune infra li 20 di giugno si trov\u00f2\nd\u2019avere tra di soldo e d\u2019amist\u00e0 milleseicento cavalieri e cinquemila\npedoni. I Pisani sentendo il fabbricare degl\u2019ingegni, e la raunata di\ngente d\u2019arme che si facea in Firenze, tutto ch\u2019avessono certa la guerra\nper le cagioni dette di sopra, non di manco cominciarono a dubitare e\ntemere, e cominciarono a fare sgombrare loro contado, e specialmente\nla Valdera, e afforzare e guarnire loro tenute verso le frontiere il\nmeglio e il pi\u00f9 pronto poterono, conducendo gente di soldo e da cavallo\ne da pi\u00e8 quanto poterono il pi\u00f9, con dare ordine a\u2019 loro contadini e\nalle difese e a guardie di loro tenute.\nCAP. III.\n_Come seguendo gli antichi Romani gentili i Fiorentini nel dare\ndell\u2019insegne al capitano presono punto per astrologia._\nI nostri padri Romani prima che venissono al segno dell\u2019imperio,\nin loro imprese di nuove guerre niente mai avrebbono incominciato,\nche prima felici augurii non avessono cerchi e veduti: pertanto ne\u2019\nsacrificii che facevano agl\u2019idoli loro nelle interiora degli animali\nvittimati cercavano la sorte e l\u2019avvenimento della fortuna; questo\naccecamento diabolico ed \u00e8 ed esser dee in abominazione come avverso\nalla fede cristiana. Vicino e quasi consorte alla stoltezza degli\naugurii \u00e8 quella parte dell\u2019astrologia la quale predice i futuri\navvenimenti delle cose nominate e singolari, e\u2019 loro propri casi,\ne massimamente di riuscimenti di guerre, i quali sono nelle mani\ndel signore Dio Sabaoth, che interpretato \u00e8 Dio degli eserciti. I\nFiorentini stratti del sangue romano, per vizio ereditario seguono i\ngiudicii delle stelle, e altre ombre d\u2019augurii sovente, e al presente\navendo accolto l\u2019esercito, di che avemo detto nel precedente capitolo,\ne volendo dare l\u2019insegne, vollono il punto felice dall\u2019astrologo, il\nquale fu luned\u00ec mattina a d\u00ec 20 di giugno sonato terza, alla duodecima\nora del d\u00ec; e ricevute l\u2019insegne, avacciando il viaggio come cacciati,\ngiunsono errore ad errore, perocch\u00e8 sempre che insegne si dierono per\nguerra contro a\u2019 Pisani, date volgeano al canto di Porta santa Maria, e\npoi per Borgo santo Apostolo; i governatori del fatto avendo sospetta\nla via di Borgo santo Apostolo, come al nostro comune male augurata\ncontro a\u2019 Pisani, le feciono volgere per Mercato nuovo, e per Porta\nrossa, e come poco avvisati non feciono prima levare i castagnuoli\ndelle tende de\u2019 fondachi, onde convenne s\u2019abbassassono l\u2019insegne.\nIl corso fu ratto, perch\u00e8 non passasse l\u2019ora data per l\u2019astrologo al\nposarle fuori della terra a santa Maria a Verzaia, secondo l\u2019antica\nusanza del nostro comune. Avemo arato il foglio con lungo sermone\ndi lieve materia, ma fatto l\u2019avemo per ricordo di quelli che dietro\nverranno, che non voglino sapere le cose future, n\u00e8 porre speranza\nnegl\u2019indovinatori, perocch\u00e8 solo Iddio \u00e8 il giudicatore delle giuste\ne inique battaglie. Per alloggiare ne\u2019 tempi loro le forestiere\ncose, lasceremo il processo della guerra di Pisa, e a suo tempo lo\nripiglieremo.\nCAP. IV.\n_Della prospera fortuna de\u2019 collegati lombardi._\nE\u2019 ne piace di fare un fascio di molte avvolture di santa Chiesa co\u2019\nsuoi collegati lombardi, mescolando i tempi passati con quei di dietro,\nper non occupare troppi fogli con cose che non sieno rilevate. Del\npassato mese di maggio quelli della lega dopo la presura di Castelnuovo\nhanno tolto a\u2019 nemici la terra di Salaro sita sopra il Po di Pavia,\ne la terra di Ligaria di qua dal Po, la quale \u00e8 posta a otto miglia\npresso a Tortona, e pi\u00f9 altre castella e ville del tenitorio di Pavia,\ne di giugno il castello d\u2019Erbitra, il quale era del Saliratuo de\u2019\nBuiardi d\u2019Elbiera, il quale per piacere a messer Bernab\u00f2, ritenendo il\ncassero a s\u00e8, gli avea prestata la terra per i bisogni di sua guerra:\ne il tiranno non osservata sua fede v\u2019avea per s\u00e8 fatta fare altra\nfortezza. Elbiera \u00e8 vicina a Modena a otto miglia, ond\u2019era camera a\nmesser Bernab\u00f2 d\u2019onde forniva tutte le sue bisogne nella guerra co\u2019\nBolognesi; il Saliratuo come fidato al tiranno praticava nel cassero\nch\u2019egli avea fatto, onde preso suo tempo, morte le guardie prese il\ncassero, e di presente con modi diede la terra al marchese di Ferrara.\nAppresso quelli della lega puosono l\u2019oste a Brescia, e messer Bernab\u00f2\nche dentro v\u2019era se ne fugg\u00ec. Qui lecito mi sia gridare e dire, che Dio\nconfonde e avvilisce le arroganti parole che detto avea il tiranno che\ngastigherebbe i Lombardi venuti in lega come putti, ed eglino hanno\ngastigato lui. Giugnamo alle predette fortune, che essendo grande\nquantit\u00e0 d\u2019Inghilesi infino a Basignano avvenne, che la gente di messer\nGaleazzo ch\u2019era alla guardia del castello volendo fare del gagliardo si\nf\u00e8 loro incontro, e di presente fu rotta, e alquanti ne furono morti,\ntutti gli altri rimasono prigioni. Sopra le dette baratte di guerra i\ncollegati presono Gheda in sul Bresciano a d\u00ec 20 di luglio, terra che\nfa oltre a ottomila uomini: e quelli che teneano Basignano in sul Po\nper messer Bernab\u00f2, e per guardarla aveano spesi molti danari, e da lui\naltro che minacce non poteano ritrarre, la ribellarono, e la dierono\na\u2019 collegati, ricevuti da loro circa a diecimila fiorini d\u2019oro, che\naveano spesi in guardarla. Oltre alle predette cose i collegati hanno\ncorso il Novarese e assediata Novara. Volgendo un poco il mantello a\nuso di guerra, avendo i collegati preso il castello del ponte a Vico\nin su l\u2019Oglio, quelli della rocca si patteggiarono d\u2019arrendersi se\nfra certi giorni non fossono soccorsi; i collegati aveano nel castello\nmesse ventotto bandiere di cavalieri e soldati a pi\u00e8 assai, i quali non\npensando che soccorso potesse venire stavano sciolti e con poco ordine;\nil castellano intendente compreso loro cattivo reggimento lo signific\u00f2\na messer Bernab\u00f2, il quale di notte con gran quantit\u00e0 di gente, e la\nmattina davanti il fare del giorno messo in ordine, per gli alberghi\ne per le case tutta la detta gente prese; e cos\u00ec va di guerra. Pi\u00f9\nla pestilenza dell\u2019anguinaia avendo aspramente assalito la citt\u00e0 di\nBrescia, e l\u2019oste de\u2019 collegati ch\u2019era di fuori, li strinse a partire,\ne si tornarono a Verona, e quindi ciascuno alla terra sua.\nCAP. V.\n_Della morte di Leggieri d\u2019Andreotto di Perugia._\nLeggieri di Andreotto popolare di Perugia fu uomo di grande animo, e\nal suo tempo Tullio, perocch\u00e8 fu il pi\u00f9 bello dicitore si trovasse,\ne senza appello il maggiore cittadino ch\u2019avesse citt\u00e0 d\u2019Italia che\nsi reggesse a popolo e libert\u00e0, e il pi\u00f9 amato e il pi\u00f9 careggiato e\ndal popolo e da\u2019 Raspanti, ma a\u2019 gentili uomini li cui trattati avea\nscoperti forte era in crepore e malavoglienza. Avvenne che una domenica\na d\u00ec 19 di giugno, essendo egli quasi all\u2019incontro delle case sue\nnella via, e leggea una lettera, un figliuolo bastardo di Ceccherello\nde\u2019 Boccoli, cui il detto Leggieri avea per lo trattato di Tribaldino\ndi Manfredino fatto decapitare, il quale il tenea in continovo aguato\ncautamente per offenderlo, si trov\u00f2 in una casa del Monte di Porta\nsoli, la cui finestra a piombo venia sopra il capo di Leggieri; costui\nnon trovando altro pi\u00f9 presto prese una macinetta da savori la quale\ntrov\u00f2 vicina alla finestra, e presola a due mani l\u2019assest\u00f2 sopra il\ncapo di Leggieri, e l\u2019abbatt\u00e8 in terra morto, che mai non f\u00e8 parola.\nDella sua morte non fu piccolo danno a\u2019 Perugini, e per cos\u00ec lo\nriputarono, perocch\u00e8 fare lo feciono cavaliere, e li feciono l\u2019esequie\nregali e pompose col danaio del comune, per allettare gli altri che\nvenissono poi a bene operare per la repubblica sua.\nCAP. VI.\n_Come i Fiorentini cavalcarono in Valdera e presono Ghiazzano._\nTornando alle fatiche nostre, manifestato ha sovente l\u2019esperienza, che\nla disordinata e sfacciata baldanza de\u2019 presuntuosi e alteri cittadini\ni quali sono suti per loro procacci dati, non dir\u00f2 consiglieri, ma\npiuttosto balii e tutori a\u2019 capitani nelle guerre del nostro comune, e\na\u2019 capitani e al comune hanno fatti vituperii assai, e notabili e gravi\ndanni, e inrimediabili vergogne, talvolta per non conoscere e volere\nmostrare di sapere, talora con malizioso procaccio di loro private\nutilitadi e onori. Cos\u00ec essendo dati al capitano messer Bonifazio\nconsiglieri assai vie pi\u00f9 presuntuosi che savi, e coloro ritrovandosi\nin Pescia con l\u2019oste de\u2019 Fiorentini, avendo a cavalcare i nemici, non\nsolo lo consigliavano, ma eziandio con parole e arroganti segni lo\nsforzavano, sotto la baldanza dello stato cittadinesco che usurpato\naveano, che cavalcassono in quello di Lucca, dove fortuna quasi sempre\nal nostro comune era stata avversa; ma il valente capitano certificato\ngi\u00e0 de\u2019 vecchi errori in simili atti commessi, poco pregiando nel\nsegreto suo e loro voglie e consigli, e non avendo loro autorit\u00e0 n\u00e8\ngrandigia in dottanza, di fuori mostrava volere seguire loro talento, e\nnel petto tenea raccolto il suo; e contro all\u2019opinione d\u2019ogni qualunque\nil gioved\u00ec mattina a d\u00ec 23 di giugno part\u00ec da Pescia con tutta l\u2019oste,\ne tenne verso Fucecchio e Castelfranco, e il seguente d\u00ec, il giorno\ndi san Giovanni, si mise per lo stretto di Valdera a pi\u00e8 di Marti,\ncerto dell\u2019impotenza de\u2019 nemici, e corse infino a Peccioli, e la sera\ncombatt\u00e8 il castello di Ghiazzano, e per la moltitudine delle buone\nbalestra tanto impaurirono quelli d\u2019entro, che a d\u00ec 26 del mese dierono\nil castello salve le persone, il quale fu per camera del nostro comune\ninfino alla presa di Peccioli, che poco appresso segu\u00ec.\nCAP. VII.\n_Come i Fiorentini soldarono galee contra i Pisani._\nNon contenti i Fiorentini co\u2019 Pisani alla guerra di terra con loro,\nvollono tentare la fortuna del mare, e del mese di giugno condussono\na soldo Perino Grimaldi con due galee e un legno, e uno Bartolommeo\ndi...... con altre due galee, i quali promisono con detti legni bene\narmati essere per tutto il mese d\u2019agosto nella riviera di Pisa, e fare\nguerra a\u2019 Pisani a loro possanza.\nCAP. VIII.\n_Come i Perugini presono la Rocca cinghiata e quella del Caprese._\nEssendo gli ambasciadori e\u2019 sindachi degli uomini e comunit\u00e0 di Val\ndi Caprese stati a Firenze a sollecitare il comune che per suoi li\nprendesse, e con loro quelli della Rocca cinghiata, per la molta forza\nd\u2019amici che si trovarono gli Aretini tra le fave, si sostenne che\naccettati non fossono, in danno e disonore del nostro comune: ond\u2019essi\ndileggiati presa disperazione s\u2019avventarono e dieronsi a\u2019 Perugini, i\nquali li ricevettono graziosamente; e di presente del mese di luglio\nvi mandarono quattrocento fanti e centocinquanta uomini da cavallo, e\npresonsi le tenute di quelle due notabili rocche.\nCAP. IX.\n_Come novecento cavalieri di quelli di messer Bernab\u00f2 furono sconfitti\nda seicento di quelli di messer Cane Signore._\nEra la gente di messer Cane Signore e di Polo Albuino in numero di\nseicento cavalieri del mese di luglio 1362, essendo messer Bernab\u00f2\nin Brescia con gente molta pi\u00f9 assai di cavallo, la detta gente di\nmesser Cane in passaggio alberg\u00f2 dinanzi delle porte della citt\u00e0,\ne una domenica mattina partendosi di quindi per ridursi a Pescara\ne coll\u2019altra gente della lega, lasciato fornite Ganardo e Pandegoli\ncastella di nuovo per loro acquistate in sul Bresciano, ed essendo\ngi\u00e0 intra \u2019l detto Pandegoli e Smaccano, la gente di messer Bernab\u00f2\nin numero di novecento barbute e oltra, che in que\u2019 giorni s\u2019era\nricolta nel castello di Lenado, parendo loro avere mercato della gente\ndi messer Cane, s\u2019apparecchiarono ad assalirla. La gente di messer\nCane sapendo che i nemici avanzavano il terzo e pi\u00f9, e che nel luogo\ndov\u2019erano aveano il disavvantaggio del terreno, e che si metteano in\npunto per assalirli, non aspettarono, e il detto giorno nell\u2019ora del\nvespro nella disperazione presono cuore, e assalirono francamente i\nnemici in su l\u2019ordinarsi, e col favore di Dio li misono in rotta, e\nassai ne furono morti e magagnati e assai presi, intra\u2019 quali di nome\nfurono messer Mascetto Rasa da Como loro capitano, con venticinque\nconestabili assai pregiati in arme, e altri assai che non si nominano;\ne quindi a non molti giorni trecento barbute della gente di messer\nBernab\u00f2 in sul Bresciano dalla gente della lega furono sconfitti.\nCAP. X.\n_Disordine nato tra\u2019 Genovesi per la guerra de\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani._\nMesser Simone Boccanera primo doge di Genova, quando privato fu di\nsua dignit\u00e0 e cacciato di Genova si ridusse a Pisa, e da\u2019 Pisani\ncortesemente fu ricevuto, e secondo il suo grado assai onorato; onde\nper la detta cagione essendo ritornato in Genova, e nello stato suo\ncon la forza di suoi amici e seguaci, a tutto suo podere cerc\u00f2 che il\ncomune di Genova desse il suo favore a\u2019 Pisani, e gi\u00e0 essendo entrati\nin lega con loro, quando il traffico de\u2019 Fiorentini fu levato da Pisa,\ncontro a qualunque navilio con mercatanzia ch\u2019entrasse o uscisse dal\nporto di Talamone, e da quella a istanza de\u2019 Fiorentini per lo suo\nconsiglio e comune levato, quando vidde il fuoco della guerra appreso,\ncon ogni sua forza e sottigliezza cercava che i Genovesi dessono loro\nfavore a\u2019 Pisani, ma i mercatanti ed altri cittadini a tutti suoi\navvisi e sforzamenti s\u2019oppuosono, pure tanto f\u00e8, che per deliberazione\ndel comune s\u2019ottenne e statu\u00ec che il comune di Genova si stesse di\nmezzo, e nullo aiuto o favore si desse n\u00e8 all\u2019uno n\u00e8 all\u2019altro. Occorse\nin istanza di tempo, che i signori priori di Firenze e gli otto della\nguerra scrissono a Francesco di Buonaccorso Alderotti mercatante stato\nlungamente in Genova, pratico con tutti i cittadini e da loro ben\nveduto, che conducesse quattrocento de\u2019 migliori balestrieri i pi\u00f9\npratichi in guerra che avere potesse a soldo, con un buono capitano\no due. Ci\u00f2 venne agli orecchi del doge, e sotto il protesto della\ndeliberazione fatta per lo comune, che a\u2019 Fiorentini n\u00e8 a\u2019 Pisani si\ndesse favore, come \u00e8 detto di sopra, prestamente f\u00e8 fare personale\nbando, che niuno potesse conducere n\u00e8 in Genova n\u00e8 nella Riviera alcuno\nbalestriere, e simile pena puose al balestriere se si conducesse. Il\nvalente mercatante alle sue spese, sponendosi ad ogni pericolo per\nzelo di suo comune, se n\u2019and\u00f2 a Nizza ch\u2019\u00e8 della contea di Provenza,\ne qui s\u2019accozz\u00f2 con messer Riccieri Grimaldi, uomo valoroso e stato\nin pi\u00f9 battaglie campali, e lui solo condusse capitano di quattrocento\nbalestrieri a fiorini sette per balestro il mese, i quali furono tutti\nuomini scelti e usi in guerra. E per mostrare messer Riccieri che con\namore e affezione venia a servire il comune di Firenze, volle che intra\nil numero de\u2019 balestrieri fossono due suoi figliuoli, e due di Perino\nGrimaldi, i quali venuti a Firenze, e non trovando verrettoni a loro\nmodo, anche fu scritto per gli otto al detto Francesco, che da Genova\nne mandasse dugento casse. Ed essendo per lo detto doge posto grave\npena a chi ne traesse del Genovese, il detto Francesco compostosi co\u2019\ndoganieri, ne mand\u00f2 subito centosettanta, le quali legate a quattro\ncasse per balla con paglia, e invogliate a guisa di zucchero, e per\nzucchero si spacciarono alla dogana. Emmi giovato di cos\u00ec scrivere,\nperch\u00e8 se onorato fosse chi bene fa per lo suo comune, gli animi degli\naltri s\u2019accenderebbono a fare il simigliante.\nCAP. XI.\n_Come il re di Castella con quello di Navarra ruppono pace a quello\nd\u2019Aragona, e lo cavalcaro._\nEssendo legati insieme, come addietro \u00e8 detto, lo re di Spagna, con\nquello di Navarra, con quello di Portogallo, e con quello di Granata, e\ncol conte di Fosc\u00ec, e con quello d\u2019Armignacca contro il re d\u2019Aragona,\ndel mese di giugno il re di Castella con quello di Navarra, amendue\nin persona, con cinquemila cavalieri si misono sopra le terre di\nquello d\u2019Aragona, la quale \u00e8 lontana a Sibilia per otto giornate,\ne con sedici galee l\u2019assalirono per mare, avendosi la pace lasciata\ndopo spalle, facendo grandi e disonesti danni. E avendo il re Piero di\nSpagna lungo tempo tenuta assediata la citt\u00e0 di Calatau, e quelli della\ncitt\u00e0 difendendosi coraggiosamente, e non volendosi arrendere loro,\nlo re con giuramento promise, che se non si arrendessono, ed egli li\nprendesse per forza, che tutti li farebbe morire: quelli poco pregiando\nle sue minacce sollecitamente attendeano a loro difesa; infine del mese\nd\u2019agosto il re per battaglia prese la citt\u00e0 e non ricordandosi che\ni vinti fossono cristiani, incrudelito contro loro a guisa di fiera\nsalvaggia, oltre a seimila cittadini disarmati e vinti f\u00e8 mettere al\ntaglio delle spade senza misericordia alcuna.\nCAP. XII.\n_Come per sospetto in Siena a due dell\u2019ordine de\u2019 nove fu tagliata la\ntesta._\nIn questo tempo e mese di giugno, Giovanni d\u2019Angiolino Bottoni della\ncasa de\u2019 Salimbeni con altri gentili uomini di Siena, e con certi\ndell\u2019ordine de\u2019 nove, il quale era posto a sedere, tennono trattato\ndi dovere rimettere l\u2019ordine de\u2019 nove nello stato. Il popolo avendo di\nci\u00f2 odore, e pertanto in sospetto, corse all\u2019arme, e nel furore furono\npresi un Tavernozzo d\u2019Ugo de\u2019 Cirighi, e uno Niccol\u00f2 di Mignanello,\nch\u2019erano stati dell\u2019ordine de\u2019 nove, e furono decapitati. Il capitano\ndella guardia, ch\u2019era de\u2019 Pigli di Modena, fece tagliare il capo a un\nfrate e a certi altri: e furono posti in bando per traditori Giovanni\nd\u2019Agnolino Bottoni, e messer Giovanni di messer Francesco Malavolti,\ne Andrea di Pietro di messer Spinello Piccoluomini, e Cinque di messer\nArrigo Saracini, e Francesco di messer Branca Accherigi dell\u2019ordine de\u2019\nnove. Poi a d\u00ec 3 di novembre il detto Giovanni co\u2019 sopraddetti furono\nribanditi, e riposti nel primo stato e onore.\nCAP. XIII.\n_Cavalcate fatte per messer Bonifazio Lupo in su quello di Pisa._\nAvendo messer Bonifazio Lupo preso Ghiazzano, e predata e arsa la\nValdera tutta fuori delle fortezze, volendo pi\u00f9 in avanti cavalcare\nper suo onore e del comune di Firenze, vietato gli fu da\u2019 consiglieri\nche dati gli erano per lo comune senza mostrarli il perch\u00e8. Il valente\ncapitano pregiando pi\u00f9 suo onore che la grazia e amore de\u2019 privati\ncittadini, e non curando i volti turbati, si mise in viaggio con l\u2019oste\nordinata per fornire sua intenzione. L\u2019uno de\u2019 consiglieri ito pi\u00f9 l\u00e0\nnello stato che non portava il dovere scrisse al fratello, ch\u2019era degli\notto della guerra, come il capitano nullo loro consiglio volea seguire,\ne che era uomo di sua volont\u00e0, e di mettere il comune in pericolosi\nluoghi, con dire procurasse fosse onorato com\u2019egli onorava loro.\nIl che ne segu\u00ec, che per operazione del detto degli otto fu eletto\nper capitano messer Ridolfo da Camerino, e mandato per lui, e che\nprestamente venisse, mostrando che per le stranezze di messer Bonifazio\nil comune n\u2019avesse gran bisogno: e tutto che di ci\u00f2 ne sdegnasse messer\nBonifazio nol dimostr\u00f2, ma come magnanimo ne fece di meglio. Tornando\na nostro processo, messer Bonifazio spregiato il voglioso e poco savio\nconsiglio, e forse malizioso e venduto de\u2019 suoi consiglieri, lasciato\nGhiazzano ben fornito e guarnito alla difesa, l\u2019ultimo d\u00ec di giugno,\narsa e predata la Valdera, con molto ordine cavalc\u00f2 a Padule, villa\nricca e fornita di belli abituri, e predata e arsa la villa prese\nCastello san Piero, e il mercato a Forcole, e per tre d\u00ec soggiorn\u00f2 in\nquei paesi correndo vicino a Pisa: e in quel tempo presono, arsono e\nguastarono trentadue tra castella, e fortezze e villate, nelle quali\narsono oltre a seicento case, che fu danno quasi inestimabile; e intra\nl\u2019altre fortezze presono Contro, e dieronlo in guardia a\u2019 Volterrani.\nEd essendo la gente grossa de\u2019 Pisani a Castello del Fosso, i nostri\nvi mandarono e richiesonli a battaglia, ed eglino non s\u2019attentarono\nd\u2019uscirli a vedere: fu in animo del capitano di combatterlo, ma\nfallandoli gli ingegni di combattere castella, e vittuaglia, si part\u00ec\nquindi, e puosesi nel borgo di Petriolo, quivi aspettando il nuovo\ncapitano; dove stando, per non tenere la sua gente oziosa, e per\nnon dare respitto a\u2019 nemici, quattrocento tra barbute e Ungari con\ncinquecento masnadieri, sotto la guardia e condotta di Leoncino de\u2019\nPannocchieschi de\u2019 conti da Trivalle di Maremma soldato del comune\ndi Firenze, fece cavalcare nella Maremma, lunga dal luogo dov\u2019era\ncinquanta miglia, verso Montescudaio e per que\u2019 paesi, dove trovarono\ngran preda di bestiame e grosso e minuto, che per l\u2019asprezza del luogo\nivi s\u2019era ridotto. I nostri non trovando contasto, fatto gran danno e\narsione nel paese, a d\u00ec 9 di luglio menarono al campo dodici centinaia\ndi bufole e novecento vacche, vitelle assai, e oltre a mille porci,\ne altro bestiame minuto assai, il quale sortito tra i predatori, solo\nmesser Bonifazio per sua cortesia fu senza parte di preda, lasciandola\na chi l\u2019avea faticata.\nCAP. XIV.\n_Del processo della guerra da\u2019 collegati a messer Bernab\u00f2._\nDi questo mese di giugno, quelli della lega ripuosono il castello di\nMassa presso alla Mirandola, e lasciatolo ben fornito di vittuaglia\ne di gente alla guardia contendeano a guerreggiare sollecitamente.\nDall\u2019altra parte Anichino di Bongardo con la gente di messer Bernab\u00f2\nha riposto il castello di Solaro in sul canaletto, che esce del canale\ndi Modena, e fornitolo s\u2019\u00e8 accampato ivi presso nel bosco facendovisi\nforte. Il conte di Lando con messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di\nmesser Bernab\u00f2 corsono infino alla Mirandola ingaggiati di battaglia\ncon la gente della lega, ma in que\u2019 tempi che combattere doveano grave\nmalattia prese messer Galeazzo, e, o che cos\u00ec fosse, o che fosse\nsimulata per non si mettere alla fortuna della battaglia, il conte\ndi Lando e messer Ambrogiuolo si tornarono addietro. Il marchese di\nFerrara di questo mese tolse Voghera, terra d\u2019oltre a dugento uomini,\ne Guarlasco e pi\u00f9 altre terre. Cane Signore tolse la valle di Sale\nin sul lago di Garda, e pi\u00f9 altre terre e fortezze. Alquanti vollono\ndire questa essere la cagione perch\u00e8 il conte di Lando e Ambrogiuolo\nsi tornarono addietro. In queste baratte e volture per operazione del\nconte di Lando certi conestabili tedeschi ch\u2019erano al soldo della\nlega, loro caporale messer..... del Pellegrino, in numero tutti di\nundici, fatta congiura doveano tradire la lega, i quali furono presi, e\ntrovando che ci\u00f2 era vero furono decapitati.\nCAP. XV.\n_Come messer Ridolfo prese il bastone da messer Bonifazio._\nGiunse a d\u00ec 6 di luglio messer Ridolfo al campo, che era fra Peccioli\ne Ghiazzano, dove dalla gente dell\u2019arme ch\u2019aveano posto amore alla\ncortesia e valore di messer Bonifazio con niuno rallegramento fu\nricevuto; e dal vecchio capitano prese l\u2019insegne, onorandolo in questa\nforma di parole, che la bacchetta e il reggimento dell\u2019oste bene stava\nnelle sue mani, ma per ubbidire il comune di Firenze di chi era soldato\nla prendea: e presa, di presente lo f\u00e8 maliscalco, ed egli ogni sdegno\ndeposto in servigio del comune di Firenze l\u2019accett\u00f2 come era ordinato.\nCAP. XVI.\n_Della crudelt\u00e0 che i Pisani usarono contra i Lucchesi per gelosia._\nMentre che l\u2019oste del comune di Firenze pigra e malcontenta sotto\nil nuovo capitano dimorava tra Peccioli, e Ghiazzano in Valdera,\naspettando il gran fornimento che \u2019l capitano avea domandato, i\nPisani per non dimenticare la loro usata crudelt\u00e0, tutti i forestieri\nche al loro soldo erano in Lucca feciono ritrarre nell\u2019Agosta, e\nsegretamente avvisarono da cento cittadini ghibellini e loro confidati\nche per grida che elli udissono andare non si partissono, ma facessono\nvista di volere partire, acciocch\u00e8 gli altri veggendo apparecchiare\nloro prendessono viaggio; e ci\u00f2 fatto, feciono bandire che sotto\npena dell\u2019avere e della persona, che uomini e femmine, cittadini e\nforestieri, dovessono sgombrare la citt\u00e0 e \u2019l contado presso alla\ncitt\u00e0 a mille canne, afin che compiesse d\u2019ardere una candela che\nposta era alle porte. Fu miserabile e cordoglioso riguardo e aspetto\ndi gran crudelt\u00e0 vedere i vecchi pieni d\u2019anni, le donne, le fanciulle\nlagrimose con sospiri e guai, e i piccoli fanciulli con strida lasciare\nloro case, loro masserizie e loro citt\u00e0, e ire e non sapere dove: i\ngentili e antichi cittadini, e nobili mercatanti e artefici in fretta\ne sprovveduti fuggire, come avessono spietati nemici alle spalle loro,\ne la terra loro lasciassono in preda. L\u2019orribile bando fu al tempo dato\nubbidito, e la terra lasciata fu vuota, e in sommo silenzio: di questo\nprestamente segu\u00ec, che i Pisani ch\u2019erano alla guardia di Lucca co\u2019 loro\nsoldati e a pi\u00e8 e a cavallo furiosamente uscirono dell\u2019Agosta colle\nspade nude in mano, e corsono l\u2019abbandonata terra senza essere veduti\nda\u2019 Lucchesi, gridando; Muoiano i guelfi; a Firenze, a Firenze: e non\naveano potest\u00e0 di cacciare la gente de\u2019 Fiorentini ch\u2019erano loro in su\nle ciglia.\nCAP. XVII.\n_Delle cavalcate fatte per messer Ridolfo sopra i Pisani, e del gran\ndanno che ricevettono._\nContinovando nostro trattato della guerra tra i Fiorentini e\u2019 Pisani,\ncon poca intramessa di cose di forestieri, perch\u00e8 delle occorse in\nquesti giorni, se occorse ne sono degne di memoria, poche ne avemo, e\nraccresciuta la forza del comune di Firenze, perch\u00e8 il conte Niccola\ndegli Orsini prima offertosi, e accettato, era venuto con cento uomini\ndi cavallo, e cos\u00ec pi\u00f9 altri gentili uomini, il perch\u00e8 il capitano\nsi trov\u00f2 con duemila barbute e con cinquemila pedoni nel campo tra\nPeccioli e Ghiazzano, dove pigramente con molta sua infamia dimorava;\nil perch\u00e8 messer Bonifazio Lupo infignendosi poco sano se ne venne a\nFirenze. Alla fine empiuto il gran fornimento che domandava, sotto il\ncui adempimento si scusava di sua pigrizia, pi\u00f9 non potendo fuggire\nsue scuse, a d\u00ec 16 del mese di luglio con l\u2019oste si part\u00ec da Peccioli,\ne la notte alberg\u00f2 a Ponte di Sacco, e \u2019l d\u00ec seguente passarono il\nfosso a malgrado della forza de\u2019 Pisani che v\u2019era alla guardia, con\nloro danno e vergogna, ed entrarono nel borgo di Cascina, dove preda e\nvittuaglia trovarono assai. La cagione fu, ch\u2019essendo alla guardia del\nfosso un quartiere di Pisa con soldati e contadini assai, non pensarono\nche i Fiorentini vi potessono passare, e per tanto poco o niente v\u2019era\nsgombrato. Gli Ungari de\u2019 Fiorentini, come per natura sono desiderosi\ndi guadagnare, e atti a scorrere, passarono insino alla Badia a\nSansavino, e presono intorno di cinquanta prigioni. Il capitano tutto\nil giorno e \u2019l seguente stette col campo fermo a Cascina, dove intorno\ncorrendo le gualdane per spazio di pi\u00f9 miglia, e di prede e d\u2019arsioni\ndanni inestimabili furono fatti. Il marted\u00ec mattina a d\u00ec 19 di luglio\npartiti da Cascina s\u2019accamparono a Sansavino, e \u2019l fiore della gente da\ncavallo e da pi\u00e8 cavalcarono infino alla volta dell\u2019Arno presso a Pisa\na cinquecento passi, ed ivi alla Bessa con l\u2019usate muccerie, ad eterna\nrinoma del comune di Firenze, e infamia de\u2019 Pisani, feciono correre un\nricco palio di veluto in grana foderato di vaio, il quale ebbe il conte\nNiccola degli Orsini, e lo mand\u00f2 a Roma per onore della sua cavalleria.\nI corridori con assai di buona gente sotto il bastone di messer Niccola\nOrsini passarono Pisa facendo assai di male e vergogna a\u2019 nemici. Fatte\nle dette cose si tornarono al campo: e quel giorno medesimo passata\nnona, ritornati al detto luogo, con assai meno gente per dirisione\nfeciono correre palii l\u2019uno ad asini, l\u2019altro a barattieri, e \u2019l terzo\nalle puttane; onde i Pisani di tanta ingiuria aontati, seicento a pi\u00e8\ncon dugento cavalieri con molti balestrieri, con la imperiale levata,\nuscirono di Pisa per vendicare o in tutto o in parte loro oltraggio.\nLa gente de\u2019 Fiorentini, ch\u2019era a fare correre detti palii, ed era in\npunto e vogliosa aspettando il detto caso, francamente s\u2019addirizz\u00f2\na loro, e li ruppono e li rimisono infino nelle porte con tanto\nardire, che alquanti con loro mescolati entrarono in Pisa, e alquanti\nbalestrieri saettarono nella terra, e ci\u00f2 fatto si tornarono al campo:\ne quivi stando, il mercoled\u00ec arsono tutto ci\u00f2 che poterono intorno a\nPisa infino al borgo di san Marco a san Casciano, e Valdicaprona e\nmolte altre ville, con molte belle e ricche possessioni nobilmente\naccasate. Il danno come incredibile piuttosto \u00e8 da tacere che da\nscrivere: e per giunta a\u2019 detti mali, i villani de\u2019 piani ch\u2019erano\nrifugiati in Pisa, e stavansi sotto loro carra lungo le mura, furono\nassaliti dalla pestilenza dell\u2019anguinaia, e assai ne perirono. E ci\u00f2\nsomigliava agl\u2019intendenti giudicio di Dio, che dentro e di fuori cos\u00ec\ngastigasse i corrompitori della pace e della fede data per soperchio\nd\u2019astuta malizia.\nCAP. XVIII.\n_Come messer Ridolfo assedi\u00f2 Peccioli, e prese stadichi se non fosse\nsoccorso._\nPoich\u00e8 a messer Ridolfo parve avere fornito il dovere di suo onore,\npotendo molto pi\u00f9 fare, mercoled\u00ec a d\u00ec 20 di luglio ripass\u00f2 il fosso,\ne ritornossi a Ponte di Sacco; dove stando, casualmente fu preso un\nfante che portava una lettera per parte del castellano di Peccioli\nal capitano del fosso, la quale in sostanza diceva, che i soldati da\ncavallo e da pi\u00e8 con molti terrazzani, sentendo che \u2019l capitano de\u2019\nFiorentini era a Sansavino occupato in molte faccende, erano usciti di\nPeccioli, e cavalcati in su quello di Volterra per guadagnare, e che\ntornati non erano, e la cagione non sapea, e che la terra non era in\nstato di potersi difendere se fossono combattuti o stretti per assedio,\ne che a ci\u00f2 riparasse, e gli mandasse presto soccorso; ed era vero, che\nessendo la detta gente de\u2019 Pisani cavalcata in su quello di Volterra,\ncerta gente da pi\u00e8 e da cavallo del comune di Firenze, la quale era\nin Volterra, avendo boce della detta gente de\u2019 Pisani loro si feciono\nincontro, e colla forza de\u2019 contadini volterrani gli incalciarono e\nstrinsono in forma, che non possendo fuggire n\u00e8 ritornare per la via\nond\u2019erano venuti, lasciata la preda che fatta aveano, in sul fare della\nsera per loro scampo si ridussono in su un colle, e la notte si misono\nper la Maremma. Il capitano vista la detta lettera mand\u00f2 prestamente\ngli Ungari e\u2019 cavalieri innanzi per impedire la tornata della detta\ngente in Peccioli, e senza dimoro con tutto l\u2019oste segu\u00ec, e quella\nmedesima sera con l\u2019oste attorne\u00f2 tutta la terra, e il seguente d\u00ec la\ncominci\u00f2 a cignere di steccato facendo sollecita guardia, e la sera\nin sul tramontare del sole, per conoscere se la lettera che egli avea\ntrovata gli dicea vero, fece dare alla terra una battaglia per scorgere\nla gente che v\u2019era alla difesa, e per quello comprendere si pot\u00e8 forse\nsessanta uomini con femmine assai si vidono, che diedono a intendere\nche vi mancava difesa; il procinto della terra era grande, ma forte\ne di muro e di ripe. Il capitano scorto il fatto pigramente procedea\nnell\u2019assedio, dormendo la mattina insino a terza col letto fornito di\ndisonesta compagnia, e menando vita di corte quieta; il perch\u00e8 messer\nBonifazio, uomo d\u2019onesta vita e di vergogna pauroso, veggendo la\nsciolta vita del capitano e suo mal reggimento, infignendosi d\u2019essere\nmalato se ne venne a Firenze, e mostrando a\u2019 signori che poco era loro\nonore e necessario, chiese licenza di tornarsi in Lombardia; i signori\ncon loro consiglio considerando quanto era di bisogno al comune,\nlo pregarono e lo gravarono, che a tanto bisogno non abbandonasse\nil servigio per lui fedelmente cominciato, e che tornasse al campo\na perseguire le buone opere sue, le quali bene erano conosciute e\ngradite da\u2019 savi e buoni cittadini, e cos\u00ec conosciute quelle del suo\nsuccessore; il perch\u00e8 vinto per servire il comune torn\u00f2 al campo. Il\ncapitano corse in voce di poco leale per i suoi molti falli, e per non\nvolere seguire la volont\u00e0 del comune, e di ci\u00f2 mostr\u00f2 segni, perocch\u00e8\nla cavalcata che fatta avea sopra i Pisani non era stata volontaria\nma sforzata, riprendendo sua tardezza, e potendo con suo onore stare\ndodici d\u00ec col fornimento che men\u00f2 in su le porte di Pisa, e guastare\ngran parte di loro contado, il terzo d\u00ec se ne part\u00ec, e potendo per\nbattaglia avere Peccioli, tanto soprastette, che le femmine armate\nle mura presono cuore alla difesa veggendo la vilt\u00e0 del capitano:\nma infamato dalla partita di messer Bonifazio Lupo e da\u2019 Fiorentini\nch\u2019erano nel campo, tutto che i suoi protettori lo difendessono, ed\nesso s\u00e8 medesimo mostrando a molti le lettere ch\u2019avea da Firenze, che\nsi portasse cortesemente, pur mosso dal grido strinse la terra prima\ncon battaglia tiepida e con poco ordine, e tanto debilmente si port\u00f2\nin detto e in fatto, che con vergogna da pochi di quelli d\u2019entro, che\npochi ve n\u2019erano, vituperosamente fu ributtato, i quali intendendo loro\nfortuna aveano smisurata paura, e mostravano gran cuore per invilire\nquelli di fuori. Ritratto il capitano dalla poca favorata battaglia,\nne\u2019 fossi rimasono scale e grilli che infino alle mura erano condotti,\ndi gran dispiacimento dei nostri cittadini che erano a vedere. Tra i\nrettori del comune, tutto ch\u2019e\u2019 conoscano il difetto, per la forza di\nmedici radissime volte vi pongono rimedio obliando l\u2019onore del comune.\nLa fama della vilt\u00e0 e disonesta vita del capitano, o calunniosa o\nvera che fosse o falsa, pure lo stimol\u00f2 alquanto; onde veggendo egli\nche i Pecciolesi erano spigottiti, cominci\u00f2 a cignere la terra di\nsteccato senza contasto, perocch\u00e8 stracchi erano sotto le battaglie\ne sotto la continova guardia quelli che rimasi erano nella terra per\npi\u00f9 vili, perocch\u00e8 tutti i gagliardi s\u2019erano messi nella cavalcata\nsopra Volterra. Alla fine quelli d\u2019entro veggendosi stretti, e senza\nsperanza di soccorso, a d\u00ec 30 di luglio il vicario di Peccioli con\npi\u00f9 compagni senza niuna arme a sicurt\u00e0 dal capitano vennono a lui,\ne patteggiarsi, che se per infino a d\u00ec 10 d\u2019agosto non avessono da\nPisa soccorso li renderebbe la terra salve le persone e l\u2019avere, e per\nla fermezza di ci\u00f2 dierono otto stadichi de\u2019 pi\u00f9 sufficienti uomini\ndella terra, e due Pisani, i quali il capitano ricevette, e li mand\u00f2\na Firenze. I Fiorentini ricevuti li stadichi, quasi certi d\u2019avere\nla terra, perch\u00e8 loro speranza non cadesse in fallo rafforzarono\nl\u2019assedio, e mandaronvi mille balestrieri e dugento uomini da cavallo,\ne fornimento assai necessario alla bisogna; e come l\u2019intento de\u2019\nPisani tutto si dirizz\u00f2 ad avere Pietrabuona, cos\u00ec lasciando stare\nogni altra cosa, tutto quello de\u2019 Fiorentini s\u2019addirizz\u00f2 ad avere\nPeccioli. Come per gli ambasciadori del comune di Peccioli si sent\u00ec il\nfatto in Pisa, subitamente nel Duomo radunarono il parlamento, dove per\nmolti apertamente fu detto, che per loro governatori erano traditi, i\nquali affermavano che tanta gente avrebbono di Lombardia, che non che\nfossono cavalcati, ma che si cavalcherebbono i Fiorentini, di che gran\nborboglio si sparse per lo parlamento, e tale, che f\u00e8 concitamento a\ncivile romore. Essendo in Pisa questo tremore e sospetto, e dovendo\nsuccedere l\u2019altro quartiere di Pisa a quello ch\u2019era alla guardia\ndel fosso, non vi volle andare, onde quelli che v\u2019erano lo arsono e\nabbandonarono.\nCAP. XIX.\n_Come non essendo il castellano contento del patto messer Ridolfo f\u00e8\ngittare una delle torri di Peccioli in terra._\nPerseverando a Peccioli l\u2019assedio, il castellano che tenea le due\nforti torri che Castruccio v\u2019avea fatte fare quando era signore di\nPisa, non contento al patto che fatto era co\u2019 terrazzani, combattea i\nnostri, e li villaneggiava di parole, stimando perduta la terra potere\ntenere la fortezza lungamente. Il capitano veggendo suo proponimento\nfece dirizzare alle torri, intra le quali era un ponte, una cava, e\nl\u2019una d\u2019esse f\u00e8 mettere in puntelli, e il decimo d\u00ec d\u2019agosto, il d\u00ec\ndi san Lorenzo, ch\u2019era l\u2019ultimo del termine dato a\u2019 Pecciolesi, il\ncapitano f\u00e8 dire al castellano il suo pericolo pregandolo s\u2019arrendesse,\ne non volesse perire per soverchia baldanza. Il castellano e i fanti\nche con lui erano se ne feciono beffe, moltiplicandole villanie, e\nrimproverando al comune di Firenze la Ghiaia, il perch\u00e8 il capitano f\u00e8\naffocare i puntelli, onde il fumo e il crepare della torre f\u00e8 segno al\ncastellano e a\u2019 compagni che per lo ponte si rifuggissono nell\u2019altra, e\ncos\u00ec feciono, e appena aveano tratti i pi\u00e8 del ponte, che la torre e \u2019l\nponte cadde, onde cominci\u00f2 a frenare la lingua: la torre cadde in sulle\nmura della terra, e di quelle abbatt\u00e8 bene quaranta braccia. I briganti\ndell\u2019oste cupidi e vogliosi di preda ci\u00f2 veduto s\u2019apparecchiarono\nquindi a entrare nella terra per rubare; i terrazzani uomini e\nfemmine senza arme corsono alla rottura, e gridarono, viva il comune\ndi Firenze, ricordando la fede loro data, e la promessa fatta per lo\ncomune; e il leale e buono cavaliere messer Bonifazio Lupo sotto la sua\ninsegna con la sua gente si mise alla guardia del luogo, e non lasci\u00f2\nn\u00e8 il d\u00ec n\u00e8 la notte, che tutta era del termine, alcuno entrare dentro,\naffermando che \u2019l comune di Firenze era e sempre era stato leale\nosservatore di sue promesse. Il seguente d\u00ec, gioved\u00ec mattina a d\u00ec 11\nd\u2019agosto 1362, in su l\u2019ora della terza, secondo i patti e le convenenze\nche fatte erano, il conte Aldobrandino degli Orsini con la brigata sua,\nappresso tre cittadini di Firenze con parte di gente fidata, presono\nla tenuta della terra pacificamente senza offesa niuna o di fatti o di\nparole, e nella terra con li stadichi insieme, che gli avea rimandati\nil comune, furono ricevuti allegramente e a grande onore. Dell\u2019acquisto\ndel detto castello e di giorno e di notte si fece gran festa, perocch\u00e8\ntenendolo pensavano essere i sovrani della guerra, perocch\u00e8 dal detto\ncastello ha sedici miglia di piano, rimiriglio alla citt\u00e0 di Pisa. Il\ncastellano vedendo che la terra era venuta nelle mani de\u2019 Fiorentini,\ne considerando che la torre che gli era rimasa agevolmente si potea\nmettere in puntelli, si rend\u00e8, ma per i suoi dispetti non fu ricevuto\nse non alla misericordia del comune di Firenze, dove mandato fu per\nlo capitano con i suoi compagni. Venuto, fu tenuto consiglio di farli\nmorire, che fu disonesta e abominevole cosa, e di malo esempio di\nvolere fare morire coloro che per lo comune francamente e fedelmente\ns\u2019erano portati: il parlarne, non che tenerne consiglio per i savi\ne buoni cittadini, fu ripreso; assai loro fu la prigione. In questi\nmedesimi giorni i gentili uomini e signori del castello di Pava, il\nquale \u00e8 situato e posto in sul passo da ire di Valdera in Maremma, ed\n\u00e8 forte e bella tenuta, la dierono al comune di Firenze in prestanza\nmentre la guerra durasse, e il comune di Firenze con la grazia de\u2019\ndetti gentili uomini lo faceva guardare.\nCAP. XX.\n_Come il capitano de\u2019 Fiorentini prese Montecchio, Laiatico e Toiano._\nTolta la terra di Peccioli, come di sopra \u00e8 detto, il seguente d\u00ec 12\nd\u2019agosto il capitano pose assedio al castello di Montecchio, dove\nerano ridotti dugento masnadieri per tenere a freno e guerreggiare\nla gente del comune di Firenze, i quali assai danno aveano fatto\nloro nell\u2019assedio di Peccioli, e il detto castello di Montecchio\ncircondarono intorno intorno strettamente, dove stati pi\u00f9 giorni,\nalquante volte con battaglie gli tentarono; il perch\u00e8 quelli d\u2019entro\ninviliti intorno di sessanta di loro di notte si gittarono per uno\ndirupato d\u2019altezza paurosa a vedere, e di loro ne morirono alquanti, e\u2019\nloro compagni al campare ebbono affanni assai. Quelli ch\u2019aveano avuto\npaura di rovinare per quelle coste renderono il castello e le persone\nalla misericordia del comune di Firenze, e di loro centoquarantaquattro\nne vennono a Firenze, i quali messi in prigione, dagli uomini e\npietose donne fiorentine e di vivanda e di ci\u00f2 che a loro bisognava\nabbondantemente furono provveduti. Il seguente d\u00ec, tornando al processo\ndel capitano, cavalc\u00f2 a Laiatico, e quello ebbe per battaglia; e il\nd\u00ec medesimo si posono a Toiano, e da\u2019 terrazzani ebbono il castello,\ne pochi d\u00ec appresso la rocca, d\u2019onde venne a Firenze la campana che \u00e8\nposta in sul ballatoio del palagio de\u2019 priori, la quale ai mercatanti\nd\u00e0 l\u2019ora del mangiare. Dipoi il capitano cavalc\u00f2 a Montefoscoli e\na Marti per porvi assedio: ci\u00f2 viet\u00f2 il non trovarvi acqua, onde si\ntorn\u00f2 a Fabbrica; dove stando, il capitano cupido del guadagno mand\u00f2\nquattrocento cavalieri e masnadieri assai nella Maremma dove sent\u00ec\nesser fuggito molto bestiame. I mandati in pochi giorni, tornarono con\ngran preda di bestiame, preso il vicario di Piombino, grande popolare\ndi Pisa il quale novellamente andava all\u2019uficio, e per sua mala ventura\nsi scontr\u00f2 co\u2019 suddetti, e con tutta sua famiglia rimase preso. La\npreda messer Ridolfo divise, non come fatto avea messer Bonifazio, ma\ncapo soldo, e pi\u00f9 che parte ne volle, di che forte ne fu biasimato, e\ndell\u2019amore cadde di tutta gente d\u2019arme ch\u2019erano a sua ubbidienza.\nCAP. XXI.\n_Dell\u2019aiuto che i Perugini in questi d\u00ec mandarono a\u2019 Fiorentini._\nSentendo i Perugini che i Fiorentini aveano avuto la terra di Peccioli,\ne che loro fortuna sormontava, volendo ammendare il vecchio errore,\ncommisono il nuovo maggiore, e mandarono a\u2019 Fiorentini sessanta barbute\ne venticinque stambecchini, i quali come meritavano con torto viso e\nrimbrotti del popolo furono ricevuti.\nCAP. XXII.\n_Come il conte Aldobrandino degli Orsini si part\u00ec onorato da Firenze._\nIl conte Aldobrandino degli Orsini, il quale era venuto al servigio\ndel comune di Firenze, preso Peccioli si torn\u00f2 a Firenze per tornarsi\nin suo paese. Il comune di Firenze avendo a grato il servigio per lui\nliberamente fatto, e ci\u00f2 riputandosi a onore, lo provvidde largamente,\ne a d\u00ec 29 del mese d\u2019agosto con rilevato onore lo feciono fare\ncavaliere del popolo di Firenze, e messer Bonifazio Lupo procuratore a\nci\u00f2 del comune: ed esso conte Aldobrandino fece il suo fratello minore\ncavaliere. E amendue d\u2019arme e cavalli e d\u2019altri doni cavallereschi\nriccamente furono provveduti e onorati; e per loro fece il comune\nun nobile e ricco corredo: e fornita la festa si part\u00ec di Firenze,\naccompagnato da tutti i cittadini ch\u2019aveano cavalcature.\nCAP. XXIII.\n_Come e perch\u00e8 si cre\u00f2 la compagnia del Cappelletto._\nLa Presura di Peccioli fu materia di scandolo tra \u2019l comune di Firenze\ne\u2019 soldati, perocch\u00e8 certi di loro, ci\u00f2 fu il conte Niccol\u00f2 da Urbino,\nUgolino de\u2019 Sabatini di Bologna, e Marcolfo de\u2019 Rossi da Rimini,\nuomini di grande animo e seguito, con la maggior parte de\u2019 conestabili\ntedeschi, a instigamento de\u2019 procuratori di loro paghe, a d\u00ec 30\nd\u2019agosto detto anno 1362 mossono lite al comune, dicendo, che per la\npresura di Peccioli doveano avere paga doppia e mese compiuto, e che\navendola in mano contro a loro volere il capitano prese li stadichi,\ndicendo, che se non avessono il debito loro non cavalcherebbono; e\nsopra ci\u00f2 stando pertinaci mandarono loro ambasciadore a Firenze, e ci\u00f2\nfeciono noto a\u2019 priori il perch\u00e8 avuto per i priori sopra ci\u00f2 consiglio\nda chi di ci\u00f2 s\u2019intendea, determinarono che loro domanda non era\nragionevole; onde tornato al campo l\u2019ambasciadore con questa risposta,\nfuriosamente il detto conte Niccol\u00f2, Ugolino, e Marcolfo puosono un\ncappello in su una lancia, dicendo, che chi voleva paga doppia e mese\ncompiuto si mettesse sotto il detto segno fatto, i quali in poca d\u2019ora\nsi ricolsono il detto conte Niccol\u00f2, Ugolino, e Marcolfo con loro\nbrigate, e molti caporali tedeschi e borgognoni, tanto che passarono\nil numero di mille uomini da cavallo, di che il capitano dubit\u00f2 di\ntradimento, non possendoli con parole rattemperare, richieggendoli\nper loro saramento, e per la fede promessa al comune di Firenze, che\nloro indebito proponimento dovessono lasciare, e tutto era niente,\nche quanto pi\u00f9 li pregava e richiedea pi\u00f9 levavano il capo, e pi\u00f9\nli trovava duri e pertinaci. Onde per pi\u00f9 sano consiglio essendo con\ntutta l\u2019oste intra Marti e Castello del Bosco all\u2019entrata del mese di\nsettembre, lev\u00f2 il campo, e tornossi a san Miniato lasciando le tenute\nche prese avea fornite e di vittuaglia e di gente. Come ci\u00f2 fu noto a\nFirenze, il detto conte Niccol\u00f2, Ugolino, e Marcolfo, e\u2019 conistabili\ntedeschi di presente furono cassi, ed essi si radunarono all\u2019Orsaia in\nquello d\u2019Arezzo, e crearono compagnia, la quale per lo caso detto di\nsopra del cappello posto in sulla lancia titolarono la compagnia del\nCappelletto, e quivi fatto il capo a\u2019 ladroni, in piccolo tempo molto\ningrossarono. I Pisani sentendo la dissensione della gente del comune\ndi Firenze, rassicurati non poco, con l\u2019arte loro ritolsono Laiatico,\ndove senza volere alcuno a prigione, uccisono venticinque fanti che\nv\u2019erano dentro alla guardia, intra i quali furono cinque di nome;\nper la qual cagione i Fiorentini sdegnati trassono di Peccioli quasi\ntutti i migliori terrazzani, de\u2019 quali parte ne vennero a Firenze,\ne per loro vita dal comune ebbono provvisione: gli altri terrazzani\nveggendo la gelosia presa per i Fiorentini, tutti quelli ch\u2019avessono\nforma d\u2019uomo se n\u2019uscirono, onde la terra rimase a\u2019 soldati. Il simile\nfeciono quelli di Ghiazzano, e di Toiano, e dell\u2019altre tenute prese pe\u2019\nFiorentini. Nei detti d\u00ec essendo il capitano venuto a Firenze, i Pisani\ncon seicento cavalieri e molti pedoni corsono in su quello di Volterra,\ne levarono preda di trecento bestie grosse, e uccisono alquanti uomini,\ne alquanti ne presono. La gente del comune ch\u2019era in Peccioli non stava\noziosa, ma sovente cavalcavano, sino sulle porte di Pisa, mettendo\naguati, e prendendo prigioni, e facendo aspra e sollecita guerra, tanto\nfeciono che \u2019l contado di Pisa verso le parti dove poteano cavalcare\nnon s\u2019abitava, n\u00e8 si poneva a seme.\nCAP. XXIV.\n_Comincia la guerra che i Fiorentini feciono in mare a\u2019 Pisani._\nDel mese d\u2019agosto le galee di Perino e quelle di Bartolommeo condotte\nal soldo dal comune di Firenze furono nella riviera di Pisa verso\nPiombino, facendo in quelle riviere gran danni, e in quelli giorni\nmesser Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del regno di Puglia, alle\nsue spese mand\u00f2 due galee a servire il nostro comune per tempo di due\nmesi, le quali detto tempo assai affannarono i Pisani, non lasciando\nnel porto di Pisa legno che non pigliassono, rubassono e ardessono: e\nall\u2019isola della Capraia scesono in terra, e levarono preda di mille\ncapi di bestie, e il simile feciono al Giglio e a Vada per tutta\nquella marina dove danni di preda o d\u2019arsioni poterono fare, a grande\nonore del comune di Firenze. Perino Grimaldi all\u2019entrata di settembre\nper simile modo correva la detta marina facendo gran guerra, e per\nbattaglia prese la Rocchetta, la quale \u00e8 posta in su la marina intra\nCastiglione della Pescaia e Piombino in forte luogo; li terrazzani\nrifuggirono nella rocca, e\u2019 Genovesi presono la terra, e forniti di\nvittuaglia la rubarono e arsono. Fu riputato per Italia in grande\nonore al nostro comune, e non senza ammirazione di chi l\u2019intese, che\ni Fiorentini potessono in mare pi\u00f9 che i Pisani, e che per acqua li\ntenessono assediati.\nCAP. XXV.\n_Come e perch\u00e8 i Romani si dierono al papa._\nIn quel tempo lo stato di Roma e reggimento era tornato nelle mani\ndel popolo minuto, del quale si facea capo, ed era il maggiore e\nquasi signore un Lello Pocadota, ovvero Bonadota calzolaio, il quale\ncol favore del detto popolo avea cacciati di Roma i principi, e\u2019\ngentili uomini, e\u2019 cavallerotti, ed essi di fuori accoglieano gente,\ne misono in grida che aveano al loro soldo condotta la compagnia del\nCappelletto, la quale allora era in Campagna, di che per questa tema\ni governatori di Roma feciono seicento uomini a cavallo di soldo tra\nTedeschi e Ungheri, e altrettanti de\u2019 loro cittadini, e numerato il\npopolo romano a pi\u00e8 si trovarono essere ventidue migliaia d\u2019uomini\narmati, e per temenza la notte faceano guardare le porte. Occorse\nin questi giorni, o per sagacit\u00e0 che fosse, o per errore de\u2019 gentili\nuomini, che avendo i Romani mandato loro potest\u00e0 a Velletri, fama usc\u00ec\nfuori che quelli di Velletri l\u2019aveano morto, onde i rettori di Roma\ndiffidati di loro stato accolsono consiglio, e coll\u2019autorit\u00e0 d\u2019esso\ndierono al papa il governo della citt\u00e0 liberamente come a signore: ben\nvollono per patto che messer Guido cardinale di Spagna non vi potesse\navere alcuno ufizio o giurisdizione. Tu che leggi ed hai letto le alte\nmaravigliose cose che feciono i buoni Romani antichi, e tocchi queste\nin comparazione, non ti fia senza stupore d\u2019animo.\nCAP. XXVI.\n_Come Dio chiam\u00f2 a s\u00e8 papa Innocenzio, e fu fatto papa Urbano quinto._\nFu papa Innocenzio sesto uomo di semplice ed onesta vita, e di buona\nfama, colla quale pass\u00f2 di questa vita a migliore a d\u00ec 11 di settembre\n1362, e a\u2019 tredici d\u00ec fu seppellito alla chiesa di nostra Dama\nd\u2019Avignone. Sedette papa anni nove, mesi otto e d\u00ec sedici: vac\u00f2 la\nChiesa di Roma d\u00ec quarantotto. I cardinali essendo chiusi in conclavi\nin numero ventuno a d\u00ec 28 di settembre, si trov\u00f2 che dato aveano\nquindici voci al cardinale...... che fu vescovo di...... monaco nero,\ne di nazione Limogino, uomo per et\u00e0 antico, e per vita di penitenza,\ne del tutto dato allo spirito, a cui essendo revelato lo squittino,\navanti che pubblicato fosse papa con molto fervore d\u2019amore e umilt\u00e0\nrinunzi\u00f2. I cardinali, perch\u00e8 per avventura non era chi arebbono\nvoluto, accettarono la rifiutagione. Appresso il cardinale di Tolosa\nnipote del cardinale d\u2019Aubruno ebbe undici voci delle ventuno, un\naltro dieci, un altro nove, onde a\u2019 trenta di settembre gara entr\u00f2 tra\u2019\ncardinali, ed erano in grande discordia, ch\u2019una parte d\u2019essi il volea\nLimogino, e l\u2019altra no. In fine come piacque a Dio, da cui viene ogni\nbene e ogni grazia, il d\u00ec ultimo d\u2019ottobre elessono in papa messer\nGuglielmo Grimonardi, nato della Siniscalchia di Belcari, il quale\nera abate di san Vittore di Marsilia, dell\u2019ordine di san Benedetto,\nuomo d\u2019et\u00e0 di sessanta anni, onesto e di religiosa vita, pratico e\nintendente assai. Costui di settembre era venuto con danari che la\nChiesa mand\u00f2 al legato ambasciadore alla reina Giovanna, pass\u00f2 per\nFirenze, e di convito de\u2019 signori fu riccamente onorato; sentita per\nlui la morte d\u2019Innocenzio si part\u00ec di Firenze, ed os\u00f2 dire, che se per\ngrazia di Dio vedesse papa che avesse in cura di venire in Italia, e\nalla vera sedia papale, e abbattesse i tiranni, e l\u2019altro d\u00ec morisse,\nsarebbe contento. I cardinali perch\u00e8 non era in Avignone, come scritto\navemo, quando fu eletto, lo tennono celato, e mandarono per lui\nfingendo per certe cagioni averne prestamente bisogno, e segretamente\na d\u00ec 30 d\u2019ottobre entr\u00f2 in Avignone, e a d\u00ec 31 fu pubblicato papa, e\nnomato Urbano quinto: prese il manto e la corona a d\u00ec 6 di novembre.\nCAP. XXVII.\n_Come al re Pietro di Castella mor\u00ec un figliuolo che avea._\nLa novit\u00e0 del fatto ne d\u00e0 materia di mettere in nota quello che passare\ncon silenzio, essendo stato il caso in altrui, non era da ripigliare.\nDel mese d\u2019aprile passato, Pietro re di Castella avendo un figliuolo\ndi dama Maria sua femmina d\u2019et\u00e0 di tre anni e mezzo, volle dare a\nintendere, e fare credere al suo reame, che fosse legittimo e naturale,\ne pubblicamente os\u00f2 dire, che la detta dama Maria era sua legittima\nsposa; e per affermare a\u2019 sudditi suoi quello dicea, volle e ordin\u00f2\nche tutti quelli che aveano a fare omaggio alla corona a certo giorno\ndato giurassono fedelt\u00e0 nelle mani del fanciullo, e cos\u00ec feciono tutti\ni suoi baroni, chi per amore e chi per paura, e per reverenza d\u2019omaggio\ntutti li baciarono la mano, e il simile feciono i sindachi di tutte le\ncomunanze del suo reame. Nel detto anno del mese d\u2019ottobre il fanciullo\nmor\u00ec, di che il re duolo ne prese a dismisura, e vestissene a nero con\ntutti i suoi baroni. Dimostr\u00f2 che a Dio sovente non piace quello che\npiace all\u2019uomo, massimamente le burbanze.\nCAP. XXVIII.\n_Come Perino Grimaldi prese l\u2019isoletta e castello del Giglio._\nAll\u2019entrante del detto mese d\u2019ottobre, Perino Grimaldi da Genova al\nsoldo del comune di Firenze con due galee e un legno, giunte a lui\nl\u2019altre due galee condotte per lo comune, si dirizz\u00f2 all\u2019isola del\nGiglio, e scesi in terra con molto ordine assalirono la terra con aspra\nbattaglia. I terrazzani tutto che sprovveduti francamente si difesono,\ne per lo giorno la battaglia dur\u00f2 dalla terza al vespero, nella quale\ndi quelli d\u2019entro molti ne furono morti, molti magagnati dalle buone\nbalestra de\u2019 Genovesi. Partita la battaglia i Genovesi si tornarono a\nloro galee, e medicarono i loro fediti, e presono la notte riposo. Il\nseguente d\u00ec la mattina tornarono alla battaglia con molto pi\u00f9 cuore\ne ordine, avendo scorta la paura e il male reggimento di quelli della\nterra: cos\u00ec disposti andando, si feciono loro incontro tre di quelli\ndella terra senza arme gridando, pace pace, e giunti al capitano,\nlui ricevente per lo comune di Firenze dierono la terra salvo loro\navere e le persone, e cos\u00ec per Perino furono graziosamente ricevuti, e\nnella terra i Genovesi entrarono, non come nemici, ma come terrazzani\npacificamente, e\u2019 terrazzani si trassono con loro a combattere la\nrocca, con minacciare il castellano, il quale, cominciata la battaglia,\nvile e impaurito, temendo non tagliassono la rocca da pi\u00e8 con le scuri,\ndisse si volea arrendere salvo l\u2019avere e le persone, e avendo dal\ncomune di Firenze le paghe ch\u2019avea servite, e cos\u00ec fu ricevuto. Perino\navendo fatto tanto nobile acquisto al nostro comune, fornita la rocca\ndi vittuaglia e di sufficienti guardie, e seguendo la felice fortuna\nprese viaggio verso l\u2019Elba. Il comune di Firenze mand\u00f2 castellano al\nGiglio; e perch\u00e8 avea soperchiati i Pisani in mare f\u00e8 disordinata festa\ne letizia e di d\u00ec e di notte. Questa ventura fu tenuta mirabile, e\noperazione di Dio piuttosto che umana, considerato che la terra e la\nrocca sono da guardarle e lasciarle stare, e n\u00e8 la forza del comune di\nGenova, che pi\u00f9 volte avea tentato la ventura dell\u2019acquisto del Giglio,\nn\u00e8 quella de\u2019 Catalani, n\u00e8 quella de\u2019 Pugliesi, che pi\u00f9 e pi\u00f9 volte\naveano cercato il simile, e con aspre e continove battaglie aveano\ncombattuta la terra, e non potuto acquistarvi una pietra, facevano la\ncosa pi\u00f9 ammirabile. Come a Pisa fu la novella sentita duri lamenti\nvi furono, parendo loro vilia di mala festa, poich\u00e8 i Fiorentini li\nsormontavano in mare: e di certo loro intervenne il detto del savio,\nil quale dice: Extrema gaudii luctus occupat; che suona in volgare:\nGli estremi della letizia sono occupati dal pianto; cos\u00ec occorse a\u2019\nPisani, per la disonesta e pomposa festa e allegrezza che feciono per\nPietrabuona, avvilendo in parole e in fatti a dismisura i Fiorentini,\nla quale in s\u00ec breve tempo fu soppresa da tante avversitadi. E ci\u00f2 \u00e8\nchiaro esempio al nostro comune d\u2019usare la vittoria onestamente, e non\nstraboccare nelle vane e pompose feste per loro vittorie.\nCAP. XXIX.\n_Come messer Piero Gambacorti per trattato si credette tornare in Pisa._\nPiero Gambacorti uscito di Pisa, il quale molto tempo innanzi che la\nguerra si cominciasse, avendo rotto i confini che per lo suo comune\ngli erano stati assegnati a Vinegia, si conducea in Firenze per essere\npi\u00f9 vicino di Pisa, se la fortuna gli avesse apparecchiato via da\nricoverare suo stato. E stando in Firenze, del mese d\u2019ottobre tenne\nsegreto trattato co\u2019 suoi fidati amici, che molti ancora n\u2019avea, di\nritornare in Pisa con la forza de\u2019 Fiorentini, che di qui gli era\npromessa e doveali essere data la porta di san Marco; proseguendo suo\ntrattato, ed essendo dato il giorno, a d\u00ec 10 d\u2019ottobre, col capitano\nde\u2019 Fiorentini, e con settecento cavalieri e trecento Ungari si part\u00ec\ndi Peccioli, e giunsono a Pisa nella mezza notte, ed entrarono nel\nborgo di san Marco; ed essendo all\u2019antiporto della terra, e non essendo\nloro risposto, cominciarono a volere rompere quella: dentro desto\nil fatto di subito furono all\u2019arme, e la terra tutta impaurita e in\ntremore: due conestabili de\u2019 nostri, ch\u2019erano gi\u00e0 in su l\u2019antiporto\nvi furono morti: e non sapendo quelli d\u2019entro se quelli di fuori erano\nassai o pochi, mandarono fuori tre bandiere d\u2019uomini a cavallo, i quali\nper i nostri furono tutti tra presi e morti; onde i Pisani veggendo\nche il fatto era maggiore che non si stimavano, giugnendo paura a\npaura per la notte, si dierono a guardia delle mura sollecitamente.\nVeggendo il capitano e Piero che \u2019l fatto era scoperto, e la sollecita\nguardia, e non sentendo dentro dissensione di romore cittadinesco,\narsono il borgo, e co\u2019 prigioni e preda si tornarono a Peccioli. La\ncagione perch\u00e8 non ebbe effetto il trattato fu, che la sera innanzi\nche i nostri cavalcassono presentendo i Pisani che trattato era nella\nterra, tutto non sapessono che, in caccia feciono tornare tutti i\nloro soldati a cavallo e a pi\u00e8 in Pisa; veggendo gli amici di Piero\nci\u00f2 non s\u2019ardirono a scoprire per paura: se ci\u00f2 non fosse stato, Pisa\nper quella volta venia alle mani del comune di Firenze. Credo nol\nvolle Iddio per meno male, che tanto erano infiammati i Fiorentini,\nche rischio era della desolazione di quella citt\u00e0. Tornati i nostri a\nPeccioli, il seguente giorno cavalcarono al Bagno ad Acqua e arsonlo, e\nmolte altre ville d\u2019attorno.\nCAP. XXX.\n_Come Perino Grimaldi soldato del comune di Firenze prese Portopisano,\ne le catene del detto porto mand\u00f2 a Firenze._\nNel detto anno del mese d\u2019ottobre, Perino Grimaldi a soldo del comune\ndi Firenze, con quattro galee e un legno bene armati e di buona\ngente, avendo fatto dannaggio assai per la riviera di Pisa, si mise\nin Portopisano, e giunti alle piagge, e con barche misono a terra\nuna parte de\u2019 loro balestrieri, i quali colle balestra francamente\nassalirono cinquanta cavalieri e molti fanti che per i Pisani erano\nposti alla guardia del porto, temendo che l\u2019armata de\u2019 Fiorentini\nnon li danneggiasse nel seno del porto loro. La gente de\u2019 Pisani\nnon potendo sostenere l\u2019oppressione della balestra abbandonarono il\nporto, onde i Genovesi presono il molo, e senza arresto giunti al\npalagio del ponte v\u2019incominciarono colle balestra aspra battaglia: nel\npalagio erano venti masnadieri, i quali ben guerniti alla difesa non\nlasciavano i Genovesi appressare alla porta. Durando la detta battaglia\nper lungo spazio, il capitano delle galee saputo guerriere fece a due\ngalee levare alto gli alberi, e miservi l\u2019antenne, e nella vetta di\nciascuna antenna mise una gabbia, e allog\u00f2 due de\u2019 migliori balestrieri\nch\u2019egli avesse nell\u2019armata, e le galee condussono vicine al palagio,\ne l\u2019antenne levavano alte a bassavano come domandavano i balestrieri\nch\u2019erano nelle gabbie, e talora erano al pari del palagio, e talora\npi\u00f9 alti, e ferendo i fanti ch\u2019erano alla guardia sopra la porta non\nli lasciavano scoprire alla difesa, onde quelli ch\u2019erano a pi\u00e8 del\npalagio sentendo allentata la difesa spezzarono le porte, e presono\nil palagio con quelli che dentro v\u2019erano; poi si dirizzarono all\u2019una\ndelle mastre torri, e quella per simile modo ebbono e abbatterono, e\nnel cadere che fece uccise alcuni Genovesi che la tagliarono, l\u2019altra\ntorre ebbono a patti; e ci\u00f2 fatto, prestamente rifeciono il ponte in su\nl\u2019Arno, ch\u2019era tagliato, e addirizzaronsi al palagio della mercatanzia\ne al borgo, e quelli per lungo spazio combatterono, ma per i cavalieri\ne masnadieri che quivi erano rifuggiti niente vi poterono acquistare,\ntutto che gran danno colle balestra facessono. Tornati al porto\nbaldanzosi per la vittoria arsonvi una cocca che v\u2019era carica di sale,\ne pi\u00f9 altri legni che vi trovarono; e per dispetto de\u2019 Pisani, e per\nrispetto della nuova vittoria de\u2019 Fiorentini, velsono le grosse catene\nche serravano il porto, e quelle, carichi d\u2019esse due carri, mandarono\na Firenze, strascinandole per tutto per derisione, delle quali furono\nfatte pi\u00f9 parti, e in tra l\u2019altre quattro pezzi ne furono appesi sopra\nle colonne del profferito dinanzi alla porta di san Giovanni. E fu per\nchi il f\u00e8 avuto rispetto alla perfidia de\u2019 Pisani, i quali per i nobili\nservigi ricevuti loro donarono quelle colonne abbacinate, e coperte di\nscarlatto, e perch\u00e8 l\u2019uno esempio chiamasse l\u2019altro.\nCAP. XXXI.\n_Come messer Bernab\u00f2 mand\u00f2 a papa Urbano a proseguire la pace._\nCome messer Bernab\u00f2 sent\u00ec la coronazione di papa Urbano quinto cre\u00f2\nsolenne e onorevole ambasciata, e mandogliele, i quali fatto la\ndebita reverenza, e rallegratisi in persona di loro signore di sua\ncoronazione, appresso gli esposono come messer Bernab\u00f2 con reverenza\ndomandava di volere seguire l\u2019accordo gi\u00e0 cercato tra la santa Chiesa\ne lui; il papa con grave aspetto avendo ricevuti gli ambasciadori, con\nquello medesimo rispose, che quando il signore loro avesse renduto\na santa Chiesa le terre sue, le quali contra ogni giustizia tiene\noccupate, e volesse delle sue perverse operazioni tornare a penitenza\ne a obbedienza della Chiesa di Dio, come fedele cristiano che lo\nriceverebbe. Allora gli ambasciadori ricorsono al re di Francia che del\ndetto mese di novembre era in Avignone, perch\u00e8 si facesse trattatore\ne mezzano, il quale dal papa ebbe simigliante risposta, e di corte si\npart\u00ec mal contento; e per questo e per altre cagioni gli ambasciadori\ndi messer Bernab\u00f2 lo seguirono, pregandolo ritornasse in corte, e\nniente ne volle fare. Partito il re, indi a picciolo tempo il santo\npadre ferm\u00f2 gravissimi processi contro a messer Bernab\u00f2 d\u2019eresia e\nscisma, i quali si pubblicarono in Firenze domenica a d\u00ec 29 di gennaio\n1362, ne\u2019 quali erano molti articoli d\u2019eresia, e intra gli altri, che\negli tenea d\u2019essere Iddio in terra, massimamente nel distretto suo,\ne assegnolli termine a irsi ad escusare per tutto il mese di febbraio\nCAP. XXXII.\n_Domande fatte per lo re di Francia al papa._\nQuattro cose dopo la visitazione e rallegramento di sua coronazione\ndomand\u00f2 il re di Francia al santo padre; in prima, quattro cardinali\nde\u2019 primi facesse: appresso sei anni le rendite di santa Chiesa in\nsuo reame domandando di poterle in tre anni ricoglierle per aiuto a\npagare il re d\u2019Inghilterra, di quello che per i patti della pace fare\nli dovea: la terza domanda fu, che gli piacesse per mezzanit\u00e0 sua\nseguire il trattato della pace con messer Bernab\u00f2, promettendoli di\nfare stare contento messer Bernab\u00f2 a quattrocento migliaia di fiorini,\ni quali dovesse pagare la Chiesa al re in otto anni, cinquantamila per\nanno, mostrando che ci\u00f2 gli era in grande acconcio alle faccende che a\nfare avea con il re d\u2019Inghilterra, affermando che messer Bernab\u00f2 glie\nne facea sovvenenza quel tempo che a lui piacesse: la quarta domanda\nfu, che piacesse a sua santit\u00e0 dare opera che la reina Giovanna fosse\nsposa del figliuolo. A questa ultima il papa prima rispose, che quanto\nper s\u00e8 esso n\u2019era molto contento, e gli piacea, quando il figliuolo\ndimorasse nel Regno, e prestasse il saramento e il debito censo a\nsanta Chiesa, e dove fosse in piacere della reina cui ne conforterebbe.\nAll\u2019altre domande disse al re che n\u2019arebbe suo consiglio, e che perci\u00f2\nnon bisognava ch\u2019egli stesse, che a tempo li risponderebbe; e per non\navere materia di fare in dispiacenza del re, che avea chiesti quattro\ncardinali, per le digiune nullo ne volle fare. Il re pass\u00f2 il Rodano\nvisitando le terre della Provenza, mal contento alle risposte del papa.\nCAP. XXXIII.\n_Di grande acquazzone che in Italia f\u00e8 danno._\nAll\u2019entrata di novembre per tutta Italia furono grandissime e continove\npiove; in Lombardia ruppono gli argini del Po in pi\u00f9 luoghi, e tutto il\npaese allagarono con danno grandissimo de\u2019 paesani; in Firenze ruppono\nla pescaia della Porta alla giustizia, e il muro fatto per lo comune\nper riparo della Piagentina, e stesonsi l\u2019acque in essa profondandosi\nforte, e vennono insin presso alle mura sopra la Porta alla giustizia,\na quelle tosto arebbono con la porta e colla torre del canto gittate in\nterra, se non fosse stato il presto argomento di buoni maestri, i quali\ncon pali a castello e con altri ripari sollecitamente e di d\u00ec e di\nnotte puosono riparo.\nCAP. XXXIV.\n_Come il re di Cipro and\u00f2 ad Avignone con tre galee._\nIl d\u00ec tre di dicembre 1362, lo re di Cipro con tre galee apportato\nand\u00f2 ad Avignone al santo padre, per ordinare e dar modo con lui al\npassaggio oltremare non ancora maturo; il perch\u00e8 i saracini sentendo\nsuo cercamento, in Egitto, e in Damasco e in Soria presono molti\ncristiani, e forte gli afflissono: e per tanto questi accennamenti sono\nai cristiani che di l\u00e0 praticano forte dannosi.\nCAP. XXXV.\n_Come mor\u00ec Giovacchino degli Ubaldini e lasci\u00f2 reda il comune di\nFirenze._\nDel mese di dicembre di detto anno, per uno fedele di Giovacchino di\nMaghinardo degli Ubaldini rivelato gli fu, che Ottaviano suo fratello\nl\u2019avea richiesto, e tenea trattato di torli Castelpagano; Giovacchino\nvolle che il fedele seguisse il trattato, e procedendo a tanto venne\nal fatto, che Giovacchino essendosi dentro fornito in modo che non\npotea essere forzato, ordin\u00f2 che il fedele al giorno dato mise i fedeli\ne\u2019 fanti di Ottaviano; Giovacchino fece serrare le porte, e mettere\nal taglio delle spade quelli che dentro v\u2019erano racchiusi. Occorse\nch\u2019uno fedele di Ottaviano veggendosi in luogo da non potere campare,\ndisperando, come un verro accanato si dirizz\u00f2 a Giovacchino, e lo\nfed\u00ec nella gamba, della quale fedita di spasimo indi a pochi giorni\nmor\u00ec. Conoscendo Giovacchino il poco amore del fratello verso lui, e\nch\u2019era cagione di sua morte, f\u00e8 testamento, e lasci\u00f2 erede il comune di\nFirenze; il quale poi del mese di febbraio per suo sindaco, come giusto\ne legittimo erede prese la tenuta di Castelpagano, e d\u2019altre terre e\nbeni che s\u2019apparteneano al detto Giovacchino.\nCAP. XXXVI.\n_Come il conte di Foc\u00ec sconfisse e prese quello d\u2019Armignacca._\nErano gare e questioni spiacevoli e gravi intra il conte di Foc\u00ec e il\nconte d\u2019Armignacca, il perch\u00e8 in fine ciascuno fece suo sforzo s\u00ec di\nsua gente e s\u00ec d\u2019amist\u00e0, e a d\u00ec 5 di dicembre ingaggiati di battaglia\nsi trovarono in sul campo all\u2019Isola presso di Tolosa, e commisono\ninsieme aspra battaglia, la quale per la pertinacia della buona gente\nche temeva vergogna s\u00ec dall\u2019una parte come dall\u2019altra dur\u00f2 per lungo\nspazio di tempo, dove si trov\u00f2 morti in sul campo tra dall\u2019una e\ndall\u2019altra parte oltre a tremila uomini da cavallo, che ve n\u2019ebbe mille\ncavalieri e gentili uomini di rinomea, e a quello di Foc\u00ec rimase il\ncampo, e quello d\u2019Armignacca fedito rimase prigione, e con lui il conte\ndi Giagne, e il conte di Montelesori, e \u2019l signore di Libret con due\nsuoi fratelli, e il conte di Cominga, e pi\u00f9 altri signori e gentili\nuomini di nomea.\nCAP. XXXVII.\n_Come i Pisani vollono torre il campanile d\u2019Altopascio._\nI Pisani, come uso di guerra richiede, solleciti ad offendere loro\navversari, tutto che \u2019l verno soglia prestare triegua alle guerre\ncampali, a d\u00ec 8 di gennaio di detto anno con seicento cavalli e\nduemila buoni pedoni si strinsono al campanile d\u2019Altopascio, che\nl\u2019altro per loro era stato arso, come di sopra narrammo, e quello\nassediarono, ma assediati dalla durezza del verno finiti i cinque\ngiorni lasciarono l\u2019impresa, il perch\u00e8 i Fiorentini a\u2019 17 d\u00ec del\nmese, il d\u00ec di santo Antonio, veggendo che i Pisani s\u2019erano partiti\ndall\u2019assedio, considerando che la fortezza era stecco nell\u2019occhio al\nPisano, vi mandarono il conte Francesco da Palagio con venticinque\nuomini a cavallo e dugento fanti, e con molti maestri per riporre\nil castello sotto la sicurt\u00e0 del campanile: i Pisani, che vicini\nerano al luogo, sentendo il fatto, con seicento cavalieri e duemila\nmasnadieri assalirono i nostri, i quali trovarono sospesi e attenti al\nlavorio, i quali per lungo spazio di tempo francamente si difesono come\nprod\u2019uomini, ma il proverbio \u00e8 pur vero che i pi\u00f9 vincono, i Pisani\nper le rotture del muro si misono dentro, onde i nostri non potendo\nsofferire pensarono a ritrarsi a salvamento, de\u2019 quali cento e pi\u00f9 si\nfuggirono nel campanile, gli altri alle terre del comune di Firenze\nvicine ad Altopascio; e in tanta zuffa non vi furono morti che sei,\nuno dalla parte fiorentina e cinque dalla parte de\u2019 Pisani, magagnati\ne fediti d\u2019ogni parte ne furono assai. La nostra gente da cavallo che\ngi\u00e0 sentito avea il romore traeva al soccorso, e traendo caddono ne\u2019\nguati che per i Pisani erano messi, e rimasonne otto presi, i quali\nagli altri scopersono i guati. I Pisani ci\u00f2 fatto a d\u00ec 27 del mese si\npartirono e arsono quello che rimaso era da ardere fuori del campanile,\ne partiti di l\u00e0 si puosono a oste a Castelvecchio, e i Fiorentini\narmati, e ciascuno in distanza di piccolo tempo se ne part\u00ec senza fare\nfrutto niuno.\nCAP. XXXVIII.\n_Come in Firenze s\u2019ordin\u00f2 tavola per lo comune per servire i soldati._\nGl\u2019ingordi e disonesti usurieri, che sotto colore di prestanza\nsovvenieno i soldati di loro comune, portavansene i loro soldi, l\u2019arme\ne\u2019 cavalli, il perch\u00e8 il comune ai suoi bisogni non li potea avere\ncavalcati; mosse il comune a fare banco, il quale con danari del\ncomune potesse sovvenire a\u2019 soldati, e del mese di febbraio 1362 fu\nordinato co\u2019 suoi ufiziali, i quali, nel detto anno in calen di marzo\ncominciarono l\u2019ufizio, ed ebbono al cominciamento del banco dal comune\nquindicimila fiorini.\nCAP. XXXIX.\n_Come i Pisani vollono torre santa Maria a Monte._\nA d\u00ec 26 del mese di gennaio, il capitano de\u2019 Pisani Rinieri del Bussa\nda Baschi con ottocento cavalieri e tremila pedoni cavalc\u00f2 a santa\nMaria a Monte, e considerando che per due ponti ch\u2019erano sulla Gusciana\ni Fiorentini poteano soccorrere il castello, quelli prestamente\ntagliarono, e nel pieno della notte assalirono il castello da due\nparti, e con aspra battaglia e gran romore per molto spazio di tempo\nil combatterono, e per i soldati del comune e per i terrazzani furono\nvillanamente ributtati, avendo gi\u00e0 poste le scale alle mura del borgo,\ne assai ne furono morti e magagnati colle pietre e co\u2019 balestri; e\nsopravvegnendo il giorno, veggendosi perduta la speranza della terra,\ncominciarono ad ardere e fare preda per lo paese: avendo di ci\u00f2 boce\nmesser Ridolfo da Camerino allora capitano de\u2019 Fiorentini trasse al\nsoccorso; i Pisani non lo attesono.\nCAP. XL.\n_Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato._\nLa sagacit\u00e0 de\u2019 Pisani non trovava posa, ma con solleciti modi e\nocculti trattati per torre delle terre de\u2019 Fiorentini, e avendo del\nmese di febbraio 1362 per danari corrotte certe guardie diputate a\ncerta parte delle mura di Pescia, nella mezza notte con scale assai,\ne con cinquecento uomini di cavallo e con duemila fanti eletti, con\nmolto ordine s\u2019accostarono alle mura della terra che guardavano i\ntraditori tacitamente, che quelli d\u2019entro niente ne sentirono. I\ntraditori come li sentirono, che stavano a orecchi levati, uccisono le\nguardie ch\u2019erano con loro alle poste ignoranti del tradimento; onde i\nPisani avendo poste le scale sicuramente salivano, e gi\u00e0 assai n\u2019erano\nin sulle mura. Occorse per fortuna, che quegli che andava rassegnando\nle guardie in quello stante vi sopraggiunse, e scoperta la baratta in\nistante lev\u00f2 il romore, e svegliata la terra, quelli ch\u2019aveano prese\nle mura impauriti se ne fuggirono, e le guardie del trattato con loro\ninsieme, e la gente de\u2019 Pisani si ridusse a salvamento alle terre loro.\nCAP. XLI.\n_Come papa Urbano pubblic\u00f2 in Avignone i processi fatti contro a messer\nBernab\u00f2._\nAll\u2019entrata del mese di marzo 1362, papa Urbano quinto in Avignone\npubblic\u00f2 il processo che fatto avea contro a messer Bernab\u00f2, e avanti\nche pronunziasse, gli ambasciadori di messer Bernab\u00f2 e i suoi avvocati\ncomparirono e dierono boce che v\u2019era messer Bernab\u00f2, onde il papa\nprolung\u00f2 il termine per infino a di 4 di marzo, e di nuovo lo fece\ncitare, facendo cercare per suoi mazzieri tutta la corte, e il venerd\u00ec\n4 di marzo mand\u00f2 due cardinali in persona a fare cercare il palagio e\nl\u2019udienza, e tutto per lo detto messer Bernab\u00f2; in fine fatto armare\ntutta sua famiglia e i Lombardi cortigiani a guardia della corte,\nfece consistoro e sermone sopra i fatti di messer Bernab\u00f2 con alto e\nnobile parlare, dolendosi delle sue eresie e delle sue infedelt\u00e0, e\nappresso f\u00e8 pubblicare il processo suo, nel quale il condann\u00f2 come\neretico e infedele in molti articoli, e lo pronunzi\u00f2 scismatico e\nmaladetto di santa Chiesa, privandolo di tutti onori, dignitadi,\ntitoli, e privilegi, e giurisdizioni, e assolvendo dal giuramento tutti\ni sudditi suoi, annullando tutti i privilegi imperiali che avesse\nper successione, e che gli fossono conceduti in persona, e ogni e\nqualunque avesse per altro modo, e privollo del matrimonio liberando la\nmoglie come cristiana dal marito eretico e infedele: e nella sentenza\ninvolse chiunque li desse consiglio, aiuto e favore, e i sudditi se\nl\u2019ubbidissono, e chi lo servisse in arme per soldo o in niuno altro\nmodo, o contro alla Chiesa di Dio s\u2019operasse; e concedette indulgenza\ndi colpa e di pena a quelli che fossono confessi e pentuti a chi contra\nlui prendesse la croce quando fosse predicata, e in essa sentenza\norribile involse i descendenti, come nati di sangue eretico e infedele.\nPronunziata la sentenza il santo padre si lev\u00f2 ritto, e misesi in\nginocchione colle mani giunte e levate al cielo, e come vicario di\nGes\u00f9 Cristo invoc\u00f2 l\u2019aiuto suo, e di M. S. Piero e di M. S. Paolo, e di\ntutta la celestiale corte, pregando che come avea il tiranno infedele\ne crudele legato in terra con sua sentenza come vicario di Cristo e\nsuccessore di san Pietro, cos\u00ec essi lo legassono in cielo. Lo re di\nFrancia, ch\u2019era in corte a procurare per lo tiranno, e \u2019l procur\u00f2 in\nsua utilit\u00e0 si tornava, forte se ne scandalizz\u00f2, e molti cardinali\ni quali erano suoi protettori in corte e provvisionati nel segreto\nassai malcontenti ne furono, avendo pi\u00f9 caro loro occulta prefenda che\nl\u2019onore di santa Chiesa.\nCAP. XLII.\n_Come mor\u00ec messer Simone Boccanera primo doge di Genova._\nA d\u00ec 13 di marzo di detto anno, essendo gravemente malato messer Simone\nBoccanera doge di Genova, e correndo la boce ch\u2019egli stava male, il\npopolo prese l\u2019arme, e chiam\u00f2 venti popolani, i quali domandarono in\nguardia il palagio del doge, e a d\u00ec 14 del mese v\u2019entrarono e trassonne\ncirca a trecento tra parenti, e famigli e amici del doge, e nel palagio\nlasciarono lui, e la moglie e\u2019 figliuoli, e questi venti che teneano il\npalagio elessono altri sessanta popolani al consiglio loro, e con loro\nconsiglio e favore crearono nuovo doge, lo quale fu messer Gabbriello\nAdorno mercatante di buona condizione e fama, il quale vollono, che\ncampasse o morisse messer Simone Boccanera, fosse doge; e ci\u00f2 fatto\nripos\u00f2 il popolo, e puose gi\u00f9 l\u2019arme, e i gentili uomini e gran case\ndi tutto niente si travagliarono. Durando nella infermit\u00e0 il Boccanera,\nfurono creati sei sindachi ch\u2019avessono a ricercare le ragioni de\u2019 suoi\nufici, e infine tra per l\u2019oppressione de\u2019 sindachi, e chi disse, e\nforse non ment\u00ec, aiutato, assai miseramente pass\u00f2 di questa vita, e il\ncorpo suo con due bastagi e un famiglio fu portato alla chiesa. E tale\nfu il fine del valente e famoso uomo della primizia de\u2019 dogi di Genova.\nCAP. XLIII.\n_Come fu morto il conte di Lando._\nAvendo del mese di marzo la Compagnia bianca tolto un castello a\nmesser Galeazzo, ed egli vi mand\u00f2 in soccorso il conte di Lando con\nquattrocento barbute; per scontrazzo s\u2019abbocc\u00f2 con gl\u2019Inghilesi e fu\nsconfitto, e morto d\u2019una lancia di posto nel petto. E tale fine trov\u00f2\ncolui che capo di compagnia famoso, pi\u00f9 volte avea liberamente corsa\ngran parte dell\u2019Italia con fare ogni uomo ricomperare.\nCAP. XLIV.\n_Come Bernab\u00f2 Visconti fu dalla gente della lega sconfitto alla bastita\na Modena, e come la perd\u00e8._\nA d\u00ec 16 d\u2019aprile 1363, Bernab\u00f2 eretico per sentenza del santo padre,\ncon duemilacinquecento cavalieri di sua gente eletta venne per\nfornire la bastita che tenea sul Modanese, la quale era assediata\ne forte stretta dalla gente della lega de\u2019 Lombardi, e giugnendo la\nmattina, preso in prima agio, rinfrescamento e ordine, colle schiere\nfatte, anzi si strignesse alla bastita, ne fece subitamente rizzare\nun\u2019altra non molto di lungi dalla Negra; la bastita era dificata in\nforma che non s\u2019avea se non a conficcare: la gente de\u2019 collegati bene\ncapitanata e in punto, con due forti campi intorno alla bastita con\ndue lati e profondi fossi, l\u2019uno lungo il campo, e l\u2019altro di fuori\nalla tratta del balestro, sicch\u00e8 bene si potea la gente della lega\ntra\u2019 due fossi schierare. Il tiranno colla forza di sue schiere pass\u00f2\nil primo fosso, onde convenne a quelli ch\u2019erano tra le barre per\npaura rifuggire ne\u2019 due campi, e lasciarono fornire la bastita, dove\nmise il tiranno trentasei carra di fornimento; e ci\u00f2 fatto Bernab\u00f2\nse n\u2019and\u00f2 a Crevalcuore per sollecitare il resto del fornimento,\ne a\u2019 suoi impose che attendessono la notte prima si partissono, ma\nAnichino di Bongardo partito Bernab\u00f2 disse, che poich\u00e8 fatto avea il\nservigio per che era venuto quivi non intendea albergare, e si mosse\ncon ottocento barbute. I capitani della lega imbaldanziti, veggendo i\nmodi che teneano i nemici in sconcio e male ordinati, essendo in punto\ncolle schiere fatte e bene capitanati, le brigate coraggiosamente\npercossono a loro. La battaglia per la eletta gente di Bernab\u00f2 fu\naspra, la quale dur\u00f2 infino all\u2019ora di vespero, e allora, come fu il\npiacere di Dio, la gente de\u2019 collegati vinse; assai furono i morti, e\nnon de\u2019 minori. Presivi furono messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di\nBernab\u00f2, messer Lodovico dall\u2019Occa da Pisa, messer Guglielmo de\u2019 Pigli\nda Modena, messer Sinibaldo degli Ordelaffi da Forl\u00ec, messer Guglielmo\nCavalcab\u00f2, messer Giovanni Penzoni da Cremona, messer Guido Savina,\nmesser Ghiberto da Correggio, Antonio da Santovito figliuolo di messer\nGhiberto da Fogliano, Beltramo de\u2019 Rossi da Parma, Guglielmo Aldighieri\nda Parma, messer Andrea de\u2019 Peppoli, messer Niccol\u00f2 Pallavicini,\nmesser Giovanni dalla Mirandola, messer Giovanni Bolzoni di Milano\nricco di quattrocentomila fiorini, Antonio d\u2019Ungheria, Luchino de\nAsalis da Milano, Piero da Correggio, Guido da Foiano, Mocolo dalli\nPelagri, Alessandro da Verona, Giovanni Scipioni, Paolo Zuppa da Parma,\nMaffiuolo da Labro di Milano, Damulo Dusmago di Milano, Baroncio del\nmaestro Manno, e altri nomati infino nel numero di trentotto: a bottino\nmille cavalli e molti prigioni. Quinci segu\u00ec, che quelli della bastita\nnon essendo forniti, Bernab\u00f2 non avendo possanza di soccorrerli,\ns\u2019arrenderono salve le persone.\nCAP. XLV.\n_Come i Pisani vollono torre Barga._\nPartito all\u2019entrante di marzo 1362 messer Ridolfo da Camerino, venne\nin Firenze per capitano di guerra in suo luogo messer Piero da Farnese\nsenza pompa, se non quanto a uso militare si richiede, e veduto e\nricevuto fu con buono volto. I Pisani con sollecitudine seguendo\ngiusta loro possa ogni atto di guerra, sentendo che messer Ridolfo\navea fornito per tutto il mese di febbraio suo capitanato, e tutto che\navesse francamente e come valente uomo lealmente esercitato suo uficio,\ncon poco onore s\u2019era partito, e mal contento, e con fama di poco leale\ncavaliere, e che messer Piero da Farnese uomo coraggioso e per lunga\nesperienza grande maestro di guerra era giunto in Firenze, immaginando\nche innanzi che messer Piero fosse informato della intenzione del\ncomune, e innanzi che fosse in atto da poterli offendere che poteano\nusare il tempo della guerra a loro vantaggio. E pertanto domenica\nd\u2019ulivo, d\u00ec 27 di marzo 1363, fatto tutto il loro sforzo con mille\ncavalieri e quattromila pedoni nel pieno della notte con molto ordine,\ncon scale e altri ingegni s\u2019accostarono a Barga senza niuno sentore de\u2019\nterrazzani, tanto fu netto e presto l\u2019assalto, e presono gran parte\ndelle mura, e lo spedale che \u00e8 accostato ad esse, e gi\u00e0 aveano rotte\nparte delle mura allato allo spedale per mettere dentro i cavalieri. I\nterrazzani svegliati al rompere del muro, non inviliti per l\u2019improvviso\nassalto, presono l\u2019arme, e per lo naturale odio tra loro e\u2019 Pisani, per\nnon venire alle loro mani, e gli uomini e le femmine raddoppiarono le\nforze, e francamente cominciarono la battaglia; ma tanti erano i nemici\nch\u2019erano montati sullo spedale e in sulle mura vicine allo spedale,\nche cacciare non li ne poteano, ma come uomini per lunga esperienza di\nguerra dotti, con presto e buono avviso affocarono di sotto lo spedale,\nonde fu necessit\u00e0 a\u2019 nemici, tra per lo gran fumo, e per la vampa della\npaglia de\u2019 letti dello spedale la quale subito aspettavano, abbandonare\nil muro, per il quale aveano la salita dello spedale, e lo spedale\nancora. Di loro alquanti ne rimasono morti, molti ne furono fediti. I\nPisani levati dal pensiero d\u2019avere la terra per quella via si misono a\nporvi l\u2019assedio, e puosonvi tre battifolli forti e bene apparecchiati\na offesa e a difesa, pensando d\u2019averla per lunghezza d\u2019assedio, perch\u00e8\nmolto era lontana dal soccorso de\u2019 Fiorentini, il quale convenia che\npassasse per lo distretto loro. Sentissi che con tanta sollecitudine\npresa aveano questa per cambiarla con Peccioli, la quale teneano i\nFiorentini in sulle ciglia di Pisa.\nCAP. XLVI.\n_Come messer Piero da Farnese credette torre Lucca a\u2019 Pisani._\nPoich\u00e8 messer Piero da Farnese capitano de\u2019 Fiorentini ebbe\nl\u2019informazione dell\u2019intenzione del comune, e dello stato della guerra,\nsi part\u00ec di Firenze, e and\u00f2 in Valdinievole dov\u2019era il forte della\ngente dell\u2019arme de\u2019 Fiorentini, e da essa ricevuto fu a grande onore\nper le sue virt\u00f9 conforme a gente d\u2019arme, e di presente si dispose\nall\u2019asercizio dell\u2019arme: e avendo rispetto alla natura de\u2019 Pisani\nsottratta e vaghi di trattati, per contrappesare a\u2019 loro ingegni,\ne tenerli in paura, cerc\u00f2 trattato in Lucca, e quello menando\nsollecitamente, e con sollecitudine avendo la ferma la notte de\u2019\n12 d\u2019aprile, con duemila barbute e con cinquemila fanti si mosse da\nFucecchio, e cavalc\u00f2 sotto il Ceruglio dal Colle delle donne, e all\u2019ora\ndata giunse alle porte di Lucca. I Pisani, o che avessono presentito\nil fatto, o che per la buona guardia sentissono il romore della gente\ne de\u2019 cavalli, erano pronti alla difesa, e aveano corsa la terra, e\npresi quarantadue cittadini e certi forestieri. Messer Piero sentendo\nscoperto il trattato, e la terra ben guarnita alla difesa, senza fare\narsione o preda in sul Lucchese, che liberamente far lo potea, il\ngiorno medesimo per la diritta via si torn\u00f2 a Pescia. I Pisani assai\nde\u2019 presi decapitarono, e assai degli altri mandarono a\u2019 confini,\nstando con pi\u00f9 sollecitudine alla guardia di quella, e dell\u2019altre loro\nterre, e non di manco aveano l\u2019assedio a Barga, alla terra di Gello, e\na Castelvecchio, dove il capitano cavalc\u00f2, e fornillo per quattro mesi.\nCAP. XLVII.\n_Come i Pisani presono per forza il castello di Gello sul Volterrano._\nRinieri d\u2019Ugolinuccio, detto Rinieri del Bussa da Baschi capitano\nde\u2019 Pisani, uomo d\u2019alto cuore e sollecito guerriere, a d\u00ec 12 del mese\nd\u2019aprile si mosse da Pisa con cinquecento cavalieri e duemila pedoni\neletti, intra i quali furono molti balestrieri di Gera, e si mosse\nper la Maremma, e con molto ordine assal\u00ec il castello di Gello non\nprovveduto, e dibattuto assai per lo assedio. Il castello \u00e8 di cento\nfamiglie assai forte, e per luogo ben situato a difesa, e quello per\nlungo spazio di tempo combatterono, e quello per forza vinsono con\nassai morti e magagnati, e di quelli d\u2019entro e di quelli di fuori.\nVinta la terra si dirizzarono alla rocca, che era forte e ben guernita\nalla difesa, e la combatterono per lungo spazio, tanto che quasi non\nera fante nella rocca che dalle buone balestra non fosse fedito, i\nquali disperati di soccorso, il quale colla sollecitudine di messer\nPiero giugnea, s\u2019arrenderono salve le persone. Rinieri fornito il\ncastello di gente atti a tenerlo se ne torn\u00f2 a Pisa.\nCAP. XLVIII.\n_Come i Pisani condussono la Compagnia bianca degl\u2019Inghilesi._\nCome narrato avemo nell\u2019addietro, la Compagnia bianca degl\u2019Inghilesi\nsotto il capitanato di messer Alberto Tedesco, in numero di\ntremilacinquecento uomini da cavallo e duemila a pi\u00e8, erano al servigio\ndel marchese di Monferrato contro a messer Galeazzo Visconti, il quale\npi\u00f9 tenere non li potea, e messer Galeazzo volentieri la si levava da\ndosso, e i Pisani che si vedeano nel fondo, e venire al disotto della\nguerra, loro ambasciadore aveano a messer Galeazzo, come a singolare\namico e protettore, e per aiuto e soccorso contro alla forza de\u2019\nFiorentini, e risposto avea che fare non potea servando sua fede contro\ni Fiorentini, ma che se voleano conducere la compagnia degl\u2019Inghilesi,\nla quale di corto finia sua ferma, ed era per prendere viaggio, che\nloro ne sarebbe buono, e li dicea il cuore di poterlo fare: a questo\ngli ambasciadori ch\u2019aveano il mandato larghissimo assentirono. I\nFiorentini essendo di ci\u00f2 avvisati, lentamente cercarono per uno\nGiovanni Buglietti Fiorentino, lungo tempo stato in Inghilterra, e\nguida della detta compagnia in Italia, la condotta di detti Inghilesi,\ne per l\u2019amist\u00e0 e usanza de\u2019 Fiorentini che stavano e praticavano\nnell\u2019isola d\u2019Inghilterra, gl\u2019Inghilesi si vollono alloggiare co\u2019\nFiorentini per diecimila fiorini meno che non feciono co\u2019 Pisani, e pi\u00f9\ntempo tennono sospesa la condotta de\u2019 Pisani, aspettando conducersi co\u2019\nFiorentini; nella quale sospensione, essendo messer Piero da Farnese in\nFirenze, per i governatori de nostro comune li fu sopra questa materia\nchiesto consiglio, il quale rispose: Io non credo che per altrettanta\ndi gente Cesare la vedesse migliore, nata e allevata in guerra,\nargomentosa in maestria di guerra, e senza niuna paura; affermando\nsenza dubbio, che chi li avesse e li potesse sostenere non lungo tempo\nsenza fallo sarebbe il superiore della guerra. Ci\u00f2 udito nel processo\ndella condotta, quanto l\u2019animo de\u2019 collegi e degli altri governatori\ndella citt\u00e0 inclinassono a prenderli, il gonfaloniere della giustizia\ns\u2019oppose, con dire, e chi pagher\u00e0? e fu l\u2019autorit\u00e0 sua tanta, e di chi\nlo segu\u00ec dell\u2019ordine suo, che sturb\u00f2 la condotta. I Pisani savi e non\nlenti di presente la condussono in forma di compagnia per quattro mesi,\na ragione di fiorini diecimila il mese di soldo.\nCAP. XLIX.\n_Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer Piero da Farnese avea\nmandati in Garfagnana._\nParendo a messer Piero da Farnese ragionevolmente non potere avere\nbattaglia di campo co\u2019 Pisani, la quale sommamente desiderava per\nmostrare sua virt\u00f9 e provare sua ventura, avanti che la Compagnia\nbianca condotta per i Pisani giugnesse, contra i quali non sperava\npotere tenere campo, tenne trattato con certi di Garfagnana e fece loro\nrubellare Castiglione e certe altre castella, e avendo di ci\u00f2 il certo,\nper fornirle di gente e di vittuaglia vi fece cavalcare Spinelloccio\nde\u2019 Tolomei da Siena per capitano, e Currado di messer Stefano da\nIesi, con certi altri conestabili, e con trecento uomini di cavallo,\ne dugento masnadieri di soldo. I Pisani sentendo della ribellione\ndelle castella, e immaginando che per i Fiorentini si dovessono\nsoccorrere per lo loro capitano, prestamente e con tutta loro forza\nmisono uno aguato, dove vedeano che i nostri accampare si doveano.\nPass\u00f2 in Garfagnana Spinelloccio con la detta gente senza contasto, e\naccamparonsi dove doveano, e come Rinieri s\u2019era pensato per fornire le\ndette castella; Rinieri come li vidde infaccendati e occupati intorno\nall\u2019accamparsi, e in atto di poterne avere il migliore, coll\u2019aguato\ngrosso e ordinato usc\u00ec loro addosso, e dopo lunga e fiera battaglia gli\nruppe. La gente era buona, e veggendosi per lo soperchio de\u2019 nemici in\nrotta, si ridussono in su un poggio vicino dove era stata la zuffa,\ne d\u2019onde potea loro essere il passo sicuro per tornarsi a\u2019 suoi: i\nPisani francamente seguendoli si sforzavano a tor loro il passo, e\nfatto lo arebbono, ma i detti Spinelloccio e Currado seguitando l\u2019orme\ndegli antichi e buoni Romani, come franchi, leali e buoni uomini di\nsubito si gittarono a pi\u00e8, e si misono alla difesa del passo, e facendo\nmaraviglie di loro persone, e tanto lo tennono, che per lo stretto la\ngente de\u2019 Fiorentini si ricolse, in modo che pochi impediti ne furono.\nSpinelloccio e Currado, poi che vidono la brigata a loro commessa in\nluogo che non poteano ricevere offensione, s\u2019arrenderono a prigioni.\nCAP. L.\n_Come Rinieri da Baschi colla gente de\u2019 Pisani fu sconfitto e preso da\nmesser Piero da Farnese._\nParendo a messer Piero da Farnese avere doppia vergogna, s\u00ec per le\ncastella perdute, s\u00ec per la gente sbaragliata in Garfagnana, in forte\npensiere, e come potesse sua onta vendicare, onde domenica mattina a\nd\u00ec 7 di maggio 1363, essendo cavalcati in verso il Bagno a Vena con\nottocento tra Ungari e altra buona gente di cavallo, e con ottocento\nfanti eletti, il capitano de\u2019 Pisani sentendo la cavalcata, non meno\ncoraggioso e voglioso che messer Piero, i quali amendue si studiavano\ndi fare innanzi la venuta degl\u2019Inghilesi, raun\u00f2 della gente da cavallo\nde\u2019 Pisani circa a seicento, e pedoni assai, e continovamente da Pisa\nli cresceva forza, per torre alla detta gente de\u2019 Fiorentini il passo\na san Piero, e colle schiere fatte si pararono innanzi a messer Piero,\nperch\u00e8 non potesse tornare, e di dietro e da lato da Pisa traeva\ngente senza numero alle spalle a messer Piero per combatterlo dinanzi\ne di dietro. Vedendo messer Piero davanti da s\u00e8 i nemici schierati\nin sul campo, veggendo che quello che desiderato avea gli venia\nfornito, di presente ordin\u00f2 le schiere sue, e perch\u00e8 il luogo dove\ncombattere doveano era pieno di solchi, imped\u00ec il ferire delle lance,\nonde confortati i suoi a ben fare colle spade in mano fieramente si\npercosse sopra i nemici, i quali non con meno cuore gli ricevettono.\nLa battaglia fu dura e aspra, e la prima schiera de\u2019 Fiorentini fu\nributtata per difetto degli Ungari due volte, ma rannodati ruppono\nla prima schiera de\u2019 Pisani, ma i rotti si ridussono alle spalle\ndell\u2019altre loro schiere, e con la forza di molti pedoni tratti loro in\naiuto percossono francamente sopra i Fiorentini. Messer Piero sgridati\ne confortati i suoi a ben fare con la sua schiera si mise sopra i\nnemici, lasciando l\u2019insegne nel mezzo, ed egli dinanzi con i pi\u00f9 eletti\ncavalieri. Indurando la battaglia, messer Piero f\u00e8 a dugento cavalieri\nfedire i nemici per costa, i quali non avendo resistenza, ne vennono\nalle insegne de\u2019 Pisani, e le presono e abbatterono; e ci\u00f2 veggendo\nmesser Piero urt\u00f2 forte sopra i nemici, e li strinse a fuggire.\nRinieri come ardito e pro\u2019, fu preso colla spada in mano, e molti altri\nvalenti uomini. E per certo e messer Piero e Rinieri si portarono come\nvalenti capitani, e come arditi e pro\u2019 cavalieri, perocch\u00e8 per spazio\ndi due ore e mezzo si combatterono pertinacemente sotto l\u2019incerto\ndella vittoria. Rotte le schiere de\u2019 Pisani, gli Ungari con degli\naltri contesono a prendere de\u2019 prigioni, massimamente di quelli che a\npi\u00e8 v\u2019erano venuti da Pisa. Molta gente da pi\u00e8 e da cavallo vi mor\u00ec,\ntanto odio lor menti occupava, e molti cavalli vi furono guasti per\ni pedoni fiorentini che con le lance in mano fedirono di costa: il\ncapitano messer Piero co\u2019 prigioni si torn\u00f2 alla gente sua, e in quel\nd\u00ec medesimo ne fu novelle in Firenze, di che si f\u00e8 grande allegrezza e\nfesta.\nCAP. LI.\n_Come messer Piero da Farnese entr\u00f2 in Firenze, e il capitano de\u2019\nPisani colle insegne e\u2019 prigioni rassegnarono a\u2019 priori._\nA d\u00ec 11 di maggio, messer Piero da Farnese col capitano, bandiere e\nprigioni de\u2019 nemici entr\u00f2 in Firenze, dove ricevuto con grande letizia\ne allegrezza di popolo, e consegnati furono per lui a\u2019 priori col\ncapitano e bandiere de\u2019 Pisani centocinquanta prigioni, essendoli\nper lo comune offerto una ghirlanda d\u2019alloro umilemente la ricus\u00f2,\ne non la volle prendere, dicendo, che tale ghirlanda si convenia\ncon altro trionfo e maggiore vittoria, siccome per il senato di\nRoma era diputato; furonli donati quattro destrieri nobili coverti\ndell\u2019arme sua. Con lui venne messer Simone da Camerino fatto cavaliere\nnella battaglia, il quale fu lietamente veduto, e onorato di doni\ncavallereschi; e di poi a d\u00ec quattordici di maggio colle solennit\u00e0\nusate furono al capitano date per messer Niccolaio degli Alberti\ngonfaloniere di giustizia l\u2019insegne, e per lo capitano accomandate\nfurono a\u2019 Tedeschi a guardia, dando la reale a un messer Amerigone\nsoldato del nostro comune, il quale la ricevette in nome di messer\nGiovanni di..... Tedesco, il quale era al campo. Non vi manc\u00f2 augurio,\nperocch\u00e8 subitamente come messer Piero l\u2019ebbe in mano surse una lieve\naura che le dirizz\u00f2 verso Pisa, di che il capitano prese baldanza.\nCAP. LII.\n_Come i Pisani tolsono a\u2019 Fiorentini Altopascio._\nSabato a d\u00ec 20 di maggio, Guelfo di messer Dante degli Scali, il quale\nera castellano d\u2019Altopascio, diede il detto castello a\u2019 Pisani per\nfiorini tremila d\u2019oro che ne ricevette, il perch\u00e8 domenica mattina il\nd\u00ec di Pasqua rugiada i priori mossono l\u2019esecutore colla famiglia sua\nper andare a guastare le case sue; il popolo il quale era raunato in\nsulla piazza de\u2019 priori segu\u00ec l\u2019esecutore, ed entr\u00f2 nelle case degli\nScali e rubolle, e appresso vi mise il fuoco e arsonle, non potendo a\nci\u00f2 riparare quelli che mosso l\u2019aveano: dopo nona detto d\u00ec mandarono il\ncavaliere dell\u2019eseguitore a guastare i beni di contado.\nCAP. LIII.\n_Come i Pisani elessono per loro capitano Ghisello degli Ubaldini._\nI Pisani elessono loro capitano di guerra Ghisello degli Ubaldini in\nlungo di Rinieri d\u2019Ugolinuccio da Baschi, il quale era preso nelle\ncarcere del comune di Firenze. Il detto Ghisello era coraggioso e di\ngrande animo, dotto di guerra, e corale nemico del comune di Firenze,\nil quale di presente fu in Pisa, e prese la bacchetta del capitanato; e\nci\u00f2 fu del detto mese di maggio.\nCAP. LIV.\n_Come messer Piero cavalc\u00f2 sino sulle porte di Pisa battendovi moneta\nd\u2019oro e d\u2019argento._\nA d\u00ec 17 del mese di maggio, messer Piero da Farnese capitano de\u2019\nFiorentini con duemilacinquecento cavalieri, e molti balestrieri e\naltra fanteria si part\u00ec dal castello d\u2019Empoli, e dirizzossi verso\nPisa, e il detto d\u00ec s\u2019alloggi\u00f2 sopra la Cecina intra Marti e Castel\ndel Bosco, il seguente passarono il fosso, a malgrado di trecento\nuomini da cavallo che erano nel detto Castello del Bosco, e per la sera\ns\u2019accamparono a Ponte di Sacco, e valicarono di loro in Valdicalci e a\nCaprone, facendo gran danni d\u2019arsioni di ville e manieri. Proseguendo\nil capitano sue giornate verso Pisa arse il resto del borgo di Cascina,\ne tutto insin presso a Rignone e Borgo delle Campane ardendo tutto,\ne quivi fermato mand\u00f2 a\u2019 Pisani il guanto della battaglia, di poi\nlo giorno di Pasqua novella il capitano colle schiere fatte si mosse\nverso le porte di Pisa. Messer Amerigone Tedesco con sessanta barbute\nsi mise innanzi a tutti gli altri, e cavalc\u00f2 verso le porte di Pisa,\ne trov\u00f2 cento barbute de\u2019 nemici con assai gente da pi\u00e8, e loro fed\u00ec\naddosso arditamente e li ruppe, in soccorso de\u2019 quali uscirono di Pisa\ndugento uomini da cavallo, i quali volsono indietro messer Amerigone,\nal cui soccorso si mise messer Otto Tedesco con cento barbute e\nrivolse messer Amerigone, e fatta aspra zuffa i Pisani furono rotti;\nallora usc\u00ec di Pisa il potest\u00e0 con seicento barbute e molto popolo,\ne ruppono i nostri, e presono i detti due conestabili con alquanta\nloro brigata. Messer Piero ci\u00f2 veggendo come di soperchio ardito,\ncon trecento barbute di gente eletta, lasciandosi al soccorso la sua\ngente grossa presso colle bandiere, con tanto animo si mise sopra i\nPisani che li ruppe e f\u00e8 volgere, i quali per la gran calca non potendo\nentrare per la porta molti se ne misono per l\u2019Arno, de\u2019 quali assai\nn\u2019annegarono. Molti presi ne furono, e tanti e tali che i soldati pi\u00f9\ntosto vollono i prigioni, che paga doppia e mese compiuto, e assai ve\nne furono morti di quelli del baldanzoso e scondito popolo. Ci\u00f2 fatto\nil capitano a Rignone e allo Spedaluzzo f\u00e8 battere moneta dell\u2019oro,\ne d\u2019argento, e di quattrini: in quella d\u2019argento sotto i pi\u00e8 di san\nGiovanni sta una volpe a rovescio. E in quell\u2019ora per i Pisani alla\nrichiesta della battaglia fatta per messer Piero risposto fu, che alla\nbattaglia verrebbono a tempo e a luogo; onde fatti per lo capitano\ndue cavalieri, messer Guglielmo di Bolsi, e messer Giovanni di......\nsonate le trombe si f\u00e8 dipartenza; e mentre che la gente che rimasa\nera alla retroguardia, mandati dinanzi a s\u00e8 gl\u2019impedimenti da Rignone\ne dal Borgo delle Campane si partia, gente da pi\u00e8 e da cavallo de\u2019\nPisani vi sopraggiunse, e perch\u00e8 quivi erano cavalieri novellamente\nfatti non vollono fuggire. Nello strettissimo luogo della via, il quale\nquivi la natura del luogo leva in alto, quindi l\u2019Arno colle sue ripe\nfortifica, furono i nemici da\u2019 nostri aspettati, e subito con gran\ngrida s\u2019abboccarono insieme con fiera e ontosa battaglia. I nostri\nnel principio dubitarono, e crollaronsi: messer Guglielmo cavaliere\nnovello con la lancia uno lev\u00f2 da cavallo, onde premendo lui co\u2019 nostri\nsopra i nemici, quelli che in qua e in l\u00e0 scorreano ripresi furono, e\nda capo facendo resistenza lungo tempo si combatterono con dubbiosa\nvittoria. Alla fine la virt\u00f9 de\u2019 nostri crebbe, e soprastette, de\u2019\nquali l\u2019Arno molti ne prese, e inghiott\u00ec molti pedoni nello stretto\nda pi\u00e8, di cavalli guasti e magagnati: molti ne furono presi, molti\nmorti, n\u00e8 prima fu fine alla fuga, che giunsono sulla porta di Pisa.\nQuivi fu il grande scalpitamento, ed ivi li scorridori mescolati con i\nnemici quasi si metteano nella porta, intra i quali era un trombettino\ndel nostro comune, il quale sonando, fu di saetta che venne dalle\nmura ferito, e cadde da cavallo, allora i nostri per studio d\u2019avere\nil giglio del trombettino, perch\u00e8 il segno non venisse alle mani de\u2019\nPisani, agrissimamente si combatterono, ove oltre a venti dei nemici\nfurono morti e molti fediti, e la tromba col segno del trombettino\nfu ricoverato: de\u2019 nostri ne furono morti..... e otto presi, intra i\nquali furono i detti due cavalieri novelli. Alla fine divisa la zuffa i\nnostri a salvamento si ritornarono al campo, il quale era fermo a san\nSevino dalla parte sinistra sopra la riva dell\u2019Arno, che san Sevino\nera bene guardato; ed essendo molto del d\u00ec nelle dette cose consumato,\nlevate le schiere i nostri s\u2019alloggiarono la sera nella villa di\nPeccioli, e per la fatica del giorno stettono senza guardia, solo che\ndelle spie: il d\u00ec seguente il capitano rimand\u00f2 della gente a cavallo e\na pi\u00e8 verso Pisa a fare quel danno poterono.\nCAP. LV.\n_Sagacit\u00e0 usata per i Pisani per non perdere Montecalvoli._\nI Pisani ch\u2019aspettavano la Compagnia bianca degl\u2019Inghilesi, temendo\ndi Montecalvoli, il quale pochi giorni si potea tenere, usarono questa\nmalizia, che di notte segretamente facevano uscire di Pisa loro gente\nd\u2019arme, e la mattina polverosi li faceano ritornare, e li riceveano\na gran festa, sotto nome di gente della Compagnia bianca, stimando ne\nseguisse quello ne segu\u00ec: e loro venne fatto, che i priori di Firenze\navendo la falsa novella per vera, subito con poco onore e del comune e\ndel capitano li feciono partire dall\u2019assedio di Montecalvoli, il perch\u00e8\ni Pisani il poterono liberamente fornire e rinfrescare: e ci\u00f2 fu del\nmese di giugno.\nCAP. LVI.\n_Come il re di Francia per paura della compagnia non os\u00f2 per terra\ntornare nel reame, ma torn\u00f2 per acqua._\nIn questi giorni i pessimi uomini detti latronculi, noi in volgare\ndiciamo ladroncelli, nel reame di Francia tanto erano multiplicati\nall\u2019appoggio delle compagnie dell\u2019arciprete di Pelagorga e del\nPitetto Meschino, che il re di Francia essendo ad Avignone non si\nassicur\u00f2 tornare per terra a Parigi, per loro danno si mise ad entrare\nin Borgogna. Puossi assai aperto comprendere i vestigi del santo\nEvangelio, ove dice: Saranno pestilenzie e fame per luoghi, e leverassi\ngente contro a gente: e soggiugne: E gli uomini saranno amatori di s\u00e8\nmedesimi: e certo ogni radice di carit\u00e0 pare dispenta.\nCAP. LVII.\n_Della mortalit\u00e0 dell\u2019anguinaia._\nNel presente mese di giugno, per vere lettere de\u2019 mercatanti fu in\nFirenze come in Egitto, e in Soria, e nell\u2019altre parti di Levante la\npestilenza dell\u2019anguinaia; gravissimamente offendea e in Vinegia, e in\nPadova, e nell\u2019Istria, e in Ischiavonia, non ostante che i detti luoghi\naltra volta toccasse. Anche gravemente ritocc\u00f2 nelle terre di Toscana,\ne quasi tutte comprese, e in Firenze, gi\u00e0 stata generale tre mesi per\ntutto giugno con fracasso d\u2019ogni maniera di gente.\nCAP. LVIII.\n_Come i Barghigiani colla forza de\u2019 Fiorentini presono i battifolli._\nNel detto mese di giugno, essendo stata assediata Barga da\u2019 Pisani\nlungamente con tre battifolli, e Sommacolonna con due, e assai strette,\nil capitano de\u2019 Fiorentini essendo a oste a Montecalvoli trasse\ndal campo cinquecento barbute con alquanti masnadieri, e di\u00e8 boce\nch\u2019andassono in Maremma per preda, e feceli conducere a Volterra, onde\ni Pisani mandarono la loro gente in Maremma alla difesa, e costoro\nfurono condotti a Barga improvviso a\u2019 Pisani; e sentendolisi presso\nquelli di Barga, che n\u2019aveano l\u2019avviso, uscirono fuori a combattere\nl\u2019uno de\u2019 battifolli. Avvenne che quelli degli altri due battifolli,\nlasciando pochi di loro alla guardia de\u2019 battifolli, trassono al\nsoccorso di quello ch\u2019era combattuto. Aspra battaglia era tra loro\nquando sopraggiunse la gente de\u2019 Fiorentini; e trov\u00f2 i due battifolli\nsforniti, e presonlisi, e appresso percossono alle reni de\u2019 nemici,\ne con loro entrati nell\u2019altro battifolle lo presono, e perseguitando\ni nemici, pochi ne camparono, che non fossono morti o presi. Quello\nche trovarono ne\u2019 battifolli s\u00ec di vittuaglia come d\u2019armadura misono\nin Barga, e arsono le bastite, e il simile feciono di quelli di\nSommacolonna, e ci\u00f2 fatto, la gente de\u2019 Fiorentini si tornarono al\ncampo senza niuno impaccio.\nCAP. LIX.\n_Come mor\u00ec messer Piero da Farnese._\nEssendo entratala furia della pestilenza dell\u2019anguinaia nell\u2019oste de\u2019\nFiorentini, molti n\u2019uccise, molti ne indebol\u00ec, molti ne avvil\u00ec. Il\nperch\u00e8 essendo levato l\u2019assedio da Montecalvoli, per comandamento de\u2019\nsignori di Firenze, il capitano era in Castello Fiorentino, e quivi lo\nprese il male dell\u2019anguinaia a d\u00ec 19 di giugno, e il detto d\u00ec n\u2019and\u00f2 a\nsan Miniato del Tedesco, e quivi in sulla mezza notte pass\u00f2 di questa\nvita, e il corpo suo in una cassa alle spese del comune fu recato in\nFirenze, e posato a Verzaia, aspettando Ranuccio suo fratello per cui\nera mandato; poi a d\u00ec venticinque del mese il corpo suo fu recato in\nFirenze alle spese del comune con mirabile pompe d\u2019esequie, le quali\nfurono di questa maniera\n _Qui manca._\nPoi seppellito fu nella chiesa di santa Reparata con intenzione di\nfarli ricca sepoltura di marmo. Valente uomo fu in arme, e saputo\ne accorto con grande ardire, e leale cavaliere, e in fatti d\u2019arme\navventuroso, e per certo ogni onore che fatto li fosse e per lo innanzi\ngli si facesse lo merita.\nCAP. LX.\n_Dell\u2019ammirabile passaggio de\u2019 grilli._\nIl d\u00ec primo di luglio, un vento schiavo temperato per dieci ore\ncontinove del d\u00ec nelle parti di Pesaro, Fano e Ancona condusse\nincredibile moltitudine di grilli, quasi come in passaggio per l\u2019aire,\ntanto stretti che \u2019l sole non rendea la luce se non come per una nuvola\nnon troppo serrata, e trovossi per quelli che la notte sopraggiunse che\nmolti l\u2019uno portava l\u2019altro. Dove presono albergo, cavoli, lattughe,\nbietole, lappoloni, e ogni erba da camangiare la mattina si trovarono\ntutte colle costole e\u2019 nerbolini tutti bianchi, che a vedere era\ncosa nuova. Perch\u00e8 per lo freddo della notte non si poteano levare,\ni fanciulli ne portavano le cannuccie coperte dal capo a pi\u00e8, tanto\nstretto l\u2019uno sotto l\u2019altro che non vi si sarebbe messo la punta\ndell\u2019ago. I grilli erano di lunghezza d\u2019un dito colle gambe lunghe e\nrosse, e l\u2019alie grandi, col dosso ombreggiava in verde chiaro. Molti o\nla maggior parte annegarono in mare, che \u2019l fiotto gitt\u00f2 alla marina,\ni quali ammassati gittarono orribile puzzo, e trovossi che i pesci non\npresono cibo di loro, e gli uccelli e gli altri animali insino alle\ngalline se ne guardarono.\nPROEMIO DELLA CRONICA di FILIPPO VILLANI\n_Nel quale racconta la morte di Matteo suo padre, e la cagione che lo\nmosse a seguitare di scrivere._\nIn questi giorni la pestilenza dell\u2019anguinaia prese il componitore di\nquest\u2019opera Matteo, e trovandolo di sobria e temperata natura e vita\nil dibatt\u00e8 cinque giorni, in fine il duodecimo d\u00ec del mese di luglio\ndivotamente rend\u00e8 l\u2019anima a Dio. Il quale in tanto possiamo dire\nmeritevolmente essere da laudare, in quanto esso con lo stile che a lui\nfu possibile non sofferse, che perissono le cose occorse nel mondo per\nlo tempo che scrive degne di memoria, quindi apparecchiando materia a\u2019\npi\u00f9 delicati e alti ingegni di riducere sue ricordanze in pi\u00f9 felice e\nrilevato stile, qui a me Filippo suo figliuolo lasciando il pensiere di\nseguitare su per infino alla pace fatta con i Pisani, per non lasciare\nla materia intracisa, e cos\u00ec m\u2019ingegner\u00f2 di fare la storia di tempo in\ntempo, con l\u2019altre cose occorse nell\u2019altre parti del mondo le quali a\nmia notizia perverranno.\nCAP. LXI.\n_Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese loro capitano di guerra._\nSeguendo quanto mi sar\u00e0 possibile lo scrivere di Matteo Villani mio\npadre, per principio di mia perseguitazione ne tocca a scrivere, che\nper lo grande amore che \u2019l comune di Firenze ebbe a messer Piero da\nFarnese, senza rispetto de\u2019 grandi pericoli che vedeano sopraggiugnere,\nsenza lunghezza di tempo puosono Ranuccio suo fratello, non perch\u00e8\n\u2019l conoscessono sufficiente e atto a tanto peso, ma per donarli quel\ntitolo per grazia dell\u2019anima di messer Piero. Uomo era pro\u2019 della\npersona, e ardito e leale, ma poco sperto in guidare gente d\u2019arme, e\nnelli pronti avvisi che la guerra richiede.\nCAP. LXII.\n_Come gl\u2019Inghilesi giunsono in Pisa._\nGl\u2019Inghilesi ch\u2019erano in Monferrato al soldo del marchese, col\nprocaccio di messer Galeazzo Visconti ebbono il passo per lo Genovese,\ne col loro capitano messer Alberto Tedesco giunsono in Pisa il d\u00ec 18\ndi luglio. Honne fatta menzione, perch\u00e8 dal non averli condotti come\nmesser Piero da Farnese consigliava molto di danno e di vergogna si\nricevette per lo nostro comune, come per l\u2019innanzi leggendo apparir\u00e0.\nCAP. LXIII.\n_Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in sulle porte._\nNel detto anno a d\u00ec 25 di luglio, Ghisello degli Ubaldini capitano di\nguerra de\u2019 Pisani, con ottocento cavalieri di soldo, e con quattromila\npedoni tra di soldo e di volont\u00e0, e con molti gentili uomini e popolani\na cavallo che vogliosamente il seguirono, e messer Alberto Tedesco\ncapitano degl\u2019Inghilesi, con duemila cinquecento uomini a cavallo e\nduemila a pi\u00e8 si partirono di Pisa, e andarono a Lucca, e a d\u00ec 26 di\ndetto mese passarono per le montagne di Montaquilano, e scesono nel\npiano di Pistoia nel d\u00ec di santo Iacopo; e a\u2019 Pistoiesi non lasciarono\ncorrere loro palio. Ben furono di tanto animo i Pistoiesi, che dissono,\nin modo fu inteso dal capitano de\u2019 Pisani, che mai il detto palio non\nsi correrebbe se non si corresse sulle porte di Pisa, e cos\u00ec addivenne,\ncome si trover\u00e0 nella scrittura che per i tempi segue. Temettesi forte\nnon si strignessono alla terra, che senza dubbio a gran pericolo era,\ns\u00ec per lo subito assalto, al quale niuna provvisione o riparo era\nfatto, s\u00ec per la pestilenza dell\u2019anguinaia, che assai cittadini tolti\navea, molti ne tenea in sul letto, e quelli ch\u2019avea tocchi in vita\nerano fieboli: la troppa voglia ch\u2019ebbono d\u2019impiccare gli asinini, e\nfare le beffe muccerie, loro tolse il consiglio. Il seguente d\u00ec senza\nprendere arresto se ne vennono a Campi e a Peretola, e quivi fermarono\nil campo, poi colle schiere ordinate vennono insino al ponte a Rifredi;\ne sentendo sonare le campane dal comune a stormo, gl\u2019Inghilesi,\nche secondo l\u2019uso di loro paese pensarono che \u2019l popolo uscisse a\nbattaglia, temettono un poco, e rincularono, il perch\u00e8 i Pisani feciono\ncorrere il palio per traverso a Rifredi e tra le schiere. Pi\u00f9 feciono\nbattere moneta, e al ponte a Rifredi impiccarono tre asini, e per\nderisione loro puosono al collo il nome di tre cittadini, a ciascuno il\nsuo. Ecco in che i savi comuni di Firenze e di Pisa spendono i milioni\ndi fiorini, rinnovellando spesso queste villanie. Adunque impiccati\ngli asini volsono le schiere, e tornaronsi a Campi e a Peretola. Ben\nfece innanzi messer Alberto cavaliere Ghisello degli Ubaldini, messer\nGiovanni de\u2019 Guazzoni da Pescia con pi\u00f9 altri, con grande gavazza di\ngridare di stromenti, in parole altamente villaneggiando e dispettando\nil comune di Firenze. Arsioni i Pisani che v\u2019erano feciono assai,\nma non fuori di strada, lasciando le possessioni d\u2019alcuno notabile\nuomo popolare per far dire male di lui. Il seguente giorno, arso ci\u00f2\nch\u2019aveano potuto fuori di Firenze e di Prato, passarono Arno, e arsono\nil borgo alla Lastra, e per i monti di verso Valdipesa di notte si\npartirono, e arrivarono nel piano d\u2019Empoli, scorrendolo tutto con fare\nquel male poterono, quindi per lo Valdarno con grande preda e copia di\nprigioni senza essere loro a niente risposto si tornarono a Pisa. Da\nindi a pochi giorni messer Ghisello pass\u00f2 di questa vita, e onorato fu\ndi sepoltura assai per i Pisani.\nCAP. LXIV.\n_Come si ferm\u00f2 pace dalla Chiesa a messer Bernab\u00f2._\nDel detto anno del mese d\u2019aprile si ferm\u00f2 la pace tra papa Urbano\nquinto (che tanto vogliosamente, e tanto aspramente e vituperosamente\navea fulminate le sentenze contro a messer Bernab\u00f2) e il detto\nmesser Bernab\u00f2, per la Chiesa di Roma assai vituperevole, e onesta:\nvituperevole, perch\u00e8 si ricomper\u00f2 dal tiranno ancora scomunicato, e\nperch\u00e8 a petizione del tiranno divise la legazione, dando Bologna e\nRomagna in sua legazione all\u2019abate di Clugn\u00ec, e togliendo a colui che\ncon tanto onore di santa Chiesa l\u2019avea acquistata: onesta, perch\u00e8 egli\ncome padre spirituale dee amare la pace e riconciliazione, e aprire\nle braccia a chi vuole tornare alla misericordia, verificando in buona\nparte il detto del poeta che dice: O tu che sol per cancellare scrivi:\nn\u00e8 per essa pace si ruppe a\u2019 collegati promessa, e in loro potest\u00e0\nrimase l\u2019accettare. Poi appresso messer Bernab\u00f2 rend\u00e8 a santa Chiesa\nCastelfranco, Pimaccio e Crevalcuore che tenea in sul Bolognese, e\nci\u00f2 fatto i collegati con santa Chiesa accettarono la pace. L\u2019abate\npass\u00f2 per Milano, e pi\u00f9 giorni vi stette, dove fu alla reale in tutto\nonorato, quindi ne venne a Bologna, ove col caroccio con molto onore e\nfesta fu ricevuto.\nCAP. LXV.\n_Dello stato della citt\u00e0 di Firenze in que\u2019 giorni._\nE\u2019 ne pare necessario dire in questo luogo, per quello che seguir\u00e0 di\nmesser Pandolfo de\u2019 Malatesti, il reggimento e governo della citt\u00e0 di\nFirenze in que\u2019 tempi, il quale era venuto in parte e non piccola in\nuomini novellamente venuti del contado e distretto di Firenze, poco\npratichi delle bisogne civili, e di gente venuta assai pi\u00f9 da lunga, i\nquali nella citt\u00e0 s\u2019erano alloggiati, e colle ricchezze fatte d\u2019arti,\ne di mercatanzie e usure in dilazione di tempo trovandosi grassi di\ndanari, ogni parentado faceano che a loro fosse di piacere, e con\ndoni, mangiari e preghiere occulte e palesi tanto si metteano innanzi,\nch\u2019erano tirati agli ufici e messi allo squittino. Le grandi case\nde\u2019 popolari aveano i divieti; molti antichi e cari cittadini saggi\ne intendenti erano schiusi dagli ufici, e quello che ne risultava\ndi peggio di loro governo era, che temendo di non essere ingannati e\nconsigliati per lo contradio da\u2019 savi e pratichi cittadini che con loro\nsi trovavano agli ufici, essendo bene e utilmente consigliati, e con\namore e fede alla repubblica, sovente prendeano il contrario in danno\ne vituperio del comune. Molti giovent\u00f9 che non passava l\u2019adolescenza,\nsi trovarono negli ufici per procuro de\u2019 padri loro ch\u2019erano nel\nreggimento; e occorse, che facendosi lo squittino in que\u2019 tempi si\ntrov\u00f2 che de\u2019 quattro i tre non passavano i venti anni, e per tali\nfurono portati allo squittino che giaceano nelle fascie. Le ammonizioni\nsboglientavano, e gli odii pertanto e occulti e pregni teneano l\u2019animo\nde\u2019 cittadini. Pi\u00f9, l\u2019avarizia tanto tenea occupato l\u2019animo di molti,\nche con novi modi e ufici non necessari, e per altre coperte vie,\nfaceano al comune spendere i suoi danari. Le sette non quietavano, e\nl\u2019una all\u2019altra per paura tenea l\u2019occhio addosso: e cos\u00ec la repubblica\nsi trovava nelle mani del giovanile consiglio, negli occulti odii,\ne ne\u2019 desiderii delle private ricchezze. Se queste controversie e\nconfusioni non avessono allettato e sollevato l\u2019animo del tiranno a\nsperanza di signoria assai sarebbe pi\u00f9 da maravigliare, che tenendolo\nin ci\u00f2 occupato. Quelli che conduceano la guerra cassarono i soldati,\npensando a primo tempo riconducere a sofficienza, e cercavano d\u2019avere\nla Compagnia della stella, che di numero si ragionava passasse le\nseimila barbute. Della Magna speravano trarre duemila barbute, delle\nquali non n\u2019ebbono che cinquecento, sotto il capitanato del conte\nArrigo di Monforte, e del conte Giovanni, e del conte Ridolfo suo\nfratello, il quale era sfoggiato di grandezza, e menno, e per\u00f2 era\nchiamato il conte Menno, e questi due si diceano stratti della casa\ndi Soavia. Non pensando trarre dalla Magna pi\u00f9 gente, n\u00e8 avere la\nCompagnia della stella, e correndovi giorni, condussono messer Ugo\nTedesco valente uomo con mille uomini di cavallo, i quali, erano\ngiovani e prod\u2019uomini, ma male armati e peggio a cavallo; fu a ciascuno\nquando entrarono per lo comune donato una lancia nuova, perch\u00e8 non\nentrassono cos\u00ec brulli. Appresso condussono il conte Artimanno con\nmille ragazzi, verificando il proverbio, a tempo di guerra ogni cavallo\nha soldo: vennono a mezzo il mese di febbraio in Firenze a rifarsi.\nCAP. LXVI.\n_Come i Perugini, per tema che la compagnia degl\u2019Inghilesi non\nsoccorressono i loro rubelli assediati in Montecontigiano, condussono\nla Compagnia del cappelletto._\nNel detto anno del mese di novembre, i Perugini, i quali aveano\ncondotta la Compagnia del cappelletto per venti d\u00ec, temendo che\ngl\u2019Inghilesi non soccorressono i loro usciti i quali erano assediati\nin Montecontigiano, rafforzarono l\u2019assedio, e in pochi giorni appresso\nebbono il castello. Il modo fu nuovo, che i detti usciti con i fanti\nmasnadieri che aveano seco feciono vista d\u2019essere fuggiti, e tutti si\nnascosono per le case, di che quelli dell\u2019oste maravigliandosi, non\nveggendo alle poste le guardie, mandarono alquanti infino alle porti,\ne guatando per gli spiragli non viddono per la terra persona, di che\ntornati al campo e detto il fatto, il campo a romore si mosse colle\nscale a ire a prendere la terra: li usciti ch\u2019erano pro\u2019 come leoni,\ninsieme co\u2019 loro fanti masnadieri lasciarono salire i loro nemici\nin sulle mura, e quando li vidono in sulle mura uscirono delle case\nfrancamente, e con raffi a ci\u00f2 ordinati tirarono delle mura a terra\nassai conestabili e valenti uomini che v\u2019erano montati, e montarono in\nsulle mura essi, e per forza ne levarono coloro che su v\u2019erano saliti\ncon aspra e fiera battaglia, di che i Perugini si tornarono al campo.\nInfra quelli che rimasono presi fu un cavaliere tedesco, che lungo\ntempo era stato al soldo de\u2019 Perugini, e fatto gli era grande onore;\ncostui andando un d\u00ec a sollazzo per lo castello con certi caporali\nmasnadieri, e\u2019 fu da loro dimandato, che aveano di loro diliberato\ni Perugini; il sagace cavaliere rispose, di mai non partirsi finch\u00e8\narebbono il castello, e d\u2019impiccarli tutti; ma che s\u2019elli voleano\ncampare, che poteano, dando loro gli usciti a\u2019 Perugini, di che i fanti\nper paura a ci\u00f2 s\u2019accordarono; e il seguente d\u00ec cominciarono questioni\ncon gli usciti, domandandoli se di niuno luogo aspettavano soccorso,\ni quali risposono di niuno, onde i masnadieri loro dissono che\npiglierebbono partito per s\u00e8, ed ebbono tra loro oltraggiose parole;\nveggendo ci\u00f2 messer Alessandro de\u2019 Vocioli con sette de\u2019 migliori\nch\u2019erano con lui deliberarono di ricorrere alla misericordia, e con li\ncapestri in gola uscirono del castello e andarono al campo gridando\nmisericordia, e\u2019 furono ricevuti: i signori di Perugia per fuggire\nle preghiere mandarono quattro camarlinghi a Montecontigiano, i quali\nil detto messer Alessandro con altri sedici cittadini di Perugia suoi\ncompagni e di buone famiglie quivi feciono decapitare.\nCAP. LXVII.\n_Come messer Pandolfo Malatesti venne con cento uomini di cavallo e con\ncento fanti a servire il comune di Firenze per due mesi._\nConoscendosi per i Fiorentini che nell\u2019impresa della guerra il comune\nera senza capo e senza consiglio, e con gente d\u2019arme di poco valore,\nforte si cominci\u00f2 a dubitare, e massimamente per coloro a cui potea\nmeritamente la perdita tornare nella testa; costoro co\u2019 loro seguaci\nfurono a\u2019 signori, pregandoli che provvedessono di capitano di guerra,\ne loro puosono innanzi messer Pandolfo de\u2019 Malatesti, il quale per\nle sue savie e franche operazioni, contra il conte di Lando e sua\ncompagnia, come Matteo mio padre scrive di sopra, in Firenze avea\nbuona fama, e la grazia di tutti i cittadini, il quale di presente fu\neletto senza sospezione alcuna, e fatti gli ambasciadori ch\u2019andassono a\nportare l\u2019elezione, e patteggiarsi con lui, e scritto gli fu in segreto\ndagl\u2019intimi suoi che venisse, che ci\u00f2 che domandasse al comune arebbe,\ned esso ben sapeva la condizione della citt\u00e0, e l\u2019infermit\u00e0 di essa\ngli era negli occhi; onde ricevuti gli ambasciadori colla elezione li\nlasci\u00f2 a Pesero, ed egli n\u2019and\u00f2 dove era messer Malatesta, vecchio\ne messer Malatesta giovane, e con loro pi\u00f9 giorni stette in segreto\nconsiglio. Quali fossero i ragionamenti, l\u2019opere di messer Pandolfo il\nmanifestarono. Tornato agli ambasciadori a Pesero, per meglio coprire\nsuo segreto mostrava per molte vie poca voglia di volere venire, e con\ncautela disse non potea senza la licenza di messer di Spagna legato\ndi papa, ed esso medesimo per suo segreto messo infra pochi giorni\nl\u2019ottenne; e ci\u00f2 fatto, venne alla pratica con gli ambasciadori di\nquello volea, e le sue domande erano in gran parte s\u00ec spiacevoli e\ndisoneste, che gli ambasciadori del tutto si partirono da lui; ed\nessendo per mettere i pi\u00e8 nella staffa, parendo a messer Pandolfo\navere mal fatto, li f\u00e8 richiamare, e loro disse non intendea di venire\ncome capitano, ma come amico del comune volea venire a servirlo due\nmesi, e cos\u00ec per gli ambasciadori fu accettato, e cos\u00ec venne ed entr\u00f2\nin Firenze a d\u00ec 15 del mese d\u2019agosto con cento uomini di cavallo e\ncento fanti a pi\u00e8, e con grande allegrezza fu da tutti universalmente\nricevuto, parendo a ciascuno essere in viaggio d\u2019onorato fine alla\nguerra. Il seguente d\u00ec furono creati otto cittadini, due per quartiere,\ne per termine d\u2019un anno e con bal\u00eca assai, in uficiali del comune\nsopra la guerra, i quali di presente preso l\u2019uficio incominciarono\nad intendersi con messer Pandolfo sopra i modi che intorno a\u2019 fatti\ndella guerra s\u2019avessono a tenere; nelle lunghezze delle parlanze messer\nPandolfo non mostr\u00f2 cruccio di perdere tempo.\nCAP. LXVIII.\n_Come i Pisani co\u2019 loro Inghilesi presono Figghine._\nMesser Manetto di messer Lomodaiesi capitano generale della gente\nd\u2019arme de\u2019 Pisani, e messer Alberto Tedesco capitano degl\u2019Inghilesi,\ncon tutte loro brigate continuando loro viaggio senza contradizione\nper li stretti passi del Chianti valicarono nel Valdarno di sopra,\ne nella loro prima giunta presono il borgo di Figghine a d\u00ec 16 di\nsettembre di detto anno, dove trovarono molta roba e prigioni assai\nd\u2019ogni maniera: \u00e8 vero che la maggior parte degli uomini e donne da\nbene si fuggirono nel castello, ch\u2019era assai forte: e perch\u00e8 quelli\ndel castello non prendessono consiglio, il seguente d\u00ec gl\u2019Inghilesi\nsi strinsono ad esso, onde quelli d\u2019entro spaventati si rendeano; e\nmentre che i patti si compilavano, la cattivit\u00e0 di quelli d\u2019entro fu\ntanta che si lasciarono torre la fortezza agl\u2019Inghilesi; il perch\u00e8\nebbono assai prigioni da bene uomini e donne, i quali Dio sa come\nfurono ricevuti nelle mani degl\u2019Inghilesi uomini crudeli e bestiali,\ni quali con la miseria de\u2019 nostri arricchirono. Preso il castello il\nguastarono e afforzaronsi ne\u2019 borghi, dove stettono per alquanto di\ntempo. La presura di Figghine assai di\u00e8 di pensiero e di maninconia\na\u2019 governatori del nostro comune, tutto che i cittadini ch\u2019aveano\ni palagi e abituro d\u2019intorno e appresso la citt\u00e0 paressono contenti\nche la guerra si facesse da lungo, ma poco loro valse, come appresso\ndiviseremo.\nCAP. LXIX.\n_Come messer Pandolfo puose il campo all\u2019Ancisa, e come il detto campo\nfu preso dagl\u2019Inghilesi con messer Rinuccio capitano, e appresso il\nborgo all\u2019Ancisa, e come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra._\nPreso Figghine per i Pisani, col consiglio di messer Pandolfo tutta\nla gente dell\u2019arme de\u2019 Fiorenti con molti pedoni che \u2019l comune avea\nn\u2019and\u00f2 all\u2019Ancisa, e di presente messer Pandolfo and\u00f2 dietro loro, e\ncome giunse all\u2019Ancisa ordin\u00f2 di porre campo dirimpetto all\u2019Ancisa, il\nquale ad arte il prese di sfoggiata grandezza, prendendo dal poggio\ninfino all\u2019Arno, contra il volere e consiglio di messer Rinuccio\ncapitano, e di messer Amerigone Tedesco e di tutti gli altri buoni\nuomini d\u2019arme che v\u2019erano, eccetto il conte Artimanno, il quale si\nscoperse traditore, i quali tutti diceano essere abbastanza e pi\u00f9\nutile fare una bastita intorno alla torre Bandinelli, la quale diceano\npotersi difendere insieme col borgo dell\u2019Ancisa, e che tanta larghezza\ndi campo, traendo lui cinquecento cavalieri della migliore gente, n\u00e8\neziandio se vi fossono alla difesa, non era possibile da difendere\ndalla forza de\u2019 nemici, e che stolta cosa era commettersi a quella\nfortuna. Messer Pandolfo f\u00e8 orecchie di mercatante a lasciare dire chi\nvolle, e f\u00e8 pure a suo senno, avendo dato a intendere prima a quelli\ndella guerra e al comune che la Compagnia del cappelletto la quale\nera in Maremma condotta per i Fiorentini, e con cinquecento barbute\ndi quelli erano all\u2019Ancisa cavalcherebbono i Pisani, i quali arebbono\nnecessit\u00e0 rivocare loro gente al soccorso, e sotto questo colore trasse\ndel campo messer Amerigone e altri caporali con cinquecento uomini di\ncavallo della miglior gente fosse nel campo, lasciando al capitano il\nforte ragazzaglia e vile gente, eccetto alquanti Italiani, e ci\u00f2 fatto\nse ne venne a Firenze. Gl\u2019Inghilesi sentendolo partito, e che messer\nRinuccio era semplice, feciono ingaggiare di battaglia uno di loro\ncon uno di quelli d\u2019entro, e molti saggi Inghilesi vennono nel campo\nsenza arme, dove si combatterono, e considerando il campo e chi v\u2019era\nalla difesa, il seguente d\u00ec 3 d\u2019ottobre colle schiere fatte assalirono\nil campo da molte parti, acciocch\u00e8 la poca gente che v\u2019era e debole\nsi spargesse in pi\u00f9 parti alla difesa. Il capitano confortando i suoi\na ben fare, e della sua persona, con quelli pochi uomini che v\u2019erano\nbuoni f\u00e8 maraviglie, e per lungo spazio di tempo sostenne l\u2019assalto con\ndanno assai de\u2019 nemici; in fine non potendo resistere a tanta gente, n\u00e8\na tanti luoghi quant\u2019erano combattuti, il capitano insieme col campo\nfu preso, con assai degli altri che mostrarono il volto. Il conte\nArtimanno traditore, possendo atare e soccorrere il campo, lasciando\nparte della sua gente a guardia del borgo dell\u2019Ancisa co\u2019 terrazzani,\nsi stette a vedere. Molti de\u2019 nostri ch\u2019erano usciti di fuori, tale\nper badaluccare tale per vedere, furono presi, pi\u00f9 di disarmati\nvogliosi troppo ch\u2019erano corsi a vedere. Quelli valenti uomini che\nerano usciti fuori virilmente a battaglia furono presi colle spade in\nmano, intra\u2019 quali fu messer Giovanni degli Obizzi e messer Giovanni\nMangiadori, alquanti se ne gittarono per l\u2019Arno che vi annegarono,\nintra i quali fu messer Bartolommeo de\u2019 Portigiani da san Miniato.\nLa preda de\u2019 cavalli, fornimenti da campo e armadura fu grande. Avuta\nla vittoria gl\u2019Inghilesi, con la preda e co\u2019 prigioni si tornarono a\nFigghine. Ricerchi i nostri, tra presi e morti si trovarono passati\ni quattrocento. Conosciuto per gl\u2019Inghilesi il male e viziato ordine\ndato per messer Pandolfo, e la vilt\u00e0 di nostra gente, e il corrotto\nanimo del conte Artimanno, il d\u00ec seguente d\u00ec 4 d\u2019ottobre ne vennono\nall\u2019Ancisa colle schiere fatte per combattere il borgo; il traditore\ndel conte Artimanno come li vidde venire, colla sua brigata se n\u2019usc\u00ec\nper la porta che viene verso Firenze e misesi a cammino, che se avesse\navute altrettante femmine come avea uomini d\u2019arme arebbe difeso quel\nluogo; i nemici senza contesa entrarono nel borgo e presonlo, rubaronlo\ne arsonlo, per avere la via spedita volendo venire verso Firenze.\nMesser Pandolfo sentendo la rotta del campo, con cinquecento uomini\nch\u2019avea scelti e altra gente d\u2019arme, in vista mostrava gran fretta\nd\u2019andare a soccorrere l\u2019Ancisa, e gi\u00e0 avea passato san Donato in\nCollina, veggendo venire il conte Artimanno in fuga, possendosi allo\nstretto di san Donato sostenere per non mostrare tanta vilt\u00e0, subito si\nvolse e diessi alla fuga come uomo rotto. I nostri veggendo fuggire il\ncapitano seguitarono, il quale come spaventato, come giunse in Firenze\nf\u00e8 segno come fosse di necessit\u00e0 provvedere alla guardia della citt\u00e0\ntrista e lagrimosa, e che mal volentieri lo vedea, ma la necessit\u00e0 la\nquale fa vecchia trottare strinse il nostro comune ad eleggerlo per\ncapitano di guerra in luogo di messer Rinuccio preso colla spada in\nmano. Il quale essendo eletto nella forma che sogliono capitani di\nguerra, volle ai governatori del nostro comune con belle e artificiose\nparole e con sottili argomenti mostrare, che a perfezione del capitano,\npace e bene della citt\u00e0, necessario era che nella citt\u00e0 e di fuori\navesse giurisdizione di sangue con pieno arbitrio, e fu s\u00ec sfacciato,\nche la domand\u00f2 agli uficiali della guerra, quasi dando intesa altamente\nnon accettare il capitanato, e pi\u00f9 domand\u00f2, che i soldati da cavallo\ne da pi\u00e8 giurassono nelle sue mani. Udendo i governatori della citt\u00e0\nle sconce e le mal colorate domande vollono un grande consiglio di\nrichiesti, dove si proposono le domande di messer Pandolfo, e tanto\nera il bisogno che aveano di lui, che niuno osava contradire, e il\nconcedere parea pericoloso, il perch\u00e8 stavano sospesi e muti. Simone\ndi Rinieri Peruzzi si lev\u00f2 in consiglio, e disse francamente che\nnulla di ci\u00f2 gli si concedesse, che questo era un domandare d\u2019essere\nfatto signore, e che ciascuno si recasse alla mente il tempo del\nduca d\u2019Atene, e come da lui erano stati trattati, e che conoscessono\nla dolcezza della libert\u00e0, e che volessono vivere e morire in essa.\nPiacque a tutti il consiglio, e cos\u00ec s\u2019ottenne; e i signori priori\nmandarono di presente per tutti i soldati, e in loro mani feciono\ngiurare, e un Baldo dalla Citt\u00e0 di Castello elessono per difensore del\npopolo con larga e piena bal\u00eda nella citt\u00e0. Messer Pandolfo veggendo\nci\u00f2 s\u2019infinse di non lo intendere, e accett\u00f2 il capitanato al modo\nusato a capitano di guerra, senza lasciare il pensiere di venire per\naltra via al suo intento, come per effetto si vide. Presa la bacchetta\ndel capitanato f\u00e8 cassare il conte Artimanno con ottocento uomini di\ncavallo, perch\u00e8 non rimase il comune se non con altri ottocento, e ci\u00f2\nfatto, mostrando smisurata paura, fece sopra certa parte delle mura\ndella citt\u00e0 levare bertesche e merlate armate di ventiere, armando la\nnostra citt\u00e0 d\u2019eterna vergogna, pi\u00f9, che per le vie mastre non molto di\nlungo alle porte f\u00e8 fare serragli e antiserragli infino a Ricorboli.\nCAP. LXX.\n_Come certa parte degl\u2019Inghilesi da Figghine cavalcarono a Ricorboli._\nGl\u2019Inghilesi e gente de\u2019 Pisani imbaldanzita sopra modo della rotta\ndel campo e della presa del borgo all\u2019Ancisa, posati alcuni d\u00ec a\nFigghine, avendo le spie dello spavento ch\u2019era in Firenze, e de\u2019 modi\ndel capitano, feciono sentire al comune con minaccevole superbia e\naltre parlanze, come a d\u00ec 22 d\u2019ottobre verrebbono in sulle porte,\ne arderebbono il borgo di san Niccol\u00f2, e che a questo il comune\nmettesse ogni suo sforzo a riparo, il perch\u00e8 i governatori della\ncitt\u00e0 perduto il cuore e il senno, e poco di concordia e rimprocciosi\ngettando il carico l\u2019uno all\u2019altro con mormorio, parendo a loro\nessere certi che quello che gl\u2019Inghilesi prometteano l\u2019atterrebbono,\nfeciono afforzare san Miniato a monte, e misonvi quattrocento fanti\npistoiesi e gli sbanditi, a\u2019 quali promisono di ribandirli, poich\u00e8\ncerto tempo ivi e altrove avessono servito il comune, de\u2019 quali fu\ncapitano messer Niccol\u00f2 Buondelmonti, e Sinibaldo di messer Amerigo\nDonati, i quali allora erano in bando della persona: il numero loro\npassava i cinquecento. La citt\u00e0 stava e quelli che di fuori erano\nalle poste in tanta sollecitudine e tremore, che alcuna volta sentendo\npur un uomo dall\u2019Apparita sonavano le campane del comune a martello,\ne invano la guardia si faceva la notte co\u2019 pennoni. Essendo per pi\u00f9\ngiorni stati grandi acquazzoni, a d\u00ec 22 del mese d\u2019ottobre la detta\nbrigata degl\u2019Inghilesi in numero di millecinquecento a cavallo e\ncinquecento pedoni prima fu nel Piano di Ripoli, che per lo capitano\no per i governatori del comune niente se ne sentisse, e se niente\nse ne sent\u00ec per lo capitano, che verisimile parea del s\u00ec, fece vista\ndi non saperne: molti cittadini in sulle letta furono presi, perch\u00e8\nvennono di notte, e ucciso fu chi si contese. La preda che feciono fu\ndi quattrocento prigioni, e di pi\u00f9 di mille tra asini e buoi: molti\nfuggendo annegarono in Arno. La notte si stettono nel Piano di Ripoli\ne nelle coste d\u2019intorno: il loro segno levarono alla pieve a Ripoli\nfacendo gran trombata; la mattina, ardendo molti palagi, alberghi, e\ncase da lavoratori vicino alla strada circa d\u2019un miglio, si partirono\nsenza trovare chi li andasse a vedere, e con la preda e\u2019 prigioni\nsi tornarono a Figghine. Messer Pandolfo sapendo che erano partiti,\nper vedere la tratta de\u2019 Fiorentini, ch\u2019era vogliosa e senza ordine\nniuno, con ottocento uomini a cavallo ch\u2019erano rimasi al comune\ne con gran popolo si stette alle sbarre a Ricorboli; esso vedea i\nnemici sparti, e girsene per le coste, e ne\u2019 suoi occhi ardere molti\npalagi di cittadini, e senza dubbio avendo le spalle del popolo e de\u2019\ncontadini, ch\u2019erano oltre a diecimila bene armati, e che volentieri\nl\u2019arebbono seguitato, per lo danno e vergogna che fare si vedeano, li\npotea offendere, e nol volle fare, ma si ritenne al primo serraglio\nlasciandosene tre innanzi, a\u2019 quali era il popolo e la gente da pi\u00e8.\nDissesi, e vero fu, che non sapendo l\u2019aspro cammino gl\u2019Inghilesi si\nmossono, e non giunsono in Pian di Ripoli che a pochi loro cavalli non\ncrocchiassono i ferri, e se fossono stati assaggiati erano perduti,\ncome essi poi confessarono aperto, ma la vilt\u00e0 affettata del nostro\ncapitano, che traeva al fine che \u00e8 detto di sopra, e de\u2019 nostri\ncittadini e contadini, che gl\u2019Inghilesi fossono leoni fu la salvezza\nloro. Speranza fu di messer Pandolfo, che rimaso messer Lomodaiesi\nco\u2019 soldati de\u2019 Pisani alla guardia di Figghine, gl\u2019Inghilesi fossono\ntutti, e che s\u2019alloggiassono nelle belle e ricche possessioni presso\nalla terra, le quali erano piene d\u2019ogni bene, e che \u2019l comune per\nallora vario d\u2019animo e povero di consiglio inclinasse a volerlo per suo\ngovernatore e maestro; questa speranza li falt\u00f2 per la subita partita\ndegl\u2019Inghilesi, e fecelo entrare in altro pensiere.\nCAP. LXXI.\n_Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del cappelletto, la quale era\ncondotta al soldo de\u2019 Fiorentini._\nNon ci pare da lasciare in silenzio, che essendo la gente de\u2019 Pisani\ncon gl\u2019Inghilesi afforzati in Figghine, ed essendo condotta per i\nFiorentini la Compagnia del cappelletto, la quale era in Maremma, e\nco\u2019 Sanesi avea presa convegna, e veniano al servigio del comune di\nFirenze, e senza riguardo d\u2019offesa e come fidati da\u2019 Sanesi, per la\nvia da Torrita furono da loro assaliti con ottocento uomini da cavallo,\nfra i quali ve ne furono quattrocento e pi\u00f9 de\u2019 Pisani, e loro ordine\ne trattato fu per rompere le provvisioni di messer Pandolfo, le quali\naveano sentite. La zuffa dopo l\u2019assalto de\u2019 Sanesi non ebbe molto\ncontasto, perch\u00e8 quelli della compagnia venendo senza sospetto come\nper terre d\u2019amici veniano in filo e sparti, il perch\u00e8 di leggiere\nfurono sconfitti e preda de\u2019 nemici. Presi vi furono oltre a trecento\nuomini di cavallo e pi\u00f9 di mille pedoni, e intra i presi fu il conte\nNiccol\u00f2 da Urbino, che era il capitano, il conte da Sarteano, Marcolfo\nda\u2019 Rimini; con altri assai buoni uomini d\u2019arme, e morti ne furono\nassai pi\u00f9 di cento. Della quale vittoria, ovvero tradimento fatto in\ndispetto, danno e vergogna del comune di Firenze, i Sanesi ne feciono\nbeffa festa, dicendo s\u00e8 a un\u2019ora avere sconfitto il comune di Firenze\ne la compagnia la quale tanto affannati gli avea; e prosontuosamente\noltre a modo alzando il capo, per derisione e scherno mandarono due\nmessi a Firenze con lettere, l\u2019uno al comune l\u2019altro a\u2019 capitani\ndella parte guelfa, contenenti con alte e ornate parole la detta\nvittoria. Il comune dissimulando l\u2019oltraggio, il fante che a lui venne\nvest\u00ec di scarlatto fino foderato d\u2019indisia, la parte vest\u00ec il suo di\ncardinalesco.\nCAP. LXXII.\n_Di cavalcate e combattimenti di terre feciono gl\u2019Inghilesi mentre\nstettono a Figghine._\nSoggiornando gl\u2019Inghilesi a Figghine, come guerrieri senza riposo\ntentarono per pi\u00f9 riprese assai delle castella e tenute del nostro\ncomune che d\u2019intorno loro erano vicine, e al castello di Tre Vigne in\ndue diversi giorni dierono ordinata battaglia, dove rimasono morti\nalquanti di loro, e assai ne furono e dalle balestra e dalle pietre\nmagagnati senza acquisto niuno, lasciando le fosse piene di scale\ne la terra di saettamento, e per simile modo combatterono pi\u00f9 altre\ntenute indarno. Il castelluccio de\u2019 Benzi e la Foresta si tennono.\nVero fu che uno Andrea di Belmonte Inghilese, gentile uomo e grande\ncaporale nella compagnia, udita la fama della bellezza e gentilezza\ndi costumi di Monna Tancia donna di Guido della Foresta, di buono e\ncavalleresco amore fu preso di lei, e la volle vedere, e da Guido come\nda uomo d\u2019animo gentile cortesemente fu ricevuto e onorato; seguinne,\nche per l\u2019amore di costui per tutto il tempo che stettono a Figghine\nniuna novit\u00e0 fu fatta alla Foresta. Combatterono per tutto un giorno il\ncastello di Cintoia, e nol poterono avere. La notte quelli di Cintoia\nper la bussa del d\u00ec tormentati, e perch\u00e8 assai di loro n\u2019erano fediti,\nmandarono a Firenze a\u2019 signori pregando per Dio li sovvenissono d\u2019aiuto\nalmeno di venti fanti, perocch\u00e8 attendeano d\u2019essere il seguente d\u00ec\ncombattuti, e temeano della perdita; la provvisione all\u2019usato modo fu\nfredda, il perch\u00e8 gl\u2019Inghilesi il seguente d\u00ec tornarono alla battaglia.\nQuelli del castello facendo loro possanza lungamente si tennono\ndanneggiando forte i nemici, in fine gl\u2019Inghilesi presono il castello,\ne \u2019l misono a sacco e l\u2019arsono, e con la preda e\u2019 prigioni si tornarono\na Figghine. Nel detto tempo tremila uomini di cavallo con pedoni assai\ncavalcarono verso Arezzo, e poi volsono nel Casentino, dove levarono\ngran preda s\u00ec di persone s\u00ec di bestiame, e senza impedimento con essa\nsi tornarono a Figghine.\nCAP. LXXIII.\n_Esempio e ammaestramento de\u2019 popoli che vivono a libert\u00e0 i quali\nsi conducono nella fortuna della guerra di non torre capitano uso a\ntirannia._\nTornando al processo di nostra materia, gl\u2019Inghilesi da Ricorboli\nvenuti a Figghine essendo ad abbondanza grassi e di prigioni e di\npreda, nel consiglio de\u2019 loro maggiori cominciarono ad entrare in\npensiero, come l\u2019uno e l\u2019altro potessono conducere in Pisa per li\nstretti passi di Valdipesa: e per ci\u00f2 potere fare, parendo loro come a\ngente dotti di guerra del Chianti sentire l\u2019intenza di messer Pandolfo,\ne che pertanto era occupato intorno a\u2019 fatti della citt\u00e0, poich\u00e8\nalquanti giorni furono riposati feciono sentire al comune di Firenze,\nche a d\u00ec undici del mese di novembre intendeano di fare consegrare un\nprete novello nella badia di san Salvi, e che i signori di Firenze e\ngli altri gentiluomini dovessono venire a fare onore al detto prete, e\na loro in persona di lui. Ci\u00f2 indubitatamente credette messer Pandolfo,\ne per le sue spie l\u2019ebbe di certo, perocch\u00e8 vidono il campo armare il\ndetto d\u00ec 11 la mattina per tempo, e per lo campo sentirono divolgare\ncome si dirizzavano verso Firenze; e certo a ci\u00f2 avvisati cautamente\npresono il viaggio verso Firenze, il perch\u00e8 le spie non attendendo pi\u00f9\noltre vennono a Firenze ad informare messer Pandolfo. Stando la terra\nsotto l\u2019arme in gran tremore, scendendo all\u2019Apparita pur un fante a pi\u00e8\ncredeano fossono della brigata degl\u2019Inghilesi, le campane sonavano a\nstormo, il popolo sbalordito correa in qua e in l\u00e0 senza ordine e senza\ncapo, lasciando quasi ciascuno il suo gonfalone per ire a vedere, e di\nlargo avanti che messer Pandolfo giugnesse alla Porta alla croce usciti\nerano della citt\u00e0 ottomila uomini bene armati; quelli ch\u2019erano pi\u00f9\ngagliardi erano nel piano di san Salvi, e ordinatisi il meglio aveano\nsaputo, aspettando a ricevere i nemici, gli altri erano per le coste\nsopra san Salvi. Il falso grido sonava per la terra che gi\u00e0 parte di\nloro n\u2019era a Rovezzano: la gente da cavallo tutta era nella piazza de\u2019\nsignori, e aspettava il capitano, il quale per la malizia soprastette\nal mangiare tanto, ch\u2019era quando se ne lev\u00f2 pi\u00f9 vicino alla nona che\nalla terza, e ci\u00f2 f\u00e8 perch\u00e8 il popolo satollo uscisse fuori, e pensando\nche a quell\u2019ora ragionevolmente i nemici dovessono esser giunti a san\nSalvi, e alle mani col popolo voglioso e con poco senno. Uscito il\ncapitano fuori coll\u2019insegna di sua arme levata, seguendolo i soldati e\nmolti cittadini da bene a cavallo, come giunse alla Porta alla croce la\nfece serrare, e cos\u00ec quella della giustizia, ed esso si stava dentro\na guardarla, lasciando il popolo di Firenze senza rifugio al taglio\ndelle spade e in preda de\u2019 nemici, che bene conoscea chi era il popolo,\ne chi gl\u2019Inghilesi. Di fuori della porta era il tumulto grande delle\nstrida delle femmine che fuggivano co\u2019 figliuoli in collo e a mano,\ne voleano entrare dentro e non poteano, e quelle grida confermavano\nnella testa a messer Pandolfo che i nemici fossono giunti, e a zuffa,\ne ripreso da molti buoni cittadini che non lasciava entrare le femmine\ne\u2019 fanciulli, fatto per alquanto di tempo orecchie di mercatante, quasi\ncome temesse che per lo sportello entrassono i nemici e corressono la\nterra, alla fine udendo il mormorio del popolo e de\u2019 buoni uomini fece\naprire lo sportello: e io scrittore che era in quel luogo vidi molti\ncittadini grandi e da bene, e a cui era cara la libert\u00e0 della citt\u00e0,\npiagnere e lagrimare vedendo il caso pericoloso, e ricordando il tempo\ndel duca d\u2019Atene, e come si fece signore, e alquanti di loro n\u2019andarono\na\u2019 signori, e li consigliarono che provvedessono di vittuaglia il\npalagio, e facessono mettere le balestra grosse e le bombarde in punto\nsicch\u00e8 il palagio avesse difesa, e tale, che di fatto, come al tempo\ndel duca d\u2019Atene, occupato non fosse. E stando nel tumulto del fornire\ne armare il palagio alla difesa, un messo giunse loro da Figghine,\ne disse come i nemici aveano arso il campo e il borgo di Figghine, e\ncome s\u2019erano partiti co\u2019 prigioni e colla preda, e fatta la via per\nlo Chianti; onde i signori mandarono a dire a messer Pandolfo che\nfacesse aprire le porte, e tornassesi allo stallo suo, il quale ci\u00f2\nudito, caduto della speranza, con gli occhi bassi e mal volto di tutti\nsi torn\u00f2 a casa sua. Quetato il popolo, e lasciata l\u2019arme, i signori\nebbono gran consiglio di richiesti, e veduto il pessimo animo di messer\nPandolfo, e come pure intendea a volere essere signore di Firenze a\ndispetto del popolo, determinarono li fosse tenuto mente alle mani\nsicch\u00e8 non li venisse fatto, e da quell\u2019ora innanzi cominci\u00f2 a essere\nin dispetto di tutti: e perch\u00e8 il popolo non traesse pi\u00f9 mattamente,\nfeciono che ciascuno dovesse trarre al suo gonfalone alla pena di\nlire sei, la quale pensando si dovesse risquotere ciascuno sarebbe\nsollecito a seguire il suo gonfalone. Per messer Pandolfo mandarono, e\nlo ripresono forte de\u2019 modi tenuti per lui, e dicendoli che stesse dove\nli paresse alle frontiere a guerreggiare i nemici, che il popolo di\nFirenze ben saprebbe guardare la citt\u00e0. Se non fosse stato della casa\nde\u2019 Malatesti, per lo nome e titolo di parte guelfa amata e onorata dal\ncomune di Firenze, per certo si tenne n\u2019arebbono preso altra via. Avemo\ntritamente narrato questo caso per esempio, se potesse profittare,\na quelli che verranno, di non tor mai a capitano di guerra tiranno\ndi terra notabile, perocch\u00e8 l\u2019avvenimento della guerra \u00e8 vario, e la\nfortuna or quinci or quindi presta il favore suo, e sovente il tiranno\nla fa essere ria per usurpare la sua libert\u00e0. E nullo ammiri perch\u00e8\nio dissi se potesse profittare, perocch\u00e9 \u2019l governo allora del nostro\ncomune, avendo novellamente s\u00ec aspra ed evidente battitura ricevuta\nda messer Pandolfo, e lui partito con disonore e vergogna, sotto\ntitolo e colore di ricoverare l\u2019onore della casa de\u2019 Malatesti, con la\nforza degli amici loro fu chiamato capitano di guerra messer Galeotto\nMalatesti; quello ne segu\u00ec nel seguente trattato a suo luogo e tempo si\npotr\u00e0 trovare.\nCAP. LXXIV.\n_I modi teneano gl\u2019Inghilesi tornati in Pisa._\nCon grande festa e trionfo gl\u2019Inghilesi tornati da Figghine per i\nPisani furono ricevuti, e loro quasi come a cittadini fu consegnata\ncerta parte della terra, e dell\u2019altre furono abbarrate le vie perch\u00e8\nnon noiassono a\u2019 cittadini; ci\u00f2 veggendo gl\u2019Inghilesi lor parve che i\nPisani li avessono accettati per loro cittadini participando la terra\ncon loro, e modi teneano che pareano che intendessono cos\u00ec; i Pisani\nveggendo per segni e parole l\u2019intento loro pi\u00f9 volte cercarono per\ningegno e astuzia di trarlisi di casa, infignendo d\u2019essere cavalcati\nda\u2019 nemici, e facendo venire molte lettere di diverse parti che loro\nannunziavano soprastare a gran pericoli, ma per allora fu nulla, che\ngl\u2019Inghilesi che s\u2019erano molto affannati, e bisogno aveano di riposo,\ned erano caldi di danari di prigioni e di preda, se ne feciono beffe,\nil perch\u00e8 i Pisani vernano in gran gelosia.\nCAP. LXXV.\n_Come i Pisani furono sconfitti a Barga._\nAvendo i Pisani la lor gente dell\u2019arme e gl\u2019Inghilesi nella citt\u00e0,\nnon potendo, come detto \u00e8 di sopra, n\u00e8 in parte n\u00e8 in tutto trarre\ngl\u2019Inghilesi di Pisa, per non perdere il tempo gran parte di loro\nsoldati con grande ordine e apparecchio mandarono a Barga all\u2019entrare\ndi dicembre, per porre sopra gli altri battifolli che vi aveano un\naltro battifolle dalla parte del monte. In Barga era capitano per i\nFiorentini Benghi del Tegghia Bondelmonti, a cui i Fiorentini, poich\u00e8\ngl\u2019lnghilesi aveano abbandonato Figghine, aveano mandati centocinquanta\ndegli sbanditi ch\u2019erano stati in san Miniato a monte, i quali doveane\ncerto tempo servire il comune nella guerra alle loro spese, e poi\nessere ribanditi; la gente de\u2019 Pisani portando fornimenti assai, s\u00ec\nper porre detto battifolle, e s\u00ec per fornire e quello e gli altri\nad abbondanza, non parea che desse cuore di fare quello ch\u2019era stato\nloro commesso senza altro aiuto, forte temendo la brigata di Barga,\nil perch\u00e8 quelli ch\u2019erano negli altri battifolli lasciandoli male a\ndifesa forniti si dirizzarono con loro in viaggio. Benghi, sentendo\nche i battifolli erano sforniti e quasi come abbandonati, con i\nBarghigiani, che v\u2019andarono uomini e femmine vogliosamente, e co\u2019 detti\ncentocinquanta sbanditi assal\u00ec i detti battifolli, e tantosto li vinse.\nQuelli de\u2019 battifolli ch\u2019erano iti coll\u2019altra gente a porre la bastita\nsentendo le grida e lo stormire di quelli che combatteano le bastite,\nsubito colla detta gente de\u2019 Pisani si volsono indietro per soccorrere\na\u2019 battifolli. Benghi capitano co\u2019 Barghigiani e sbanditi suddetti li\nricevettono francamente, e dopo lunga battaglia e aspra li sconfissono,\ndove de\u2019 nemici furono morti oltre a centocinquanta, e assai fediti\ne magagnati, e molti ne furono presi; lo stendardo del comune di Pisa\ncon altre tredici bandiere rimasono prese, le quali i Barghigiani ne\nmandarono a Firenze, e\u2019 battifolli furono arsi, e quello che dentro\nv\u2019era con quello che recato v\u2019aveano per porre l\u2019altro s\u00ec di vittuaglia\ncome d\u2019arnesi fu messo in Barga, e loro a gran bisogno sovvenne. Benghi\nperch\u00e8 s\u2019era fedelmente e francamente portato fu fatto di popolo, e\nrifermo in capitano di Barga per diciotto mesi.\nCAP. LXXVI.\n_Come il re Giovanni di Francia pass\u00f2 in Inghilterra e l\u00e0 mor\u00ec._\nUscendo un poco del bosco delle nostre speziali riotte, facendo\nintramessa di cose forestiere, torneremo alquanto addietro a quello\nche scritto fu per Matteo nostro padre della pace intra i due re di\nFrancia e d\u2019Inghilterra, dove il re di Francia s\u2019obblig\u00f2 a pagare al\nre d\u2019Inghilterra gran quantit\u00e0 di moneta per la sua diliveranza; e per\nosservare sua promessa lasci\u00f2 per stadico il fratello duca d\u2019Orliens, e\nmesser Giovanni duca di Berr\u00ec suo figliuolo, e pi\u00f9 altri duchi, conti e\nbanderesi; onde in quest\u2019anno 1363 a d\u00ec 3 di gennaio, il detto messer\nGiovanni figliuolo del re che stadico era a Calese, villanamente,\nessendo largheggiato d\u2019andare a cacciare e uccellare a sua volont\u00e0, si\nfugg\u00ec da Calese senza tornarvi con gran sua vergogna, e f\u00e8 rubellare\nagl\u2019Inghilesi pi\u00f9 terre teneano in Normandia per gaggi della pace. Onde\nil re Giovanni, come franco e nobile signore, per lo detto misfatto\ndel figliuolo e rompimento della pace, e per trattare patto e grazia di\nsua redenzione, di sua volont\u00e0 a d\u00ec 3 di gennaio 1363 entr\u00f2 in mare a\nBologna sul mare per ire e si rassegnare prigione in Inghilterra, e il\ngioved\u00ec appresso giunse a Dovero, e dipoi a d\u00ec 24 di gennaio giunse a\nLondra, e incontro gli andarono oltre a mille a cavallo gente nobile,\ne tutti vestiti di variate assise, e dismont\u00f2 a una casa detta Saona\nper lui riccamente e alla reale apparecchiata. Della quale andata il\ndetto re da tutti i cristiani fu molto lodato, ed eziandio gl\u2019Inghilesi\nl\u2019ebbono molto a bene e feciongliene ogni grazia. Nel raccozzamento de\u2019\ndue re, e nella pratica, il perch\u00e8 v\u2019era ito, il detto re di Francia\nera passato nell\u2019isola. Potrei far fine qui e riserbare al mese suo la\nmorte del re di Francia, ma per non interrompere la materia la porremo\nqui. Segu\u00ec, che poco appresso poi all\u2019entrata di marzo prese al re di\nFrancia una malattia, e dipoi a d\u00ec 8 del mese d\u2019aprile 1364 la notte\npass\u00f2 di questa vita. Onorato fu di sepoltura largamente alla reale,\nriservando in una cassa il corpo suo per recarlo a tempo a Parigi. Il\nreame succedette a Carlo primogenito del detto re Giovanni, duca di\nNormandia e delfino di Vienna.\nCAP. LXXVII.\n_Come messer Niccol\u00f2 del Pecora fu cacciato di Montepulciano._\nIn questi giorni per trattato fatto per i Sanesi colla forza de\u2019 fanti\nd\u2019Agnolino Bottoni, contra i patti della pace fatta tra\u2019 Perugini\ne\u2019 Sanesi, messer Niccol\u00f2 del Pecora per i conforti suoi fu cacciato\ndi Montepulciano, e ridussesi a Perugia in assai debole stato, e da\u2019\nPerugini mal provveduto, i quali per non ricominciare guerra passarono\nla vergogna a chiusi occhi.\nCAP. LXXVIII.\n_Della morte del giovane marchese di Brandisborgo, conte di Tirolo, e\nquello ch\u2019appresso ne segu\u00ec._\nAncora ne piace un poco passare per le pellegrine storie; e per\nfondarne una che in questi tempi occorse assai abominevole, alquanto\nne conviene addietro tirare per dare meglio a intendere il gran male:\ne venendo al proposito, la contea di Tirolo situata \u00e8 negli estremi\ndi terra tedesca sopra il Lago di Garda, e nel paese di Trento, e\npossente, nobile e famosa, la quale, morta tutta la progenia masculina,\nper successione era caduta in una fanciulla nome contessa......., la\nquale per la nobilt\u00e0 della dota da tutti i signori e baroni della\nMagna era in matrimonio sollecitata, per avere in dota il gioiello\ndella detta contea di Tirolo; in fine la contessa prese in isposo....\nfigliuolo del re Giovanni di Boemia, e fratello di Carlo che poi fu\nimperadore de\u2019 Romani; e chiamatolo al matrimonio, e alla contea di\nTirolo, dopo alquanto tempo la contessa cortesemente lo ne rimand\u00f2\nin suo paese, affermando che all\u2019uso del matrimonio era impotente,\ne che la contea desiderava erede. Carlo fratello del detto.....\nrecandosi in dispetto i modi della contessa, prestamente f\u00e8 grande\nesercito, ed entr\u00f2 nel contado di Tirolo, il quale \u00e8 aspro e per sito\nfortissimo, e fece gran danni d\u2019arsioni e di preda, e infra d\u2019altre\nterre arse Buzzano, e ci\u00f2 fatto si torn\u00f2 in suo paese minacciando\ndi fare peggio a tempo. Il perch\u00e8 la contessa impaurita e spaventata\ncerc\u00f2 sollecitamente possente in Alamagna a cui si potesse appoggiare,\ne in quei tempi v\u2019era grande Lodovico duca di Baviera della progenia\ndel duca Namo, l\u2019uno de\u2019 dodici conti Paladini che seguitarono Carlo\nMagno a cacciare i saracini della Spagna, e pertanto poi quelli di\nsua schiatta hanno una boce de\u2019 dodici peri alla boce dell\u2019imperio;\nil quale Lodovico essendo creato imperadore de\u2019 Romani contro volont\u00e0\ndi santa Chiesa pass\u00f2 in Italia, e gran cose fece, come scrive\nGiovanni Villani nostro zio, e senza acquistare si torn\u00f2 in Alamagna\ncol titolo del Bavaro. Costui in questi d\u00ec avea quattro figliuoli,\nLodovico, Stefano, Otto, e Romeo: Lodovico primogenito era marchese di\nBrandisborgo. Costui la contessa al padre segretamente f\u00e8 domandare in\nmarito, e il Bavaro vi di\u00e8 l\u2019orecchie, e volendo che \u2019l figliuolo la\nprendesse, egli con orrore d\u2019animo la ricusava, dicendo al padre che\nella avea altro marito, come noto era a tutta la Magna, e che secondo\ni decreti di santa Chiesa ella non potea avere altro marito: il padre\nlo sgrid\u00f2, e gli os\u00f2 dire ch\u2019egli era un ribaldo, e che \u2019l contado di\nTirolo non era boccone da rifiutare, il perch\u00e8 per riverenza del padre\nLodovico la prese per donna, velando il matrimonio con colore che\nil primo era impotente a generare. Della detta contessa assai tosto\nLodovico ebbe un figliuolo maschio; ma perseverando il matrimonio,\nla contessa per soverchia lussuria trascorse in errore di disonesta\nvita, e in singolarit\u00e0 con un messer...... di Fraunberghe, che in\nlatino suona, dal Colle delle donne, ed era s\u00ec venuto il giuoco in\npalese, che ogni uomo si maravigliava come il marchese la comportasse,\nstimando molti che per forza di malia lo facesse. Occorse, che partendo\nil marchese con lei e con tutta sua corte da Monaco di Baviera per\nandare a Tirolo, esso marchese sotto boce os\u00f2 dire: Se noi torniamo a\nMonaco mai, noi ci vendicheremo di chi ne fa vergogna; ci\u00f2 venne agli\norrecchi alla contessa, e al cavaliere che usava con lei, il quale era\nde\u2019 maggiori della corte, e conoscendo amendue che il marchese era di\ngrande animo e vendicativo, e che gi\u00e0 fatto aveva aspre e rilevate\nvendette a chi l\u2019avesse fallato, strettosi al consiglio la donna e\n\u2019l cavaliere, temendo che il marchese non attenesse loro la promessa,\nnel cammino l\u2019avvelenarono in una terra che si dice Rotimberga. Morto\nil marchese, rimase al figliuolo il paese ch\u2019a lui s\u2019appartenea in\ngrande confusione, perch\u00e8 molti voleano il governo del fanciullo,\ne cos\u00ec stette il paese rotto per spazio di mesi diciotto. Alla fine\nStefano e Otto zii del garzone si recarono il governo alle mani, e\ndirizzati i paesi, e passati cinque anni, il giovane era cresciuto\ndi bello aspetto, e facevasi valente, e per sua dibonarit\u00e0 e dolcezza\navea la grazia di tutti i sudditi suoi, ed essendo a Tirolo si volea\nreggere e governare a suo piacere; e dispiacendoli assai i pochi onesti\ncostumi della madre, e un giorno venendo con lei in contesa, per sua\nsciagura nell\u2019irate parole usc\u00ec al giovane di bocca: Noi sapemo bene\nquello che voi faceste a nostro padre. La crudel donna crudelmente\nraccolse le semplici parlanze del giovane, e cominci\u00f2 a pensare della\nmorte sua: il perch\u00e8 un giorno il giovane avendo con gentili giovani\ndi sua et\u00e0 molto danzato, e per s\u00e8 e per i compagni domand\u00f2 da bere,\ne fugliene dato, ma con veleno, del quale con quattro valenti giovani\nsuoi compagni si mor\u00ec; gli altri che meno aveano bevuto si pelarono\ntutti, e rimasono infermi. Il giovane marchese poco avventurato di\nmadre fu seppellito in Tirolo nel 1363 del mese di febbraio. Ci\u00f2 si\ndice che f\u00e8 la dispietata madre per potere pi\u00f9 liberamente lussuriare e\nperseguire sua scellerata vita. Stefano e Otto figliuoli di Lodovico,\ne zii del giovinetto morto, udito l\u2019orribile malificio, e compreso\nl\u2019imperversato e fiero animo della femmina, la quale per uccidere il\nfigliuolo non guard\u00f2 all\u2019innocenza de\u2019 giovinetti che ballavano con\nlui (il quale recato con lei in comparazione a Medea, che fu gentile,\ne questa cristiana, non \u00e8 da porre in dubbio che questa non fosse assai\npi\u00f9 spietata e crudele, verificandosi in lei il verso di Giovenale, il\nquale delle femmine dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter\naudent, che in volgare suona; Forte animo danno alle cose le quali\nsozzamente ardiscono, cio\u00e8 presumono di fare) richiesono tutti i loro\nvassalli e feudatari, e accolsono d\u2019amist\u00e0 quanta gente poterono fare,\ne grande oste apparecchiarono contro alla contessa per vendicare la\nmorte del fratello e del nipote, la quale spaventata e impaurita,\nperseguitandola la coscienza degli orribili peccati, stava in gran\ntremore, e non sapeva che si fare. In questa confusione Ridolfo duca\nd\u2019Osterich, uomo sagace e astuto, e cupido di nuovo acquisto, inteso\ndella morte del giovane, e dell\u2019apparecchio che facevano Stefano e\nOtto di Baviera, sconosciuto di presente se n\u2019and\u00f2 a Tirolo, e fu\ncolla contessa, e le disse dell\u2019apparecchio di quelli di Baviera,\ne li mostr\u00f2 ch\u2019erano atti e sofficienti a disfarla, e s\u2019ella avea\nconcetta paura nell\u2019animo la raddoppi\u00f2. Appresso le disse, ch\u2019avea\nritrovate scritture antiche che conteneano, come gli antichi duchi\nd\u2019Osterich s\u2019erano patteggiati e convenzionati con gli antichi conti di\nTirolo, che quale casa o famiglia di loro faltasse d\u2019ereda legittimo\nl\u2019altra dovesse succedere, con offerirsi alla difesa della donna; e\nda lei posta in tanta confusione, e credula, ottenne ch\u2019ella il f\u00e8\ncapitano del contado di Tirolo, e nelle sue mani f\u00e8 giurare tutto il\npaese. Proseguendo il proposito loro quelli di Baviera cominciarono\nla guerra, e corsono il contado di Tirolo, e presono e rubarono una\nterra che si chiama Sterburgh, e pi\u00f9 in avanti non poterono passare\nper l\u2019asprezza de\u2019 luoghi e de\u2019 forti passi provveduti alla difesa.\nCi\u00f2 non ostante il duca d\u2019Osterich cominci\u00f2 a mettere nel capo alla\nfemmina che nel paese non stava sicura, e ch\u2019era il suo migliore se\nn\u2019andasse in Osterich, tanto che le cose pigliassono assetto, e tanto\nle seppe dire ch\u2019ella v\u2019and\u00f2. Dopo non molto tempo il duca la mise in\nun munistero, dove miseramente mor\u00ec. Alcuni dissono fu fatta morire,\ne questo comunemente s\u2019accett\u00f2 per vero. Morta la contessa, il duca\nRidolfo con gran quantit\u00e0 di gente d\u2019arme corse per lo contado di\nTirolo, e prese quattro nobili e gentili uomini, i quali come baroni\naveano giurisdizione di per s\u00e8, i quali non erano stati pronti ad\nubbidire, perch\u2019aveano giurato alla casa di Baviera, e come tiranno,\ne contro alla natura e la costuma degli Alamanni, di presente li f\u00e8\ndecapitare, onde in infamia e odio ne venne di tutta lingua tedesca.\nPer tema di questa impresa del duca d\u2019Osterich non lasci\u00f2 la casa di\nBaviera di non volere riscattare sua giurisdizione, e di loro forza\ne amist\u00e0 ragunarono oltre a quattromila barbute di gente eletta, e\ncon molto ordine si mossono contro il duca d\u2019Osterich, come contro\nusurpatore delle loro ragioni. Il duca d\u2019Osterich d\u2019altra parte f\u00e8\nadunata non di meno gente n\u00e8 valorosa meno che quella degli avversari,\ne amendue i detti eserciti assai vicini s\u2019assembrarono insieme: e\nper caso un giorno avvenne, che sopra il numero di duemila barbute\ndi quelle del duca d\u2019Osterich dilungandosi dal campo casualmente si\nscontrarono in altrettante o circa della gente del duca di Baviera, e\nvennono alla battaglia, la quale fu fiera e pertinace, la quale dur\u00f2\nper spazio di pi\u00f9 di sei ore, e nella fine quelli d\u2019Osterich furono\nsconfitti. I morti dall\u2019una parte e d\u2019altra in sul campo s\u2019annumerarono\nsi trovarono pi\u00f9 di cinquecento, e i feriti e magagnati furono assai,\ne molti di quelli d\u2019Osterich rimasono prigioni, e ci\u00f2 avvenne nel 1364\nd\u2019ottobre, e qui l\u2019ho posto per non rompere la storia. Il verno in\nquelle parti duro e incorportabile a campeggiere l\u2019una parte e l\u2019altra\ncostrinse a tornarsi a sua magione, ma tutto che quietassono l\u2019armi\nnon quitarono gli animi, perocch\u00e8 l\u2019una parte e l\u2019altra eziandio con\nspendio faceva sollecitamente ogni sforzo suo, e scritto e comandato\naveano a tutti i sudditi loro ch\u2019erano in Italia al soldo che a loro\naiuto dovessono tornare, e tutti s\u2019apparecchiarono a ubbidire, e cos\u00ec\ngrande apparecchio faceano per trovarsi in campo come prima potessero.\nCarlo imperadore e Lodovico re d\u2019Ungheria veggendo che ci\u00f2 era di\ngrandissimo pericolo e guasto di tutta Alamagna s\u2019intesono insieme, e\ninterposonsi per mezzani, e colla persona del savio e venerabile messer\nPiero Corsini vescovo di Firenze, il quale per gravi faccende di santa\nChiesa allora era legato in Alamagna, il quale ricevendo sopra di s\u00e8 il\npeso di tanta faccenda, come ambasciadore di detti imperadore e re, e\nmezzano e trattatore tra i detti signori cerc\u00f2 la concordia loro; e s\u00ec\nsaviamente seppe la cosa guidare, che di detto anno e mese di gennaio\npace si concluse tra loro, e per patto al duca d\u2019Osterich rimase libera\nla contea di Tirolo, e in compensarne di ci\u00f2 il duca di Baviera ebbe\nun\u2019altra contea del duca d\u2019Osterich, tutto che non a valore eguale\nassai a quella di Tirolo. E cos\u00ec ebbe fine la diabolica vita e processo\ndell\u2019empia e spietata contessa di Tirolo, e la guerra che per le sue\nprave operazioni era suta tra la nobilt\u00e0 de\u2019 baroni e signori della\nMagna.\nCAP. LXXIX.\n_Come i Pisani ricondussono gl\u2019Inghilesi._\nLasciando le forestiere storie, e tornando alle scaramucce e badalucchi\ndella tediosa guerra intra i Fiorentini e\u2019 Pisani ci occorre, che\nessendo gl\u2019Inghilesi per fornire loro condotta, per due rispetti, l\u2019una\nperch\u00e8 i Fiorentini non li conducessono, l\u2019altra per trarlisi di casa,\ne per li tempi che richiedesse la guerra, i Pisani del mese di gennaio\nli ricondussono per sei mesi con soldo di centocinquanta migliaia di\nfiorini, con patti che potessono fare cavalcate dove a loro piacesse,\nsalvo che alle terre loro sottoposte, raccomandate e collegate, tutti\ngli altri loro soldati cassarono, e feciono loro capitano di guerra\nVanni Aguto Inghilese gran maestro di guerra, di natura a loro modo\nvolpigna e astuta, il suo soprannome in lingua inghilese era Hawkwood,\nche in latino dice, Falcone di bosco, ovvero in bosco, perocch\u00e8 essendo\nla madre a un suo maniere per partorire, e non possendo, si f\u00e8 portare\nin uno suo boschetto, e quivi lui di presente partor\u00ec, e tutto che\nnon fosse di schiatta di nobili con dignit\u00e0, il padre era gentiluomo\nmercatante e antico borgese, e cos\u00ec i suoi antenati, e come Giovanni\nvenne in et\u00e0 di potere arme, essendo d\u2019aspetto e di stificanza di farsi\nin essa valente uomo, fu dato a un suo zio gran maestro di guerra,\nil quale nelle guerre di Francia e d\u2019Inghilterra avea fatto in arme e\npratiche di guerra belle e rilevate cose. I detti Inghilesi vernarono\nin Pisa con gran danno e disagio de\u2019 cittadini i quali a loro faceano\noltraggio, e intra gli altri delle donne loro, il perch\u00e8 molti di loro\nle ne mandarono a Genova e altrove in luoghi dove potessono onestamente\ndormire.\nCAP. LXXX.\n_D\u2019una saetta che cadde sul campanile di santa Maria Novella._\nNel detto anno a d\u00ec primo di febbraio, essendo il tempo sereno e bello,\ne senza avere o da lunga o da presso alcuno segno di nuvole, ton\u00f2\nsmisurato pi\u00f9 volte, e caddono in Firenze pi\u00f9 saette, fra le quali una\nne percosse nel campanile de\u2019 frati predicatori, e quello in pi\u00f9 parti\nsdruc\u00ec, e pi\u00f9 segni f\u00e8 per la cappella maggiore d\u2019inarsicciati. Di ci\u00f2\n\u00e8 fatta menzione per la disgrazia del detto campanile spesso tocco\ndalle saette, appresso per la novit\u00e0 del tonare s\u00ec spossatamente al\nsereno nel pieno del verno.\nCAP. LXXXI.\n_Cavalcate fatte per gl\u2019Inghilesi nel pieno del verno._\nPoich\u00e8 gl\u2019Inghilesi si viddono ricondotti, come uomini vaghi di preda e\nvogliosi di zuffa, a d\u00ec 2 di febbraio in numero di mille lance, i quali\nsi facevano tre per lancia di gente a cavallo (ed eglino furono i primi\nche recarono in Italia il conducere la gente di cavallo sotto nome di\nlance, che in prima si conduceano sotto nome di barbute e a bandiere) e\nin numero di duemila a pi\u00e8, essendo il freddo fuori di misura, e venute\npi\u00f9 nevi sopra nevi, si partirono dalle frontiere dove pochi d\u00ec dinanzi\ns\u2019erano ridotti, e passando la notte per Valdinievole se ne vennono\na Vinci e Lampolecchio, luoghi fertili e abbondevoli di vittuaglia\nper gli uomini e per i cavalli, e trovarono il paese non sgombro per\nla pertinacia de\u2019 nostri contadini, che non vogliono per bando o per\nminacce a\u2019 loro signori ubbidire. Giugnendo nel pieno della notte molti\npaesani presono nelle letta, e posono il campo fermo nelle villate di\nVinci stendendosi in pi\u00f9 di mille case, e il seguente d\u00ec cavalcarono\ninfino a Signa e Carmignano. Il tempo disusato e sconcio a cavalcare\ngente d\u2019arme, e massimamente di notte, ne presta materia di scrivere\nde\u2019 modi e reggimenti de\u2019 detti Inghilesi nel presente capitolo senza\nfarne altra distinzione: e in prima, essi aveano in consuetudine di\nguerreggiare cos\u00ec il verno come di state, che a\u2019 Romani, di cui \u00e8\nscritto, Fortia agere, et pati, Romanum, che in volgare suona, forti\ncose fare, e patire, romana cosa \u00e8, non fu in uso, e sempre il verno\nfaceano feria dando alla guerra riposo, se per forza non fussono\ntratti a battaglia. E come si trova ne\u2019 veraci storiografi, Annibale\nuomo di ferro nel mezzo del verno pass\u00f2 gli altissimi gioghi delle\nmontagne che surgono per lo mezzo d\u2019Italia, e passano da monte Veso\ninfino sopra il faro di Messina, le quali alpi poi per la detta cagione\nsempre nominate furono le Alpi pennine, perocch\u00e8 gli Affricani sono\nchiamati Penni, e sceso il verno si combatt\u00e8 a Pavia con Scipione e\nlo vinse, poi dirizzandosi verso Roma con un solo elefante che rimaso\ngli era, per lo freddo perd\u00e8 un occhio, e procedendo sopra il Lago di\nPerugia tra Montegeti e Passignano si combatt\u00e8 con Flaminio consolo\ne lo vinse, usando astuzia, perocch\u00e8 essendo per lo gran freddo le\nmembra de\u2019 cavalieri arrudate e spossate, avanti che venisse alla\nbattaglia Annibale f\u00e8 fare gran fuochi, e scaldare i suoi cavalieri,\ne ugnere con olio. Tornando a nostra materia, per antico ricordo non\nera che fosse stato il freddo s\u00ec aspro e pungente, che quasi per tutto\ndicembre fino al marzo non erano cessate le nevi, e il ghiaccio per i\nventi freddi fu grosso, e a passare per i cavalli quasi impossibile,\ne massimamente in certi pendenti di vie che non si poteano schifare.\nCostoro tutti giovani, e per la maggior parte nati e accresciuti\nnelle lunghe guerre tra\u2019 Franceschi e Inghilesi, caldi e vogliosi,\nusi agli omicidii e alle rapine, erano correnti al ferro, poco avendo\nloro persone in calere, ma nell\u2019ordine della guerra erano presti, e\nubbidienti ai loro maestri, tutto che nell\u2019alloggiarsi a campo per\nla disordinata baldanza e ardire poco cauti si ponessono sparti e\nmale ordinati, e in forma da lievemente ricevere da gente coraggiosa\ndannaggio e vergogna. Loro armadura quasi di tutti erano panzeroni,\ne davanti al petto un\u2019anima d\u2019acciaio, bracciali di ferro, cosciali\ne gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lance da posta, le quali\nscesi a pi\u00e8 volentieri usavano, e ciascuno di loro avea uno o due\npaggetti, e tali pi\u00f9 secondo ch\u2019era possente, e come s\u2019aveano cavate\nl\u2019armi di dosso i detti paggetti di presente intendeano a tenerle\npulite, sicch\u00e8 quando compariano a zuffe loro armi pareano specchi, e\nper tanto erano pi\u00f9 spaventevoli. Altri di loro erano arcieri, e loro\narchi erano di nasso, e lunghi, e con essi erano presti e ubbidienti, e\nfaceano buona prova. Il modo del loro combattere in campo quasi sempre\nera a piede, assegnando i cavalli a\u2019 paggi loro, legandosi in schiera\nquasi tonda, e i due prendeano una lancia, a quello modo che con li\nspiedi s\u2019aspetta il cinghiaro, e cos\u00ec legati e stretti, colle lance\nbasse a lenti passi si faceano contro a\u2019 nemici con terribili strida: a\nduro era il poterli snodare, e per quello se ne vidde per la sperienza,\ngente pi\u00f9 atta a cavalcare di notte e furare terre ch\u2019a tenere campo\nfelici, pi\u00f9 per la codardia della nostra gente che per loro virt\u00f9.\nScale aveano artificiose, che il maggiore pezzo era di tre scaglioni,\ne l\u2019uno pezzo prendea l\u2019altro a modo della tromba, e con esse sarebbono\nmontati in su ogni alta torre. I detti Inghilesi, tornando alla nostra\nmateria, combatterono il castello di Vinci, fidandosi ne\u2019 tardi e lenti\nprovvedimenti di quelli ch\u2019allora guardavano la nostra repubblica,\ne pensando che fossono poco atti alla difesa, ma furono con franco\nanimo e fronte senza paura ricevuti, e assai di loro di soperchio\nbaldanzosi furono morti e assai fediti, senza altro acquistare che onta\ne vergogna; e per simile modo per due volte tornarono a Carmignano,\ndove con pi\u00f9 sicuro volto e loro dannaggio furono veduti, il perch\u00e8\nsi partirono di quindi, e andarsene al Montale sopra Montemurlo, con\nintenzione di passare per lo stretto di Valdimarina nel Mugello, ma\nsentendo che per quella volta da mille cinquecento pedoni de\u2019 paesani e\ndel Mugello s\u2019erano a passi recati, e loro con allegrezza aspettavano,\npensando con loro pi\u00f9 tosto guadagnare che perdere, perch\u00e8 tutto era\nsgombro e ridotto alle fortezze si tornarono per lo passo di Seravalle\nverso Pistoia nel contado di Pisa con loro gran danno, perocch\u00e8 di\nloro tra morti e presi nella detta cavalcata si trovarono assai pi\u00f9 di\ntrecento, che da\u2019 nostri contadini che da soldati che li tramezzarono\na Seravalle, e s\u00ec da\u2019 Pistoiesi che vi trassono al grido. I prigioni\nch\u2019aveano avuti a Vinci su le letta non passarono i quindici, n\u00e8 i\nmorti i cinque: la preda che feciono a pena gli pot\u00e8 nutricare: ne\u2019\ngiorni che stettono non arsono case, molti de\u2019 loro cavalli perderono\nper lo gran disagio e freddo soffersono, nevicando loro addosso il d\u00ec e\nla notte; il perch\u00e8 tornati a loro stallo molti uomini se ne morirono;\ne cos\u00ec a poco a poco si logoravano gl\u2019Inghilesi.\nCAP. LXXXII.\n_Come Anichino di Bongardo con tremila barbute venne al servigio de\u2019\nPisani, e come sagacemente cercarono avvantaggiosa pace._\nNel detto anno 1363, a d\u00ec 15 del mese di marzo, Anichino di Bongardo\nTedesco, il quale era stato in Lombardia al soldo di messer Galeazzo\nVisconti nella guerra del marchese di Monferrato, con tremila barbute\nvenne in favore de\u2019 Pisani mandato per lo detto messer Galeazzo sotto\ncolore e titolo di soldo, sicch\u00e8 in quel tempo i Pisani si trovarono\navere pi\u00f9 di seimilacinquecento buoni uomini di cavallo, il perch\u00e8 loro\nparendo, e cos\u00ec era il vero, loro avere il migliore, ed essere di loro\nonta vendicati, con segreto e cauto modo cercarono d\u2019avere pace onorata\ne vantaggiosa per le mani di santa Chiesa, e ordinarono che papa Urbano\nquinto mand\u00f2 per suo legato in Toscana per cercare detta pace un frate\nMarco da Viterbo generale de\u2019 frati minori, il quale essendo stato in\nPisa venne a Firenze, e onoratamente fu ricevuto, e in fine dicendo,\nche al santo padre era in calere che della guerra da\u2019 Fiorentini\na\u2019 Pisani la quale era il guasto di Toscana si venisse alla pace, e\nche tanto era fatto quinci e quindi che bene vi cadea, ebbe questa\nrisposta: che i Fiorentini erano stati tirati a loro malgrado nella\nguerra dalla soperchia astuzia de\u2019 Pisani, e che avanti li facessono\nrisposta di pace e volessono udire domande de\u2019 Pisani, considerato che\nil fatto non era pur loro, ma dell\u2019universit\u00e0, sopra ci\u00f2 ne voleano\ntenere consiglio; e licenziato il generale, il seguente d\u00ec feciono\nun consiglio di richiesti dove furono oltre a mille cittadini; e ci\u00f2\nfu fatto per richiudere la bocca a\u2019 mormoratori della pace, e per\nschifare la pace che parea vituperosa, presentendosi segretamente\nle disoneste e sconce cose domandavano i Pisani. Adunque si tenne\nquest\u2019ordine, che anzi che volessono i signori e\u2019 collegi udire le\ndomande, vollono che \u2019l detto generale le sponesse nel detto consiglio;\ne prima che mandassono per lui, uno de\u2019 signori si lev\u00f2 nel consiglio\ne assai oscuramente disse, che ci\u00f2 che nel consiglio venia non era\nloro movimento, ma che i priori passati n\u2019aveano di corte avuto alcuno\nodore, e che gli otto della guerra di ci\u00f2 niente sapeano, e che gli\notto gli avviserebbono degli ordini presi per loro nella prosecuzione\ndella guerra e di loro possanza, e appresso Spinello della Camera, il\nquale era pienamente informato dell\u2019entrata e uscita del comune e del\ndebito suo, loro farebbe chiaro di quanto il comune fosse possente a\ndanari. Posato quello de\u2019 signori si lev\u00f2 uno di quelli della guerra,\ne distesamente e apertamente disse, che l\u2019ordine dato per loro era\nquesto, cio\u00e8, che per settantamila fiorini aveano condotto per sei mesi\nquattromila barbute di quelli della Compagnia della stella, la quale\nera in Provenza, intra i quali erano pi\u00f9 di cinquecento gentili uomini,\ne pi\u00f9 nella Magna duemila barbute intra i quali era il conte Giovanni,\nil conte Guido, il conte Ridolfo stratti della casa di Soavia, e che\nal presente n\u2019aveano scritte al soldo tremila, e che le dette brigate\nsi doveano rassegnare in Firenze innanzi l\u2019uscita del mese, e altre\nmolte cose disse le quali poteano sollevare gli animi degli uditori\nalla guerra, soggiugnendo, che tale spesa per la pace schifare non si\npotea. Appresso si lev\u00f2 Spinello della Camera mostrando l\u2019entrata e\nl\u2019uscita del comune, e che pagate le dette brigate per tutto il mese\nd\u2019ottobre il comune rimanea in debito di centossessantasei migliaia\ndi fiorini, di che udite le sopraddette cose gli animi degli uditori\naccesi e sollevati inclinarono alla guerra; e ci\u00f2 fatto, i signori\nfeciono chiamare il generale, e sporre le domande de\u2019 Pisani, le quali\nerano superbe troppo e fastidiose, e tali, che se avessono avuto il\ncomune di Firenze in prigione sarebbono state sconvenevoli, sconce e\ndisoneste, sopra le quali levati molti dicitori in fine di concordia\ndi tutti si prese, che dove pace avere si potesse ragionevole, e quale\ncomportare si potesse, col nome di Dio si prendesse, quanto che no, che\nfrancamente si seguitasse la guerra, e avvenisse ci\u00f2 che avvenire ne\npotesse; vero che non si facesse pace s\u2019avessono fatto lega con messer\nGaleazzo, per la quale si dicea essere ito per ambasciadore de\u2019 Pisani\nin Lombardia Giovanni dell\u2019Agnello.\nCAP. LXXXIII.\n_Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes per lo re di Francia a\nquello di Navarra._\nNel detto anno 1364 a d\u00ec 8 d\u2019aprile, messer Beltramo di Craiche\ncavaliere Brettone Galese, il quale era nelle parti di Normandia,\ncapitano per parte del duca di Normandia prese la villa di Nantes\nche si tenea per lo re di Navarra, e poco appresso prese la villa di\nMellavit, e tutte le fortezze per la gente del detto duca, e furono\nprese pi\u00f9 gente di Pag, e tali che teneano la parte del re di Navarra\ncontro al re di Francia, e fu d\u2019alcuni fatta giustizia.\nCAP. LXXXIV.\n_Come rotto il trattato della pace i Pisani cavalcarono i Fiorentini._\nMentre che il venerabile frate Marco per commissione di papa Urbano\nquinto cercava la pace tra\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani, i Genovesi, Perugini\ne Sanesi mandarono loro ambasciadori per cercare la detta pace insieme\ncol detto frate Marco, il quale ricevuta la risposta dal comune di\nFirenze, che voleva pace dove fosse sopportabile e onesta, si torn\u00f2\na Pisa, e trovando i Pisani per lo caldo della molta buona gente\nd\u2019arme ch\u2019aveano montati in pi\u00f9 altere domande con minacce, tutto\nche la speranza della pace avessono gittata indietro alle spalle, non\ndi manco i detti ambasciadori seguiano la cerca innanzi che le cose\ninzotichissino pi\u00f9, minacciando i Pisani che se la pace prestamente\nnon si prendesse nella forma che l\u2019aveano domandata, che farebbono\nla lor gente cavalcare a desolazione e distruzione del contado di\nFirenze. A\u2019 Fiorentini parea al di dietro avere ricevuto soperchio\noltraggio, e aspettavano in corti giorni l\u2019avvenimento della Compagnia\ndella stella, la quale per sagacit\u00e0 e sollecitudine di messer Galeazzo\ncorrotta per danari ritardava sua venuta, dipoi levata ne fu, e le\nduemila barbute soldate nella Magna, fidandosi in questa speranza, e\nne\u2019 valenti uomini ch\u2019aveano a provvisione, ch\u2019erano messer Bonifazio\nLupo da Parma, messer Tommaso da Spuleto, messer Manno Donati, messer\nRicciardo Cancellieri, e Giovanni Malatacca da Reggio, i quali erano\npregiati maestri di guerra, e stato ciascuno di per s\u00e8 capitano di\ngrande esercito e avutone onore, e gi\u00e0 in Firenze era venuto il conte\nArrigo di Monforte, e in sua compagnia il conte Giovanni e il conte\nRidolfo stratti della casa di Soavia con cinquecento uomini di cavallo\ntutti giovani, e per la maggior parte gentili uomini, grandi e belli\ndel corpo, e quanto per un fiotto di tanta gente a giudizio di tutti\nnon era ricordo che entrasse in Firenze pi\u00f9 bella n\u00e8 meglio in punto\nd\u2019arme e di cavalli, ed esso conte era di bello e gentile aspetto.\nPer le dette cagioni i Fiorentini con pi\u00f9 cuore rifiutarono la pace,\ne le minacce misono a non calere; onde i Pisani posta gi\u00f9 la speranza\ndella pace, avendo seimilacinquecento uomini di cavallo tra Tedeschi\ne Inghilesi capitanati da Anichino di Bongardo e Giovanni Aguto in\nforma di compagnie, e giunti loro oltre a mille cittadini e contadini\ni pi\u00f9 guastatori, licenziarono che intendessono a fare aspra guerra,\nil perch\u00e8 a d\u00ec 13 del mese d\u2019aprile si mossono e passarono per la\nValdinievole, e posarsi nel piano di Pistoia, e in due luoghi puosono\ncampo, e il seguente d\u00ec gl\u2019Inghilesi a schiere fatte si dirizzarono\na Prato, e in su la porta di Prato combatterono i Pratesi, e con mano\npresono il ponte levatoio con maravigliosa sicurt\u00e0 vietando che non si\nlevasse, la quale audacia a\u2019 nostri fu in grande terrore, e a d\u00ec 15\nd\u2019aprile circa a mille uomini a cavallo della brigata degl\u2019Inghilesi\nnel mezzo della notte si partirono del campo, e vennono infino alla\nPorta al prato, onde la terra si scommosse tutta ad arme, e di loro\nquattro gagliardi toccarono la porta, de\u2019 quali l\u2019uno ne rimase, e\nsenza arrestare si partirono con parecchi che trovarono nelle letta, e\ncon alquanti buoi, e tornarono al campo. E il seguente d\u00ec gl\u2019Inghilesi\nper lo stretto di Valdimarina passarono nel Mugello, non senza vergogna\nde\u2019 provveditori del nostro comune, a cui parea che per le civili\ndissensioni Iddio avesse tolto il cuore e \u2019l senno; l\u2019intenzione\ndegl\u2019Inghilesi fu di passare per lo Mugello, e venirsene nel piano di\nsan Salvi, e ivi porre campo, e attenere a\u2019 Fiorentini la promessa di\nfare il prete novello: Anichino dovea tenere campo a Peretola. Passati\nadunque la notte gl\u2019Inghilesi la Valdimarina in sul fare del giorno\ngiunsono a Latera e a Barberino, e trovarono i villani non avvisati e\nmale provveduti, onde ebbono da cento prigioni, e da cento paia di buoi\ne assai bestiame minuto, e trovarono pieno di biada e di vino e d\u2019altra\nroba da vivere, e la cagione fu per allora, che dove i governatori\ndella citt\u00e0 doveano levare le gabelle acciocch\u00e8 la roba venisse alla\nterra, le raddoppiarono, il perch\u00e8 niuno volea recare, volendo innanzi\nstare a rischio del perderla: e ci\u00f2 fu riputato a\u2019 signori in singulare\nfallo, levando l\u2019abbondanza alla citt\u00e0 e lasciando a\u2019 nemici pastura.\nCAP. LXXXV.\n_Come messer Pandolfo pass\u00f2 nel Mugello colla gente da cavallo per\ntenere stretti gl\u2019Inghilesi._\nEssendo gl\u2019Inghilesi passati nel Mugello per mala provvedenza di\nchi potea riparare, messer Pandolfo fu fermo nell\u2019usato pensiero di\nfarsi signore, e disse di volere cavalcare nel Mugello con la gente\ndell\u2019arme che era nella citt\u00e0, ch\u2019era nel torno di dodici centinaia\ndi barbute; gli otto della guerra gliele interdiceano facendogliene\nespressa proibizione, e non senza cagione, avendo rispetto a\u2019 modi per\nlui altra volta tenuti, e veggendo la citt\u00e0 in grave pericolo: egli per\npertinacia seguendo sua intenzione disse, o che cavalcherebbe, o che\nrifiuterebbe l\u2019uficio del capitanato. Gli otto stando pur fermi, per\nla citt\u00e0 ne surse mormorio e sollevamento di scandalo; onde stando il\npopolo insollito sotto ombra di cittadinesca riotta, gli otto temendo\ngli concedettono l\u2019andata, e cavalc\u00f2 con circa a mille barbute, e\nin compagnia del conte Arrigo di Monforte, a cui imposto fu per gli\notto che cura all\u2019operazioni di messer Pandolfo poco fidato al comune\navesse; giunti nel Mugello, il conte s\u2019alloggi\u00f2 nella Scarperia, e\nmesser Pandolfo nel borgo a san Lorenzo. Occorse in quei giorni, che\ncirca a trenta della brigata del conte per avventura si scontrarono in\ncento o pi\u00f9 Inghilesi, e per spazio di due ore insieme si combatterono:\nun gentiluomo della brigata del conte nome Arrigo veggendo il soperchio\ndegl\u2019Inghilesi discese a piede, e con una lancia in mano di sua persona\nf\u00e8 maraviglie, perocch\u00e8, secondo che avemmo da persona degna di fede\nche si trov\u00f2 al fatto, con la detta lancia spuose da cavallo da dieci\nInghilesi de\u2019 quali due morirono, e per lo detto atto e per li compagni\nche francamente lo seguirono gl\u2019Inghilesi inviliti dierono le reni, e\ndi loro, massimamente di quelli ch\u2019erano rimasi a piede, alquanti ne\nfurono presi, alquanti ne rimasono morti nella battaglia. Avemo con\npiacere per tanto di ci\u00f2 fatto ricordo, perch\u00e8 ne\u2019 nostri d\u00ec tanta\nprodezza di rado \u00e8 stata veduta, e per mostrare quanto di valore e di\ncuore a un esercito presta non solo il valente capitano, ma eziandio\nil valente cavaliere, e cos\u00ec il vile vilt\u00e0. L\u2019opere d\u2019arme per tenere\ngl\u2019Inghilesi stretti erano del conte Arrigo e del conte Ridolfo, ch\u2019era\nchiamato il conte Menno, e di loro brigate, ch\u2019altri poco se ne dava\ntravaglio.\nCAP. LXXXVI.\n_Come gl\u2019Inghilesi si partirono del Mugello e tornarsi nel piano di\nPistoia._\nGl\u2019Inghilesi essendosi assaggiati co\u2019 Tedeschi e co\u2019 paesani che aveano\ncominciato a mostrare loro il volto e a volere de\u2019 loro cavalli,\nsentendo che il passare per lo Mugello a san Salvi per i molti\nstretti passi era loro pericoloso, e quasi impossibile, e veggendo\nil luogo dove s\u2019erano condotti, incominciarono forte a dubitare, ed\nera loro di mestiere, se avessono avuto chi avesse voluto attendere\na provvedere contro a loro, come dovea e potea, e tale ne port\u00f2 mala\nfama, massimamente perch\u00e8 loro faltava la vita e per le bestie e per\nle persone, onde loro convenne fuggire alle usate malizie, onde con\nsollecitudine mostrarono di volersi alloggiare a san Michele del bosco,\nafforzandosi di sbarre e palancati, con mettere pure in loro boce\nche riposati alquanto farebbono il cammino di che aveano minacciato a\nmalgrado di chi non volesse, e ci\u00f2 faceano per levare le poste alle vie\nond\u2019erano venuti quelli che v\u2019erano tratti a guardare, mostrando d\u2019ire\ninnanzi non di tornare addietro, e cos\u00ec avvenne, che essendo quelle vie\nnon guardate, la notte di san Giorgio presono loro via per la valle di\nBisenzio e tornarsi nel piano di Pistoia.\nCAP. LXXXVII.\n_Come messer Pandolfo Malatesti si part\u00ec dal servigio del comune di\nFirenze._\nStando messer Pandolfo al Borgo involto in su gli usati pensieri\nfavorati dal male stato de\u2019 Fiorentini, li cadde nell\u2019animo, ch\u2019essendo\nFirenze nel dubbioso e forte partito dove per allora parea che fosse\nlo dovesse gareggiare e tenerlo per idolo; onde volendo tentare se il\nsuo pensiere rispondea col fatto, e per sua parte f\u00e8 dire a\u2019 signori\ndi Firenze e agli otto della guerra, che casi gravissimi e poderosi gli\nerano occorsi nel suo paese pericolosi allo stato suo, e che a riparare\nnecessario era che sua persona vi fosse, e li fece pregare che loro\npiacesse in tanto bisogno non doverli mancare per dodici o quindici d\u00ec\nlicenziarlo: i signori con gli otto ne tennono consiglio di richiesti,\nnel quale muto di dicitori, Bindo di Bonaccio Guasconi disse, che\npensava che \u2019l gentiluomo, amico egli e sua casa del nostro comune,\ndicesse il vero, e che essendo le cose gravi come ponea, non gli andava\nper animo che in cos\u00ec breve spazio di tempo come domandava le potesse\nspacciare, e che non solo per dodici o quindici d\u00ec si licenziasse, ma\nper tutto il tempo che sua condotta durava, e che in suo luogo fosse\nposto il conte Arrigo di Monforte, e cos\u00ec nel consiglio s\u2019ottenne, e fu\neletto il detto Bindo a ire a messer Pandolfo con piacevole commiato.\nBindo v\u2019and\u00f2, e da s\u00e8 a lui aperto li mostr\u00f2 tutti i suoi errori, i\nquali dal popolo erano stati bene conosciuti, e che agevolmente potea\navvenire, che perseverando in cotali pensieri con opera, forse che un\ngiorno il popolo li farebbe un sozzo scherzo, al quale non potrebbono\nporre riparo n\u00e8 i signori n\u00e8 gli otto. Veggendo messer Pandolfo che\nquesto avviso come gli altri gli era venuto fallito, e tornato in\nvergogna, se ne venne a Firenze, e fu a\u2019 signori, e loro disse, che non\nostante che \u2019l suo bisogno fosse grande, per lo presente vedea quello\ndel comune di Firenze era maggiore e pertanto e s\u00e8 e la sua brigata\nalle sue spese offeria al comune: di ci\u00f2 fu ringraziato, e dettoli, che\n\u2019l comune non avea n\u00e8 di lui n\u00e8 di sua brigata bisogno, onde si part\u00ec a\nsua posta senza onore di comune, o di privati cittadini.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come gl\u2019Inghilesi e\u2019 Tedeschi co\u2019 guastatori de\u2019 Pisani s\u2019accamparono\na Sesto, e Colonnata, e santo Stefano in pane._\nGl\u2019Inghilesi usciti del Mugello a salvamento insieme co\u2019 Tedeschi\ne guastatori s\u2019accamparono a Sesto e Colonnata, e per le coste di\nMontemorello, prendendo santo Stefano in pane, e tutte le pianure\nd\u2019intorno, dove soprastettono per alquanti giorni, sicch\u00e8 i guastatori\nde\u2019 Pisani ebbono destro a fare male, e arsono palagi e ricchi abituri\ne altri casamenti per lo piano, e per le coste di Montemorello per\nlo spazio di tre miglia o circa intorno al campo, e riservando a\nlevare del campo i luoghi che per loro necessit\u00e0 aveano riserbati, e\nstando quivi gualdane di loro passarono l\u2019Uccellatoio e Starniano, ed\nentrarono in Pescia luogo aspro e riposto, ove trovarono molta roba\nrifuggita, oltre n\u2019andarono infino a Calicarza, Montile, e Curliano,\npaesi malagevoli assai a cavalcare, senza trovare alcuna contesa.\nAncora infra questo tempo combatterono la Petraia, ch\u2019era loro sopra\ncapo, e aveanla armata e fornita alla difesa i figliuoli di Boccaccio\nBrunelleschi: e nel vero fortemente sdegnavano che sopra tante migliaia\ndi gente d\u2019arme pregiata e famosa signoreggiasse quella piccola\nfortezza in dispregio loro, il perch\u00e8 si deliberarono di vincerla,\ne la prima battaglia colle schiere ordinate fu degl\u2019Inghilesi, dove\ncon acquisto di vergogna alquanti ne furono morti e molti magagnati,\nla seconda de\u2019 Tedeschi in simile acquisto; ultimamente essendo\ncresciuta l\u2019onta e \u2019l dispetto, anzi il levare del campo Tedeschi e\nInghilesi insieme con aspro assalto la combatterono, e niente poterono\nacquistare, se non al modo usato danno e vergogna. Di questo avemo\nfatta memoria per mostrare, che i privati cittadini in que\u2019 tempi pi\u00f9\nerano accorti e valorosi a difendere loro fortezze, che i governatori\ndel comune quelle della citt\u00e0, e massimamente perch\u00e8 confortati, che\nnel rispetto ch\u2019aveano da\u2019 nemici, e poteanlo fare assai leggermente\nnol vollono fare, onde ne risult\u00f2 gran vergogna al comune. L\u2019invidia e\n\u2019l mal talento col poco senno che allora occupava il governamento ogni\nvirtuoso operare impedia. In sul levare del campo i guastatori pisani\narsono tutti i casamenti che per loro ostellaggi aveano riserbati.\nCAP. LXXXIX.\n_Come gl\u2019Inghilesi e\u2019 Tedeschi coi guastatori pisani presono il colle\ndi Montughi e di Fiesole, e combatterono i Fiorentini alla porta a san\nGallo, e fessi Anichino di Bongardo cavaliere._\nL\u2019ultimo d\u00ec d\u2019aprile i nemici mutando campo presono il colle di\nMontughi e di Fiesole, spargendosi per tutte le circostanze infino\na Rovezzano, e il primo d\u00ec di maggio per giorno nomato colle schiere\nfatte se ne vennono sopra la costa della via di san Gallo di sotto al\npodere d\u2019Altopascio, dove erano fatti tre serragli, il primo sopra la\nvia che va a santo Antonio, l\u2019altro sopra la via che va a san Gallo,\nil terzo sopra le case poste sopra via che ne va lungo le mura, e\nquesto era di carri, dove era il conte Arrigo di Monforte con tutta\nla gente da cavallo; a\u2019 primi due serragli erano molti Fiorentini\nusciti di volont\u00e0, i quali impedivano la buona gente dell\u2019arme ch\u2019erano\nalla difesa, e ammoniti da messer Manno Donati, e da messer Bonifazio\nLupo, e da messer Giovanni Malatacca, e dagli altri valenti uomini,\nche si tirassono addietro, e lasciassono fare la gente dell\u2019arme, nol\nvollono fare, il perch\u00e8 furono cagione della perdita de\u2019 serragli con\nmorte e presura di molti di loro. Nello scendere delle schiere un poco\ndavanti due notabili uomini e pregiati in arme, Averardo Tedesco e\nCocco Inghilese, a lento passo l\u2019uno dall\u2019un lato della via l\u2019altro\ndall\u2019altra si calarono gi\u00f9 a\u2019 serragli facendo rilevate prodezze;\nseguendo appresso le schiere vinsono e gettarono in terra i detti\ndue serragli, con danni assai e di morti e di prigioni de\u2019 vogliosi e\ndisordinati Fiorentini, che s\u2019erano voluti mettere alla difesa contro\na\u2019 buoni uomini d\u2019arme, e contra loro volont\u00e0. Averardo pass\u00f2 in sulla\npiazza di san Gallo, e con molti che appresso il seguivano infino al\npi\u00e8 delle case a fronte si f\u00e8 al conte di Monforte, il quale stando\ncome una massa di ferro mai da\u2019 nemici non fu tentato, tutto che le\nfrecce degli arcieri inghilesi che scendeano sopra l\u2019altra brigata\nsembrassono gragnuola. Dalla porta e antiporta e mura scoccavano le\nbalestra, e a tornio e a staffa, che il tuono del romore piuttosto\ncresceano che facessono danno. Scese le schiere, fuoco fu messo in\nsant\u2019Antonio del vescovo, e per simile in molti altri casamenti. In\nquel fuoco, in quel tumulto, in quelle grida Anichino di Bongardo\nsi f\u00e8 cavaliere in sulla costa della via che vede la porta, con\ntanti suoni, con tante grida, che parea che \u2019l cielo tonasse, ed\negli f\u00e8 cavaliere messer Averardo e pi\u00f9 altri, come se fatti fossero\nin battaglia campale: e ci\u00f2 fatto, fu sonato a ricolta, e tutti,\naccortamente senza impaccio si ritrassono addietro chi a Montughi e\nchi a Fiesole, e la notte con l\u2019ordine dato tra loro feciono la festa\nde\u2019 cavalieri novelli, la quale fu in questa forma: che le brigate\na cento i pi\u00f9 a venticinque i meno con fiaccole in mano si vedeano\ndanzare, e l\u2019una brigata si scontrava con l\u2019altra gittando talora le\nfiaccole, e ricevendole in mano, e talora mettendole a giro, e a modo\nd\u2019armeggiatori seguendo l\u2019un l\u2019altro ordinatamente, e queste fiaccole\npassavano le duemila, con gran gavazze di grida e stromenti; e per\nquello che s\u2019intese dalle brigate ch\u2019erano nel piano vicino alle mura\ndispettose parole usavano contra il comune di Firenze, e intra l\u2019altre,\nGuardia studia i collegi, manda pe\u2019 richiesti, e simili parole usate\nnel palagio de\u2019 priori, le quali erano intese e da quelli che erano\nin sulle mura e da quelli ch\u2019erano da pi\u00e8. E per dileggiare il popolo\ndi Firenze in sulle tre ore di notte quetamente mandarono un loro\ntrombettino e un tamburino in sul fosso delle mura della Porta alla\ncroce, i quali sonando come a stormo, il popolo di Firenze tutto si\ncommosse a romore, correndo boci per la terra che i nemici aveano prese\nle mura dove le bertesche erano fatte, e che parte di loro n\u2019erano\ndentro discesi. La paura fu sopra modo, e i cittadini come smemoriati\ncorrevano qua e l\u00e0 per la terra, e le femmine poneano le lucerne alle\nfinestre, e con lamenti l\u2019armavano di pietre. La cosa nel suo aspetto\na vedere orribile era, ma saputo il vero, subitamente si racchet\u00f2 il\nbollore fatto in danno e vergogna come detto \u00e8. Il seguente d\u00ec 2 di\nmaggio schierati tutti passarono Arno di sotto alla Sardigna assai\npresso alla citt\u00e0, e puosono campo a Verzaia stendendosi infino a\nGiogoli e Pozzolatico e per Arcetri, ardendo tutto infino presso alle\nmura; e sopra questo con le schiere fatte, e con le loro barbare strida\ne suoni di stromenti da battaglia vennono verso la porta di san Friano\nper combattere nella forma che fatto aveano a quella di san Gallo. I\nnostri che ne\u2019 giorni passati s\u2019erano assaggiati con loro, e trovato\naveano ch\u2019erano uomini e non leoni, aveano armato il casamento delle\nmonache da Verzaia, e quivi fatte le sbarre ricevettono francamente\nil baldanzoso assalto, rispondendo loro co\u2019 ferri in mano in modo e\nforma che li ributtarono indietro con molti fediti e alcuni morti, il\nperch\u00e8 niente avanzando se non danno e vergogna si ritrassono al campo:\nbene arsono allora sopra il ciglio della citt\u00e0 Bellosguardo e molte\naltre belle e ricche possessioni e palagi, e soprastati per alquanti\ngiorni, per dare agio ai fediti loro i quali passavano il numero di\nduemila, veggendo che i Fiorentini s\u2019ausavano all\u2019arme, e andavano\na riguardo, sicch\u00e8 poco con loro poteano avanzare, e che le brigate\nche uscivano di notte s\u00ec de\u2019 cittadini come de\u2019 contadini, che erano\ntrafitti e aveano bisogno di ristorarsi, stando essi sparti baldanzosi,\ne per dispetto quasi senza guardia veruna, e di prigioni e di cavalli\ne d\u2019uccisioni li danneggiavano forte, si partirono. Il lor viaggio fu\nsopra san Miniato a monte, e sopra l\u2019Ancisa passando per lo Valdarno,\ne loro albergheria fu al Tartagliese, e il seguente d\u00ec feciono vista\ndi combattere la Terranuova, dove trovato la risposta, con alquanti\ndi loro morti e magagnati si partirono, e cos\u00ec mollemente tentarono\ndell\u2019altre terre del Valdarno, il perch\u00e8 aperto s\u2019intese che per\nquella via gli avea volti il danaio: che usciti del contado di Firenze\nin su quello d\u2019Arezzo, e trovandolo sgombro, passarono su quello di\nCortona, e quindi in su quello di Siena facendo danno assai d\u2019arsioni\nprigioni e prede, infine voltisi per la Valdelsa e per la Valdinievole\nsi fermarono in su quello di Pisa a san Piero in campo. Quivi vollono\nvedere la rassegna delle loro brigate, dal tempo ch\u2019entrati erano in\nsul Fiorentino, e trovarono che pi\u00f9 di seicento buoni uomini d\u2019arme\naveano perduti, e oltre a duemila n\u2019erano fediti, de\u2019 quali assai\nposcia perirono.\nCAP. XC.\n_Come il conte Arrigo di Monforte capitano de\u2019 Fiorentini prese e arse\nLivorno._\nNel paesare e nel raggiramento che messer Anichino di Bongardo faceano\nin su quello d\u2019Arezzo insieme con gl\u2019Inghilesi, come abbiamo detto,\nil conte Arrigo di Monforte capitano de\u2019 Fiorentini, e con lui il\nconte Giovanni e il conte Ridolfo colle brigate loro de\u2019 Tedeschi,\nch\u2019erano con quelli del conte Arrigo millecinquecento barbute, e\ncon l\u2019altra gente di cavallo de\u2019 Fiorentini ch\u2019erano per le castella\nalle frontiere, la quale f\u00e8 adunare in san Miniato del Tedesco, e con\ncinquecento balestrieri scelti, e pi\u00f9 con assai Fiorentini a cavallo\ne a pi\u00e8 che di volont\u00e0 l\u2019aveano voluto seguire, e col consiglio di\nmesser Manno Donati, e di certi degli altri provvisionati, de\u2019 quali\ndi sopra facemmo menzione, fatto fornimento da vivere per quindici\ngiorni, venerd\u00ec mattina a d\u00ec 21 di Maggio 1364 si part\u00ec di san Miniato\ndel Tedesco, e la sera prese albergo su l\u2019Era vicino al castello di\nGello, e il sabato mattina passando vicino di Pisa, e facendo quel\ndanno che fare si potea s\u2019accamp\u00f2 a san Piero in Grado. E in quel\ngiorno vennono a Pisa di Lombardia millequattrocento uomini di cavallo\nsotto nome di compagnia, i quali veniano per pigliare inviamento di\nloro mestiere in Toscana. I Pisani vedendosi improvviso giugnere questa\nventura loro donarono duemila fiorini d\u2019oro, ed elli coll\u2019altra gente\nloro che rimasa era in Pisa, come soperchio a\u2019 Tedeschi e Inghilesi che\ncavalcati erano in sul Fiorentino, e con parte del popolo andassono\na combattere co\u2019 Fiorentini ch\u2019erano accampati a san Piero in Grado,\ne cos\u00ec promisono di fare, e preso rinfrescamento, con la gente e col\npopolo uscirono di Pisa schierati, e a pian passo contro i nemici. Il\nconte di Monforte sollecitato era molto da messer Manno che passasse\nil ponte allo Stagno contro Livorno, ed egli dubitando forte stava\nsospeso, e per conforto che fatto gli fosse non si attentava a passare\nquello lagume, e non sapere dove, se non quando vidde il gran polverio\ndella gente ch\u2019usciva di Pisa, quindi mosse passo, e di presente\nmesser Manno chiam\u00f2 Filippone di Giachinotto Tanaglia, che quivi\nappresso di lui era, e prese due scuri in mano tagliarono due pali in\nsu che si posava il ponte, e lo feciono nello stagno cadere, e a pena\naveano fornito il servigio che i Pisani sopraggiunsono e per acqua e\nper terra. Messer Manno conoscea tutti i soldati che praticavano in\nLombardia, e pertanto domand\u00f2 di volere parlare con alcuno di loro\ncaporali, e tantosto vennono parecchi, e con lieta accoglienza lo\nviddono, rallegrandosi ch\u2019aveano cessato materia di zuffa, e a lui\ndissono, che aveano ricevuto duemila fiorini d\u2019oro perch\u00e8 commettessono\nbattaglia con loro, e che credeano che i Pisani attenderebbono a loro\npersecuzione, ma che essi per suo amore lentamente procederebbono, e\nda lui preso congio, a passi scarsi si tornarono verso Pisa. E in ci\u00f2\ncadde perdimento di tempo a\u2019 Pisani, utile e necessario alla gente de\u2019\nFiorentini, come pu\u00f2 qualunque intendente udendo il fatto comprendere,\nperocch\u00e8 deliberarono i Pisani che la detta gente cavalcasse a\nMontescudaio, e togliesse il passo a\u2019 Fiorentini, e se ci\u00f2 fosse per\nmala fortuna avvenuto, senza dubbio tutta la gente ch\u2019era in quella\ncavalcata era perduta. La detta gente la sera soprastette in Pisa,\ne la mattina seguente persono tempo tra nell\u2019armarsi e mettersi in\nordine. I Fiorentini in quel giorno che passarono il ponte allo Stagno\npresono Porto pisano e Livorno, e trovaronlo sgombro, perocch\u00e8 quelli\nche dentro v\u2019erano diffidandosi di poterlo tenere da tanto sforzo,\nprestamente si diedono allo sgombrare fuggendo loro famiglie e cose,\ne cos\u00ec le mercatanzie in mare in su le navi, che solo una balla di\npanni e una ricca cortina nel fondaco trovato non fu, or non di manco\nmesso in preda quello che trovato vi fu, il conte fece ardere la terra.\nMesser Manno udito il generale avviso della gente dell\u2019arme che s\u2019era\ndata a servire a\u2019 Pisani, come uomo avvisato e pratico de\u2019 casi che\nsogliono ne\u2019 fatti dell\u2019arme avvenire, subito gli corse in pensiero,\nche i Pisani non rivolgessono quella gente in Maremma a tor loro il\npasso di Montescudaio, e cominci\u00f2 forte a dubitare, e avvisonne il\ncapitano, e vennono presto a\u2019 rimedi, perocch\u00e8 messasi innanzi la gente\nda pi\u00e8, perch\u00e8 del camminare avessono pi\u00f9 agio, e rinfrescato alquanto\ni loro cavalli, alle tre ore di notte presono viaggio, e dirizzaronsi\nverso Montescudaio per vie montuose e aspre e malagevoli, e tutta\nquella notte senza arresto cavalcarono, e il seguente d\u00ec con dare poco\nd\u2019agio alle bestie e a loro misono in cavalcare come fossono in fuga, e\nalle tre ore di notte uscirono del passo di Montescudaio, e ridussonsi\nin su quello di Volterra in luogo sicuro, trovandosi avere camminato in\nventiquattro ore miglia trentotto di pessima via. E in quella medesima\nnotte circa alle sette ore la gente de\u2019 Pisani giunse a Montescudaio\nper torre il passo, e trovando che i Fiorentini erano passati, dello\nscorno che loro parea avere ricevuto presono cordoglio. Emmi stato\npiacere particolarmente narrare questa particella di storia per\ndimostrare quello che pu\u00f2 e fa la fortuna nelle maledette confusioni\ndelle guerre. Ben furono di quelli che vollono dire, che la cavalcata\nera stata di coscienza de\u2019 Pisani, perch\u00e8 pace si potesse cercare, e\nse vero fu, alla Pisanesca bel tratto faceano, avendo il caso fortuito\nloro prestato la gente dell\u2019arme, colla quale stimarono poterlo fare, e\nassai presso vi furono.\nCAP. XCI.\n_Come il corpo del re Giovanni di Francia fu trasportato di Londra a\nParigi, e come onorato._\nPer tramezzare alquanto la continuanza delle scritture nella guerra\ntra\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani ne occorre di scrivere, che \u2019l d\u00ec primo di\nmaggio il corpo del re Giovanni di Francia di Londra ne fu portato a\nsanto Antonio presso a Parigi la sera, e quivi per onorarlo e farne\nl\u2019esequie reale stette quattro giorni, e a d\u00ec 5 detto mese ne fu\nportato a nostra Donna di Parigi accompagnato da tutte le processioni\ndelle chiese e regole di Parigi, e da tre suoi figliuoli, ci\u00f2 furono,\nCarlo primogenito delfino di Vienna e duca di Normandia, Luigi duca\nd\u2019Angi\u00f2, Filippo duca di Torenna lo pi\u00f9 giovane di tutti, e fuvvi lo\nre di Cipri, Giovanni duca di Berr\u00ec era in Inghilterra: e portarono il\ncorpo del detto re quelli di parlamento secondo loro uso; e ci\u00f2 \u00e8 di\nragione, perch\u00e8 elli rappresentano la giustizia in luogo del re: e a d\u00ec\n6 si disse la messa, e subito il corpo ne fu portato a santo Dionigi,\nseguendo appresso d\u2019esso i suoi tre figliuoli Carlo Luigi e Filippo, e\nil re di Cipro, e sopra i franchi della villa, poi montati a cavallo\ninfino a santo Dionigi, e a d\u00ec 7 si f\u00e8 l\u2019esequio a santo Dionigi. E\nseppellito il detto corpo con grande onore, tantosto appresso Carlo suo\nprimogenito se n\u2019and\u00f2 in un pratello, e appoggiato ad un fico ricevette\npi\u00f9 omaggi da\u2019 peri di Francia e da\u2019 grandi baroni, e a d\u00ec 9 si part\u00ec\nper andare a Rems a prendere la corona.\nCAP. XCII.\n_Come messer Beltramo de Cloachin sconfisse il luogotenente del re di\nNavarra in Normandia._\nNel detto anno a d\u00ec 16 d\u00ec Maggio, messer Beltramo de Cloachin si\ncombatt\u00e8 davanti Choncel presso alla Croce di san Leffon contra al\nCaptal del Comuff luogotenente del re di Navarra in Normandia, e fu il\ndetto Captal sconfitto e preso, e la maggior parte di sua gente morta\ne presa; e per avere il detto Captal lo re di Francia diede al detto\nmesser Beltramo tutta la Longavilla e la Giusfort ch\u2019erano state del re\ndi Navarra. E lo re di Francia ec.\n_Qui manca il fine di questo capitolo con tre altri capitoli delle\nrubriche che erano cos\u00ec intitolati._\nCAP. XCIII.\n_Come Carlo primogenito del re di Francia fu consegrato a Rems a re di\nFrancia._\nCAP. XCIV.\n_Come si combatterono messer Carlo di Bos duca di Brettagna, e messer\nGianni di Monforte._\nCAP. XCV.\n_Come i Fiorentini con la forza del danaio ruppono la compagnia de\u2019\nTedeschi e Inghilesi, e levaronla da provvisione de\u2019 Pisani._\n_Per supplire in parte a ci\u00f2 che manca in questo luogo nel codice\nRicci, ecco ci\u00f2 che ne fornisce l\u2019Epitome dell\u2019Istorie dei tre Villani\ndi Domenico Boninsegni, che poco addietro ho citato._\n\u00abEssendo le genti de\u2019 Pisani a san Piero in campo, e i Fiorentini\nvedendosi mancare la speranza della Compagnia della Stella, per\noperazione di messer Galeazzo, e della gente della Magna, cercarono\naccordo con gl\u2019Inghilesi e\u2019 Tedeschi ch\u2019erano presso alla fine di loro\ncondotta, e i Pisani cercavano di riconducerli, pure vinsero l\u2019opere\nde\u2019 Fiorentini, che gi\u00e0 segretamente avevano dato ad Anichino novemila\nfiorini quando erano in sul contado di Firenze, e alla sua brigata\nne donarono trentacinque migliaia, e agl\u2019Inghilesi settantamila, e\ntutti si partirono dal servigio de\u2019 Pisani, eccetto Giovanni Aguto con\nmilledugento Inghilesi: e anche in segreto feciono patto con messer Ugo\ndella Zucca e altri Inghilesi. I patti con queste compagnie in sostanza\nfurono, che per cinque mesi non sarebbono contro il nostro comune, o\nsuoi sudditi o accomandati in alcun modo; anzi tutti n\u2019andarono in su\nquello di Siena a predare e ardere, per merito di quello feciono alla\nCompagnia del cappelletto soldati nostri.\u00bb\nCAP. XCVI.\n_Come i Fiorentini presono in capitano di guerra messer Galeotto\nMalatesti._\n\u00abFatto l\u2019accordo che di sopra \u00e8 detto, parve a\u2019 governatori di Firenze\nnecessario d\u2019avere un capitano italiano, e procacciando messer Galeotto\nMalatesti, secondo si disse, per cancellare la disgrazia con la quale\ns\u2019era partito il suo nipote, infine l\u2019ottenne, e fu eletto nostro\ncapitano, con assai ammirazione di molti agli scherni ricevuti dal\nnipote, e venne in Firenze a d\u00ec 17 di luglio a ore ventuna per i\nconsigli d\u2019astrolagi. E innanzi che scendesse da cavallo appi\u00e8 della\nporta del palagio de\u2019 priori con le usate solennit\u00e0 prese il bastone e\nl\u2019insegne, e lui di\u00e8 quella de\u2019 feditori al conte Arrigo di Monforte,\ne fecelo vece capitano; la reale di\u00e8 a messer Andrea de\u2019 Bardi, e\naltre ad altri cittadini, e senza arresto usc\u00ec di Firenze, e posate\nl\u2019insegne in Verzaia torn\u00f2 in Firenze, e per intendersi co\u2019 signori\ne altri uficiali dell\u2019informazione della guerra, e soprastette alcuni\nd\u00ec, perch\u00e8 voleva piena bal\u00eca di potere dare a sua volont\u00e0 a\u2019 soldati\npaga doppia e mese compiuto.\u00bb Alla fine essendo fuori le insegne, ed\negli stando pertinace, per lo meno male e meno vergogna di comune\nla sua domanda fu messa a esecuzione, la quale i sottili venditori\nnon ebbono per meno che domandare giurisdizione di sangue. Avuto suo\nintendimento, mosse a d\u00ec 23 del mese di giugno, accompagnato infra gli\naltri da trecento cittadini ben montati e riccamente armati, i quali\nspontaneamente vi cavalcavano per vendicare l\u2019ingiurie de\u2019 Pisani\nnovellamente fatte al loro comune.\nCAP. XCVII.\n_Battaglia tra\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani fatta nel borgo di Cascina, nella\nquale i Fiorentini furono vincitori._\nDomenica, a d\u00ec 29 di luglio anni 1364, rivolto l\u2019anno che nel\nmedesimo giorno i Pisani aveano corso il palio al ponte a Rifredi,\nfatti cavalieri, battuta moneta, impiccati asini, e fatte molte altre\nderisioni e scherne a\u2019 Fiorentini, messer Galeotto Malatesti capitano\nde\u2019 Fiorentini, movendo la notte dinanzi campo da Peccioli, la mattina\ns\u2019accamp\u00f2 ne\u2019 borghi di Cascina presso di Pisa a sei grosse miglia,\nma di via piana e spedita, e infra il giorno per lo smisurato caldo\nle tre parti e pi\u00f9 dell\u2019oste, che erano oltre di quattromila uomini\ndi cavallo che di soldo, che d\u2019amist\u00e0, e che de\u2019 Fiorentini, che per\nonorare loro patria di volont\u00e0 erano cavalcati, e di undicimila pedoni,\ns\u2019era disarmata, e quale si bagnava in Arno, quale si sciorinava al\nmeriggio, e chi disarmandosi in altro modo prendea rinfrescamento.\nE il capitano, s\u00ec perch\u00e8 molto era attempato, s\u00ec perch\u00e8 del tutto\nancora libero non era della terzana, se n\u2019era ito nel letto a riposare\nsenza avere considerazione quanto fosse vicino all\u2019astuta volpe, e\nal volpone vecchio Giovanni dell\u2019Aguto, e tutto che al campo fossono\nfatti serragli, deboli erano, e cura sufficiente non era data a chi\nli guardasse; il perch\u00e8 avvenne, che il valente cavaliere messer\nManno Donati, come colui a cui toccava la faccenda nell\u2019onore, andando\nprovveggendo il campo e i modi che la gente dell\u2019arme tenea, conosciuto\nil gran pericolo in che il campo stava, e temendo che nel fatto non\ngiocasse malizia, e dove no, quello che ragionevolmente secondo uso\ne costume di guerra ne dovea e potea avvenire, e tantosto n\u2019avvenne,\nmosso da fervente zelo incominci\u00f2 a destare il campo, e dire, noi\nsiamo perduti, e con queste parole se n\u2019and\u00f2 al capitano, e lo mosse\na commettere in messer Bonifazio Lupo e in altri tre e in lui la cura\ndel campo; ci\u00f2 fatto messer Manno di subito corse al pi\u00f9 pericoloso\nluogo, e donde l\u2019offesa pi\u00f9 grave e pi\u00f9 pronta potea venire, cio\u00e8 alla\nbocca della strada che si dirizzava a san Savino e quindi a Pisa, e\nil serraglio il quale era debole fece fortificare, e alloggiovvi alla\nguardia i fanti aretini con alquanti pregiati Fiorentini, e con loro i\nfanti de\u2019 Conti di Casentino; e perch\u00e8 nel capo li bolliva per diversi\ne ragionevoli rispetti quello che di presente ne segu\u00ec, aggiunse\nalla guardia messer Riccieri Grimaldi con quattrocento balestrieri\ngenovesi. I Pisani avendo per loro spie e dai luoghi vicini al campo,\ne massimamente da san Savino, dello sciolto e traccurato reggimento\ndel campo, ma non della provvisione fatta per messer Manno, perch\u00e8 al\nfatto fu troppo vicino, conferito con Giovanni dell\u2019Aguto sopra la\nmateria, infine in lui commisono il tutto dell\u2019impresa, e il popolo\nanimoso e voglioso a furore presa l\u2019arme nelle braccia sue si pose\ncon lieta speranza di vittoria, quasi siccome non dovesse potere\nperdere. Giovanni Aguto preso il carico senza perdere punto di tempo\ndiede ordine a quanto fu di mestiere, e usc\u00ec col popolo di Pisa, e f\u00e8\ncapo a san Savino, e come mastro di guerra f\u00e8 il campo de\u2019 Fiorentini\nper tre riprese assalire da gente che prima era fuggita che giunta,\naffinch\u00e8 i nemici attediati non conoscessono il vero assalto quando\nvenisse, e venneli fatto, che \u2019l campo fu tre volte mosso ad arme dal\ncampanaro indarno, e il capitano turbato di suo riposo f\u00e8 comandare\nal campanaro alla pena del pi\u00e8, che che che si vedesse non sonasse\nsenza licenza sua. Appresso il detto Giovanni aspett\u00f2 la volta del\nsole, perch\u00e8 i raggi fedissono nel volto de\u2019 nemici, e a\u2019 suoi nelle\nspalle. Ancora per la pratica ch\u2019avea del paese conobbe, che a tale\nora surgea un\u2019aura che la polvere venia a portare negli occhi de\u2019\nnemici. Solo in uno per gl\u2019intendenti giudicato fu che egli errasse,\nche non misurando le miglia da san Savino a Cascina, che sono quattro\ndi polveroso e rincrescevole piano, n\u00e8 avendo rispetto alla fiamma del\nsole che divampava il mondo, n\u00e8 al grave peso dell\u2019arme, fidandosi\nnella giovent\u00f9 e prodezza de\u2019 suoi Inghilesi nati e cresciuti nelle\nguerre di Francia, a\u2019 quali per animarli e soperchiare ogni fatica\ne ogni paura avea messo che nel campo erano quattrocento Fiorentini,\ntal buono prigione per mille, tale per duemila fiorini, e del tutto\nignoranti dell\u2019arme, esso f\u00e8 tutta gente scendere a pi\u00e8, il perch\u00e8\nlassi e mezzi stanchi giunsono al campo. Mosselo a ci\u00f2 fare due\nragioni, l\u2019una perch\u00e8 la gente a pi\u00e8 pi\u00f9 chetamente cavalca, l\u2019altra\nperch\u00e8 leva meno polverio, immaginando, come avvenne, che prima fossono\nal campo che sentiti, e cos\u00ec prendere il campo di furto prima che\nsi potesse ordinare: e tutte le dette cose fatte furono per Giovanni\nAguto, che niente ne sent\u00ec messer Galeotto, o per difetto di spie, o\nperch\u00e8 poco curasse ci\u00f2 che potessono fare i nemici, e questo \u00e8 pi\u00f9 da\ncredere. Adunque messi nella prima fronte delle schiere quelli aspri\ne duri Inghilesi cui tirava la voglia della preda, tutto l\u2019esercito\nf\u00e8 muovere quando gli parve, e prima i suoi Inghilesi furono vicini\nalle sbarre che da\u2019 nostri fossono sentiti. Il romore e le strida del\nsubito assalto a\u2019 nostri furono le spie. I fanti che posti erano alla\nguardia del luogo, i quali per lo giorno furono assai pi\u00f9 che uomini,\nfrancamente presono l\u2019arme non curando le spaventevoli strida, ma\nordinati di subito alla resistenza non si lasciarono torre una spanna\ndi terra. E il valente messer Riccieri Grimaldi compartiti i suoi\nbalestrieri dove necessario gli parve, e allogatine gran parte nelle\nruine delle case, le quali erano di mattoni, e pertugiate e di costa a\u2019\nnemici, confortandoli a ben fare, e sollecitandoli dolcemente e qui e\nquivi a rinterzare colla forza de\u2019 verrettoni rintuzz\u00f2 la fiera rabbia\nde\u2019 baldanzosi nemici. Mentre che la battaglia era e quinci e quindi\nanimosamente attizzata alle sbarre, il vero grido del fatto come era\nsenza suono di campana o altro sollecitamento di capitano corse per lo\ncampo e lo strinse ad armare, e il primo che giunse al soccorso alle\nsbarre, come quelli che temendo sempre stava in punto, fu messer Manno\nDonati, il quale veggendo quivi soprabbondare gente da cavallo, per\nnon stare indarno usc\u00ec con tutta sua brigata del campo, e percosse i\nnemici ne\u2019 fianchi, conturbando gli ordini loro, e facendo loro danno\nassai; e in poca d\u2019ora vennono alle sbarre il conte Arrigo di Monforte\ncolla insegna de\u2019 feditori, e con lui il conte Giovanni e il conte\nRidolfo chiamato dal volgo il conte Menno, e costui come giunse alle\nsbarre le f\u00e8 gettare in terra, e si avvent\u00f2 sopra i nemici facendo\ncolla spada cose da tacerle, perch\u00e8 hanno faccia di menzogna. Per\nsimile il conte Arrigo co\u2019 suoi Tedeschi sollecitando i cavalli colli\nsproni senza averne riguardo contro a\u2019 nemici gli ruppono, passando\ntutte loro schiere infino alle carra che da Pisa recavano e veniano\ncon vino per rinfrescare loro brigata. Il sagace messer Giovanni\ndell\u2019Aguto, il quale era nell\u2019ultima schiera co\u2019 suoi caporali e altri\npregiati Inghilesi, avendo compreso che la testa delle sue schiere non\nera di fatto entrata nel campo come si credette, e che la resistenza\nera dura, si giudic\u00f2 vinto, e senza aspettare colpo di spada di buon\npasso co\u2019 detti caporali si ricolse a san Savino, dove aveano lasciati\ni loro cavalli, lasciando nelle peste il popolo de\u2019 Pisani faticato, e\npoco uso e accorto negli atti dell\u2019arme. I Genovesi Aretini e\u2019 fanti\ndell\u2019Alpe come vidono rotte le schiere de\u2019 Pisani, e mettersi in\nfuga, seguitando la caccia ne presono assai. Essendo adunque per gli\nAretini Fiorentini e\u2019 fanti del Casentino alle sbarre ben sostenuta\nla puntaglia de\u2019 nemici, e mezza vinta loro pugna, per i balestrieri\ngenovesi e per i Tedeschi in poco tempo recati a fine, il capitano f\u00e8\nmuovere l\u2019insegna reale, la quale per spazio d\u2019un miglio o poco pi\u00f9 si\ndilung\u00f2 dal campo, sotto il cui riguardo assai d\u2019ogni maniera si misono\na perseguitare i nemici, e trovandoli sparti in qua e in l\u00e0, lassi e\nspaventati, ne presono assai. Stando la cosa in estrema confusione\nper i Pisani, per alcuni valenti e pratichi d\u2019arme, parendo loro\nconoscere il vantaggio, consigliato fu messer Galeotto che seguitasse\nla buona fortuna, la quale li promettea la citt\u00e0 di Pisa: rispose,\nche non intendea il giuoco vinto mettere a partito, e pi\u00f9 f\u00e8, che\ntantosto f\u00e8 sonare alla ricolta, sotto il dire che temea degli aguati\nde\u2019 sottrattori e sagaci nemici; onde molti che sarebbono stati presi\nebbono la via libera a fuggirsi, e massimamente gl\u2019Inghilesi ch\u2019erano\nfediti e rifuggiti in san Savino, n\u00e8 osavano sferrarsi de\u2019 verrettoni\nche giunti in Pisa, dov\u2019ebbono solenni medici, e in pochi giorni gran\nnumero ne per\u00ec. Tornato il capitano al campo, e cercato il luogo dove\nfu la battaglia, assai vi si trovarono morti, ma molti pi\u00f9 il seguente\nd\u00ec per le fosse e per le vigne, quale per stracco, quale di ferite, e\nmolti colla sete in Arno mettendovisi dentro vi annegarono. Stimossi\nche i morti per detta cagione passassono i mille: i presi furono\nvicini a duemila, de\u2019 quali tutti i forestieri furono lasciati, e i\nPisani presi da quelli ch\u2019erano venuti al servigio del comune si furono\nloro. Tutta gente di soldo fu per messer Galeotto in segreto istigata\ne sollecitata a domandare a lui paga doppia e mese compiuto, ed egli\nper la bal\u00eca presa dal comune la promesse loro, che mont\u00f2 a dannaggio\ndel comune circa a centosettantamila fiorini e pi\u00f9, perch\u00e8 presa la\nsperanza della detta promessa gran quantit\u00e0 di ricchi e buoni prigioni\ni soldati trabaldarono, e feciono con poca di cortesia riscuotere.\nForte e molto di\u00e8 che pensare a quelli savi e valenti cittadini, che in\nque\u2019 giorni si trovarono nel numero de\u2019 reggenti, messer Galeotto, il\npi\u00f9 famoso uomo allora d\u2019Italia in cose militari e in podere d\u2019arme,\nmeritasse d\u2019essere in tal forma assalito nel campo da uomo non meno\nfamoso n\u00e8 meno saggio in simili atti di lui, e che esso fosse l\u2019autore,\nche i soldati per difendere il campo contro buono uso di gente d\u2019arme\npertinacemente volessono eziandio e con minacce e atti disonesti paga\ndoppia e mese compiuto, le quali cose diligentemente ponderate furono\ncagione d\u2019affrettare il trattato della pace, dando di ci\u00f2 pensiere ad\nalquanti discreti e intendenti cittadini. Ma noi tornando al processo\ndella guerra, il d\u00ec seguente, che fu l\u2019ultimo di luglio, messer\nGaleotto, con tutto l\u2019esercito e con i prigioni, girandosi pure vicino\na Pisa per tornarsene a san Miniato del Tedesco assai bene in ordine e\ncolle schiere fatte, in quello cavalcare f\u00e8 cavaliere Lotto di Vanni da\nCastello Altafronte, giovane di gentile aspetto, e degli accomandati al\ncomune di Firenze, Piero de\u2019 Ciaccioni di san Miniato, e Bostolino de\u2019\nBostoli d\u2019Arezzo.\nCAP. XCVIII.\n_Come furono assegnati i prigioni al comune da\u2019 soldati, ed entrarono\nin Firenze in sulle carra._\nEssendo condotti i prigioni pisani in Monticelli fuori della porta\na san Frediano di Firenze, alquanta di resistenza in parole feciono\ni soldati di non darli se certi non fossono di paga doppia e mese\ncompiuto, e conobbesi essere moto altrui e a mal fine; il perch\u00e8\nricevuta speranza d\u2019averla da quelli savi cittadini che con loro\nne parlarono, diedono liberamente i prigioni, i quali ricevuti con\ndispettoso e vile spettacolo, col capitano, con l\u2019insegne, e con la\ngente dell\u2019arme furono messi in citt\u00e0, perocch\u00e8 i popolani di basso\nstato con alquanti d\u2019un poco meno che mezzano furono allogati in sulle\ncarra, e furono quarantaquattro carrate; a\u2019 nobili e gente da bene fu\nconceduto il venire a cavallo. E innanzi che questa pompa entrasse\nnella citt\u00e0, tutte le campane del comune cominciarono a sonare alla\ndistesa acciocch\u00e8 tutto il popolo traesse a vedere, e dinanzi alle\ncarra tutti gli stromenti e suoni del comune, e cos\u00ec quelli della\nparte guelfa, vista certamente esemplare di diversa e varia fortuna,\nverificante quello disse David, che disse: Vario \u00e8 l\u2019avvenimento della\nguerra, e quinci e quindi consuma il coltello. I prigioni furono\nallogati nelle prigioni del comune il pi\u00f9 abilmente che si pot\u00e8, e\ndalle buone e pietose donne fiorentine a gara furono abbondantemente\nprovveduti di tutto ci\u00f2 che loro bisognava.\nCAP. XCIX.\n_Come la parte guelfa di Firenze prese a far festa di san Vittore, e\nperch\u00e8._\nIn questa vittoria universale che s\u2019ebbe del popolo di Pisa, la quale\nnon pensata n\u00e8 cercata fu, ma piuttosto recata, perch\u00e8 singulare, e fu\nnel giorno che la santa Chiesa fa festa di san Vittore papa e martire\nglorioso, la parte guelfa di Firenze ad eterna memoria di tanto fatto\nprese di fare festa in Firenze ogni anno di san Vittore divotamente,\ncome a patrone de\u2019 guelfi, a similitudine come san Barnaba: e feciono\nin santa Reparata fare una cappella in reverenza del detto santo, con\nintenzione di migliorarla, perch\u00e8 venendo la chiesa a sua perfezione\nstare non pu\u00f2 quivi dov\u2019\u00e8, e ogni anno vi fanno solennemente celebrare\nla sua festa con bella offerta della parte, e poi nel giorno fanno\ncorrere un ricco palio di drappo a figure foderato di drappo vergato:\ne vollono e tennono che l\u2019arti guardassono il giorno, e cos\u00ec l\u2019altro\npopolo.\nCAP. C.\n_Come la gente dell\u2019arme del comune di Firenze prese tira di non\ncavalcare, e quello ne segu\u00ec._\nFatta la festa de\u2019 prigioni, per contentamento del popolo, che non\nsi potea vedere sazio di vendetta dell\u2019ingiuria in ultimo fatta per i\nPisani con la forza d\u2019Anichino di Bongardo e degl\u2019Inghilesi, tutta la\ngente del comune col capitano usc\u00ec fuori per cavalcare in su quello\ndi Lucca, ma imbizzarrita sopra volere paga doppia e mese compiuto,\ncome da altrui erano nel segreto inzigati, si ferm\u00f2 fra Montetopoli\ne Marti, e quivi stettono infino a d\u00ec 18 d\u2019agosto assai in atti e\nin parole turbata contro al nostro comune: in fine vinta la gara e\nconseguito loro intento per meno male, cavalcarono i nemici afflitti\ne tribolati oltre a modo, e a d\u00ec 28 del mese messer Galeotto ferm\u00f2\nl\u2019oste a san Piero in campo. Bene avvenne infra il tempo, che essendo\ncondotti gl\u2019Inghilesi dal comune di Firenze, andarono per ubbidire il\ncapitano, e puosono di per s\u00e8 campo, e, o che i Tedeschi sollevati da\nsagace ingegno per vedere peggio, o pur perch\u00e8 la gloria dell\u2019arme\nnon potessono patire di vedere gl\u2019Inghilesi, il seguente d\u00ec vennono\na riotta con loro, e ordinati e provveduti gli assalirono al campo\ndi ci\u00f2 niente pensati. La zuffa fu aspra e pericolosa assai, e quinci\ne quindi ne morirono, e molti ne furono magagnati. Gl\u2019Inghilesi loro\ncampo francamente difesono, tutto che predati e soperchiati fossono\nda\u2019 Tedeschi, come sprovveduti: e quel giorno il capitano con gli altri\ncaporali del campo loro feciono fare triegua per tre d\u00ec, e il seguente\nd\u00ec poi per quindici. E in quello inviluppamento il capitano con tutta\nla gente dell\u2019arme, eccetto gl\u2019Inghilesi che si rimasono al campo\nloro, cavalcarono in su quello di Lucca, e feciono campo nel borgo\ndi Moriano, facendo danni e prede assai. I Fiorentini per dilungare\ngl\u2019Inghilesi da\u2019 Tedeschi glie ne mandarono nel Valdarno di sopra. In\nqueste tenebre e confusioni i governatori del comune di Firenze per\nfuggire la grande e incomportabile spesa dell\u2019arme, e\u2019 loro dangieri\ne pericoli, come fu tocco in parte di sopra, e ne\u2019 segreti e pubblici\nconsigli determinarono che a pace si venisse, e cura ne dierono a dieci\nbuoni e discreti cittadini; e infra il tempo l\u2019ambasciadore del santo\npadre col favore degli ambasciadori de\u2019 comuni di Toscana duplicando\nessa sollecitudine, perch\u00e8 vedeano le cose de\u2019 Pisani per ire in\nfascio, e in mala parte e tosto, tanto sollecitarono, che i Pisani\nmandarono loro solenni ambasciadori alla terra di Pescia con mandato\npieno a conchiudere la pace. Il comune di Firenze appresso vi mand\u00f2\nmesser Amerigo Cavalcanti, messer Pazzino degli Strozzi, messer Filippo\nCorsini, messer Luigi Gianfigliazzi, e Gucciozzo de\u2019 Ricci per simil\nmodo col mandato larghissimo, n\u00e8 per\u00f2 tanto, che li quinci e li quindi\ndisposti alla pace tanto seppono e poterono onestamente avacciare, che\nGiovanni dell\u2019Agnello, tutto sollevato e disposto dal consiglio e caldo\ndi messer Bernab\u00f2 a farsi signore di Pisa, pi\u00f9 non avacciasse a farsi\nsignore, prevenendo la pace la quale gli tagliava ogni suo pensiero e\nrendevalo vano.\nCAP. CI.\n_Come Giovanni dell\u2019Agnello si fece signore di Pisa sotto titolo di\ndoge._\nGiovanni dell\u2019Agnello cittadino di Pisa di gesta popolare, per\nantichit\u00e0 di sangue non chiaro e per ordine mercatante, piuttosto\nscaltrito e astuto che saggio, presuntuoso a maraviglia e vago di cose\nnuove, e sopra tutto sollecito, questi era in questi giorni tornato\nda messer Bernab\u00f2 dove ito era per ambasciadore del suo comune, e col\ntiranno avea tenuto trattato che i Pisani fossono suoi accomandati,\ned egli gli atasse con darli delle terre loro, e per detta cagione da\nlui ebbe in prestanza trentamila fiorini. Di questo trattato nacque il\nbaldanzoso parlare e pensiero di Giovanni dell\u2019Agnello di farsi signore\ndi Pisa, immaginando che venendo Pisa e le membra sue a tiranno, i\nFiorentini fossono pi\u00f9 contenti di lui che di messer Bernab\u00f2. Essendo\nadunque Pisa sospesa, in tremore e spavento, e pi\u00f9 volte abbandonati\ndalla speranza della pace, feciono un gran consiglio di pi\u00f9 gravi e\nnotabili cittadini della terra, nel quale fu messer Piero di messer\nAlbizzo da Vico, avanti che andasse per ambasciadore di Pisa alla terra\ndi Pescia per conchiudere la pace, e il consiglio fu di provvedere a\nloro stato: e intra gli altri vi fu il detto Giovanni dell\u2019Agnello, il\nquale era reputato buono mercatante e fedele cittadino; costui levato\nin consiglio os\u00f2 dire, che necessario li parea che si venisse a signore\nper un anno, dirizzando il suo parere che quel fosse messer Piero di\nmesser Albizzo da Vico dottore di legge, il quale con ogni istanza che\nseppe quel carico rifiut\u00f2, e fulli cagione di affrettare sua gita a\nPescia ad accozzarsi con gli ambasciadori fiorentini. Veggendo Giovanni\ncontradire a messer Piero, come stim\u00f2, si rimise a consigliare che\npure convenia a uno degli altri pigliare quella sollecitudine, cura\ne gravezza: e allora ser Vanni Botticella, anticamente per genia di\nbeccaio, s\u2019offerse di prendere quel carico. Giovanni dell\u2019Agnello\ndisse, che buono e sufficiente era, ma che gli bisognava d\u2019avere\ntrentamila fiorini al presente per pagare la gente dell\u2019arme: a\nquesto rispose ser Vanni non si sentire sofficiente, e per quel giorno\nrimasono, che ogni uno si pensasse d\u2019uno che a ci\u00f2 fosse sofficiente,\ne altra volta tornasse il consiglio. Di questo strano ragionamento\ne spaventevole consiglio surse, che uno de\u2019 seguenti d\u00ec in sul fare\ndella sera molti buoni e cari cittadini, avendo presa sospezione e\ngelosia del dire del detto Giovanni cos\u00ec affettatamente in consiglio e\ncon fronte pertinace, e perch\u00e8 nel mormorio del popolo voce correa che\nesso facea ragunata di fanti, s\u2019andarono ad armare, e armati insieme se\nn\u2019andarono al palagio degli anziani, e questo tantosto venne a notizia\ndi Giovanni dell\u2019Agnello, che continovo stava in sentore, ed egli\npensando che farebbono quello che feciono, sagacemente e prestamente si\nmise a\u2019 ripari, e i fanti che egli avea stribu\u00ec per le case di certi\nsuoi fidati e singolarissimi amici, e alla moglie e alla famiglia\ndi casa ordin\u00f2 tutto ci\u00f2 che dovessono fare, ed egli con l\u2019arme\ncelata ond\u2019era vestito con una fonda cappellina in capo se n\u2019and\u00f2 nel\nletto, e la moglie fece ire allato appresso di lui. Come fu venuta\nla notte, i cittadini con la volont\u00e0 degli anziani e con la famiglia\nloro se n\u2019andarono a casa Giovanni dell\u2019Agnello, e come ordinato era\nper lui, di presente fu aperta la porta, ed essi di subito presono\nviaggio alla camera d\u2019esso Giovanni, e l\u2019udirono russare e sembrare\nveramente dormire, come uomo che gran bisogno n\u2019avesse. La donna,\ncome ammaestrata era, con tutto il petto nudo si lev\u00f2 in sul letto a\nsedere, dicendo a\u2019 cittadini che bisogno avea di posare, ma se voleano\nlo svegliasse che lo farebbe; i cittadini preso vergogna della veduta\ndella donna, e fede della libera dimostrazione della camera e della\ncasa, togliendo il parlare della donna, per semplice, si partirono\ndella camera e della casa, e si tornarono agli anziani, e riferirono\nloro tutto ci\u00f2 che aveano trovato, onde posto gi\u00f9 il sospetto, ciascuno\nsi torn\u00f2 a casa sua, e posta gi\u00f9 l\u2019arme diede suo pensiere a dormire.\nGiovanni dell\u2019Agnello, che con Giovanni dell\u2019Aguto avea temperato la\ncetera, temendo che la dilazione del tempo nel quale il fatto si potea\npalesare non li fosse nociva, pieno di sollecitudine, quella notte\nmedesima la quale avea assicurati e gli anziani e\u2019 cittadini, con\nGiovanni dell\u2019Aguto e con gli amici e\u2019 fanti che avea ragunati se ne\nvenne in piazza, e senza niuno romore ebbe l\u2019entrata del palagio degli\nanziani con quella brigata che a lui era abbastanza, l\u2019altra lasci\u00f2 a\nguardia della piazza, ed entrato nel luogo dove sedeano gli anziani si\nmise a sedere nel seggio del proposto, e ad uno ad uno fece destare gli\nanziani, e venire dinanzi da s\u00e8, e per dire a che fine, cos\u00ec dicesse\nin forma come disse egli, che \u00e8 semplice detto, se non fosse congiunto\nalla forza di Giovanni dell\u2019Aguto, che la Vergine Maria gli avea\nrevelato, che per bene e riposo della citt\u00e0 di Pisa dovesse prendere\nsotto titolo e nome di doge la signoria e \u2019l governo della citt\u00e0 di\nPisa per un anno, e cos\u00ec avea preso, e avea de\u2019 trentamila fiorini\ncontenta la gente dell\u2019arme che seco erano in palagio e in piazza, e\ncos\u00ec si f\u00e8 confermare agli anziani, e sotto lo splendore delle spade li\nfece in sua mano giurare; e senza intervallo di tempo e per parte degli\nanziani mand\u00f2 per quelli cittadini pens\u00f2 li potessono essere avversi,\ne come ciascuno giugnea li significava come e perch\u00e8 avea presa la\nsignoria, e accomandati cortesemente in forma non si sarebbono potuti\npartire all\u2019uno promettea il vicariato di Lucca, all\u2019altro di Piombino,\ne cos\u00ec agli altri secondo i gradi loro, o per amore o per paura tutti\nl\u2019indusse a giurare nelle sue mani, e in questo servigio consum\u00f2 tutta\nla notte. Alla dimane con gli anziani, con costoro e con la gente\ndell\u2019arme titolatosi doge, cavalc\u00f2 per la terra, e a grido di popolo\nfu fatto signore, n\u00e8 vi fu chi ricevesse un buffetto, prese il palagio\nin possessione, e tutta la gente dell\u2019arme f\u00e8 giurare nelle sue mani. E\nper mostrare che mansuetamente veniva al governo, e preso avea il nome\ne quello che il nome importava non come tiranno, quel medesimo giorno\nelesse sedici famiglie di popolari di comune stato, e gli si fece a\nconsorti, e prese con tutti arme novella d\u2019un leopardo d\u2019oro rampante\nnel campo rosso, con dare a intendere che d\u2019anno in anno uno di loro,\nqual pi\u00f9 boce avesse, fosse fatto doge: e in fine, seguitando il\nconsiglio del conte Guido da Montefeltro a papa Bonifazio, le promesse\nfur larghe e lunghe, ma lo attendere stretto e corto, che di cosa che\npromettesse niente osserv\u00f2, ma pigliando la signoria a giornate come\ntiranno, lasciato il titolo del doge, si facea chiamare signore. E se\nmai fu signoria fastidiosa piena di burbanza quella fu dessa, e negli\nornamenti e nel cavalcare con verga d\u2019oro in mano; e quando tornato era\nal palagio si mettea alle finestre a mostrarsi al popolo come fanno le\nreliquie, con drappo a oro pendente tenendo le gomita sopra guanciali\ndi drappo ad oro, e pat\u00eca e volea che come al papa o all\u2019imperadore\nle cose che gli s\u2019avessono a esporre innanzi gli si esponessono\nginocchione, e altre simili cose molto pi\u00f9 vane.\nCAP. CII.\n_Come si fece pace tra\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani._\nParendo a messer Piero di messer Albizzo ambasciadore de\u2019 Pisani,\nin cui giacea il tutto della pace per la parte loro, che lo stato\ndi Pisa intorno alle condizioni di sua libert\u00e0 vacillasse, forte\nsollecitava la conclusione della pace, e per Carlo degli Strozzi, uno\ndell\u2019uficio de\u2019 signori priori di Firenze, a cui per lo volgo ignorante\ndel segreto posto era carico di volere che la pace si facesse al\ntempo dell\u2019uficio suo, e per i suoi compagni, sentendosi il segreto\ndel trattato che Giovanni dell\u2019Agnello tenea con messer Bernab\u00f2\nVisconti, il quale in effetto era che i Pisani fossono accomandati del\ntiranno, e ch\u2019egli avesse di loro terre, e ch\u2019egli li difendesse, e\nprendesse la guerra contro a\u2019 Fiorentini, ed era gi\u00e0 tanto innanzi,\nche avendo messer Bernab\u00f2 addomandato Lucca e Pietrasanta, i Pisani\ngi\u00e0 gli aveano consentito Pietrasanta, e per loro disperazione si\ntemea non passassono pi\u00f9 oltre; per la libert\u00e0 di Toscana in segreto\nconsiglio fu preso, che si venisse alla pace per lo migliore modo\ne pi\u00f9 onorevole che si potesse, e scritto fu agli ambasciadori del\ncomune ch\u2019erano a Pescia, che il pi\u00f9 tosto che potessono onestamente\nne venissono al fine. Onde segu\u00ec, che a d\u00ec 28 del mese d\u2019agosto, non\nsapendo l\u2019una parte dell\u2019altra che ciascuna voglia n\u2019avesse, si ferm\u00f2\nla pace con pubblichi e solenni stromenti, la quale in Firenze si\npubblic\u00f2 e band\u00ec il primo d\u00ec di settembre, nell\u2019ora ch\u2019entrarono i\nnuovi priori, la quale dall\u2019ignorante popolo de\u2019 segreti del comune mal\nconosciuta forte fu biasimata, pensando che Carlo per troppa baldanza\ne della famiglia e dello stato fosse stato l\u2019autore. Onde il popolo\nvittorioso, a cui parea essere al di sopra della guerra, incominci\u00f2 in\npiazza non solamente a mormorare, ma con altere parole e atti forte a\nsparlare contro a Carlo. Onde i priori e i vecchi e i novi temettono\ndi commozione, e che Carlo nel tornare a casa o alla casa in su quel\nfurore non ricevesse villania, e pertanto dai loro mazzieri e da\u2019\nfanti lo feciono accompagnare, e tanto stare loro famiglia con lui\nche l\u2019ira fosse passata. La pace fu onorevole, e da\u2019 savi e buoni\ncittadini assai commendata, e nelle parlanze per la citt\u00e0 sostenuta\nper le sue condizioni e circostanze laudabili, che furono di questa\nmaniera: la prima, perch\u00e8 fatta fu essendo messer Galeotto capitano de\u2019\nFiorentini con loro gente sopra il terreno de\u2019 nemici: la seconda, che\ntanto si dichinarono i nemici che la vennono a conchiudere nelle terre\ndel comune di Firenze: la terza, perch\u00e8 Pietrabuona, la quale era del\ncontado di Pisa, origine in grido e cagione della guerra, in premio\ndi vittoria per patto rimase al comune di Firenze, confessando per\nquesto essere ricreduti e vinti: la quarta, perch\u00e8 Castel del Bosco,\ne certe altre loro tenute e fortezze per patto si vennono a disfare:\nla quinta, perch\u00e8 confermarono tutte le franchigie che il comune di\nFirenze o suoi mercatanti mai avessono avuto in Pisa: la sesta, perch\u00e8\nper dieci anni si feciono tributari del comune di Firenze, dando ogni\nanno nella vigilia di san Giovanni Battista pubblicamente diecimila\nfiorini d\u2019oro. Gli stromenti della pace in sustanza contennono prima la\nremissione delle offese, e promettere di non offendere per l\u2019avvenire,\ncome \u00e8 di costume in somiglianti atti e contratti; appresso confermate\ne di nuovo per patto concesse furono tutte le franchigie che avesse\nper l\u2019addietro avute il comune di Firenze o suoi mercatanti in Pisa o\nnelle terre loro. Obbligossi il comune di Pisa per ammenda di danni\na dare ai comune di Firenze centomila fiorini d\u2019oro in dieci anni\nseguenti, diecimila ogni anno in Firenze nella vigilia della nativit\u00e0\ndi san Giovanni Battista: e pi\u00f9 a dare al comune Pietrabuona, che era\nstata cagione della guerra, e tutte altre terre del comune di Firenze,\no a esso comune accomandate, che \u2019l comune di Pisa o nella guerra o\ninnanzi la guerra per eccitarla, o direttamente o per indiretto avesse\nprese, ed e converso facesse cos\u00ec il comune di Firenze, e cos\u00ec si f\u00e8.\nSpianare Castel del Bosco, e certe altre tenute de\u2019 Pisani, che per i\npatti si disfeciono. La detta pace fu confermata in nome di papa Urbano\nquinto, colle solennit\u00e0 della Chiesa e colle pene ecclesiastiche,\nper messer Piero Cini arcivescovo di Ravenna, e per frate Marco di\nViterbo generale de\u2019 frati minori, il quale poco appresso fu fatto\ncardinale. Il popolo di Firenze a giornate conoscendo il frutto e il\nbene della pace riconobbe suo errore, e rimase per contento, e il\ncomune dolcemente si lev\u00f2 da dosso la spesa di messer Anichino di\nBongardo e degl\u2019Inghilesi. Messer Anichino co\u2019 suoi Tedeschi e con\nmolti mascalzoni che non sapeano n\u00e8 poteano vivere se non di rapina,\nnel mese di novembre in forma di compagnia cavalc\u00f2 in terra di Roma,\ne presono prima Sabina e poi Sutri, e quivi vernarono. La compagnia\ndegl\u2019Inghilesi arso e predato in parte il contado di Siena se n\u2019and\u00f2\nall\u2019Aquila, e quindi pass\u00f2 in Puglia a vernare. E per non avere pi\u00f9 a\ncapitolare giugner\u00f2 a questa gente famosa la morte di messer Malatesta\nil vecchio, il quale lungo tempo fece gran segno in Italia di savio\nguerriere, di uomo e d\u2019alto consiglio e pratico in tutte cose, il quale\npass\u00f2 di questa vita del mese d\u2019agosto 1364. E gli Aretini presono e\ndisfeciono la Serra.\n FINE DELLA CRONICA DI MATTEO\n E FILIPPO VILLANI.\nTAVOLA DEI CAPITOLI\n LIBRO DECIMO\n _Qui comincia il decimo libro della Cronica di Matteo\n _CAP. II. Dell\u2019alto e rilevato stato della casa de\u2019\n _CAP. III. Del pauroso e vile partimento dell\u2019oste di\n _CAP. IV. Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite_ 9\n _CAP. V. Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli\n _CAP. VI. Dell\u2019avvenimento del legato a Bologna_ 10\n _CAP. VII. Cominciamento della nuova compagnia d\u2019Anichino\n _CAP. VIII. La rivoltura d\u2019Ascoli della Marca_ 12\n _CAP. IX. Come a petizione del legato fu preso messer\n _CAP. X. Del maestrevole processo del legato co\u2019 suoi\n _CAP. XI. Come s\u2019ebbe per i Bolognesi la bastita di\n _CAP. XII. La venuta a Giadra del re d\u2019Ungheria e della\n _CAP. XIII. La presa di Gello fatta per quelli di\n Bibbiena, e la compera ne fece poi il comune_ 17\n _CAP. XIV. Come il comune di Firenze mand\u00f2 ambasciadori\n al legato e a messer Bernab\u00f2 per trattare accordo_ 18\n _CAP. XV. Come il legato mand\u00f2 gli Ungari sopra la\n _CAP. XVI. Della presura del conte da Riano_ 20\n _CAP. XVII. Come la compagnia d\u2019Anichino sostenne fame\n _CAP. XVIII. Come messer Cane Signore rimand\u00f2 la moglie\n che fu di messer Cane Grande al marchese di Brandisborgo_ 21\n _CAP. XIX. Come la compagnia d\u2019Anichino di Bongardo\n _CAP. XX. Come il re d\u2019Araona di\u00e8 per moglie la figliuola\n _CAP. XXI. Come messer Bernab\u00f2 si provvedde per avere\n gente nuova per guerreggiare Bologna_ 24\n _CAP. XXII. Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco\n del Regno venne in Firenze, e della novit\u00e0 che per sua\n _CAP. XXIII. Come per sospetto nato nella citt\u00e0 di Firenze\n di messer Niccola indegnamente egli ne ricevette\n _CAP. XXIV. Come si scoperse congiura di certi cittadini\n di Firenze e trattato per sovvertere lo stato che reggea_ 28\n _CAP. XXV. Come si scoperse il trattato che era in Firenze,\n _CAP. XXVI. Come si comper\u00f2 Montecolloreto, e la\n giurisdizione di Montegemmoli dell\u2019Alpe per lo comune\n _CAP. XXVII. Come una compagnia creata novellamente prese\n _CAP. XXVIII. Come tornati gli Ungari e messer Galeotto\n _CAP. XXIX. D\u2019alquanti trattati tenuti in diverse parti\n _CAP. XXX. Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno,\n _CAP. XXXI. D\u2019un segno nuovo ch\u2019apparse in cielo sopra la\n _CAP. XXXII. Dimostramento di smisurato amore di padre a\n _CAP. XXXIII. Contrario esempio d\u2019incredibile crudelt\u00e0\n _CAP. XXXIV. Delle compagnie ch\u2019entrarono in Provenza per\n conturbare i paesani e la corte di Roma_ 49\n _CAP. XXXV. Come per comperare gli onori del comune\n alquanti che li venderono ne furono condannati_ 51\n _CAP. XXXVI. Come i fatti di Francia verso il primo tempo\n _CAP. XXXVII. Come fu guasta la bastita che il cardinale\n di Spagna facea fare in sul canale della Pegola_ 53\n _CAP. XXXVIII. Della grande pestilenza che percosse\n _CAP. XXXIX. Come fu morto il soldano di Babilonia, e\n rifattone un altro, il quale uccise molti de\u2019 suoi\n _CAP. XL. Come un signore de\u2019 Turchi tratt\u00f2 di fare\n uccidere l\u2019imperadore di Costantinopoli_ 55\n _CAP. XLI. Come il legato si part\u00ec di Bologna per andare\n _CAP. XLII. Della ribellione fatta per messer Giovanni\n di messer Riccardo Manfredi al legato_ 57\n _CAP. XLIII. Come il marchese di Monferrato trasse delle\n compagnie da Avignone per conducere in Piemonte_ 59\n _CAP. XLIV. Della morte del duca di Lancastro cugino del\n _CAP. XLV. Come riusc\u00ec l\u2019impresa del re d\u2019Ungheria dove\n la speranza del legato di Spagna si riposava_ 61\n _CAP. XLVI. Della pestilenza dell\u2019anguinaia ricominciata\n in diversi paesi del mondo, e di sua operazione_ 62\n _CAP. XLVII. Come per la fama delle compagnie che\n scendevano in Piemonte i signori di Milano si provvidono\n _CAP. XLVIII. Come messer Bernab\u00f2 venne sopra Bologna, e\n _CAP. XLIX. Come il legato procurava aiuto contro\n _CAP. L. Come la compagnia d\u2019Anichino di Bongardo ch\u2019era\n nel Regno si rassottigli\u00f2 e venne al niente_ 67\n _CAP. LI. Come i Sanesi ebbono Santafiore_ 67\n _CAP. LII. Come i Fiorentini comperarono il castello di\n _CAP. LIII. Come il capitano gi\u00e0 di Forl\u00ec e messer\n Giovanni Manfredi si puosono tra Imola e Faenza_ 69\n _CAP. LIV. D\u2019un gran fuoco che s\u2019apprese nella citt\u00e0\n _CAP. LV. Delle compagnie d\u2019oltramonti_ 70\n _CAP. LVI. Come Francesco Ordelaffi si lev\u00f2 da Forl\u00ec, e\n _CAP. LVII. Come i Fiorentini manteneano Bologna per la\n _CAP. LVIII. Come l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 volle rompere\n la strada da Firenze, e ricevette danno_ 73\n _CAP. LIX. Come fu sconfitto l\u2019oste di messer Bernab\u00f2 al\n _CAP. LX. Come segu\u00ec appresso alla sconfitta di\n _CAP. LXI. Come messer Bernab\u00f2 si credette prendere\n Correggio per trattato, e sua gente vi rimase presa_ 81\n _CAP. LXII. Dell\u2019armata del re di Cipro, e il conquisto\n _CAP. LXIII. Come i Turchi di Sinopoli assalirono Coffa, e\n _CAP. LXIV. Come le compagnie condotte in Piemonte\n _CAP. LXV. Di grandi terremuoti che furono in Puglia, e\n assai guastarono della citt\u00e0 d\u2019Ascoli_ 86\n _CAP. LXVI. Delle rivolture del paese di Fiandra in\n _CAP. LXVII. Come fu decapitato messer Bocchino de\u2019\n Belfredotti signore di Volterra, e come la citt\u00e0 venne\n _CAP. LXVIII. Come il patriarca d\u2019Aquilea fu a tradimento\n _CAP. LXIX. Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san\n _CAP. LXX. Del maritaggio del duca di Guales primogenito\n _CAP. LXXI. Come papa Innocenzio riform\u00f2 santa Chiesa de\u2019\n _CAP. LXXII. Come il re Buscialim della Bellamarina fu\n morto, e delle rivolture di Granata_ 95\n _CAP. LXXIII. Come la compagnia spagnuola ch\u2019era nel\n vescovado d\u2019Arli prese Vascona, e poi ne furono cacciati_ 96\n _CAP. LXXIV. Come si scoperse che messer Bernab\u00f2 era vivo,\n e \u2019l trattato tenea del castello di Bologna_ 97\n _CAP. LXXV. Come si scoperse in Perugia una gran congiura\n di notabili cittadini per mutare stato e reggimento_ 98\n _CAP. LXXVI. Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di\n loro stato, e della difensione che saviamente ne presono_ 102\n _CAP. LXXVII. Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono\n _CAP. LXXVIII. Come i Turchi presono la citt\u00e0 di Dometico\n ch\u2019era dell\u2019imperadore di Costantinopoli_ 104\n _CAP. LXXIX. Come il re di Castella mosse guerra a\u2019 Mori\n di Granata, e al loro re Vermiglio_ 105\n _CAP. LXXX. Come gli usciti Perugini presono per furto\n Civitella de\u2019 Benazzoni, e poi l\u2019abbandonarono_ 106\n _CAP. LXXXI. Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare\n _CAP. LXXXII. Del trattato delle compagnie che doveano\n _CAP. LXXXIII. Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi\n puosono l\u2019assedio dove stando vollono torre Sommacolonna\n per incitare i Fiorentini a guerra_ 108\n _CAP. LXXXIV. Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla\n compagnia bianca co\u2019 suoi baroni, e ricomperaronsi con\n _CAP. LXXXV. La cavalcata che Piero Gambacorti f\u00e8 sopra\n _CAP. LXXXVI. Come il re Luigi prese le terre di messer\n Luigi di Durazzo e lui mise in prigione, e trasse del\n _CAP. LXXXVII. Come le compagnie si partirono di Provenza_ 114\n _CAP. LXXXVIII. Come fu sconfitta la gente del re di\n _CAP. LXXXIX. Come per vendicare sua onta il re di Spagna\n _CAP. XC. Come messer Bernab\u00f2 si credette avere Reggio\n _CAP. XCI. Come i Pisani feciono cosa da incitare\n _CAP. XCII. Dell\u2019operazioni delle compagnie in questi\n _CAP. XCIII. D\u2019una cometa ch\u2019apparve di marzo nel segno\n _CAP. XCIV. Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo\n _CAP. XCV. Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse\n l\u2019oste del re di Francia a Brignai_ 121\n _CAP. XCVI. Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori\n di Lombardia contro a messer Bernab\u00f2_ 124\n _CAP. XCVII. Come fu morto il re Vermiglio di Granata_ 126\n _CAP. XCVIII. Come il re Maometto di Granata si fece uomo\n _CAP. XCIX. Principio di guerra dai collegati a messer\n _CAP. C. Come e quando mor\u00ec Luigi re di Cicilia e di\n _CAP. CI. Come i Fiorentini vollono difendere Pietrabuona,\n _CAP. CII. Come quelli della valle di Caprese furono\n _CAP. CIII. Della mortalit\u00e0 dell\u2019anguinaia_ 137\n LIBRO UNDECIMO\n _CAP. II. Degli apparecchi fatti da\u2019 Fiorentini per la\n _CAP. III. Come seguendo gli antichi Romani gentili i\n Fiorentini nel dare dell\u2019insegne al capitano presono\n _CAP. IV. Della prospera fortuna de\u2019 collegati lombardi_ 146\n _CAP. V. Della morte di Leggieri d\u2019Andreotto di Perugia_ 148\n _CAP. VI. Come i Fiorentini cavalcarono in Valdera e\n _CAP. VII. Come i Fiorentini soldarono galee contra\n _CAP. VIII. Come i Perugini presono la Rocca Cinghiata\n _CAP. IX. Come novecento cavalieri di quelli di messer\n Bernab\u00f2 furono sconfitti da seicento di quelli di messer\n _CAP. X. Disordine nato tra\u2019 Genovesi per la guerra de\u2019\n _CAP. XI. Come il re di Castella con quello di Navarra\n ruppono pace a quello d\u2019Aragona, e lo cavalcaro_ 155\n _CAP. XII. Come per sospetto in Siena a due dell\u2019ordine\n _CAP. XIII. Cavalcate fatte per messer Bonifazio Lupo\n _CAP. XIV. Del processo della guerra da\u2019 collegati a\n _CAP. XV. Come messer Ridolfo prese il bastone da messer\n _CAP. XVI. Della crudelt\u00e0 che i Pisani usarono contra i\n _CAP. XVII. Delle cavalcate fatte per messer Ridolfo sopra\n i Pisani, e del gran danno che ricevettono_ 162\n _CAP. XVIII. Come messer Ridolfo assedi\u00f2 Peccioli, e prese\n _CAP. XIX. Come non essendo il castellano contento del\n patto messer Ridolfo f\u00e8 gittare una delle torri di\n _CAP. XX. Come il capitano de\u2019 Fiorentini prese\n _CAP. XXI. Dell\u2019aiuto che i Perugini in questi d\u00ec\n _CAP. XXII. Come il conte Aldobrandino degli Orsini si\n _CAP. XXIII. Come e perch\u00e9 si cre\u00f2 la compagnia del\n _CAP. XXIV. Comincia la guerra che i Fiorentini feciono\n _CAP. XXV. Come e perch\u00e8 i Romani si dierono al papa_ 177\n _CAP. XXVI. Come Dio chiam\u00f2 a s\u00e8 papa Innocenzio, e fu\n _CAP. XXVII. Come al re Pietro di Castella mor\u00ec un\n _CAP. XXVIII. Come Perino Grimaldi prese l\u2019isoletta e\n _CAP. XXIX. Come messer Piero Gambacorti per trattato si\n _CAP. XXX. Come Perino Grimaldi soldato del comune di\n Firenze prese Porto pisano, e le catene del detto porto\n _CAP. XXXI. Come messer Bernab\u00f2 mand\u00f2 a papa Urbano a\n _CAP. XXXII. Domande fatte per lo re di Francia al papa_ 187\n _CAP. XXXIII. Di grande acquazzone che in Italia f\u00e8 danno_ 188\n _CAP. XXXIV. Come il re di Cipro and\u00f2 ad Avignone con\n _CAP. XXXV. Come mor\u00ec Giovacchino degli Ubaldini e lasci\u00f2\n _CAP. XXXVI. Come il conte di Foc\u00ec sconfisse e prese\n _CAP. XXXVII. Come i Pisani vollono torre il campanile\n _CAP. XXXVIII. Come in Firenze s\u2019ordin\u00f2 tavola per lo\n _CAP. XXXIX. Come i Pisani vollono torre santa Maria\n _CAP. XL. Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato_ 193\n _CAP. XLI. Come papa Urbano pubblic\u00f2 in Avignone i\n processi fatti contro a messer Bernab\u00f2_ 194\n _CAP. XLII. Come mor\u00ec messer Simone Boccanera primo doge\n _CAP. XLIII. Come fu morto il conte di Lando_ 197\n _CAP. XLIV. Come Bernab\u00f2 Visconti fu dalla gente della\n lega sconfitto alla bastita di Modena, e come la perd\u00e8_ 197\n _CAP. XLV. Come i Pisani vollono torre Barga_ 199\n _CAP. XLVI. Come messer Piero da Farnese credette torre\n _CAP. XLVII. Come i Pisani presono per forza il castello\n _CAP. XLVIII. Come i Pisani condussono la Compagnia bianca\n _CAP. XLIX. Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer\n Piero da Farnese avea mandati in Garfagnana_ 205\n _CAP. L. Come Rinieri da Baschi colla gente de\u2019 Pisani\n fu sconfitto e preso da messer Piero da Farnese_ 206\n _CAP. LI. Come messer Piero da Farnese entr\u00f2 in Firenze, e\n il capitano de\u2019 Pisani colle insegne e\u2019 prigioni\n _CAP. LII. Come i Pisani tolsono a\u2019 Fiorentini Altopascio_ 209\n _CAP. LIII. Come i Pisani elessono per loro capitano\n _CAP. LIV. Come messer Piero cavalc\u00f2 sino sulle porte\n di Pisa battendovi moneta d\u2019oro e d\u2019argento_ 210\n _CAP. LV. Sagacit\u00e0 usata per i Pisani per non perdere\n _CAP. LVI. Come il re di Francia per paura della\n compagnia non os\u00f2 per terra tornare nel reame, ma\n _CAP. LVII. Della mortalit\u00e0 dell\u2019anguinaia_ 215\n _CAP. LVIII. Come i Barghigiani colla forza de\u2019\n Fiorentini presono i battifolli_ 215\n _CAP. LIX. Come mor\u00ec messer Piero da Farnese_ 216\n _CAP. LX. Dell\u2019ammirabile passaggio de\u2019 grilli_ 217\n _Proemio della Cronica di Filippo Villani_ 219\n _CAP. LXI. Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese\n _CAP. LXII. Come gl\u2019Inghilesi giunsono in Pisa_ 220\n _CAP. LXIII. Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in\n _CAP. LXIV. Come si ferm\u00f2 pace dalla Chiesa a messer\n _CAP. LXV. Dello stato della citt\u00e0 di Firenze in que\u2019\n _CAP. LXVI. Come i Perugini, per tema che la compagnia\n degl\u2019Inghilesi non soccorressono i loro rubelli\n assediati in Montecontigiano, condussono la Compagnia\n _CAP. LXVII. Come messer Pandolfo Malatesti venne con\n cento uomini di cavallo e con cento fanti a servire\n il comune di Firenze per due mesi_ 228\n _CAP. LXVIII. Come i Pisani co\u2019 loro Inghilesi presono\n _CAP. LXIX. Come messer Pandolfo puose il campo all\u2019Ancisa,\n e come il detto campo fu preso dagl\u2019Inghilesi con messer\n Rinuccio capitano, e appresso il borgo all\u2019Ancisa, e\n come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra_ 231\n _CAP. LXX. Come certa parte degl\u2019Inghilesi da Figghine\n _CAP. LXXI. Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del\n cappelletto, la quale era condotta al soldo de\u2019\n _CAP. LXXII. Di cavalcate e combattimenti di terre\n feciono gl\u2019Inghilesi mentre stettono a Figghine_ 239\n _CAP. LXXIII. Esempio e ammaestramento de\u2019 popoli che\n vivono a libert\u00e0 i quali si conducono nella fortuna\n della guerra di non torre capitano uso a tirannia_ 241\n _CAP. LXXIV. I modi teneano gl\u2019Inghilesi tornati in Pisa_ 245\n _CAP. LXXV. Come i Pisani furono sconfiti a Barga_ 245\n _CAP. LXXVI. Come il re Giovanni di Francia pass\u00f2 in\n _CAP. LXXVII. Come messer Niccol\u00f2 del Pecora fu cacciato\n _CAP. LXXVIII. Della morte del giovane marchese di\n Brandisborgo, conte di Tirolo, e quello ch\u2019appresso\n _CAP. LXXIX. Come i Pisani ricondussono gl\u2019Inghilesi_ 256\n _CAP. LXXX. D\u2019una saetta che cadde sul campanile di santa\n _CAP. LXXXI. Cavalcate fatte per gl\u2019Inghilesi nel pieno\n _CAP. LXXXII. Come Anichino di Bongardo con tremila\n barbute venne al servigio de\u2019 Pisani, e come sagacemente\n _CAP. LXXXIII. Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes\n per lo re di Francia a quello di Navarra_ 265\n _CAP. LXXXIV. Come rotto il trattato della pace i Pisani\n _CAP. LXXXV. Come messer Pandolfo pass\u00f2 nel Mugello colla\n gente da cavallo per tenere stretti gl\u2019Inghilesi_ 268\n _CAP. LXXXVI. Come gl\u2019Inghilesi si partirono del Mugello\n _CAP. LXXXVII. Come messer Pandolfo Malatesti si part\u00ec dal\n _CAP. LXXXVIII. Come gl\u2019Inghilesi e\u2019 Tedeschi co\u2019\n guastatori de\u2019 Pisani s\u2019accamparono a Sesto, e\n Colonnata, e santo Stefano in pane_ 272\n _CAP. LXXXIX. Come gl\u2019Inghilesi e\u2019 Tedeschi coi guastatori\n pisani presono il colle di Montughi e di Fiesole, e\n combatterono i Fiorentini alla porta a san Gallo, e\n fessi Anichino di Bongardo cavaliere_ 274\n _CAP. XC. Come il conte Arrigo di Monforte capitano de\u2019\n Fiorentini prese e arse Livorno_ 278\n _CAP. XCI. Come il corpo del re Giovanni di Francia fu\n trasportato di Londra a Parigi, e come onorato_ 282\n _CAP. XCII. Come messer Beltramo di Cloachin sconfisse il\n luogotenente del re di Navarra in Normandia_ 283\n _CAP. XCIII. Come Carlo primogenito del re di Francia fu\n consegrato a Rems a re di Francia_ 283\n _CAP. XCIV. Come si combatterono messer Carlo di Bos\n duca di Brettagna, e messer Gianni di Monforte_ 283\n _CAP. XCV. Come i Fiorentini con la forza del danaio\n ruppono la compagnia de\u2019 Tedeschi e Inghilesi, e\n levaronla da provvisione de\u2019 Pisani_ 284\n _CAP. XCVI. Come i Fiorentini presono in capitano di\n guerra messer Galeotto Malatesti_ 285\n _CAP. XCVII. Battaglia tra\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani fatta\n nel borgo di Cascina, nella quale i Fiorentini furono\n _CAP. XCVIII. Come furono assegnati i prigioni al comune\n da\u2019 soldati, ed entrarono in Firenze in sulle carra._ 293\n _CAP. XCIX. Come la parte guelfa di Firenze prese a far\n _CAP. C. Come la gente dell\u2019arme del comune di Firenze\n prese tira di non cavalcare, e quello ne segu\u00ec_ 295\n _CAP. CI. Come Giovanni dell\u2019Agnello si fece signore di\n _CAP. CII. Come si fece pace tra\u2019 Fiorentini e\u2019 Pisani_ 301\n TOMO V.\nNota del Trascrittore\nOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo\nsenza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in\nfine libro sono state riportate nel testo.", "source_dataset": "gutenberg", "source_dataset_detailed": "gutenberg - Cronica di Matteo Villani, vol. V\n"}, +{"source_document": "", "creation_year": 1343, "culture": " Italian\n", "content": "VOL. I ***\n A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA\n_AI LETTORI_\nL\u2019EDITORE IGNAZIO MOUTIER.\n_Matteo Villani continuatore della Cronica di Giovanni \u00e8 reputato\ninferiore all\u2019ultimo e per la lingua e per lo stile: ma quanto sia\ningiusto un giudizio s\u00ec decisivo emesso in vari tempi da accreditati\nscrittori, e sempre ciecamente ripetuto, lo dimostra la medesima opera\nsua, a coloro che si dilettassero di farne uno studio pi\u00f9 diligente.\nL\u2019accusa datagli di diffuso scrittore \u00e8 tanto essenzialmente falsa,\nche sembra pronunziata da uomo mal prevenuto, o che non abbia mai\nconosciuta l\u2019opera che li piacque di condannare. Ma la cagione primaria\nper cui pochi fino ad ora si dedicarono a studiare la Cronica di\nMatteo, \u00e8 stata certamente la pessima forma con la quale fu sempre\npubblicata nelle poche edizioni che ne furon fatte fino a questo\ngiorno. La buona volont\u00e0 d\u2019un lettore paziente si stanca facilmente\nalla lettura d\u2019un\u2019opera condotta senz\u2019ombra d\u2019ortografia, e che trovi\nad ogni passo periodi intralciati, voci fuor di luogo, omissioni\nd\u2019ogni genere, e dei versi ancora ripetuti, e in tale stato sono le\ntre edizioni eseguite dai Giunti in epoche differenti, e che tutte si\ntrovan citate nel Vocabolario degli Accademici della Crusca. \u00c8 cosa\nveramente da deplorarsi con quanta negligenza siano state impresse\nnel secolo decimosesto molte opere classiche di nostra lingua.\nL\u2019esperienza di fatto mi fece conoscere, che molti editori di opere\ndi classici antichi scrittori, cominciando poco avanti la met\u00e0 del\nsecolo decimosesto fino verso la fine di esso, avevano adottato un\ncerto loro particolar sistema di variare a capriccio la lezione dei\ncodici antichi, in quei luoghi che discordavano dalla loro maniera di\nvedere e d\u2019intendere, sostituendo e togliendo a vicenda voci e talvolta\ninteri periodi, senza altra ragione che il loro singolarissimo sistema.\nQuesto intollerabile abuso di torta critica guast\u00f2 talmente gli scritti\ndi molte opere classiche, che i giudizi che ne furon fatti di esse da\nchi s\u2019affid\u00f2 ciecamente alle stampe del cinquecento senza ricorrere ai\nmanoscritti son da tenersi per inesatti e non veri. Quanta verit\u00e0 possa\navere l\u2019accusa che io do agli editori del cinquecento lo mostrerebbero\nabbastanza l\u2019edizioni di Giovanni e di Matteo Villani eseguite in quel\nsecolo, ma pi\u00f9 luminosamente potr\u00f2 dimostrarlo fra qualche tempo, se\nla fortuna mi concede il mezzo di dare al pubblico l\u2019opere tutte d\u2019un\nsommo scrittore, che gi\u00e0 da qualche anno m\u2019occupo con paziente studio\nalla loro emendazione._\n_Lorenzo Torrentino fu il primo a pubblicare in un volumetto,\nin Firenze nel 1554, i soli primi quattro libri della Cronica di\nMatteo Villani, corretti quanto poteva ottenersi in quel tempo da\nuna prima edizione di un\u2019opera che si traeva da antico manoscritto.\nFilippo e Iacopo Giunti stampatori in Firenze, commessero nel 1562 a\nDomenico Guerra e Giovan Battista suo fratello stampatori in Venezia\nl\u2019impressione della Cronica di Matteo, la quale non giunse oltre il\ncap. 85 del libro nono. Nella dedica che fanno i Giunti al principe\ndon Francesco de\u2019 Medici in data del medesimo anno, vi si leggono\nlusinghiere promesse di dare l\u2019opera in quel modo appunto ch\u2019ella\nfu scritta dall\u2019autore, avendone affidata la revisione ad _uomini\neccellentissimi, che ogni particella e ogni parola accomodarono\nal luogo suo, ch\u2019ella non usc\u00ec forse di mano a Matteo altramente\ndisposta_: ma ad onta di s\u00ec belle parole, quest\u2019impressione fu reputata\nscorretta dai medesimi Giunti, i quali nel 1581 la riprodussero pi\u00f9\nemendata col soccorso d\u2019un codice che allora esisteva presso Giuliano\nde\u2019 Ricci, premettendovi la medesima prefazione al principe don\nFrancesco senza mutar data. Quest\u2019edizione bench\u00e8 conti un capitolo di\npi\u00f9 della prima in fine del libro nono contiene precisamente la stessa\nmateria, non variando che la materiale numerazione dei capitoli. Col\nsoccorso pure del codice di Giuliano de\u2019 Ricci pubblicarono i Giunti\nnel 1577 in Firenze i tre ultimi libri della Cronica di Matteo, cos\u00ec\nda loro intitolati, ma che essenzialmente non sono che ventisette\ncapitoli che compiscono il nono libro, e il libro decimo e undecimo; di\nquesti ultimi libri ne fecero un\u2019esatta ristampa nel 1596. La giunta\ndi Filippo comprende gli ultimi quarantadue capitoli dell\u2019undecimo\ned ultimo libro. L\u2019ultima edizione, e certamente la migliore della\nCronica di Matteo, fu pubblicata nel 1729 in Milano nel decimoquarto\nvolume della celebre collezione degli scrittori delle cose d\u2019Italia di\nLodovico Antonio Muratori, procurata ed illustrata da Filippo Argelati.\nIn quest\u2019edizione fu seguitata la stampa dei Giunti del 1581, e il\nseguito impresso nel 1577; vi furono per altro aggiunte a pi\u00e8 della\npagina le varianti lezioni che furono tratte dal cavalier Marmi dal\ncodice Ricci, e da un altro manoscritto esistente allora presso il\nprior Francesco Covoni; ma queste varie lezioni si trovano per la\nmaggior parte s\u00ec inutilmente abbondanti in principio dell\u2019opera, come\nscarseggianti dopo l\u2019ottavo libro, da muovere ragionevolmente sospetto\nche il cavalier Marmi si stancasse alla met\u00e0 del suo faticoso lavoro.\nIn questa edizione fu con tanto scrupolo seguitata la lezione giuntina\nche vi fu lasciata stare la medesima viziosa ortografia, a danno dei\npoveri lettori, a\u2019 quali \u00e8 troppo grave nello studio degli antichi\nclassici questo barbaro sistema, che non \u00e8 ancora spento del tutto._\n_Da questo esatto ragguaglio dell\u2019edizioni della Cronica di Matteo\ne Filippo Villani fino ad ora pubblicate, \u00e8 facile persuadersi del\nbisogno di farne una nuova pi\u00f9 accurata edizione, ma tal pensiero\nvenuto pi\u00f9 volte in mente a uomini di molta dottrina, e amantissimi\ndella lingua italiana, svan\u00ec e venne meno allorch\u00e8 cominciarono a\nsentire il peso di questa spinosa fatica. Colui che sia nuovo affatto\ndi simili studi non pu\u00f2 con approssimazione calcolare il lungo tedio\nche richiedono i confronti d\u2019opere stampate con i manoscritti, che\nquasi sempre si trovano tra loro discordi nella lezione, o mancanti,\no inintelligibili, e quel che \u00e8 peggio variati sovente dall\u2019arbitrio\nd\u2019ignoranti copisti. Abituato com\u2019io sono da molti anni a simili\nstudi, da me intrapresi con vero desiderio di recare con l\u2019opera mia\nqualche vantaggio agli amatori dei classici nostri, che s\u00ec deturpati\nper la maggior parte erano stati impressi in antico, pubblicai gi\u00e0\n\u00e8 un anno la Cronica di Giovanni Villani (alla cui emendazione ebbi\nl\u2019assistenza un mio carissimo amico) e fin da quell\u2019epoca contrassi\nverso il pubblico l\u2019obbligazione di dare alla luce ricorretta ed\nemendata l\u2019opera di Matteo e Filippo Villani, servendomi della lezione\ndel famoso codice Ricci. Questo codice cartaceo in foglio, di non\nelegante ma buona forma di lettere, \u00e8 scritto tutto d\u2019una medesima\nmano; ha in principio una breve nota che ci fa conoscere l\u2019anno in\ncui fu trascritto, cos\u00ec concepita: _Questo libro fu scritto l\u2019anno\n1378 da Ardingo di Corso de\u2019 Ricci, e continuamente si conserva in\nquesta casa: e oggi, che siamo alli 6 di maggio 1608, \u00e8 posseduto da\nRuberto di Giuliano de\u2019 Ricci._ Su qual documento asserisca questo\nRuberto de\u2019 Ricci che il codice sia stato scritto nel 1378 non \u00e8 da\nconoscersi tanto facilmente, ma di certo la scrittura \u00e8 del secolo\nin cui si vuole che sia stato copiato. Comincia il manoscritto con\nla tavola delle rubriche o capitoli con le prime voci e i numeri dei\ncapitoli scritti in rosso, che occupano le prime diciotto carte; ne\nsegue poi la Cronica, che comprende carte trecentosettanta, con i\ntitoli de\u2019 capitoli e la serie della loro numerazione in rosso. Questo\ncodice di buona conservazione, non va per altro esente dalla sorte che\nhanno incontrato la maggior parte dei manoscritti, che per incuria o\nignoranza di chi gli ha avuti a mano si trovano oggi mutilati e mal\nconci, poich\u00e8 si hanno in esso mancanti le carte 299, e 384; mancava\npure la carta 108, che fu sostituita fino dall\u2019anno 1573 da ignota\nmano. La buonissima lezione che ha questo manoscritto fa chiara\ntestimonianza della diligenza del suo copista, che non deve essere\nstato di que\u2019 prezzolati emanuensi che in quel secolo flagellarono ogni\nmaniera di scritture, ma uomo al certo di qualche dottrina. E qui mi\nsia lecito dar tributo d\u2019obbligazione e di riconoscenza all\u2019egregio\nsignor Commendatore Lapo de\u2019 Ricci, che con tanta amorevolezza si\ncompiacque accordarmi l\u2019uso per la presente edizione di questo prezioso\ncodice di Matteo Villani, scritto come parla l\u2019antica tradizione da\nArdingo di Corso de\u2019 Ricci, gi\u00e0 di sopra menzionato, e che tuttavia si\nconserva nella biblioteca di quest\u2019illustre famiglia._\n_Di questo codice adunque mi sono quasi interamente giovato nella\npresente ristampa di Matteo Villani, come il pi\u00f9 corretto e copioso\ndi quanti n\u2019abbia veduti, ed ho solamente avuto ricorso alle varianti\ndel codice Covoni che esistono nell\u2019accennata edizione dell\u2019opera\ndi Matteo eseguita in Milano nel 1729, in quei pochissimi luoghi che\nmanifestamente erano errati. Due codici della libreria Riccardiana e\nuno della Magliabechiana mi hanno fornito di qualche variante nel corso\ndell\u2019opera, la poca importanza delle quali mi disobbliga dal far di\nessi un circostanziato ragguaglio._\n_La presente edizione della Cronica di Matteo Villani potrebbe\nragionevolmente chiamarsi un\u2019esatta copia del codice Ricci, se i\npochi luoghi che in esso si trovano errati non avessero domandato il\nsoccorso d\u2019altri codici antichi per rettificarne gli errori. Cos\u00ec\navess\u2019io potuto supplire con altri manoscritti alle lagune vistose\ndel codice Ricci, specialmente a quelle che s\u2019incontrano ne\u2019 tre\nultimi libri, ma il fatto mi ha dimostrato non esser questo un errore\nda attribuirsi al copista, ma bens\u00ec all\u2019autore medesimo, l\u2019immatura\nmorte del quale gli tolse il modo di dar l\u2019ultima mano all\u2019opera sua,\ngiacch\u00e8 tutti i manoscritti da me riscontrati, e non in piccol numero,\nhanno sventuratamente lo stesso difetto, da toglier la speranza a ogni\naccurato investigatore di rinvenire un giorno ci\u00f2 che ora invano si\ndesidera. Quei passi per altro, che nell\u2019edizioni eseguite dai Giunti\nfurono tolti per cagione de\u2019 tempi, si troveranno in quest\u2019edizione\nrestituiti al loro luogo, cio\u00e8 al Cap. 93 del libro nono, e al Prologo\ndel libro undecimo._\n_Il sistema che ho creduto dover seguitare in quest\u2019edizione \u00e8 stato il\nmedesimo che serv\u00ec di norma alla pubblicazione del primo Villani, meno\nche pi\u00f9 libert\u00e0 mi son preso intorno a\u2019 nomi propri, avendone del tutto\nbanditi gl\u2019idiotismi del tempo, che nulla han che fare con la lingua,\ne che ad altro non servono che ad essere inciampo e noia al maggior\nnumero dei lettori. L\u2019ortografia ho avuto cura che si presti totalmente\nall\u2019intelligenza del testo senz\u2019altra regola speciale, semplicizzando\npi\u00f9 che ho saputo l\u2019andamento del periodo. Finalmente all\u2019ultimo\nvolume vi ho posto l\u2019indice generale, indispensabile ad un\u2019opera di tal\nnatura, e un elenco di voci mancanti nel Vocabolario degli Accademici\ndella Crusca. In un volume di supplemento riprodurr\u00f2 le vite degli\nuomini illustri Fiorentini scritte da Filippo Villani, giovandomi\ndell\u2019edizione procurata dall\u2019erudito Giammaria Mazzuchelli nel 1747 in\nVenezia; e cos\u00ec mi compiacer\u00f2 d\u2019essere stato il primo a riunire in un\nsol corpo tutte l\u2019opere toscane de\u2019 tre Villani, impresa molte volte\nprogettata e mai condotta a buon termine, per gl\u2019infiniti ostacoli\nch\u2019era d\u2019uopo sormontare con lungo e pazientissimo studio._\n_Il dovere mi obbligherebbe a premettere all\u2019opera alcune notizie\nintorno alla vita pubblica e privata di Matteo Villani, ma tanto scarsi\nsono i documenti che lo riguardano, quanto inutili e infruttuose\nsono state fino ad ora le ricerche di diligenti biografi. Il suo\nfigliuolo Filippo continuatore dell\u2019opera del padre ci ha tramandata\nl\u2019epoca della di lui morte, la quale avvenne a d\u00ec 12 di luglio del\n1363, anch\u2019egli come il fratello Giovanni colpito dalla peste che da\nmolti anni lacerava quasi tutta Europa, ma specialmente la misera\nItalia, senza che gli uomini riparassero a tanto loro esterminio.\nIl Manni (Sig. Ant. T. 4. p. 75) ci addita due mogli ch\u2019egli ebbe,\nLisa de\u2019 Buondelmonti e Monna de\u2019 Pazzi, e alcune altre notizie ci\nriferisce illustrando l\u2019albero di casa Villani, la pi\u00f9 importante\n\u00e8 quella che Matteo come ghibellino fu da\u2019 capitani di parte guelfa\nammonito. Di Filippo assai ne ragiona il diligentissimo Mazzuchelli\nnella sua prefazione alle Vite degli Uomini illustri Fiorentini, la\nquale pubblicher\u00f2 nel settimo volume di quest\u2019opera, premettendola\nalle medesime Vite scritte da Filippo, procurando pure d\u2019emendarle con\nl\u2019aiuto de\u2019 manoscritti, bench\u00e8 fino ad ora quelli che m\u2019\u00e8 avvenuto\nriscontrare non meritano nessuna fiducia per essere troppo moderni, e\nnotoriamente variati dal capriccio de\u2019 loro copiatori._\n_Se questa mia non lieve fatica d\u2019aver cercato di ridurre a miglior\nlezione la Cronica di Matteo Villani non incontrer\u00e0 in particolare\nl\u2019approvazione dei dotti, riscuoter\u00e0 certamente il suffragio da tutti\nquelli che s\u2019esercitano nello studio dei nostri classici antichi,\nche da un fonte pi\u00f9 puro potranno trarre, con minor noia e fatica di\nquel che far si potesse in addietro, preziosi documenti per l\u2019istoria\ne per l\u2019incremento della lingua italiana. Cos\u00ec piaccia alla fortuna\nd\u2019accordare tal\u2019ozio tranquillo ai dotti accademici della Crusca,\na\u2019 quali \u00e8 commesso l\u2019incarico di nostra lingua, che applicar si\npossano con vero studio all\u2019emendazione di tanti classici, che ripieni\nd\u2019infiniti errori e mancanze, attendono ancora dalla critica di questo\nsecolo d\u2019essere riprodotti nella loro vera e primitiva forma. Ad\nalcuni onorevoli Accademici \u00e8 debitrice la repubblica delle lettere\ndi alcune opere riprodotte nella loro originalit\u00e0, e di altri se\nne desiderano tuttavia le studiose fatiche, ma troppe opere ancora\nrimangono da emendarsi, e dell\u2019inedite da pubblicarsi, che il loro\nnumero e la loro importanza pu\u00f2 giustificare qualunque lamento che\nse ne faccia. Sia loro di massimo incitamento l\u2019esempio dell\u2019ottimo\nnostro Sovrano, che da qualche anno si compiacque di farsi membro\ndi quell\u2019illustre Accademia, il quale con munificenza degna di tanto\nPrincipe ha pubblicato in quest\u2019anno le opere di Lorenzo il Magnifico,\ncon grandissimo studio da Lui emendate e illustrate._\nCRONICA\nDI MATTEO VILLANI\nLIBRO PRIMO\n_Qui comincia la Cronica di Matteo Villani, e prima il prologo, e primo\nlibro._\nEsaminando nell\u2019animo la vostra esortazione, carissimi amici, di\nmettere opera a scrivere le storie e le novit\u00e0 che a\u2019 nostri tempi\navverranno, pensai la mia piccola facult\u00e0 essere debole a cotanta e\ntale opera seguire. Ma perocch\u00e8 la vostra richesta mi rende per debito\npronto a ubbidire, e il vostro consiglio aggiugne vigore alla stanca\nmente; e pensando che per la macchia del peccato la generazione umana\ntutta \u00e8 sottoposta alle temporali calamit\u00e0, e a molta miseria, e a\ninnumerabili mali, i quali avvengono nel mondo per varie maniere, e\nper diversi e strani movimenti, e tempi; come sono inquietazioni di\nguerre, movimenti di battaglie, furore di popoli, mutamenti di reami,\noccupazioni di tiranni, pestilenzie, mortalit\u00e0 e fame, diluvi, incendi,\nnaufragi e altre gravi cose, delle quali gli uomini, ne\u2019 cui tempi\navvengono, quasi da ignoranza soppresi, pi\u00f9 forte si maravigliano, e\nmeno comprendono il divino giudicio, e poco conoscono il consiglio e\n\u2019l rimedio dell\u2019avversit\u00e0, se per memoria di simiglianti casi avvenuti\nne\u2019 tempi passati non hanno alcuno ammaestramento: e in quelle che\nla chiara faccia della prosperit\u00e0 rapporta non sanno usare il debito\ntemperamento; rischiudendo sotto lo scuro velo della ignoranza\nl\u2019uscimento cadevole, e il fine dubbioso delle mortali cose. Onde\npensando che l\u2019opera puote essere fruttuosa, e debba piacere per li\nnaturali desideri degli uomini, mi mossi a cominciare, per esempio\ndi me uomo di leggieri scienza, ad apparecchiar materia a\u2019 savi di\nconcedere del loro tempo alcuna parte, per lasciare agli altri memoria\ndelle cose appariranno di ci\u00f2 degne a\u2019 loro temporali, e a\u2019 meno sperti\nsperanza con fatica e studio da poter venire a operazioni virtudiose,\ne a coloro che avranno pi\u00f9 alto ingegno, materia di ristrignere su\nbrevit\u00e0, e con pi\u00f9 piacere degli uditori, le nostre storie. Ma perocch\u00e8\nogni cosa \u00e8 imperfetta e vana senza l\u2019aiuto della divina grazia,\nchiamiamo in nostro aiuto la carit\u00e0 divina, Cristo benedetto; il quale\n\u00e8 in unit\u00e0 col Padre e con lo Spirito Santo, vive e regna per tutti\ni secoli, e d\u00e0 cominciamento e mezzo e termine perfetto a ogni buona\noperazione.\nCAP. I.\n_Della inaudita mortalit\u00e0._\nTrovasi nella santa Scrittura, che avendo il peccato corrotto ogni via\ndella umana carne, Iddio mand\u00f2 il diluvio sopra la terra: e riservando\nper la sua misericordia l\u2019umana carne in otto anime, di No\u00e8, e di tre\nsuoi figliuoli e delle loro mogli nell\u2019arca, tutta l\u2019altra generazione\nnel diluvio sommerse. Dappoi per li tempi multiplicando la gente, sono\nstati alquanti diluvi particolari, mortalit\u00e0, corruzioni e pistolenze,\nfami e molti altri mali, che Iddio ha permesso venire sopra gli uomini\nper li loro peccati. Tra le quali mortalit\u00e0 troviamo venute le pi\u00f9\ngravi l\u2019una al tempo di Marco Aurelio, Antonio e Lucio Aurelio Commodo\nimperadori, gli anni di Cristo 171, la quale cominci\u00f2 in Babilonia\nd\u2019Egitto, e comprese molte provincie del mondo. E tornando L. Commodo\ncolle legioni de\u2019 Romani delle parti d\u2019Asia, parea combattesse\nostilemente per la loro infezione gli uomini delle provincie ond\u2019elli\npassavano: e a Roma fece grave sterminio de\u2019 suoi abitanti. E l\u2019altra\nvenne al tempo di Gallo Ostilio Augusto, e Bolusseno suo figliuolo,\noccupatori dello imperio, e gravi persecutori de\u2019 cristiani, la quale\ncominci\u00f2 gli anni di Cristo 254, e dur\u00f2, ritornando di tempo in tempo,\nintorno di quindici anni: e fu di diverse e incredibili infermitadi,\ne comprese molte provincie del mondo. Ma per quello che trovar si\npossa per le scritture, dal generale diluvio in qua, non fu universale\ngiudicio di mortalit\u00e0 che tanto comprendesse l\u2019universo, come quella\nche ne\u2019 nostri d\u00ec avvenne. Nella quale mortalit\u00e0, considerando la\nmoltitudine che allora vivea, in comparazione di coloro che erano\nin vita al tempo del generale diluvio, assai pi\u00f9 ne morirono in\nquesta che in quello, secondo la estimazione di molti discreti. Nella\nquale mortalit\u00e0 avendo renduta l\u2019anima a Dio l\u2019autore della cronica\nnominata la Cronica di Giovanni Villani cittadino di Firenze, al quale\nper sangue e per dilezione fui strettamente congiunto, dopo molte\ngravi fortune, con pi\u00f9 conoscimento della calamit\u00e0 del mondo che la\nprosperit\u00e0 di quello non m\u2019avea dimostrato, propuosi nell\u2019animo mio\nfare alla nostra varia e calamitosa materia cominciamento a questo\ntempo, come a uno rinnovellamento di tempo e secolo, comprendendo\nannualmente le novit\u00e0 che appariranno di memoria degne, giusta la\npossa del debole ingegno, come pi\u00f9 certa fede per li tempi avvenire ne\npotremo avere.\nCAP. II.\n_Quanto durava il tempo della mor\u00eda in catuno paese._\nAvendo per cominciamento nel nostro principio a raccontare lo sterminio\ndella generazione umana, e convenendone divisare il tempo e il modo, la\nqualit\u00e0 e la quantit\u00e0 di quella, stupidisce la mente appressandosi a\nscrivere la sentenzia, che la divina giustizia con molta misericordia\nmand\u00f2 sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final\ngiudizio. Ma pensando l\u2019utilit\u00e0 salutevole che di questa memoria puote\naddivenire alle nazioni che dopo noi seguiranno, con pi\u00f9 sicurt\u00e0 del\nnostro animo cos\u00ec cominciamo. Videsi negli anni di Cristo, dalla sua\nsalutevole incarnazione 1346, la congiunzione di tre superiori pianeti\nnel segno dell\u2019Aquario, della quale congiunzione si disse per gli\nastrolaghi che Saturno fu signore: onde pronosticarono al mondo grandi\ne gravi novitadi; ma simile congiunzione per li tempi passati molte\naltre volte stata e mostrata, la influenzia per altri particulari\naccidenti non parve cagione di questa, ma piuttosto divino giudicio\nsecondo la disposizione dell\u2019assoluta volont\u00e0 di Dio. Cominciossi nelle\nparti d\u2019Oriente, nel detto anno, inverso il Cattai e l\u2019India superiore,\ne nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell\u2019oceano, una\npestilenzia tra gli uomini d\u2019ogni condizione di catuna et\u00e0 e sesso, che\ncominciavano a sputare sangue, e morivano chi di subito, chi in due o\nin tre d\u00ec, e alquanti sostenevano pi\u00f9 al morire. E avveniva, che chi\nera a servire questi malati, appiccandosi quella malattia, o infetti,\ndi quella medesima corruzione incontanente malavano, e morivano per\nsomigliante modo; e a\u2019 pi\u00f9 ingrossava l\u2019anguinaia, e a molti sotto le\nditella delle braccia a destra e a sinistra, e altri in altre parti\ndel corpo, che quasi generalmente alcuna enfiatura singulare nel corpo\ninfetto si dimostrava. Questa pestilenzia si venne di tempo in tempo,\ne di gente in gente apprendendo, comprese infra il termine d\u2019uno anno\nla terza parte del mondo che si chiama Asia. E nell\u2019ultimo di questo\ntempo s\u2019aggiunse alle nazioni del Mare maggiore, e alle ripe del Mare\ntirreno, nella Soria e Turchia, e in verso lo Egitto e la riviera\ndel Mar rosso, e dalla parte settentrionale la Rossia e la Grecia,\ne l\u2019Erminia e l\u2019altre conseguenti provincie. E in quello tempo galee\nd\u2019Italiani si partirono del Mare maggiore, e della Soria e di Romania\nper fuggire la morte, e recare le loro mercatanzie in Italia: e\u2019 non\npoterono cansare, che gran parte di loro non morisse in mare di quella\ninfermit\u00e0. E arrivati in Cicilia conversaro co\u2019 paesani, e lasciarvi\ndi loro malati, onde incontanente si cominci\u00f2 quella pestilenzia ne\u2019\nCiciliani. E venendo le dette galee a Pisa, e poi a Genova, per la\nconversazione di quegli uomini cominci\u00f2 la mortalit\u00e0 ne\u2019 detti luoghi,\nma non generale. Poi conseguendo il tempo ordinato da Dio a\u2019 paesi, la\nCicilia tutta fu involta in questa mortale pestilenzia. E l\u2019Affrica\nnelle marine, e nelle sue provincie di verso levante, e le rive del\nnostro Mare tirreno. E venendo di tempo in tempo verso il ponente,\ncomprese la Sardigna, e la Corsica, e l\u2019altre isole di questo mare; e\ndall\u2019altra parte, ch\u2019\u00e8 detta Europa, per simigliante modo aggiunse alle\nparti vicine verso il ponente, volgendosi verso il mezzogiorno con pi\u00f9\naspro assalimento che sotto le parti settentrionali. E negli anni di\nCristo 1348 ebbe infetta tutta Italia, salvo che la citt\u00e0 di Milano,\ne certi circustanti all\u2019Alpi, che dividono l\u2019Italia dall\u2019Alamagna, ove\ngrav\u00f2 poco. E in questo medesimo anno cominci\u00f2 a passare le montagne,\ne stendersi in Proenza, e in Savoia, e nel Dalfinato, e in Borgogna,\ne per la marina di Marsilia e d\u2019Acquamorta, e per la Catalogna, e\nnell\u2019isola di Maiolica, e in Ispagna e in Granata. E nel 1349 ebbe\ncompreso fino nel ponente, le rive del Mare oceano, d\u2019Europa e\nd\u2019Affrica e d\u2019Irlanda, e l\u2019isola d\u2019Inghilterra e di Scozia, e l\u2019altre\nisole di ponente, e tutto infra terra con quasi eguale mortalit\u00e0, salvo\nin Brabante ove poco offese. E nel 1350 premette gli Alamanni, e gli\nUngheri, Frigia, Danesmarche, Gotti, e Vandali, e gli altri popoli e\nnazioni settentrionali. E la successione di questa pestilenzia durava\nnel paese ove s\u2019apprendeva cinque mesi continovi, ovvero cinque lunari:\ne questo avemmo per isperienza certa di molti paesi. Avvenne, perch\u00e8\nparea che questa pestifera infezione s\u2019appiccasse per la veduta e\nper lo toccamento, che come l\u2019uomo, o la femmina o i fanciulli si\nconoscevano malati di quella enfiatura, molti n\u2019abbandonavano, e\ninnumerabile quantit\u00e0 ne morirono, che sarebbono campati se fossono\nstati aiutati delle cose bisognevoli. Tra gl\u2019infedeli cominci\u00f2 questa\ninumanit\u00e0 crudele, che le madri e\u2019 padri abbandonavano i figliuoli, e\ni figliuoli le madri e\u2019 padri, e l\u2019uno fratello l\u2019altro e gli altri\ncongiunti, cosa crudele e maravigliosa, e molto strana dalla umana\nnatura, detestata tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le\nnazioni barbare, questa crudelt\u00e0 si trov\u00f2. Essendo cominciata nella\nnostra citt\u00e0 di Firenze, fu biasimata da\u2019 discreti la sperienza veduta\ndi molti, i quali si provvidono, e rinchiusono in luoghi solitari,\ne di sana aria, forniti, d\u2019ogni buona cosa da vivere, ove non era\nsospetto di gente infetta; in diverse contrade il divino giudicio (a\ncui non si pu\u00f2 serrare le porti) gli abbatt\u00e8 come gli altri che non\ns\u2019erano provveduti. E molti altri, i quali si dispuosono alla morte per\nservire i loro parenti e amici malati, camparono avendo male, e assai\nnon l\u2019ebbono continovando quello servigio; per la qual cosa ciascuno\nsi ravvide, e cominciarono senza sospetto ad aiutare e servire l\u2019uno\nl\u2019altro; onde molti guarirono, ed erano pi\u00f9 sicuri a servire gli altri.\nNella nostra citt\u00e0 cominci\u00f2 generale all\u2019entrare del mese d\u2019aprile gli\nanni _Domini_ 1348, e dur\u00f2 fino al cominciamento del mese di settembre\ndel detto anno. E mor\u00ec tra nella citt\u00e0, contado e distretto di Firenze,\nd\u2019ogni sesso e di catuna et\u00e0 de\u2019 cinque i tre, e pi\u00f9, compensando\nil minuto popolo e i mezzani e\u2019 maggiori, perch\u00e8 alquanto fu pi\u00f9\nmenomato, perch\u00e8 cominci\u00f2 prima, ed ebbe meno aiuto, e pi\u00f9 disagi e\ndifetti. E nel generale per tutto il mondo manc\u00f2 la generazione umana\nper simigliante numero e modo, secondo le novelle che avemmo di molti\npaesi strani, e di molte provincie del mondo. Ben furono provincie nel\nLevante dove vie pi\u00f9 ne moriro. Di questa pestifera infermit\u00e0 i medici\nin catuna parte del mondo, per filosofia naturale, o per fisica, o\nper arte d\u2019astrologia non ebbono argomento n\u00e8 vera cura. Alquanti per\nguadagnare andarono visitando e dando loro argomenti, li quali per la\nloro morte mostrarono l\u2019arte essere fitta, e non vera: e assai per\ncoscienza lasciarono a ristituire i danari che di ci\u00f2 aveano presi\nindebitamente.\nAvemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che aveano avute\nnovelle di que\u2019 paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia,\nnelle parti dell\u2019Asia superiore, usc\u00ec della terra, ovvero cadde da\ncielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente, arse\ne consum\u00f2 grandissimo paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono,\nche del puzzo di questo fuoco si gener\u00f2 la materia corruttibile della\ngenerale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare. Appresso\nsapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di .... del\nRegno, uomo degno di fede, che s\u2019era trovato in quelle parti dov\u2019\u00e8\nla citt\u00e0 di Lamech ne\u2019 tempi della mortalit\u00e0, che tre d\u00ec e tre notti\npiovvono in quello paese biscie con sangue che appuzzarono e corruppono\ntutte le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio\ndi Maometto, e alquanto della sua sepoltura.\nCAP. III.\n_Della indulgenzia diede il papa per la detta pistolenza._\nIn questi tempi della mortale pestilenzia, papa Clemente sesto fece\ngrande indulgenza generale della pena di tutti i peccati a coloro che\npentuti e confessi la domandavano a\u2019 loro confessori, e morivano: e in\nquella certa mortalit\u00e0 catuno cristiano credendosi morire si disponea\nbene, e con molta contrizione e pazienzia rendevano l\u2019anima a Dio.\nCAP. IV.\n_Come gli uomini furono peggiori che prima._\nStimossi per quelli pochi discreti che rimasono in vita molte cose,\nche per la corruzione del peccato tutte fallirono agli avvisi degli\nuomini, seguendo nel contradio maravigliosamente. Credetesi che gli\nuomini, i quali Iddio per grazia avea riserbati in vita, avendo veduto\nlo sterminio dei loro prossimi, e di tutte le nazioni del mondo,\nudito il simigliante, che divenissono di migliore condizione, umili,\nvirtudiosi e cattolici, guardassonsi dall\u2019iniquit\u00e0 e dai peccati, e\nfossono pieni d\u2019amore e di carit\u00e0 l\u2019uno contra l\u2019altro. Ma di presente\nrestata la mortalit\u00e0 apparve il contradio; che gli uomini trovandosi\npochi, e abbondanti per l\u2019eredit\u00e0 e successioni dei beni terreni,\ndimenticando le cose passate come state non fossono, si dierono alla\npi\u00f9 sconcia e disonesta vita che prima non aveano usata. Perocch\u00e8\nvacando in ozio, usavano dissolutamente il peccato della gola, i\nconviti, taverne e delizie con dilicate vivande, e\u2019 giuochi, scorrendo\nsenza freno alla lussuria, trovando nei vestimenti strane e disusate\nfogge e disoneste maniere, mutando nuove forme a tutti gli arredi. E\nil minuto popolo, uomini e femmine, per la soperchia abbondanza che\nsi trovarono delle cose, non voleano lavorare agli usati mestieri; e\nle pi\u00f9 care e dilicate vivande voleano per loro vita, e allibito si\nmaritavano, vestendo le fanti e le vili femmine tutte le belle e care\nrobe delle orrevoli donne morte. E senza alcuno ritegno quasi tutta\nla nostra citt\u00e0 scorse alla disonesta vita; e cos\u00ec, e peggio, l\u2019altre\ncitt\u00e0 e provincie del mondo. E secondo le novelle che sentire potemmo,\nniuna parte fu, in cui vivente in continenzia si riserbasse, campati\ndal divino furore, stimando la mano di Dio essere stanca. Ma secondo\nil profeta Isaia, non \u00e8 abbreviato il furore d\u2019Iddio, n\u00e8 la sua mano\nstanca, ma molto si compiace nella sua misericordia, e per\u00f2 lavora\nsostenendo, per ritrarre i peccatori a conversione e penitenzia, e\npunisce temperatamente.\nCAP. V.\n_Come si stim\u00f2 dovizia, e segu\u00ec carestia._\nStimossi per il mancamento della gente dovere essere dovizia di tutte\nle cose che la terra produce, e in contradio per l\u2019ingratitudine degli\nuomini ogni cosa venne in disusata carestia, e continov\u00f2 lungo tempo:\nma in certi paesi, come narreremo, furono gravi e disusate fami. E\nancora si pens\u00f2 essere dovizia e abbondanza di vestimenti, e di tutte\nl\u2019altre cose che al corpo umano sono di bisogno oltre alla vita, e il\ncontrario apparve in fatto lungamente; che due cotanti o pi\u00f9 valsono\nla maggior parte delle cose che valere non soleano innanzi alla detta\nmortalit\u00e0. E il lavorio, e le manifatture d\u2019ogni arte e mestiero\nmont\u00f2 oltre al doppio consueto disordinatamente. Piati, quistioni,\ncontraversie e riotte sursono da ogni parte tra\u2019 cittadini di catuna\nterra, per cagione dell\u2019eredit\u00e0 e successioni. E la nostra citt\u00e0\ndi Firenze lungamente ne riempi\u00e8 le sue corti con grandi spendii e\ndisusate gravezze. Guerre, e diversi scandali si mossono per tutto\nl\u2019universo, contro alle opinioni degli uomini.\nCAP. VI.\n_Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso._\nIn questo anno, del mese d\u2019agosto, nacque in Prato uno fanciullo\nmostruoso di maravigliosa figura, perocch\u00e8 a uno capo e a uno collo\nfurono partiti e stesi due imbusti umani con tutte le membra distinte\ne partite dal collo in giuso, senza niuna diminuzione che natura dia\na corpo umano: e catuno imbusto fu colle membra e natura masculina. Ma\nl\u2019uno corpo era maggiore che l\u2019altro: e vivette questo corpo mostruoso\ne maraviglioso quindici giorni, dando pronosticazione forse di loro\nfuturi danni, come leggendo appresso si potr\u00e0 trovare.\nCAP. VII.\n_Come alla compagnia d\u2019Orto san Michele fu lasciato gran tesoro._\nNella nostra citt\u00e0 di Firenze, l\u2019anno della detta mortalit\u00e0, avvenne\nmirabile cosa: che venendo a morte gli uomini, per la fede che i\ncittadini di Firenze aveano all\u2019ordine e all\u2019esperienza che veduta era\ndella chiara, e buona e ordinata limosina che s\u2019era fatta lungo tempo,\ne facea per li capitani della compagnia di Madonna santa Maria d\u2019Orto\nsan Michele, senza alcuno umano procaccio, si trov\u00f2 per testamenti\nfatti (i quali testamenti nella mortalit\u00e0, e poco appresso, si poterono\ntrovare e avere) che i cittadini di Firenze lasciarono a stribuire a\u2019\npoveri per li capitani di quella compagnia pi\u00f9 di trecentocinquanta\nmigliaia di fiorini d\u2019oro. Che vedendosi la gente morire, e morire\ni loro figliuoli e i loro congiunti, ordinavano i testamenti, e chi\navea reda che vivesse, legava la reda, e se la reda morisse, volea la\ndetta compagnia fosse reda; e molti che non avevano alcuna reda, per\ndivozione dell\u2019usata e santa limosina che questa compagnia solea fare,\nacciocch\u00e8 il suo si stribuisse a\u2019 poveri com\u2019era usato, lasciavano di\nci\u00f2 ch\u2019aveano reda la detta compagnia: e molti altri non volendo che\nper successione il suo venisse a\u2019 suoi congiunti, o a\u2019 suoi consorti,\nlegavano alla detta compagnia tutti i loro beni. Per questa cagione,\nrestata la mortalit\u00e0 in Firenze, si trov\u00f2 improvviso quella compagnia\nin s\u00ec grande tesoro, senza quello che ancora non potea sapere. E i\nmendichi poveri erano quasi tutti morti, e ogni femminella era piena\ne abbondevole delle cose, sicch\u00e8 non cercavano limosina. Sentendosi\nquesto fatto per cittadini, procacciarono molti con sollecitudine\nd\u2019essere capitani per potere amministrare questo tesoro, e cominciarono\na ragunare le masserizie e\u2019 danari; ch\u2019avendo a vendere le masserizie\nnobili de\u2019 grandi cittadini e mercatanti, tutte le migliori e le pi\u00f9\nbelle voleano per loro a grande mercato, e l\u2019altre pi\u00f9 vili faceano\nvendere in pubblico, e i danari cominciarono a serbare, e chi ne tenea\nuna parte, e chi un\u2019altra a loro utilit\u00e0. E non essendo in quel tempo\npoveri bisognosi, facevano le limosine grandi ciascuno capitano ove pi\u00f9\ngli piaceva, poco a grado a Dio e alla sua madre. E per questo indebito\nmodo si consum\u00f2 in poco tempo molto tesoro. E quando veniva il tempo di\nrifare i nuovi capitani, i cittadini amici de\u2019 vecchi si facevano fare\ncapitani nuovi da loro che avevano la bal\u00eda, con molte preghiere, e\naltre promessioni, intendendosi insieme per poco onesta intenzione. Le\npossessioni della compagnia allogavano per amist\u00e0 e buon mercato, e le\nvendite faceano disonestamente. I cittadini ch\u2019erano avviluppati nelle\nmani de\u2019 detti capitani per li lasci, e per le dote, e per li debiti,\ne per le participazioni di quelli beni, e per l\u2019altre successioni non\nsi poteano per lunghi tempi spacciare da loro: e ogni cosa sosteneano\nin lunga contumacia senza sciogliere, se per speziale servigio non si\nfacea. E fu tre anni continovi pi\u00f9 grande la loro corte che quella del\nnostro comune. E avvedendosi i cittadini della ipocrisia de\u2019 capitani,\nacciocch\u00e8 pi\u00f9 non seguitasse la elezione, che l\u2019uno facesse l\u2019altro,\nordinarono che i capitani si chiamassono per lo consiglio. In processo\ndi tempo il comune prese de\u2019 danari del mobile della detta compagnia\nalcuna parte, vedendo che male si stribuivano per li capitani. E per le\ndette cagioni la fede di quella compagnia tra\u2019 cittadini e\u2019 contadini\ncominci\u00f2 molto a mancare, avvelenata per lo disordinato tesoro, e per\ngli avari guidatori di quello. E per lo simigliante modo fu lasciato\na una nuova compagnia chiamata la compagnia della Misericordia,\ntra in mobile e in possessioni, il valore di pi\u00f9 di venticinquemila\nfiorini d\u2019oro, i quali si stribuirono poco bene per lo difetto de\u2019\ncapitani che gli aveano a stribuire. E allo spedale di santa Maria\nNuova di san Gilio fu anche lasciato in quella mortalit\u00e0 il valore\ndi venticinquemila fiorini d\u2019oro. Questi lasci di questo spedale si\nstribuirono assai bene, perocch\u00e8 lo spedale \u00e8 di grande elemosina, e\nsempre abbonda di molti infermi uomini e femmine, i quali sono serviti\ne curati con molta diligenza e abbondanza di buone cose da vivere, e da\nsovvenire a\u2019 malati, governandosi per uomini e femmine di santa vita.\nCAP. VIII.\n_Come in Firenze da prima si cominci\u00f2 lo Studio._\nRallentata la mortalit\u00e0, e assicurati alquanto i cittadini che\naveano a governare il comune di Firenze, volendo attrarre gente alla\nnostra citt\u00e0, e dilatarla in fama e in onore, e dare materia a\u2019 suoi\ncittadini d\u2019essere scienziati e virtudiosi, con buono consiglio, il\ncomune provvide e mise in opera che in Firenze fosse generale studio\ndi catuna scienzia, e in legge canonica e civile, e di teologia. E a\nci\u00f2 fare ordinarono uficiali, e la moneta che bisognava per avere i\ndottori delle scienze: stanzi\u00f2 si pagassono annualmente dalla camera\ndel comune; e feciono acconciare i luoghi dello Studio in su la via\nche traversa da casa i Donati a casa i Visdomini, in su i casolari\nde\u2019 Tedaldini. E piuvicarono lo studio per tutta Italia; e avuti\ndottori assai famosi in tutte le facult\u00e0 delle leggi e dell\u2019altre\nscienze, cominciarono a leggere a d\u00ec 6 del mese di novembre, gli\nanni di Cristo 1348. E mandato il comune al papa e a\u2019 cardinali a\nimpetrare privilegio di potere conventare in Firenze in catuna facult\u00e0\ndi scienza, ed avere le immunit\u00e0 e onori che hanno gli altri studi\ngenerali di santa Chiesa, papa Clemente sesto, con suoi cardinali,\nricevuta graziosamente la domanda del nostro comune, e considerando\nche la citt\u00e0 di Firenze era braccio destro in favore di santa Chiesa,\ne copiosa d\u2019ogni arte e mestiere, e che questo che s\u2019addomandava era\nonore virtudioso, acciocch\u00e8 \u2019l buono cominciamento potesse crescere\nsuccessivamente in frutto di virtudi, di comune concordia di tutto il\ncollegio, e del papa, concedettono al nostro comune privilegio, che\nnella citt\u00e0 di Firenze si potesse dottorare, e ammaestrare in teologia,\ne in tutte l\u2019altre facultadi delle scienze generalmente. E attribu\u00ec\ntutte le franchigie e onori al detto Studio che pi\u00f9 pienamente avesse\nda santa Chiesa Parigi o Bologna, o alcuna altra citt\u00e0 de\u2019 cristiani.\nIl privilegio bollato della papale bolla venne a Firenze, dato in\nAvignone d\u00ec 31 di maggio, gli anni _Domini_ 1349, l\u2019ottavo anno del suo\npontificato.\nCAP. IX.\n_Raggiugnimento di principii che furono cagione di grandi novitadi nel\nRegno._\nAvvegnach\u00e8 nella cronica del nostro anticessore sia trattato della\nnovit\u00e0 sopravvenuta nel regno di Cicilia e di qua dal faro, insino\nal tempo vicino alla nominata mortalit\u00e0, nondimeno la nostra materia\nrichiede (acciocch\u00e8 meglio s\u2019intendano le cose che nel nostro tempo poi\nseguiranno) che qui s\u2019accolgano alquanti principii che furono materia e\ncagioni di gravi movimenti. Il re Ruberto rimorso da buona coscienza,\navendo con Carlo Umberto di suo lignaggio re d\u2019Ungheria trattato la\nrestituzione del suo reame dopo la sua morte a\u2019 figliuoli del detto\nCarlo, nipoti di Carlo Martello primogenito di Carlo secondo, a cui\ndi ragione succedea il detto reame di Cicilia, e fermata la detta\nrestituzione con promissione di matrimonio, sotto certe condizioni de\u2019\nfigliuoli del detto Carlo Umberto, e delle due figliuole di M. Carlo\nduca di Calavra, figliuolo che fu del detto re Ruberto. E avendo gi\u00e0\naccresciuto appresso di se il re Ruberto Andreasso figliuolo di Carlo\nUmberto, e fattolo duca di Calavra, a cui si dovea dare per moglie\nGiovanna primagenita del detto Carlo, nipote del re Ruberto, acciocch\u00e8\nfosse successore del reame dopo la sua morte; e la detta Giovanna\nreina, con condizioni ordinate per li casi che avvenire poteano,\nche l\u2019una succedesse all\u2019altra in caso di mancamento di figliuoli,\nacciocch\u00e8 la successione del Regno non uscisse delle nipoti. Vedendosi\nappressare alla morte, tanto fu stretto dallo amore della propria\ncarne, ch\u2019egli commise errori i quali furono cagione di molti mali.\nPerocch\u00e8 innanzi la sua morte fece consumare il matrimonio del detto\nduca Andreasso alla detta Giovanna sua nipote, e lei intol\u00f2 reina. E\na tutti i baroni, reali, e feudatari e uficiali del Regno fece fare\nil saramento alla detta reina Giovanna, lasciando per testamento, che\nquando Andreasso duca di Calavra, e marito della detta reina Giovanna,\nfosse in et\u00e0 di ventidue anni, dovesse essere coronato re del suo reame\ndi Cicilia. Onde avvenne che \u2019l senno di cotanto principe accecato\ndel proprio amore della carne, morendo lasci\u00f2 la giovane reina ricca\ndi grande tesoro, e governatora del suo reame, e povera di maturo\nconsiglio, e maestra e donna del suo barone, il quale come marito dovea\nessere suo signore. E cos\u00ec verificando la parola di Salomone, il quale\ndisse, se la moglie avr\u00e0 il principato, diventer\u00e0 contraria al suo\nmarito. La detta Giovanna vedendosi nel dominio, avendo giovanile e\nvano consiglio, rendeva poco onore al suo marito, e reggeva e governava\ntutto il Regno con pi\u00f9 lasciva e vana che virtudiosa larghezza: e\nl\u2019amore matrimoniale per l\u2019ambizione della signoria, e per inzigamento\ndi perversi e malvagi consigli, non conseguiva le sue ragioni, ma\npiuttosto declinava nell\u2019altra parte. E per\u00f2 si disse che per fattura\nmalefica la reina parea strana dall\u2019amore del suo marito. Per la qual\ncagione de\u2019 reali e assai giovani baroni presono sozza baldanza, e poco\nonoravano colui che attendevano per loro signore. Onde l\u2019animo nobile\ndel giovane, vedendosi offendere, e tenere a vile a\u2019 suoi sudditi,\nlievemente prendeva sdegni. E moltiplicando le ingiurie per diversi\nmodi, dalla parte della sua donna e de\u2019 suoi baroni, per giovanile\nincostanza, alcuna volta con la reina, alcuna volta con i baroni us\u00f2\nparole di minacce, per le quali, coll\u2019altra materia che qui abbiamo\ndetta, appressandosi il tempo della sua coronazione, s\u2019avacci\u00f2 la\ncrudele e violente sua morte. Onde avvenne, che per fare la vendetta\nLodovico re d\u2019Ungheria, fratello anzinato del detto Andreasso, con\nforte braccio venne nel Regno non contastato da niuno de\u2019 reali, o\nda altro barone, se non solo da M. Luigi di Taranto, il quale dopo la\nmorte del duca Andreasso, per operazione della imperadrice sua madre,\ndi M. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio, avea tolta la detta\nreina Giovanna per sua moglie. E innanzi la dispensagione, ch\u2019era sua\nnipote in terzo grado, temendo il giovane d\u2019entrare nella camera alla\nreina, confortatolo, e presolo per lo braccio dal detto suo balio,\nin segreto spos\u00f2 la detta donna: e in palese fu dispensato il detto\nmatrimonio da santa Chiesa. Il quale M. Luigi si mise a contastare\nalcuno tempo alla gente del detto re d\u2019Ungheria, venuta innanzi che\nla persona del detto re. Ma sopravvenendo il re, la reina Giovanna\nin prima, e appresso M. Luigi, con certe galee in fretta, e male\nprovveduti fuori che dello scampo delle persone, fuggirono in Toscana,\ne poi passarono in Proenza.\nCAP. X.\n_Come il re d\u2019Ungheria fece ad Aversa uccidere il duca di Durazzo._\nLodovico re d\u2019Ungheria giunto ad Aversa, fece suo dimoro in quel luogo\nove fu morto il fratello. E ivi tutti i baroni del Regno l\u2019andarono a\nvicitare, e fare la reverenza come zio, e governatore di Carlo Martello\ninfante, figliuolo del detto duca Andreasso, e della reina Giovanna,\na cui succedeva il reame. I reali, ci\u00f2 furono M. Ruberto prenze di\nTaranto, M. Filippo suo fratello, M. Carlo duca di Durazzo, che avea\nper moglie donna Maria sirocchia della reina Giovanna, e M. Luigi e\nM. Ruberto suoi fratelli andarono ad Aversa confidentemente a fare\nla reverenza al detto re d\u2019Ungheria; e ricevuti da lui con infinta e\nsimulata festa, stettono con lui infino al quarto giorno. E mosso per\nandare da Aversa a Napoli con grande comitiva, oltre alla sua gente,\ndi quella de\u2019 reali e del Regno, rimaso addietro, e cavalcando con\nlui il duca di Durazzo, il re gli disse: menatemi dove fu morto mio\nfratello. E senza accettare scusa condotto al luogo, il detto duca di\nDurazzo sceso del palafreno, gi\u00e0 conoscendo il suo mortale caso, disse\nil re: traditore del sangue tuo, che farai? E tirato per forza, come\nera ordinato, infino ove fu strangolato il duca Andreasso, tagliatali\nla testa da un infedele Cumino, in sul sabbione dal Gafo fu in due\npezzi gittato, in quell\u2019orto e in quello luogo dove fu gittato il duca\nAndreasso. E in quello stante furono presi gli altri reali, e ordinata\nla condotta sotto buona guardia, e con loro il piccolo infante Carlo\nMartello, furono mandati in Ungheria. Il quale Carlo poco appresso\ngiunto in Ungheria mor\u00ec. E M. Ruberto prenze di Taranto, e \u2019l fratello\ne\u2019 cugini furono messi in prigione, e insieme ritenuti sotto buona\nguardia.\nCAP. XI.\n_La cagione della morte del duca di Durazzo._\nQuesto duca di Durazzo non si trov\u00f2 che fosse autore della morte del\nduca Andreasso, ma per\u00f2 ch\u2019egli come molto astuto, avea, non senza\nalcuna espettazione di speranza del Regno, coll\u2019aiuto del zio cardinale\ndi Pelagorga, procacciato dispensazione dal papa, colla quale ruppe\nquattro grandi misteri. Ci\u00f2 furono, violando il testamento e l\u2019ordine\ne la concordia presa dal re Ruberto, e Umberto Martello re d\u2019Ungheria,\nove era disposto che il matrimonio di dama Maria sirocchia della\nreina Giovanna si dovesse fare, a conservagione della successione\ndel regno colla casa di Carlo Umberto, discendenti di Carlo Martello,\nin certo caso di morte, o di mancamento di figliuoli alla reina. La\nquale Maria il detto duca si prese per moglie. E il saramento di\nci\u00f2 prestato per lo detto duca, e per altri reali in sul corpo di\nCristo; e la dispensagione di potere prendere la nipote per moglie,\nla quale si prese e men\u00f2 di quaresima. E bene che col duca Andreasso\nsi ritenesse mostrandoli amore, nondimeno lungo tempo segretamente\nfece impedire a corte la diliberazione della sua coronazione. Onde\nper questo soprastare fu fatto l\u2019ordine e messo a esecuzione il\ndetestabile e patricida della sua morte: e questa fu la cagione perch\u00e8\nil re d\u2019Ungheria il fece morire. Di questa morte, e della carceragione\nde\u2019 reali nacque grande tremore a tutto il regno. E fu il re reputato\ncrudele non meno per la carceragione degl\u2019innocenti giovani reali, che\nper la morte del duca di Durazzo.\nCAP. XII.\n_Come il re d\u2019Ungheria entr\u00f2 in Napoli._\nFatta il re d\u2019Ungheria parte della sua vendetta, e ricevuto in Napoli\ncome signore, e ordinato i magistrati, e comandato giustizia per tutto\nil regno, cominci\u00f2 ad andare vicitando le citt\u00e0 e le provincie. E\nda tutti i baroni prese saramento per Carlo Martello suo nipote. E\nnell\u2019anno 1348 quasi tutto il regno l\u2019ubbidia, salvo che in Puglia\nera contra lui il forte castello d\u2019Amalfi della montagna, il quale si\nteneva per la reina, e per M. Luigi di Taranto. E questo guardavano\nmasnade italiane con cento cavalieri tedeschi, capitano della gente\ne del castello M. Lorenzo figliuolo di M. Niccola degli Acciaiuoli di\nFirenze, giovane cavaliere, e di grande cuore, e di buono aspetto. Non\navendo ancora mandato il detto re in terra d\u2019Otranto, n\u00e8 in Calavra,\ni giustizieri che v\u2019erano per la reina faceano l\u2019uficio per lei, e non\nubbidivano al re d\u2019Ungheria, ed egli non strignea il paese, e per\u00f2 non\nvi si mostrava ribellione.\nCAP. XIII.\n_Come il re d\u2019Ungheria vicitava il regno di Puglia._\nIn questi d\u00ec essendo la mortalit\u00e0 gi\u00e0 cominciata nel Regno per tutto,\nnondimeno il re cavalcava vicitando le terre del Regno. Ed essendo\nstato in Abruzzi, in Puglia, e in Principato, torn\u00f2 a Napoli del mese\nd\u2019aprile del detto anno: e trovati gi\u00e0 morti alquanti de\u2019 suoi baroni,\nsent\u00ec che certi conti e baroni del Regno faceano cospirazione contro\na lui. E impaurito in se medesimo per la morte de\u2019 suoi, e per la\ngenerale mortalit\u00e0, avegnach\u00e8 fosse di molto franco cuore, non gli\nparve tempo da ricercare quelle cose con alcuno sospetto: anzi con\nsavia continenza mostrava a\u2019 baroni piena confidenza. E copertamente\n(eziandio al suo privato consiglio) intendea a fornire tutte le buone\nterre e castella del Regno di gente d\u2019arme e di vittuaglia. E con seco\naveva uno barone della Magna che avea nome Currado Lupo. Costui aveva\nil re provato fedele e ardito in molti suoi servigi, e a lui accomand\u00f2\nmilledugento cavalieri tedeschi che aveva nel Regno. E un suo fratello,\nch\u2019avea nome Guelforte, mise nel castello nuovo di Napoli dove era\nl\u2019abitazione reale, con buona compagnia, e bene fornito d\u2019ogni cosa\nda vivere, e d\u2019arme e di vestimento e calzamento, e gli accomand\u00f2 la\nguardia di quello castello; e forn\u00ec il castello di Capovana, e quello\ndi Santermo sopra la citt\u00e0 di Napoli, e il castello dell\u2019Uovo. E\ntratto del Regno il doge Guernieri Tedesco, cui egli avea soldato con\nmillecinquecento barbute quando entr\u00f2 nel Regno, non fidandosi di lui,\nlasci\u00f2 suo vicario alla guardia del detto reame il detto Currado Lupo;\ne \u2019l doge Guernieri malcontento del re, con sue masnade di Tedeschi si\nridusse in Campagna.\nCAP. XIV.\n_Come il re d\u2019Ungheria partitosi del Regno torn\u00f2 in Ungheria._\nAvendo il detto re ordinata la sua gente e le sue terre in tutte le\nparti del Regno, le quali e\u2019 possedeva: e ammaestrati in segreto i\nsuoi vicari e castellani di buona guardia, non mostrando a\u2019 baroni\ndel Regno, n\u00e8 eziandio a\u2019 suoi, che del Regno si dovesse partire, si\nmosse da Napoli, dove avea fatto poco dimoro, e andonne in Puglia; e\nordinata la guardia delle terre e delle castella di l\u00e0 in mano di suoi\nUngheri, avendo fatto armare nel porto di Barletta una sottile galea,\nsubitamente, improvviso a tutti quelli del Regno, all\u2019uscita di Maggio\nl\u2019anno 1348, vi mont\u00f2 suso con poca compagnia, e fece dare de\u2019 remi in\nacqua, e senza arresto valic\u00f2 sano e salvo in Ischiavonia, e di l\u00e0 con\npochi compagni a cavallo se n\u2019and\u00f2 in Ungheria. Questa subita partita\ndi cotanto re fu tenuta follemente fatta da molti, e da lieve e non\nsavio movimento d\u2019animo, e molti il ne biasimarono. Altri dissono che\nprovvedutamente e con molto senno l\u2019avea fatto, avendo diliberato il\npartire nell\u2019animo suo per tema della mortalit\u00e0, e non vedendo tempo\nda potersi scoprire contra i baroni, i quali sentiva male disposti\nalla sua fede, come detto \u00e8, e commendaronlo di segreto e provveduto\npartimento.\nCAP. XV.\n_Novit\u00e0 del reame di Tunisi, e pi\u00f9 rivolgimenti di quello._\nIn questo mese di maggio avendo Balase re del Garbo e della Bella\nMarina prima conquistato il reame di Trenusi, e montatone in superbia\nambizione, tratt\u00f2 con Alesbi fratello del re di Tunisi: e fatta sua\narmata per mare, e grande oste per terra, improvviso al re di Tunisi\nfu addosso, e senza contasto, avendo il ricetto d\u2019Alesbi, entr\u00f2\nnella citt\u00e0, e prese il re, e di presente il fece morire. E avendo la\nsignoria, non attenne i patti ad Alesbi, il quale partito di Tunisi,\ne aggiuntosi grande copia d\u2019Arabi del reame, venne verso Tunisi. Il\nre Balase accolta grande oste and\u00f2 contro a lui, e commissono insieme\nmortale battaglia, nella quale mor\u00ec la maggiore parte della gente del\nre Balase, ed egli sconfitto si fugg\u00ec in Carvano, suo forte castello;\ne assediato in quello dagli Arabi, per danari s\u2019acconci\u00f2 con loro, e\ntornossi a Tunisi. Alesbi da capo co\u2019 gli Arabi torn\u00f2 sopra Tunisi: ma\nBalase si tenea la guardia delle terre, sicch\u00e8 gli Arabi non potendo\ncombattere si tornarono in loro pasture. Avea Balase quando si part\u00ec\ndi suo reame lasciato nella citt\u00e0 reale di Fessa Maumetto suo nipote,\ne in Tremus Buevem suo figliuolo. Costoro avendo sentito come Balase\nera sconfitto e assediato dagli Arabi, senza sapere l\u2019uno dell\u2019altro,\ncatuno si rubell\u00f2 e fecionsi fare re: il figliuolo in Tremus, e il\nnipote in Fessa. E sentendo Buevem che Maumetto s\u2019era levato re in\nFessa, parendogli ch\u2019egli avesse occupata la sua eredit\u00e0, propose\nnell\u2019animo suo d\u2019abbatterlo, e cos\u00ec gli venne fatto, come innanzi al\nsuo debito tempo racconteremo.\nCAP. XVI.\n_Come per la partita del re d\u2019Ungheria del Regno i baroni e\u2019 popoli si\ndolsono._\nSentendo gli uomini e i baroni del Regno la subita partita del re\nd\u2019Ungheria si maravigliarono forte, non ne avendo di ci\u00f2 conosciuto\nalcuno indizio. E molte comunanze e baroni ch\u2019amavano il riposo del\nRegno, e portavano fede alla sua signoria ne furono dolenti; perocch\u00e8\nnon ostante che fosse nato e nutricato in Ungheria, e avesse con seco\nassai di quella gente barbara, molto mantenea grande giustizia, e non\nsofferia che sua gente facesse oltraggio o noia a\u2019 paesani, anzi gli\npuniva pi\u00f9 gravemente: e fece de\u2019 suoi Ungheri per non troppo gravi\nfalli aspre e spaventevoli giustizie. E le strade e i cammini facea\nper tutto il Regno sicure. E avea spente le brigate de\u2019 paesani, delle\nquali per antica consuetudine soleano grandi congregazioni di ladroni\nfare, i quali sotto loro capitani conturbavano le contrade e\u2019 cammini:\ne per questo pareva a\u2019 paesani essere in istato tranquillo e fermo da\ndovere bene posare. E alquanti altri baroni che male si contentavano,\ne gentili uomini di Napoli, per la morte del duca di Durazzo, e per\nla presura de\u2019 reali a cui e\u2019 portavano grande amore, e perch\u00e8 il\nre non facea loro troppo onore, gli volevano male, e furono contenti\ndella sua partita. Gli altri se ne dolsono assai, e parve loro che il\nRegno rimanesse in fortuna e in male stato, e che il peccato commesso\ndella morte del re Andreasso, e l\u2019aggravamento de\u2019 peccati commessi\nper la troppa quiete de\u2019 paesani, e per la soperchia abbondanza in\nche si sconoscevano a Dio, non fosse punita, e meritasse maggior\ndisciplina e spogliamento di que\u2019 beni, dai quali procedeva la viziosa\ningratitudine, come avvenne, e seguendo nostra materia diviseremo.\nCAP. XVII.\n_Come si reggeva la sua gente nel Regno partito il re._\nPartito il re d\u2019Ungheria del Regno, la cavalleria dei Tedeschi e\ndegli Ungheri, governata per buoni capitani, con le masnade de\u2019 fanti\na pi\u00e8 toscani che aveano con loro, si manteneano chetamente senza\nvillaneggiare i paesani. E rispondea l\u2019una gente all\u2019altra tutti\nubbedendo a M. Currado Lupo, cui il re avea lasciato vicario, il quale\nmanteneva giustizia ov\u2019egli distrignea. E gli uomini del Regno bench\u00e8\nsi vedessono in debole signoria, non si ardivano a muovere contro\nai forestieri, e non parea per\u00f2 loro bene stare. Ma i baroni che non\namavano il re d\u2019Ungheria, volevano che la reina e M. Luigi tornassono\nnel Regno; e l\u2019universit\u00e0 di Napoli, co\u2019 gentiluomini di Capovana e di\nNido, d\u2019un animo deliberarono il simigliante; e mandarono in Proenza,\ndicendo che di presente dovessono tornare nel Regno, e fare capo a\nNapoli ove sarebbono ricevuti onorevolemente, mostrando come i paesani\nsi contentavano male della signoria de\u2019 Tedeschi e degli Ungheri, e che\nin brieve tempo col loro aiuto sarebbono signori del reame. Aggiugnendo\nche i soldati Ungheri e Tedeschi si rammaricavano forte, che il re\nd\u2019Ungheria non mandava danari per le loro paghe, ond\u2019eglino erano di\nlui malcontenti; e il doge Guernieri colla sua compagnia de\u2019 Tedeschi\nch\u2019era in Campagna s\u2019offeria d\u2019essere colla reina e con M. Luigi contro\nalla gente del re d\u2019Ungheria, in quanto il volesse conducere al suo\nsoldo: promettendo fedelmente per se e per le sue masnade d\u2019aiutarli\nriacquistare il Regno.\nCAP. XVIII.\n_Come messer Luigi si fe\u2019 titolare re al papa, e mand\u00f2 nel Regno._\nMesser Luigi trovandosi in corte di papa marito della regina Giovanna,\ne non re, gli parve, avendo diliberato di tornare nel Regno, che li\nfosse di necessit\u00e0 avere titolo di re: acciocch\u00e8 avendo a governare\ncolla reina le cose del reame, e a fare lettere da sua parte e della\nreina, il titolo non disformasse, perocch\u00e8 ancora la santa Chiesa\nnon avea diliberato di farlo re di Cicilia, si fece titolare il re\nLuigi d\u2019altro reame, il quale non avea, n\u00e8 era per poter avere. E\nd\u2019allora innanzi cominciarono a scrivere le lettere intitolandole in\nquesto modo: _Ludovicus et Ioanna Dei gratia rex et regina Hierusalem\net Ciciliae_. E d\u2019allora innanzi M. Luigi fu chiamato re. Il detto\nre Luigi e la reina Giovanna avendo il conforto del ritornare nel\nRegno, come detto \u00e8, senza soggiorno procacciarono di ci\u00f2 fare. E\ntrovandosi poveri di moneta, richiesono d\u2019aiuto il papa e i cardinali,\nil quale non impetrarono. Allora per necessit\u00e0 venderono alla Chiesa\nla giurisdizione che la reina avea nella citt\u00e0 di Vignone per fiorini\ntrentamila d\u2019oro. E nondimeno richiesono baroni, e comunanze, e\nprelati, limosinando d\u2019ogni parte per lo stretto bisogno. E con\nmolta fatica feciono armare dieci galee di Genovesi, e pagaronle\nper quattro mesi. E in questo mezzo il re Luigi mand\u00f2 innanzi a\nse nel Regno M. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio con pieno\nmandato, il quale trovando la materia disposta al proponimento del suo\nsignore, incontanente condusse il doge Guernieri, ch\u2019era in Campagna\ncon milledugento barbute di Tedeschi, ch\u2019erano in sua compagnia. E\nordinato le cose prestamente, mand\u00f2 sollecitando il re e la reina che\nsenza indugio venissono a Napoli con le loro galee: che essendo nel\nRegno le loro persone, con l\u2019aiuto di Dio e de\u2019 baroni del Regno, che\ndesideravano la loro tornata, e de\u2019 Napolitani, e del doge Guernieri,\ncui egli avea condotto con buone masnade, e con le sue galee e\u2019\nsarebbono a queto signori del Regno, e non conoscea che la gente del\nre d\u2019Ungheria a questo potesse riparare, sicch\u00e8 in brieve al tutto\nsarebbono signori.\nCAP. XIX.\n_Come il re e la reina ritornarono nel Regno._\nAvendo il re e la reina queste novelle, incontanente con quei baroni\nche poterono accogliere di Proenza, e con la loro famiglia, si\nraccolsono a Marsilia in su le dette dieci galee de\u2019 Genovesi: ed\navendo il tempo acconcio al loro viaggio, sani e salvi in pochi giorni\narrivarono a Napoli, all\u2019uscita del mese d\u2019agosto del detto anno.\nE perocch\u00e8 le castella di Napoli, e quello dell\u2019Uovo, e il castello\ndi Santermo, e \u2019l porto e la Tenzana erano nella signoria e guardia\ndella gente del re d\u2019Ungheria, non si poterono mettere nel porto, n\u00e8\nin quelle parti; anzi arrivarono fuori di Napoli sopra santa Maria del\nCarmino, di verso ponte Guicciardi, e ivi scesono in terra; e il re e\nla reina entrarono nella chiesa di Nostra Donna per aspettare i baroni\ne l\u2019universit\u00e0 di Napoli, che gli conducessono nella citt\u00e0.\nCAP. XX.\n_Come il re e la reina Giovanna entrarono in Napoli a gran festa._\nI baroni ch\u2019erano accolti a Napoli, aspettando la venuta del re e\ndella reina con la loro cavalleria, de\u2019 quali erano caporali quegli\ndi san Severino, e della casa del Balzo, l\u2019ammiraglio conte di\nMontescheggioso, quelli dello Stendardo, il conte di Santo Agnolo,\nque\u2019 della casa della Raonessa, e di Catanzano, e molti altri. I quali\nforniti di molti cavalli e di ricchi arredi e di nobili robe e arnesi,\ncon loro scudieri vestiti d\u2019assise, e\u2019 gentili uomini di Napoli con\nloro proprio, apparecchiati pomposamente a cavallo e a pi\u00e8 con molta\nfesta si misono ad andare al Carmino per conducere il re e la reina\nin Napoli con molta allegrezza; e da parte i Fiorentini e Sanesi e\nLucchesi mercatanti che allora erano in Napoli, e Genovesi e Provenzali\ne altri forestieri, catuna gente per se, vestiti di ricche robe di\nvelluti e di drappi di seta e di lana, con molti stormenti d\u2019ogni\nragione, sforzando la dissimulata festa, andarono incontro al re e\nalla reina. E giunti a loro, e fatta catuna compagnia la riverenza,\napparecchiati nobilissimi destrieri, montati a cavallo, addestrati\nda\u2019 baroni, sotto ricchi palii d\u2019oro e di seta con molte compagnie\nd\u2019armeggiatori innanzi, in prima il re, a cui andava in fronte il duca\nGuernieri co\u2019 suoi Tedeschi, smovendo il popolo, e dicendo: gridate\nviva il signore: e cos\u00ec gridando, fu la parola da molti notata, perch\u00e8\nera a loro nuovo titolo, non dicendosi viva il re, e con ragione dire\nnon lo potevano a quella stagione. E con questa festa il condussono\na Napoli; e perch\u00e8 l\u2019abitazioni reali erano tutte nella forza de\u2019\nnemici, il collocarono ad Arco, sopra Capovana, nelle case che furono\ndi messere Aiutorio. E appresso di lui con somigliante festa vi\ncondussono la reina. La gente, bench\u00e8 sforzata si fosse di fare festa,\npure s\u2019avvedea per le molte citt\u00e0 e castella che il re d\u2019Ungheria avea\nnel Regno, e per la buona gente che v\u2019era alla guardia, che questa\ntornata del re Luigi e della reina Giovanna era piuttosto aspetto di\nguerra e di grande spesa, e sconcio del paese e della mercanzia e de\u2019\nforestieri, che cominciamento di riposo, come poi n\u2019avvenne.\nCAP. XXI.\n_Come il re Luigi si fe\u2019 fare cavaliere, e da cui._\nVedendosi il re Luigi, e conoscendo il bisogno che avea di buono\naiuto, e veggendo che la maggiore forza de\u2019 suoi cavalieri era nel\nduca Guernieri, acciocch\u00e8 per onorevole beneficio pi\u00f9 lo traesse alla\nsua fede e amore, ordin\u00f2 di farsi fare cavaliere per le sue mani,\ndella qual cosa avvil\u00ec se, per onorare altrui. E ordinata gran festa\nper la sua cavalleria, del mese di settembre del detto anno, si fece\nfare cavaliere al detto doge Guernieri, ed egli in quello stante fece\nappresso ottanta altri cavalieri della citt\u00e0 di Napoli, e d\u2019altri\npaesi del Regno. La libert\u00e0 grande che \u2019l re dimostr\u00f2 nel tedesco duca\nGuernieri tosto trov\u00f2 vana in colui, come per la sua corrotta fede nel\nprocesso della nostra materia al suo tempo racconteremo.\nCAP. XXII.\n_Brieve raccontamento di cose fatte per il re d\u2019Inghilterra contra\nquello di Francia._\nRichiede il nostro proponimento, per le cose che avremo a scrivere de\u2019\nfatti del re di Francia e di quello d\u2019Inghilterra per la loro guerra,\nche noi ci traiamo un poco addietro alle cose occorse pi\u00f9 vicine,\nacciocch\u00e8 quelle che seguiranno abbiano pi\u00f9 chiaro intendimento.\nEssendo il valoroso re Adoardo d\u2019Inghilterra passato in Normandia, del\nmese d\u2019agosto, gli anni di Cristo 1347, e avendo preso Camoboroso e\nSaulu e pi\u00f9 altre ville, venendo verso Parigi con quattromila cavalieri\ne quarantamila sergenti, tra\u2019 quali avea molti arcieri, e fatto\nd\u2019arsioni e di preda gravi danni al paese, s\u2019accamp\u00f2 a Puss\u00ec e a San\nGermano, presso a Parigi a due leghe. Il re di Francia era andato colla\nsua forza verso Camo per farlisi incontro, e non trovandolo nel paese,\nsi torn\u00f2 addietro, e accolta molta baronia e cavalieri e sergenti\ndi suo vassallaggio, s\u2019accamp\u00f2 fuori di Parigi con pi\u00f9 di settemila\ncavalieri e sessantamila sergenti: il re d\u2019Inghilterra, sentendo la\ntornata del re di Francia, si lev\u00f2 da campo scostandosi da Parigi.\nIl re di Francia con grande baldanza il seguit\u00f2 con la sua gente,\ntanto che sopraggiunse il re d\u2019Inghilterra, che andava assai a lenti\npassi per non mostrare paura: e aggiugnendosi l\u2019una oste all\u2019altra,\nil re d\u2019Inghilterra vedendosi presso il re di Francia, e quello di\nBoemia e quello di Maiolica con molti baroni, e con pi\u00f9 di due tanti\ncavalieri che non avea egli, come signore di grande cuore e ardire,\ndi presente s\u2019apparecchi\u00f2 alla battaglia, intra Cresc\u00ec e Albevilla.\nE ordin\u00f2 tutto il suo carreaggio alla fronte a modo d\u2019una schiera, e\ndi sopra alle carra mise i cavalieri armati, e a pi\u00e8 d\u2019ogni parte i\nsuoi arcieri. E sopravvenendo l\u2019assalto de\u2019 Franceschi, baldanzosi,\ncon grande empito cominciarono la battaglia. Gl\u2019Inglesi fermi al loro\ncarreaggio, con l\u2019ordine dato agli arcieri, senza perdere colpo,\ndi loro saette fedivano i cavalli e\u2019 cavalieri de\u2019 Franceschi. E\nvedendo gl\u2019Inglesi fediti molti de\u2019 cavalli e de\u2019 cavalieri de\u2019 loro\navversari, a uno segno dato ordinate le guardie de\u2019 sergenti sopra il\ncarreaggio, corsono i cavalieri a\u2019 loro cavalli che aveano a destro\ndietro al carriaggio, e montati e assettati sopra i loro cavalli,\ncon savia condotta vennono alle spalle de\u2019 nimici, ed assalirono i\nFranceschi con dura battaglia. I Franceschi che erano re e baroni\nd\u2019alto pregio manteneano la battaglia vigorosamente, la quale dur\u00f2\nda mezza nona alle due ore di notte; ove si dimostrarono di grandi\noperazioni d\u2019armi di valorosi baroni e cavalieri da catuna parte. Ma\nperocch\u00e8 i Franceschi e i loro cavalli erano pi\u00f9 stanchi e magagnati\ndalle saette degl\u2019Inglesi, e molti conducitori di loro morti, come fu\nla volont\u00e0 d\u2019Iddio la vittoria rimase al re d\u2019Inghilterra, con grande\ne grave danno de\u2019 Franceschi. Morto vi fu il valente re di Boemia,\nfigliuolo dello imperatore Arrigo di Luzimborgo, e il duca di Loreno,\nil conte di Lanzone fratello del re di Francia, e sei altri conti, con\nmilleseicento cavalieri grande parte baroni e banderesi, e morironvi\nventimila pedoni; fra i quali furono i Genovesi che erano andati l\u00e0\ncon dodici galee, che pochi ne camparono. Ed il re Filippo di Francia\ndi notte, con sei tra prelati e baroni, e sessanta sergenti a pi\u00e8,\nusc\u00ec della battaglia, e camp\u00f2 per grazia della notte. Sul campo si\ntrovarono molti cavalli morti e bene quattromila fediti. E fatta questa\nbattaglia a d\u00ec 26 d\u2019agosto nel 1347, il re d\u2019Inghilterra poco appresso\npose assedio al forte castello di Calese sulla marina, e per assedio il\nvinse: e fattolo pi\u00f9 forte, per avere porto nel reame e nella marina\ndi Francia, lasciato nel paese il conte d\u2019Erbi duca di Lancastro,\nsuo cugino, a guerreggiare, con duemila cavalieri e ventimila pedoni\ni pi\u00f9 arcieri, con grande onore si torn\u00f2 in Inghilterra. Il conte\nd\u2019Erbi entr\u00f2 in Guascogna l\u2019anno appresso, e conquist\u00f2 pi\u00f9 terre di\nquelle che vi tenea il re di Francia; e rotti in pi\u00f9 abboccamenti i\ncavalieri franceschi, se ne venne cavalcando e predando il paese infino\nalla citt\u00e0 di Tolosa; ma aggravando la mortalit\u00e0 quei paesi, si torn\u00f2\naddietro con grande preda. E fatta tregua dall\u2019uno re all\u2019altro, con\ngrande onore del re d\u2019Inghilterra, pos\u00f2 la guerra per alcuno tempo.\nCAP. XXIII.\n_Come gli Ubaldini furo cominciatori della guerra che il comune di\nFirenze ebbe con loro._\nAvendo narrato de\u2019 fatti de\u2019 due reami, cominciano le novit\u00e0 della\nnostra citt\u00e0 di Firenze. Negli anni di Cristo 1348, essendo gli\nUbaldini in pace, ma in corrotta fede col nostro comune, fidandosi\nnelle loro alpigiane fortezze, cominciarono a ricettare sbanditi del\ncomune di Firenze: e insieme con loro entravano di notte nel Mugello,\nrubando le case e uccidendo gli uomini, e ricoglieansi nell\u2019alpe con\nle ruberie. E avendo fatto questo pi\u00f9 volte di notte, il cominciarono\na fare di d\u00ec. E tornando d\u2019Avignone uno Maghinardo da Firenze con\nduemila fiorini d\u2019oro, gli Ubaldini il seguirono e uccisono, rubandolo\nsul contado di Firenze. E non volendone fare ammenda alla richesta del\ncomune, i Fiorentini mandarono nell\u2019alpe suoi soldati a pi\u00e8 e a cavallo\ncol capitano della guardia. E stati pi\u00f9 d\u00ec sopra le terre e sopra i\nfedeli degli Ubaldini feciono loro gran danno, e senza alcuno contasto\nsi tornarono a Firenze.\nCAP. XXIV.\n_Come i fedeli del conte Galeotto si rubellarono da lui e dieronsi al\ncomune di Firenze._\nIn questo anno, i fedeli del conte Galeotto de\u2019 conti Guidi si\nrubellarono da lui, perocch\u00e8 lungamente gli avea male trattati, per\nsua crudelt\u00e0 e dissoluta vita: e all\u2019entrata del mese di marzo del\ndetto anno gli tolsono il forte castello di san Niccol\u00f2, e tutte le sue\nterre e tenute intorno a quello, e \u2019l suo tesoro e arnesi, che n\u2019era\nfornito nobilmente, e di presente si diedono al comune di Firenze. Il\nquale, perocch\u00e8 il detto conte sempre avea nimicato il nostro comune,\nperocch\u00e8 era ghibellino, ricevette la fortezza e gli uomini in sua\ngiurisdizione e libera signoria, con quelle solenni cautele che i\ndetti uomini poterono fare; e fecionli popolani e contadini, dando loro\nper alcuno tempo certe immunit\u00e0. E ordinata la guardia delle castella\nnelle mani de\u2019 cittadini, a\u2019 popoli diede podest\u00e0 che gli reggesse, e\nmesse le castella e gli uomini ne\u2019 suoi registri. Dinomin\u00f2 e intitol\u00f2\nl\u2019acquisto, il contado di san Niccol\u00f2 del comune di Firenze.\nCAP. XXV.\n_Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini, e presero Montegemmoli\ne loro castella._\nVedendo i Fiorentini che la latrocina superbia degli Ubaldini non\nsi gastigava per una battitura, feciono decreto, che ogni anno\nsi dovesse tornare sopra di loro, tanto che fossono privati delle\nalpigiane spelonche. E per questa cagione, il verno furono chiamati\notto cittadini uficiali sopra provvedere e fornire la guerra: i quali,\ndel mese di giugno 1349, mandarono l\u2019oste del comune nell\u2019alpe, la\nquale si dirizz\u00f2 a Montegemmoli, una rocca quasi inespugnabile: nella\nquale era Maghinardo da Susinana e due suoi figliuoli, con parecchie\nmasnade di franchi masnadieri, i pi\u00f9 usciti di Firenze. Era fuori\ndella rocca in su la stretta schiena del poggio, alla guardia della\nvia ch\u2019andava al castello, una torre forte e bene armata: innanzi\nalla torre una tagliata in su la schiena del poggio, con forte\nsteccato: e a questa guardia, per voglia di fare d\u2019arme, i caporali\nde\u2019 masnadieri del castello erano scesi co\u2019 loro compagni: e la gente\ndel comune di Firenze avendo fermo il loro campo, a intendimento di\nvincere il castello per assedio, e molestarlo con dificii i quali\nvi faceano conducere, alquanti masnadieri s\u2019appressarono verso la\nguardia della torre per badaluccare. I valenti masnadieri d\u2019entro, per\ntroppa baldanza, uscirono fuori della tagliata incontro alla gente de\u2019\nFiorentini, badaluccando e facendo gran cose d\u2019arme per lo vantaggio\nche aveano del terreno. In questo stante i cavalieri de\u2019 Fiorentini\nmontando il poggio per dare vigore a\u2019 loro masnadieri, cominciarono\na scendere de\u2019 cavalli, e a pignersi innanzi con fanti e a\u2019 nemici, i\nquali per non perdere il terreno, con folle prodezza attesono tanto,\nche i cavalieri e\u2019 masnadieri de\u2019 Fiorentini co\u2019 balestrieri furono\nmischiati tra loro, innanzi che si potessono ritrarre alla fortezza.\nE volendosi ritrarre, per lo soperchio de\u2019 loro avversari non poterono\nfare, che a un\u2019ora con loro insieme non entrassono dentro alli steccati\ni masnadieri fiorentini, e a loro aiuto erano tratti tanti balestrieri,\nche non lasciarono a\u2019 nemici riprendere la fortezza della torre: anzi\nla presono per loro. E ritraendosi i masnadieri degli Ubaldini per\nloro scampo nella rocca, continuando la battaglia stretta alle mani,\nentrarono i Fiorentini cacciando gli avversari nel primo procinto. E\ncrescendo della gente dell\u2019oste la loro forza, presono tutto, fuori\nde\u2019 palagi e torri dell\u2019ultima fortezza, ov\u2019era racchiuso Maghinardo\ne la moglie, e due suoi figliuoli con loro compagnia: i quali si\ndifenderono vigorosamente. Essendo il d\u00ec e la notte combattuti dalla\ngente de\u2019 Fiorentini, Maghinardo e\u2019 figliuoli, bench\u00e8 fossero in\nfortezza da potersi difendere lungamente, conobbono il loro pericolo.\nE sentendosi male d\u2019accordo per loro quistioni con gli altri Ubaldini\nloro consorti, si deliberarono di dare la rocca a\u2019 Fiorentini, e di\nvolere essere contro a\u2019 suoi consorti co\u2019 Fiorentini. E fatti i patti,\ne fermi a Firenze, diedono la rocca libera al comune di Firenze: e il\ncomune prese il saramento della fede promessa, li ricevette in amicizia\ne cittadinanza, e ordinarono loro la provvigione promessa: e dati loro\ncavalieri e pedoni si mossono a guerreggiare gli altri Ubaldini. E\ninnanzi che l\u2019oste de\u2019 Fiorentini tornasse, assedi\u00f2 Montecolloreto, e\npresonlo; e misonvi fornimento e buona guardia. Andarono a Roccabruna\ned ebbonla: ed entrarono nel Podere e presono Lozzole per trattato.\nE per trattato fu dato loro la signoria di Vigiano e di pi\u00f9 altre\ntenute, che appartenevano al detto Maghinardo e a certi altri degli\nUbaldini che feciono il comandamento del comune. E andarono intorno a\nSusinana, guastando le case e\u2019 campi di fuori; e tentando di volerlo\ncombattere, trovarono il castello s\u00ec forte e s\u00ec bene fornito alla\ndifesa, che lasciarono stare, e andarono a Valdagnello, e dieronvi una\nbattaglia, senza potervi acquistare per la fortezza del sito, e perch\u00e8\nera bene provveduto alla difesa: e per\u00f2 guastarono i campi e le ville\nd\u2019intorno. E fornito che ebbono tutte le castella che aveano acquistate\ndi vittuaglia e d\u2019arme e di buona guardia, avendo fatto agli Ubaldini e\na\u2019 loro fedeli gran danno, del mese d\u2019agosto, gli anni di Cristo 1349,\nsenza alcuno impedimento, sani e salvi con vittoria si tornarono alla\ncitt\u00e0 di Firenze.\nCAP. XXVI.\n_Come il re di Francia comper\u00f2 il Dalfinato._\nIl re di Francia posandosi nella tregua col re d\u2019Inghilterra, avendo\npapa Clemente sesto, suo protettore ne\u2019 fatti temporali, perocch\u00e8\nper lui si teneva essere al papato, e amava sopra modo d\u2019accrescere\ni suoi congiunti, i quali erano uomini del re di Francia, e per\u00f2 il\nre traeva in sussidio della guerra danari al bisogno; e le decime del\nreame e tutte grazie che volea domandare il papa senza mezzo l\u2019otriava,\ntrapassando l\u2019onest\u00e0 del suo pontificato: e perocch\u00e8 i cardinali erano\nla maggior parte di suo reame, non si ardivano a contrapporre a cosa\nche volesse. Era in que\u2019 d\u00ec il Dalfino di Vienna uomo molle, e di poca\nvirt\u00f9 e fermezza. Costui alcuno tempo tenne vita femminile e lasciva,\nvivendo in mollizie: ed appresso volle usare l\u2019arme: e and\u00f2 capitano\nper la Chiesa alle Smirne in Turchia, e dove poteva acquistare onore\ne pregio, torn\u00f2 con poca buona fama: e per bisogno impegn\u00f2 alla Chiesa\nil Dalfinato per fiorini centomila d\u2019oro: ed essendo morta la moglie,\ncredendo prosperare in abito chericile, sperando in quello divenire\ncardinale, vend\u00e8 al re Filippo di Francia il Dalfinato, contro alla\nvolont\u00e0 de\u2019 suoi paesani, e pag\u00f2 la Chiesa: e fatto cherico fu dal\npapa promosso in patriarca.... nel quale fin\u00ec sua vita spegnendo\nla fama della casa sua. E il re di Francia, perdendo per la guerra\nd\u2019Inghilterra in ponente, accresceva senza guerra in levante i confini\nal suo reame.\nCAP. XXVII.\n_La cagione perch\u00e8 il re d\u2019Araona tolse Maiolica al re._\nVera cosa fu, che il re di Maiolica nella sua infanzia si nutric\u00f2 co\u2019\nreali di Francia, e poi che fu re di Maiolica, essendo dissimigliante\na\u2019 Catalani onde traeva suo origine, mostr\u00f2 d\u2019essere molto scienziato\ne adorno di bei costumi. Disdegn\u00f2 di rendere al re d\u2019Araona l\u2019omaggio\ndebito, il quale si pagava con la reverenzia d\u2019un bacio: e schifo della\nvita catalanesca e di loro costumi, seguiva i Franceschi; la qual\ncosa il fece sospetto al suo legnaggio. Cugino era del re d\u2019Araona,\ne la sirocchia carnale avea per moglie, della quale avea figliuoli.\nNondimeno il re d\u2019Araona fece apparecchiamento d\u2019arme contro a lui, e\ntrattato occulto co\u2019 cittadini di Maiolica. Per lo quale, essendo egli\na Perpignano, e venendo sopra loro il re d\u2019Araona, volendo mostrare di\nvolersi difendere, il feciono venire in Maiolica, mostrando di volerlo\natare fedelmente. Venuta la gente col re d\u2019Araona, e scesa nell\u2019isola,\naccogliendo il consiglio in Maiolica per volere dare ordine alla\ndifesa, essendo tempo da potere scoprire il loro tradimento, feciono\ndire al loro re, o che facesse la volont\u00e0 del re d\u2019Araona, o che se\nn\u2019andasse. Vedendosi tradito da\u2019 suoi cittadini, i quali aveano gi\u00e0\nabbarrata la citt\u00e0 contro a lui, si ricolse in fretta, per campare la\npersona, in una galea. E partendosi dell\u2019isola, le porte della citt\u00e0\nfurono aperte alla gente del re d\u2019Araona: e data loro la signoria di\ntutta l\u2019isola, con patto che ella non dovesse tornare per alcuno tempo\nal loro re n\u00e8 a\u2019 suoi discendenti.\nCAP. XXVIII.\n_Come il re di Maiolica vend\u00e8 la sua parte di Mompelieri al re di\nFrancia._\nIl re di Maiolica essendo cacciato dell\u2019isola da\u2019 suoi sudditi, venuta\nl\u2019isola nella signoria del re d\u2019Araona, e avendo poco di quello che il\nsuo titolo reale richiedea, disiderando d\u2019accogliere moneta, e d\u2019avere\naiuto dal re di Francia, al cui servigio era stato lungamente nelle\nsue guerre e battaglie personalmente, il richiese con grande istanza\nd\u2019aiuto, acciocch\u00e8 potesse ricoverare lo suo, ma da lui non pot\u00e8 avere\nalcuno aiuto. E stretto da grave bisogno, vend\u00e8 al detto re di Francia\nla propiet\u00e0 e giurisdizione ch\u2019avea in comune consorteria col detto re\nnella met\u00e0 di Mompelieri, per quello pregio che il re di Francia volle,\na buono mercato. E come povero e sventurato re venia cercando modo di\nriacquistare l\u2019isola di Maiolica. La qual cosa fu cagione della sua\nfinale morte, come innanzi al suo tempo racconteremo.\nCAP. XXIX.\n_Come s\u2019ordin\u00f2 il generale perdono a Roma nel 1349._\nEssendo stato il giudicio della generale mortalit\u00e0 nell\u2019universo\nper giusta cagione, fu supplicato al papa che nel prossimo futuro\ncinquantesimo anno la Chiesa rinnovellasse generale perdono in Roma.\nIl papa Clemente sesto, col consiglio de\u2019 suoi cardinali, e di molti\naltri prelati e maestri in teologia, trovando che per lo dicreto fatto\nper papa Bonifazio, ogni capo di cento anni dalla nativit\u00e0 di Cristo\nfosse ordinato generale perdono a Roma, per comune consiglio parve pi\u00f9\nconvenevole, considerando l\u2019et\u00e0 umana che \u00e8 brieve, che il perdono\nfosse di cinquanta in cinquanta anni. Avendo ancora alcuno rispetto\nall\u2019anno Iubileo della santa Scrittura, nel quale catuno ritornava ne\u2019\nsuoi propri beni: e i propri beni de\u2019 cristiani sono i meriti della\npassione di Cristo, per li quali ci seguita indulgenzia e remissione\ndei peccati. E per questa cagione la santa madre Chiesa fece decreto\ne ordine: che nel prossimo futuro cinquantesimo anno, per la nativit\u00e0\ndi Cristo, cominciasse a Roma generale perdono di colpa e di pena\ndi tutti i peccati a\u2019 fedeli cristiani i quali andassono a Roma, dal\ndetto termine a uno anno, i quali fossono confessi e contriti de\u2019 loro\npeccati, e vicitassono ogni d\u00ec la chiesa di santo Pietro e di santo\nPaolo e di santo Giovanni Laterano. E le dette visitazioni furono\nstribuite a\u2019 Romani trenta d\u00ec continovi, salvo che quello si omettesse\nsi potesse con un altro ristorare; ed agl\u2019Italiani quindici d\u00ec, e\nagli oltramontani a tali dieci, a tali cinque d\u00ec, e meno, secondo la\ndistanza de\u2019 paesi. E nondimeno la Chiesa discretamente provvide, per\nmolti e diversi casi e cagioni che possono avvenire, ch\u2019e\u2019 cardinali e\ngli altri legati che andarono per lo mondo, e stettono a Roma, avessono\nautorit\u00e0 di potere dispensare del tempo come a loro paresse. E le\nlettere furono fatte e mandate per corrieri sotto le bolle papali. In\nprima per tutta la cristianit\u00e0, e appresso per suoi legati a predicare\nper tutto le sante indulgenze, acciocch\u00e8 ciascuno s\u2019apparecchiasse e\ndisponesse a potere ricevere il santo perdono. In Italia furono mandati\ndue cardinali, quello di Bologna sopra lo Mare, messer Annibaldo di\nCeccano, e messer Ponzo di Perotto di Linguadoca vescovo d\u2019Orbivieto,\nuomo onesto, e di grande autorit\u00e0, il quale era vicario di Roma per\nlo papa: fu commessa piena e generale legazione a potere a tutti\ndispensare il tempo delle dette visitazioni come a lui paresse, ch\u2019era\npresente continuo nella citt\u00e0 di Roma. Lasciando alquanto la santa\ndisposizione del perdono, ci occorrono meno piacevoli, e pi\u00f9 gravi cose\nal presente a raccontare.\nCAP. XXX.\n_Come il re di Maiolica and\u00f2 per racquistare l\u2019isola, e fuvvi morto._\nLo sventurato re di Maiolica non trovando aiuto dal re di Francia,\ncui egli avea lungamente servito nelle sue guerre, n\u00e8 dal papa, n\u00e8\nda alcuno altro signore, strignendolo la volont\u00e0 e \u2019l bisogno di\nracquistare l\u2019isola, come disperato d\u2019ogni aiuto, avendo venduta la sua\nparte di Mompelieri, accatt\u00f2 danari dal re di Francia sopra la villa\ndi Perpignano, ch\u2019altro non gli era rimaso, e condusse cavalieri e\npedoni, e dodici galee di Genovesi fece armare al suo soldo, e alcuno\nnavilio di carico; sperando, quando fosse con forza d\u2019arme nell\u2019isola,\ngli uomini del suo regno tornassono a lui, come forse a inganno gli era\ndato intendimento, perocch\u00e8 con alquanti era in trattato. Apparecchiata\nl\u2019oste, e \u2019l navilio con le dodici galee armate, del mese di... del\ndetto anno si mise in mare; e senza impedimento arriv\u00f2 nell\u2019isola di\nMaiolica, presso alla citt\u00e0 a dieci miglia; e ivi scesi in terra,\ns\u2019accamp\u00f2 con quattrocento cavalieri e cinquecento masnadieri,\naspettando che coloro della citt\u00e0 con cui avea trattato, e il popolo\ndella terra il volessono come loro benigno e natural signore. Le dodici\ngalee de\u2019 Genovesi avendo messo in terra il re, o che fosse di suo\ncomandamento, per mostrarsi pi\u00f9 forte agli uomini dell\u2019isola, o per\naltre cagioni, si partirono da quella parte ove il re avea posto il\ncampo, e girarono da un\u2019altra parte del\u2019isola; e rimaso il re, e \u2019l\nfigliuolo, e l\u2019altra gente senza il favore delle dodici galee, della\ncitt\u00e0 di Maiolica subitamente uscirono pi\u00f9 di seicento cavalieri con\ngrandissimo popolo, e vennero contro all\u2019oste del re per combattere con\nlui. Il re vedendosi i nimici appresso, potea stare alle difese tanto\nche tornassero le sue galee: ma con vana confidanza de\u2019 suoi regnicoli,\nche non dovessero resistere contro a lui, senza attendere punto, si\nvolle mettere alla battaglia, per trarre a fine la sua impresa come la\nfortuna il menava. E ordinata la sua gente, e confortata a ben fare,\nmostrando che quivi non era altro rimedio che nel bene operare la virt\u00f9\ndelle loro persone, s\u00ec fed\u00ec tra i nemici, i quali erano cavalieri\ncatalani, maggiore quantit\u00e0 e migliore gente che i suoi soldati, e\nguidati da buoni capitani, i quali ricevettono il re e i suoi cavalieri\nfrancamente, per modo, che in poca d\u2019ora furono sconfitti, e il re\nmorto. Il quale se avessono voluto potieno ritener prigione, ma rade\nvolte in fatti d\u2019arme tra\u2019 Catalani si trova mansuetudine: il figliuolo\nfu preso, e rappresentato al zio re d\u2019Araona, l\u2019altra gente fu rotta\ne sbarattata, e l\u2019isola rimase libera al re d\u2019Araona, e Mompelieri e\nPerpignano al re di Francia.\nCAP. XXXI.\n_Come i baroni italiani e catalani per loro discordie guastarono\nl\u2019isola di Cicilia._\nAvendo detto dell\u2019isola di Maiolica, quella di Cicilia ci s\u2019offera con\ndissimigliante fortuna. Essendo per la mortalit\u00e0 morto il valoroso\nduca Giovanni, balio e governatore dell\u2019isola di Cicilia, rimaso\npicciolo fanciullo di dieci anni messer Luigi figliuolo che fu di\ndon Pietro, il quale si fece appellare re di Cicilia, a cui aspettava\nl\u2019eredit\u00e0 del detto reame. Costui avea due fratelli minori di se, l\u2019uno\nchiamato Giovanni, l\u2019altro Federigo. E non essendo della casa reale\nnessuno in et\u00e0 che governasse l\u2019isola per lo fanciullo, discordia\nnacque tra i baroni: e dall\u2019una parte erano i Palizzi caporali, e\ncon loro teneano quelli di Chiaramonte, e\u2019 conti di Vintimiglia, e i\ndiscendenti conti della casa degli Uberti di Firenze, de\u2019 quali era\ncapo il conte Scalore, e con costoro teneano quasi la maggiore parte\ndegl\u2019Italiani dell\u2019isola. E questi si faceano chiamare la parte del re,\ne a loro segno rispondeano le migliori citt\u00e0 della marina dell\u2019isola,\nMessina, Siracusa, Melazzo, Cefalu, Palermo, Trapani, Mazzara, Sciacca,\nGirgenti, Taormina, e gran parte delle buone terre e castella fra la\nterra dell\u2019isola. E dall\u2019altra parte era don Brasco d\u2019Araona caporale\ncon gli altri Catalani dell\u2019isola, e il figliuolo di Giovanni Barresi\ncolla sua casa, genero di don Brasco, e molti altri di Catania, i quali\naveano a loro segno alla marina la citt\u00e0 di Catania, Iaci, Alicata,\nTose, la Catona, e il capo d\u2019Orlando; e fra terra grande numero di\ncitt\u00e0 e di castella. E per simigliante modo si faceano costoro chiamare\nla parte del re. E per le loro divisioni cominciarono a far guerra\nl\u2019uno contra l\u2019altro. E catuna parte s\u2019armava, e afforzava d\u2019avere\nseguito di gente dell\u2019isola: e catuno volea governare il reame per\nlo re, e non potendosi trovare via d\u2019accordo tra loro, cominciarono\na cavalcare l\u2019uno sopra l\u2019altro; e dove si scontravano si combatteano\nmortalmente. E spesso rompea e sconfiggea l\u2019una gente l\u2019altra, e senza\nmisericordia a tenere prigione s\u2019uccidevano insieme, e montando la loro\nsfrenata mala volont\u00e0, cominciarono ad ardere le loro possessioni e\nle biade ne\u2019 campi, come fossono in terra di nimici; e facendo questo\nguasto, oggi in una contrada, e domani nell\u2019altra, consumarono il paese\nsenza alcuna misericordia. E seguitando l\u2019uno d\u00ec appresso dell\u2019altro\nquesta pestilente furia tra loro, in poco tempo fu tanta tribolazione\ntra\u2019 paesani, e tanta disfidanza, che lasciarono il coltivamento delle\nterre, e il nutricamento del bestiame: onde avvenne che quello paese,\nil quale per antico era fontana viva di grano, e di biade, e d\u2019ogni\nvittuaglia, a spandere per lo mondo tra i cristiani e tra i saracini,\nche solo tra loro nell\u2019isola non avea che manicare; e il bestiame per\nsimigliante modo fu consumato e disperso. Per la quale cosa avvenne\nche l\u2019anno 1349 a Palermo, e a pi\u00f9 altre citt\u00e0, per inopia convenne\nsi provvedesse per comune consiglio grano mescolato con orzo, e dare\nogni settimana certa piccola distribuizione per testa d\u2019uomo, acciocch\u00e8\npotessono miserevolmente mantenere la loro vita. E non potendosi\nsostentare i popoli con questa misera provvisione, convenne che il\npopolo minuto in gran parte per nicist\u00e0 abbandonasse l\u2019isola, e molti\nne fuggirono in Calavra e nel\u2019isola di Sardigna per scampare dalla\nfame la loro vita. E questa pestilenzia non avvenne a\u2019 Ciciliani per\nsterilit\u00e0 di tempo avverso, che i campi aveano da Dio la loro stagione\nfertile, e abbondevole della grazia del cielo. E non era tolto loro\nil coltivamento da nimici strani, n\u00e8 per rubellione di loro signorie,\nn\u00e8 per odio del paese, ch\u2019era patria de\u2019 suoi abitanti a catuna parte\ne reame d\u2019uno medesimo re: ma stimasi avvenisse per dimostrazione\ndel peccato della ingratitudine dell\u2019abbondanza di troppi beni, e\na dimostrare come \u00e8 divoratrice senza rimedio d\u2019ogni buono stato la\ncittadinesca discordia, e il divoratore fuoco della laida invidia.\nCAP. XXXII.\n_Come il re Filippo di Francia e \u2019l figliuolo tolsono moglie._\nEra nella mortalit\u00e0 morta la moglie del re Filippo di Francia, madre di\nmesser Giovanni primogenito, Dalfino di Vienna, la quale fu sirocchia\ndel duca di Borgogna, e la moglie di messer Giovanni suo figliuolo,\nfigliuola che fu del re Giovanni di Boemia della casa di Luzimborgo,\ndella quale rimasono quattro figliuoli maschi, che \u2019l primo nomato\nCarlo fu duca di Normandia, e il secondo messer Luigi conte d\u2019Angi\u00f2,\ne il terzo messer Giovanni conte di Pittieri, e il quarto minore\nmesser Filippo: e tre figliuole, che la maggiore fu reina di Navarra,\nla seconda monaca del grande monasterio di Pusc\u00ec, e un\u2019altra piccola\nnominata Lisabetta. Ed essendo catuno senza moglie, il duca Giovanni\ntrattava di torre per moglie la sirocchia del re di Navarra, ch\u2019era\ndelle pi\u00f9 belle giovani e di maggiore pregio di virt\u00f9 che niun\u2019altra\ndi que\u2019 paesi, e tenevane bargagno. Il re Filippo suo padre sapendo\nche il figliuolo trattava d\u2019avere questa damigella per moglie, un d\u00ec\nche \u2019l duca suo figliuolo era cavalcato fuori del paese, mand\u00f2 per\nquesta giovane: e come fu venuta, senza fare altro trattato la tolse\nper moglie, perocch\u00e8 \u2019l piacere della sua bellezza non gli lasci\u00f2\nconsiderare pi\u00f9 innanzi. Tornato il figliuolo se ne indegn\u00f2 forte, e\nalla festa delle nozze del padre non volle essere. Ma passato alcuno\ntempo, richiamato dal padre, venne a lui. E riprendendolo il re\ndolcemente, gli disse: caro figliuolo, se voi amavate avere a donna\nquesta damigella, voi non dovevate tener bargagno. Onde egli conoscendo\nsuo difetto, rimase contento. E allora il padre gli di\u00e8 per moglie\nun\u2019altra nobile dama della casa di Bologna su lo mare, ch\u2019era stata\nmoglie del duca di Borgogna: della qual cosa i Borgognoni furono mal\ncontenti, essendo rimaso un picciolo fanciullo della detta donna, il\nquale dovea essere loro duca. E per lo detto maritaggio vend\u00e8 la donna\nil governamento del figliuolo con la forza del re, e il re occup\u00f2\nparte della giuridizione di Borgogna, onde i baroni e\u2019 paesani forte si\nsdegnarono contro al loro re. Ma perocch\u00e8 il re di Francia per troppa\ngiovinile vaghezza avea offeso il figliuolo e se, poco tempo stette\ncon la sua giovane e vaga donna, che sforzando la natura gi\u00e0 senile\nnella bellezza della damigella, raccorci\u00f2 il tempo della sua vita,\ncome appresso al debito tempo racconteremo, narrando prima com\u2019egli fu\ningannato dagl\u2019Inghilesi.\nCAP. XXXIII.\n_Come il re di Francia fu ingannato del trattato di Calese con gran\ndanno._\nIl re Filippo avendo l\u2019animo curioso di trarre del suo reame la forza\ndel re d\u2019Inghilterra, il quale teneva il forte castello di Calese in su\nla marina, non potendo per forza farlo, pensava fornirlo per danari con\ntrattato. Alla guardia di Calese era uno gentile uomo d\u2019Inghilterra,\ncon sue masnade di cavalieri e di sergenti. Il re di Francia il fece\ntentare se per danari gli rendesse il castello. L\u2019Inghilese avveduto\ndiede orecchie al fatto, e senza indugio il fece segretamente sentire\nal suo signore; il quale confidandosi nella fede di costui, gli\ndiede per comandamento che menasse saviamente il trattato infino al\nfatto. Costui seguit\u00f2 con molta astuzia, tanto, che per la sfrenata\nvolont\u00e0 che il re di Francia avea di racquistarlo, s\u2019indusse a dare\ni danari innanzi, attenendosi alla fede del castellano, e dielli,\ncome era il patto, seimila scudi d\u2019oro, di ventimila che per lo patto\ngli dovea dare, e del rimanente gli fece quelle fermezze che volle,\nche mettendo dentro nel castello quella gente che il re volesse, in\nsul ponte compierebbe il pagamento. E cos\u00ec data la fede da catuna\nparte, il re di Francia commise la bisogna ad alquanti suoi baroni:\ni quali incontanente forniti di cavalieri e di sergenti d\u2019arme in\ngrande quantit\u00e0, cavalcarono al castello; e come ordinato era per\nlo castellano, aperta la porta, e calato il ponte, mise dentro nel\ncastello coloro cui i Franceschi vollono, perch\u00e8 vedessero a loro\nsicurt\u00e0 che dentro non vi fosse altra gente che la sua alla guardia,\nacciocch\u00e8 si assicurassono a fare il rimanente del pagamento; e a\ncostoro, com\u2019egli avea provveduto, fece s\u00ec vedere, che del nascoso\naguato non si avvidono. Onde i Franceschi vinti dalla sprovveduta\nbaldanza, s\u2019affrettarono a fare sul ponte il pagamento del rimanente\nfino ne\u2019 ventimila scudi d\u2019oro al castellano, ed egli mise dentro nel\ncastello una parte de\u2019 Franceschi, mostrando di volere assegnare loro\nla fortezza del castello, e l\u2019altra oste s\u2019attendea di fuori. Il re\nd\u2019Inghilterra, che avea fatto menare questo trattato, era di notte\nvenuto nel castello egli e il figliuolo con buona compagnia di gente\neletta e fidata, come a quello affare gli parve competente, i quali\nsi stettono riposti per modo, ch\u2019e\u2019 Franceschi non se ne poterono\navvedere. I Franceschi che si credettono senza inganno essere signori\ndel castello, da pi\u00f9 parti furono subitamente assaliti dal re e da sue\ngenti. E bene che gl\u2019Inghilesi fossono pochi a rispetto de\u2019 Franceschi,\nper lo improvviso e subito assalto i Franceschi ch\u2019erano nel castello\nsbigottirono, e temettono, vedendosi a stretta, e non essendo usi\ndi cotali baratti, per s\u00ec fatto modo, che poco feciono resistenza.\nGl\u2019Inghilesi di presente, come ordinato fu, presono le vie e le porti,\ne \u2019l castellano che si mischiava al cominciamento co\u2019 Franceschi\nd\u2019entro si rivolse contro a loro. E vedendo i Franceschi che non\naveano l\u2019uscita libera della terra, lasciarono l\u2019arme, e arrenderonsi\nprigioni al re d\u2019Inghilterra. E fatto questo, a\u2019 Franceschi di fuori\nfu la cosa s\u00ec maravigliosa, che fortemente spaventarono. E sentendo\nquesto il re e\u2019 suoi presono ardire, e uscirono fuori addosso agli\nspaventati, con grandi strida e ardire. E non ostante che i Franceschi\nfossono presso a dieci per uno degl\u2019Inghilesi, tanta paura gli vinse,\nche si misono in fuga, e abbandonarono il campo. Ed essendo seguitati\nalquanto dagl\u2019Inghilesi, che non gli poterono troppo seguitare perch\u00e8\naveano pochi cavalli, presine e morti alquanti, con doppia vittoria si\nritornarono nel castello.\nCAP. XXXIV.\n_Come messer Carlo eletto imperadore fu presso che morto di veleno._\nNella cronica del nostro anticessore \u00e8 fatta memoria, come la santa\nChiesa di Roma, sappiendo come Carlo figliuolo del re Giovanni di\nBoemia era di virt\u00f9 e di senno e di prodezza il pi\u00f9 eccellente prenze\ndella Magna, morto il Bavaro, che lungo tempo in discordia colla Chiesa\navea occupato lo \u2019mperio, non ostante che il re Giovanni vivesse,\nordin\u00f2 di farlo eleggere allo \u2019mperio. Ed essendo in discordia gli\nelettori, perocch\u00e8 l\u2019arcivescovo di Maganza non gli volea dare la boce\nsua, papa Clemente trovando ch\u2019egli era stato de\u2019 fautori del Bavaro,\nil priv\u00f2 dell\u2019arcivescovado, ed elessene un altro; il quale avendo il\ntitolo, non ostante non avesse la possessione, come il papa volle diede\nla sua boce al detto Carlo, e cos\u00ec ebbe piena la sua elezione. Costui\neletto era impotente di cavalleria e di moneta a potere mantenere campo\nad Aia la Cappella quaranta d\u00ec, a rispondere con la forza dell\u2019arme\na chi lo volesse contastare, secondo la consuetudine degli eletti\nimperadori: e per\u00f2 santa Chiesa dispens\u00f2 con lui questa ceremonia,\ne levollo dal pericolo e dalla spesa. E in questo servigio la Chiesa\nprese saramento da lui, che venendo alla corona egli perdonerebbe a\u2019\ncomuni di Toscana ogni offesa fatta all\u2019imperadore Arrigo suo avolo\ne agli altri imperadori, e tratterebbegli come amici senza alcuna\noppressione. Dopo questo, morto il padre nella battaglia del re di\nFrancia, come detto \u00e8, a costui succedette, e fu chiamato re di Boemia.\nE cercando d\u2019accogliere forza per potere venire alla corona dello\nimperio, ed essendo poco pregiato e meno ubbidito dagli Alamanni,\ntenendosi gravati della sua elezione, egli umile si stava chetamente\nin Boemia aspettando suo tempo. La reina con femminile consiglio\nvolendo attrarre l\u2019amore del marito dall\u2019altre donne, ch\u2019era giovane,\navvegnach\u00e8 assai onesta, gli fece dare a mangiare certa cosa, la quale\nmangiata dovea crescere l\u2019amore alla sua donna. Nella qual cosa, o erba\no altro che mescolato vi fosse che tenesse veleno, come presa l\u2019ebbe,\nne venne a pericolo di morte; e per aiuto di grandi e subiti argomenti,\npelato de\u2019 suoi peli, ricover\u00f2 la salute del suo corpo. Della qual\ncosa facendo condannare a morte due suoi siniscalchi per giustizia,\nla reina, parendo che per sua semplice operazione, pi\u00f9 che per colpa\nche avessono, i famigli del loro eletto imperadore fossono per morire\ninnocenti, s\u2019inginocchi\u00f2 dinanzi al re dicendo, come que\u2019 cavalieri non\naveano colpa di quello accidente, ma se colpa c\u2019era, era sua: perocch\u00e8\nper femminile consiglio, volendo pi\u00f9 attrarre a se il suo amore, non\ncredendo far cosa che offendere il dovesse, li fece dare quella cosa a\nbere, ovvero a mangiare: e per\u00f2, se giustizia se n\u2019avea a fare, ella\nera degna per la sua ignoranza d\u2019ogni pena, e non coloro ch\u2019erano\ninnocenti. Il discreto signore udite queste parole, consider\u00f2 la\nfragilit\u00e0 e la natura delle femmine, e colla sua mansuetudine inchin\u00f2\nl\u2019animo all\u2019errore dell\u2019amore femminile, e con molta benignit\u00e0 perdon\u00f2\nalla reina dolcemente, e liber\u00f2 i suoi siniscalchi, rimettendogli ne\u2019\nloro ufici e onori. Alcuni dissono, che messer Luchino de\u2019 Visconti\ndi Milano il fece avvelenare per tema di perdere la sua tirannia. Ed\nessendo lo eletto imperadore nel pericolo della morte, si disse che\npromise a Dio se campasse, che perdonerebbe a chi l\u2019avesse offeso e\nnon ne farebbe alcuna vendetta; e quale che fosse la cagione, l\u2019effetto\nseguit\u00f2, che vendetta nessuna fece.\nCAP. XXXV.\n_Come il re Luigi prese pi\u00f9 castella._\nTornando a\u2019 fatti d\u2019Italia, il re Luigi fatto cavaliere, e dato alcuno\nordine a\u2019 fatti del Regno che l\u2019ubbidia, avvedutosi de\u2019 baroni che\nteneano col re d\u2019Ungheria, innanzi che volesse procedere a fare altra\nimpresa attese a volere racquistare le castella di Napoli. E prima\ncominci\u00f2 al castello di Santermo sopra la detta citt\u00e0, e quello per\nvilt\u00e0 di coloro che l\u2019aveano a guardia, temendo delle minacce pi\u00f9\nche della forza della battaglia ch\u2019era loro cominciata, essendo da\npotersi bene difendere, s\u2019arrenderono al re. E avendo vittoriosamente\nacquistato questo castello, se ne venne a quello di Capovana, che\n\u00e8 all\u2019entrata della citt\u00e0, fortissimo, da non potersi vincere per\nbattaglia. Coloro che dentro v\u2019erano alla difesa cominciarono a\nresistere al primo assalto; ma inviliti per la presura di quello\ndi Santermo, e pi\u00f9 perch\u00e8 non vedeano apparecchiato loro soccorso,\ntrattaron la loro salvezza, e renderono il castello al re. Avuto il\nre questi due forti castelli con poca fatica, s\u2019addirizz\u00f2 al castello\ndell\u2019Uovo fuori di Napoli sopra il mare, il quale per battaglia non\nsi potea avere, ma era agevole ad assediare, che tutto era in mare,\nsalvo d\u2019una parte si congiungeva con una cresta del poggio, in sul\nquale il re fece fare un battifolle. Que\u2019 del castello sappiendo che\nil loro soccorso non potea essere d\u2019altra parte che per mare, e in\nquello mare non era alcuna forza del re d\u2019Ungheria, innanzi che si\nvolessono recare allo stremo patteggiarono col re, e renderongli il\ncastello. Avute il re prosperamente queste tre castella in poco tempo,\nfece molto rinvigorire gli animi de\u2019 Napoletani. E vedendo che non\nv\u2019era rimaso altro che il castello Nuovo a capo alla citt\u00e0, dove era\nl\u2019abitazione reale, il quale era sopra modo forte e bene fornito, tanto\nera cresciuta la baldanza, che nel fervore del loro animo con molto\napparecchiamento si misono a combatterlo da ogni parte, con aspra e\nfiera battaglia. Ma dentro v\u2019era Gulforte fratello di Currado Lupo,\ncui il re d\u2019Ungheria avea lasciato vicario suo, ed era accompagnato\ndi buona masnada, e bene fornito alla difesa, sicch\u00e8 per niente si\ntravagliarono della battaglia. E certificati che per forza non lo\npotevano avere, e che Gulforte era fedele al suo signore, presono\nconsiglio d\u2019abbarrare tra il castello e la citt\u00e0, e cos\u00ec fu fatto, e\nmisonvi buona guardia; sicch\u00e8 fuori che dalla marina il castello era\nassediato. E poi senza combattere o assalirlo, l\u2019una gente e l\u2019altra si\nstettono lungamente.\nCAP. XXXVI.\n_Come il re Luigi prese il conte d\u2019Apici._\nAvendo il re Luigi vittoriosamente racquistato tre cos\u00ec forti castelli,\ne lasciando il quarto assediato per terra e per mare, con la sua\ncavalleria, e con le masnade del doge Guernieri si mise a cavalcare\nsopra i baroni che teneano col re d\u2019Ungheria, e in prima and\u00f2 sopra il\nconte d\u2019Apici, figliuolo del conte d\u2019Ariano. Il conte vedendosi venire\nil re addosso con gran forza d\u2019uomini d\u2019arme, si racchiuse in Apici,\ne ivi s\u2019afforz\u00f2 alla difesa come pot\u00e8 il meglio. Il re faceva spesso\nassalire la terra. Vedendo il conte che non attendea soccorso, e che\nil castello non era forte da poter fare lunga difesa, s\u2019arrend\u00e8 alla\nmisericordia del re: il quale tratt\u00f2 d\u2019avere di suoi danari trentamila\nfiorini d\u2019oro, e rimiselo nel suo stato, riconciliato alla sua grazia.\nCAP. XXXVII.\n_Come il re Luigi assedi\u00f2 Nocera._\nProsperando la fortuna il re Luigi nelle lievi cose, gli dava speranza\ndi prendere le maggiori, e per\u00f2 si mise di presente con tutta sua\ngente nel piano di Puglia, e dirizzossi a Nocera de\u2019 saracini, che\nsi guardava per la gente del re d\u2019Ungheria. Ma perocch\u00e8 la citt\u00e0 era\ngrande, e guasta e male acconcia a potersi difendere, sentendo gli\nUngheri che dentro v\u2019erano l\u2019avvenimento del re con la sua gente,\nabbandonarono la terra, e ridussonsi nella rocca di sopra, ch\u2019era\nlarga, e molto forte alla difesa, e ivi ridussono tutte le loro\ncose. E sopravvenendo il re Luigi, senza contasto con tutta sua gente\nentrarono nella citt\u00e0: e trovando il castello sopra la terra forte e\nbene guernito alla difesa, conobbono che non era da potersi vincere per\nforza di battaglie, e per\u00f2 non tentarono di combatterlo: ma avendo la\ncitt\u00e0 in loro bal\u00eda, afforzarono in ogni parte intorno alla rocca, e\npuosonvi l\u2019assedio, sperando d\u2019averla, poich\u00e8 gli Ungheri e i Tedeschi\nerano per la mortalit\u00e0 malati e mancati, e molti se n\u2019erano iti per\nlo mancamento del soldo, e non era loro avviso che a tempo potessono\navere soccorso; e per\u00f2 tenendo que\u2019 del castello di Nocera assediati,\ncavalcarono tutto il piano di Puglia infino presso a Barletta; e\navendo cominciato a prendere ardire, trovando che Currado Lupo vicario\ndel re d\u2019Ungheria non avea forza d\u2019entrare in campo col re Luigi, n\u00e8\ndi soccorrere gli assediati di Nocera, era assai possibile al re di\nmantenere l\u2019assedio, e di fare tornare l\u2019altre terre di Puglia a sua\nvolont\u00e0, cavalcando con la sua forza il paese. Ma il fallace duca\nGuernieri, ch\u2019avea milledugento cavalieri tedeschi in sua compagnia,\nconoscendo il tempo che far lo potea signore e trarlo di guerra, si\nmise a fargli quistione, e non lo lasci\u00f2 muovere dall\u2019assedio, n\u00e8\nandare all\u2019altre terre per lungo tempo: dando luogo a Currado Lupo\navversario del re di potersi provvedere al soccorso, e il re non era\npotente da se di cavalleria n\u00e8 di moneta che senza il doge potesse\nfornire le sue bisogne, e per\u00f2 convenia che seguisse pi\u00f9 la volont\u00e0\ncorrotta del doge Guernieri che la sua. E non avea ardimento di\nmostrare sospetto di lui, per paura che peggio non gli facesse, e da se\nnol potea partire senza peggiorare sua condizione, e crescere la forza\ne \u2019l vigore a\u2019 suoi nimici. Ed essendo cos\u00ec intrigato e male condotto,\nper avere un capo a tutti i suoi soldati, perd\u00e8 tempo pi\u00f9 di cinque\nmesi al disutile assedio, e diede tempo a\u2019 nimici di procacciare aiuto\ne soccorso, come fatto venne loro, come appresso racconteremo.\nCAP. XXXVIII.\n_Come Currado Lupo liber\u00f2 Nocera._\nMentre che l\u2019assedio si manteneva per lo re Luigi a Nocera, Currado\nLupo, ch\u2019era rimaso alla guardia del reame per lo re d\u2019Ungheria, intese\na sollicitare il re, tanto che gli mand\u00f2 una quantit\u00e0 di danari per\nristorare la gente che per la mortalit\u00e0 gli era mancata: il quale di\npresente cavalc\u00f2 in Abruzzi, e condusse de\u2019 cavalieri tedeschi ch\u2019erano\nin Toscana e nella Marca, tanti, che co\u2019 suoi si trov\u00f2 con duemila\nbarbute: e lasciatine una parte alla guardia delle terre che per lui si\nteneano, e eletti milledugento cavalieri in sua compagnia, si propose\ndi soccorrere gli assediati del castello di Nocera. Il re Luigi avendo\nsentito come Currado Lupo avea accolta gente per venire contra lui,\ndi presente mand\u00f2 il conte di Minerbino, e il conte di Sprech Tedesco,\ncon ottocento cavalieri a impedire i passi, che Currado Lupo co\u2019 suoi\ncavalieri non potesse entrare nel piano di Puglia. Ma il detto Currado,\ncome franco capitano e sollecito, la notte si mise a cammino, e fu\nprima, partendosi da Guglionese, valicato i passi ed entrato nel piano\ndi Puglia, che la gente del re fosse a impedirlo, e senza arresto,\nco\u2019 suoi cavalieri in quello d\u00ec cavalcarono quaranta miglia, e la sera\ngiunsono a Nocera in sul tramontare del sole; e perocch\u00e8 erano molto\naffaticati della lunga giornata, e i cavalli stanchi e l\u2019ora tarda,\nse n\u2019entrarono nel castello senza fare altro assalto, o riceverlo\ndalla gente del re Luigi. E questo avvenne, imperciocch\u00e8 del subito\navvenimento sbigott\u00ec forte la gente del re, e specialmente essendo\nassottigliato l\u2019oste, e non sappiendo che della loro gente andata\na\u2019 passi si fosse avvenuto. Il re veggendo la sua gente sbigottita,\nprese l\u2019arme e mont\u00f2 a cavallo, e confort\u00f2 francamente i suoi: e\nsopravvenendo la notte, in persona ordin\u00f2 buona e sollecita guardia,\nattendendo il ritorno de\u2019 suoi cavalieri. I nimici ch\u2019erano stanchi\nintesono a mangiare, e a confortare la loro gente, e dare riposo a\u2019\nloro cavalli, per essere la mattina alla battaglia.\nCAP. XXXIX.\n_Come il re Luigi rifiut\u00f2 la battaglia con Currado Lupo._\nLa mattina seguente, Currado Lupo innanzi che scendessono del castello\nnel piano, mand\u00f2 a richiedere il re Luigi di battaglia, e per segno\ndi ci\u00f2 gli mand\u00f2 il guanto per lo suo trombetta; il re ricevette il\nguanto, e con dimostramento di franco cuore e d\u2019ardire, senza tenere\naltro consiglio promise la battaglia: perocch\u00e8 la notte medesima il\nconte di Minerbino e \u2019l conte di Sprech erano tornati con la loro\ngente al soccorso del re. Currado avendo la risposta dal re, come\naccettava di venire alla battaglia, non ostante che il re avesse assai\npi\u00f9 gente di lui, confidandosi nella buona gente che avere gli pareva,\ne conoscendo la condizione del doge Guernieri, e forse intendendosi\ncon lui, scese del castello con tutta sua cavalleria, e ancora con gli\nUngheri ch\u2019erano nel castello a cavallo, e valicato per una parte della\ncitt\u00e0 ch\u2019era in loro signoria, con dimostramento di grande ardire si\nschier\u00f2 nel piano dirimpetto alla citt\u00e0, aspettando che il re venisse\ncon la sua gente alla battaglia. E vedendo che non venia, un\u2019altra\nvolta il mand\u00f2 a richiedere di battaglia. Il re avendo volont\u00e0 di\ncombattere sommovea i suoi baroni e gli altri cavalieri a ci\u00f2 fare,\ncon grande istanzia: il doge Guernieri, quale che cagione il movesse,\nche dubbia era la sua fede, vedendo il re acceso alla battaglia, fu a\nlui, e con dimostramento di savio e buono consiglio, e con belle parole\nil ritenne, mostrandogli che folle partito era a quel punto prendere\nbattaglia, allegando che per due cose sole si dovea combattere, l\u2019una\nper necessit\u00e0, e l\u2019altra per grande avvantaggio, e quivi non era n\u00e8\nl\u2019una n\u00e8 l\u2019altra. E forse che il consiglio suo fu pi\u00f9 salutevole che\nmalvagio a quel punto, il re vedendo il consiglio del duca, e temendo\ndi non essere seguito nella battaglia da lui n\u00e8 da\u2019 suoi cavalieri, si\nritenne in Nocera, ontosamente schernito da\u2019 suoi avversari, i quali\nschierati in sul campo faceano vergogna al re, perch\u00e8 non usciva alla\nbattaglia come promesso avea; e avendo aspettato infino al mezzod\u00ec,\ne trombato e ritrombato per attrarre la gente del re alla battaglia,\ne veggendo non erano acconci a uscire della terra, si part\u00ec di l\u00e0\nordinatamente con le schiere fatte, e dirizzossi verso la citt\u00e0 di\nFoggia, ch\u2019era ivi presso nello piano di Puglia, e in quella, ch\u2019era\nsenza guardia e senza sospetto, s\u2019entr\u00f2 di cheto, senza trovare alcuno\nriparo. E trovandola piena d\u2019ogni bene, quivi s\u2019alloggiarono, facendo\ndelle case, e delle masserizie, e della vittuaglia, e delle donne\nmaritate e delle pulzelle la loro sfrenata volont\u00e0, e ogni sustanza\ndi quella terra si recarono prima in uso, e poscia in preda. E quivi\nin prima si cominci\u00f2 ad assaggiare la preda dello avere del Regno da\u2019\nTedeschi e dagli Ungari, la quale assaggiata vi attrasse da ogni parte\ni soldati, come gli uccelli alla carogna, in grave danno di tutto il\npaese, come procedendo per li tempi in nostra materia dimostreremo.\nCAP. XL.\n_Della materia medesima._\nEssendo Currado Lupo con la sua gente in Foggia, con grande baldanza\npresa contro al re Luigi, intendendosi col duca Guernieri, afforz\u00f2\nla citt\u00e0 di Foggia, per potere contastare al re il ritorno per la\nvia del piano in Terra di Lavoro. E cos\u00ec fece lungamente, crescendo\ncontinuamente la sua gente di cavalleria e masnadieri, perch\u00e8 viveano\ndi prede, e avanzavano sopra i paesani non usi di guerra, n\u00e8 provveduti\nalla loro difesa. Il re avendo scoperto come dal duca Guernieri non\npotea avere servigio che utile gli fosse, e che fidare non se ne potea,\nstato due mesi a Nocera senza alcuno frutto, con grande abbassamento\ndi suo stato e onore, poich\u00e8 Currado Lupo entr\u00f2 in Puglia, prese suo\ntempo, e girando la Puglia, dilungandosi da\u2019 nimici ch\u2019erano in Foggia,\nentr\u00f2 in Ascoli, e ivi stato pochi d\u00ec se ne venne a Troia, e di l\u00e0 per\nTerra beneventana si torn\u00f2 a Napoli senza contasto.\nCAP. XLI.\n_Come mor\u00ec il re Alfonso di Castella._\nIn questo anno, del mese di marzo, mor\u00ec il re Alfonso di Castella,\nlasciando Pietro suo figliuolo legittimo, nato della reina sirocchia\ndel re di Portogallo, d\u2019et\u00e0 di quindici anni, e sette suoi fratelli\nnati di donna Dianora, grande e gentile donna di Castella, la quale il\ndetto re am\u00f2 sopra la reina, e tennela ventiquattro anni. Morto il re,\ndon Pietro fu coronato del reame, ed essendo troppo giovane, i maggiori\nbaroni per tre anni ebbono a governare il reame. E venuto il re Pietro\nin et\u00e0 di diciotto anni, con malizia, e con senno e con ardire, di\ngran cuore prese il governamento di suo reame, e trassene i baroni, e\ncominci\u00f2 aspramente a farsi ubbidire; perocch\u00e8 temendo de\u2019 suoi baroni,\ntrov\u00f2 modo di fare infamare l\u2019uno l\u2019altro, e prendendo cagione, gli\ncominci\u00f2 a uccidere colle sue mani, e in breve tempo ne fece morire\nventicinque: e tre suoi fratelli fece morire e la loro madre, e gli\naltri perseguit\u00f2: ed eglino valenti e di gran seguito e ardire si\nridussono in loro castella, e feciono al re aspra guerra. E ora fu, che\nl\u2019uno di loro, ch\u2019era conte di... in uno abboccamento ebbe prigione il\nre, e consent\u00ec che si fuggisse per grande benignit\u00e0, e in fine si part\u00ec\ndi Spagna, e tornossene col fratello in Araona.\nCAP. XLII.\n_Come il doge Guernieri fu preso in Corneto dagli Ungheri._\nTornato il re Luigi a Napoli, non avendo potuto acquistare in Puglia\nalcuna cosa, ma peggiorata la sua condizione, acciocch\u00e8 le terre\ne\u2019 baroni di sua parte non prendessono troppo sconforto della sua\npartita, mand\u00f2 in Puglia il doge Guernieri con quattrocento cavalieri,\ne commisegli la guardia di coloro che teneano con esso lui, e che\nraffrenasse la baldanza de\u2019 suoi avversari. Il duca si mosse con sua\ncompagnia, e con lui mand\u00f2 il re alquanti confidenti toscani, tra\u2019\nquali fu messer Iacopo de\u2019 Cavalcanti di Firenze, pro\u2019 e valente\ncavaliere. Costoro entrati in Puglia si ridussono in Corneto. Il\nfallace duca pensava, che stando dalla parte del re non potea predare\nn\u00e8 avanzare come l\u2019animo suo desiderava, e vedendo la materia acconcia,\ne gi\u00e0 cominciata per Currado Lupo e per gli Ungheri, trov\u00f2 modo,\nvolendo coprire il suo tradimento, come fatto gli venisse senza sua\npalese infamia. E per venire a questo, essendo presso a nimici pi\u00f9\npossenti di lui, si stava senza alcuno ordine e senza fare guardia\nil d\u00ec e la notte, anzi non lasciava serrare le porti della citt\u00e0,\ne andavasi a dormire con tutta la sua masnada. Onde avvenne, come\nsi crede ch\u2019egli avesse ordinato, che Currado Lupo con parte di sua\ngente una notte vi cavalc\u00f2, e trovate le porte aperte, e senza difesa\ne guardia, s\u2019entr\u00f2 nella citt\u00e0: e trovando il doge e\u2019 suoi cavalieri\ndormire ne\u2019 loro alberghi, tutti senza dare colpo di lancia o di spada\nebbe a prigione, loro e\u2019 loro cavalli e arnesi, senza che niuno ne\nfuggisse; e avuti i forestieri a prigioni furono signori della terra, e\nfecionne, come di Foggia, la loro volont\u00e0: e il d\u00ec seguente con grande\ngazzarra ne menarono i prigioni e la preda a Foggia, dove faceano\nloro residenza. Ed essendo il duca Guernieri prigione in Foggia, si\nfece porre di taglia trentamila fiorini d\u2019oro; e mand\u00f2 al re che \u2019l\ndovesse ricomperare in fra certo tempo, e dove questo non facesse,\ndisse gli conveniva essere contro a lui in aiuto del re d\u2019Ungheria: e\nper\u00f2 gli protestava, che se il riscatto non facesse, non gli farebbe\ntradimento venendo contro a lui dal termine innanzi. Il re Luigi avendo\nconosciuto per opere i suoi baratti, avvegnach\u00e8 conoscesse che per\ncupidit\u00e0 di preda e\u2019 sarebbe contro a\u2019 suoi agro nimico, innanzi il\nvolle suo avversario, potendo contro a lui scoprirsi alla sua difesa,\nche averlo traditore dalla sua parte, e per\u00f2 nol volle riscuotere. Onde\negli trasse a se tutti i Tedeschi di sua condotta, e da Currado Lupo\nfu fatto il terzo conducitore della sua oste, renduto a lui e a\u2019 suoi\nl\u2019armi e\u2019 cavalli e gli arnesi. Messer Iacopo de\u2019 Cavalcanti, perocch\u00e8\naltra volta era stato preso, e lasciato alla fede, fu ritenuto, e\nultimamente per mandato del re d\u2019Ungheria, per corrotto saramento,\nvituperevolemente fu impiccato.\nCAP. XLIII.\n_Come i Fiorentini presono Colle._\nI Colligiani avendo ripreso in loro giuridizione il reggimento libero\ndella loro terra, poich\u00e8 \u2019l duca d\u2019Atene fu cacciato di Firenze,\nche per lo detto comune n\u2019era signore, volendo mantenere la loro\nlibert\u00e0, non lo seppono fare, anzi cominciarono a setteggiare, e\nvolere cacciare l\u2019uno l\u2019altro, e alcuna parte trattava coll\u2019aiuto di\ngrandi e possenti vicini d\u2019esserne tiranni. E scoperto tra loro il\ntrattato, si condussono all\u2019arme: e stando in combattimento dentro,\nil comune di Firenze per paura che tirannia non vi si accogliesse,\nsubitamente vi mand\u00f2 il capitano della guardia che allora tenea in\nFirenze, con trecento cavalieri e con assai fanti a pi\u00e8, e improvviso\nvennono a\u2019 Colligiani in su le porti e intorno alla Prateria, del mese\nd\u2019aprile gli anni 1349. E sentendo i Colligiani la gente de\u2019 Fiorentini\nalle porti, e tra loro grave discordia dentro, viddono, che volere\na\u2019 cittadini di Firenze, che ivi erano mandati per loro bene, fare\nresistenza era impossibile, e il loro peggiore, perocch\u00e8 se l\u2019una setta\nsi fosse messa alla difesa, l\u2019altra si sarebbe fatta forte col comune\ndi Firenze, e arebbono abbattuta la setta contraria, sicch\u00e8 per lo\nloro migliore, di comune concordia apersono le porti, e misono dentro\nla gente del comune di Firenze. E come dentro vi furono, i terrazzani\nlasciarono l\u2019arme che aveano prese per la loro divisione, e ragunati al\nconsiglio, conobbono, che il comune beneficio della loro comunit\u00e0 era\ndi dare la guardia di quella terra al comune di Firenze, e altrimenti\nnon vedeano di potere vivere in pace e in riposo senza sospetto l\u2019uno\ndell\u2019altro. E per\u00f2 diliberarono solennemente tutti d\u2019uno animo e d\u2019una\nconcordia, che \u2019l comune di Firenze avesse in perpetuo la guardia di\nquella terra; e il comune la prese, e ordin\u00f2 dentro senza quistione\ni loro ufici, comunicandoli discretamente tra\u2019 loro terrazzani, a\ncontentamento di catuna parte; e appresso di tempo in tempo v\u2019ordin\u00f2 il\ncomune di Firenze la guardia de\u2019 suoi cittadini, e i rettori di quella,\nmandandovegli da Firenze ogni sei mesi successivamente.\nCAP. XLIV.\n_Come i Fiorentini ebbono Sangimignano a tempo._\nNel detto anno e mese d\u2019aprile, recata la terra di Colle a guardia\ndel comune di Firenze prosperamente, innanzi che il detto capitano\ncon sua gente a pi\u00e8 e a cavallo tornasse a Firenze, essendo il comune\ndi Sangimignano per simile modo in grande divisione per cagione del\nloro reggimento, onde forte si temea non pervenisse a tiranno, il\ncomune di Firenze vegghiando con sollecitudine a mantenere la libert\u00e0\ndi Toscana, fece comandamento al capitano e a\u2019 cittadini consiglieri\nch\u2019erano con lui ch\u2019andassono a Sangimignano, e senza fare alcuno\ndanno, o atto di guerra, domandassono per lo comune di Firenze la\nguardia di quella terra, acciocch\u00e8 il comune loro e \u2019l nostro vivessono\ndi ci\u00f2 pi\u00f9 sicuri, che non si potea vivere vedendogli in setta e in\ndivisioni. Il capitano con quella gente se n\u2019and\u00f2 a Sangimignano, e\nfece il comandamento del comune di Firenze, standosi fuori della terra\nsenza fare danno niuno. E fatta la richesta, quegli di Sangimignano\nebbono sopra ci\u00f2 diversi consigli, e dibattutosi fra loro pi\u00f9 giorni,\nche l\u2019uno volea e l\u2019altro no, in fine avvedendosi che le loro discordie\nerano pericolose, e che non erano potenti a mantenere libert\u00e0; vedendo\nil pericolo delle divisioni e sette che aveano tra loro, e che lo\nsdegno del comune di Firenze potea risultare in loro maggiore pericolo,\nper comune consiglio diedono per tre anni a venire il governamento e la\nguardia di quella terra al comune di Firenze, con patto che il comune\nvi mandasse di sei mesi in sei mesi uno cittadino popolano di Firenze\nper capitano della guardia, e un altro per podest\u00e0 alle loro spese; e\ncos\u00ec deliberato, misono di gran concordia dentro la gente del comune di\nFirenze. E ricevuti i rettori, cominciarono a vivere tra loro in molta\nconcordia e pace, e catuno intendeva a fare i fatti suoi, dimenticando\nle cittadine contenzioni e gli altri sospetti che gli conturbavano, e\nil capitano co\u2019 suoi cavalieri e col popolo torn\u00f2 a Firenze ricevuto a\nonore, del detto mese d\u2019aprile.\nCAP. XLV.\n_Di tremuoti furono in Italia._\nIn questo anno, a d\u00ec 10 di settembre, si cominciarono in Italia\ntremuoti disusati e maravigliosi, i quali in molte parti del mondo\ndurarono pi\u00f9 d\u00ec, e a Roma feciono cadere il campanile della chiesa\ngrande di san Paolo, con parte delle loggi di quella chiesa, e una\nparte della nobile torre delle milizie, e la torre del conte, lasciando\nin molte altre parti di Roma memoria delle sue rovine. Nella citt\u00e0 di\nNapoli fece cadere il campanile, e la faccia della chiesa del vescovado\ne di santo Giovanni maggiore, e in assai altre parti della citt\u00e0 fece\ngrandi rovine, con poco danno degli uomini. Nella citt\u00e0 d\u2019Aversa,\nessendo i caporali de\u2019 Tedeschi e degli Ungheri, con molti conestabili\ne cavalieri, a consiglio nella chiesa maggiore, non determinato il\nloro consiglio uscirono della chiesa, e come furono fuori, la chiesa\ncadde, e per volont\u00e0 di Dio a niuno fece male. La citt\u00e0 dell\u2019Aquila ne\nfu quasi distrutta, che tutte le chiese e\u2019 grandi difici della citt\u00e0\ncaddono, con grande mortalit\u00e0 d\u2019uomini e di femmine; e durando per pi\u00f9\nd\u00ec i detti tremuoti, tutti i cittadini, ed eziandio i forestieri, si\nmisono a stare il d\u00ec e la notte su per le piazze e di fuori a campo,\nmentre che quello movimento della terra fu, che dur\u00f2 otto d\u00ec e pi\u00f9.\nEd erano s\u00ec grandi, che in piana terra avea l\u2019uomo fatica di potersi\ntenere in piede. A san Germano e a monte Cassino fece incredibili ruine\ndi grandi difici, e dell\u2019antico monistero di santo Benedetto sopra il\nmonte del poggio medesimo, che pare tutto sasso, abbatt\u00e8 buona parte;\nil castello di Valzorano del poggio rovin\u00f2 nella valle, con morte\nquasi di tutti i suoi abitanti. Nella citt\u00e0 di Sora fece degli edifici\ngrandissime ruine, e cos\u00ec in molte altre parti di Campagna e di terra\ndi Roma, e del Regno e di molte altre parti d\u2019Italia, che sarebbono\nlunghe e tediose a raccontare. Per li quali terremuoti si potea per li\nsavi stimare le future novit\u00e0 e rivolgimenti di que\u2019 paesi, le quali\npoi seguitarono, come il nostro trattato seguendo si potr\u00e0 vedere.\nCAP. XLVI.\n_Come sommerse Villacco in Alamagna._\nIn questo medesimo tempo, essendo all\u2019entrare della Magna sopra una\nvalle una citt\u00e0 che ha nome Villacco, in sul passo, con alquante\nvillate e castella che teneano bene dodici miglia, a\u2019 confini della\nSchiavonia, questa terra con le sue ville e castella per gli terremuoti\ns\u2019attuff\u00f2 nella valle, con grande danno di morte de\u2019 suoi abitanti.\nE perocch\u00e8 il luogo \u00e8 sul passo del Friuli e Schiavonia, e paese\nubertuoso, e i suoi alberghi tutti si fanno di legname, che ve n\u2019ha\ngrande abbondanza, fu tosto rifatto e abitato. Innanzi che l\u2019anno fusse\ncompiuto dal suo rifacimento, per fuoco arse tutta la terra, che fu a\npensare non piccolo giudicio de\u2019 suoi abitanti. Ma per lo fertile luogo\ne utile per lo passo, in brieve tempo fu redificata la terra pi\u00f9 bella\nche prima.\nCAP. XLVII.\n_De\u2019 fatti del Regno._\nDel mese di maggio del detto anno, sentendo il re Luigi crescere\nfortemente nel Regno la forza del re d\u2019Ungheria, fece comandamento a\ntutti i suoi baroni che teneano con lui che si sforzassono d\u2019arme e di\ncavalli, e ragunassonsi in Napoli per resistere a\u2019 loro avversari, che\naveano per la presa di Foggia e di Corneto presa superchia baldanza\nin Puglia, e accolti molti Tedeschi d\u2019Italia, per vaghezza delle\nprede del Regno, pi\u00f9 che per soldo ch\u2019elli avessono. I baroni vedendo\nil comune pericolo di loro stato e di tutto il Regno, feciono gente\nd\u2019arme, e ragunaronsi a Napoli pi\u00f9 di tremila cavalieri ben montati\ne bene armati; e ancora non era venuto il conte di Minerbino, che\navea con seco trecento barbute. Currado Lupo, che avea con seco il\nduca Guernieri, e \u2019l conte di Lando, e messer Giovanni d\u2019Arnicchi,\nTedeschi grandi maestri di guerra, e con grande seguito di soldati\ntedeschi, avieno accolti tutti gli Ungheri del Regno, ch\u2019erano pi\u00f9 di\nsettecento, in grande fede al loro signore: e ancora erano ragunati\ncon loro masnadieri italiani assai, tratti per guadagnare, sentendo\nche la forza del re era ragunata a Napoli, di presente forn\u00ec di\nguardia tutte le terre sue, e co\u2019 sopraddetti caporali, e co\u2019 loro\ncavalieri tedeschi e ungheri, milleseicento o pi\u00f9, e con briganti\na pi\u00e8, acconci a guadagnare, sperando abboccarsi co\u2019 ricchi baroni\ndel Regno, si partirono di Foggia, e senza fare soggiorno o trovare\nresistenza se ne vennero infino ad Aversa, citt\u00e0 di Terra di Lavoro,\npresso a Napoli a otto miglia, la quale in quel tempo non era murata:\ne per mala provvedenza non era guardata, avvegnach\u00e8 malagevole fosse a\nguardare, perch\u00e8 era molto sparta, ma avea il castello molto grande e\nforte. Currado Lupo con la sua cavalleria senza contasto s\u2019entr\u00f2 nella\nterra, la quale era doviziosa e piena d\u2019ogni bene. Ed essendo altra\nvolta stata all\u2019ubbidienza del re d\u2019Ungheria, non si pensarono essere\ntrattati in ruberia e in preda dal vicario del re, e per\u00f2 si trovarono\ningannati. I Tedeschi e gli Ungheri come furono dentro cominciarono a\nfare delle cose, vi trovarono da vivere a comune con i cittadini, con\npi\u00f9 temperanza e ordine che fatto non aveano in Foggia, perocch\u00e8 vi\naveano pi\u00f9 a stare. E incontanente cavalcarono per lo paese e per li\ncasali dintorno per farsi ubbidire, e recare il mercato derrata per\ndanaio; e chi non gli ubbidia di recare della roba ad Aversa s\u00ec la\nrubavano e ardevano. E in fine, ora per una cagione, ora per un\u2019altra,\ntutti erano rubati, e cominciarono a cavalcare fino presso a Napoli,\ned a non lasciare a\u2019 foresi portare alcuna roba in quella terra, che\na giornata solea abbondare della molta roba delle terre e casali di\nfuori, ed ora niuno v\u2019andava, che d\u2019ogni parte erano rotte le strade e\ni cammini, onde la citt\u00e0 cominci\u00f2 ad avere carestia, e convenia che per\nmare si fornisse. Il re Luigi avea baroni e cavalieri assai in Napoli,\nma per buono consiglio riteneva i suoi baroni con il volonteroso popolo\nche non uscissono contro a\u2019 nimici a loro stanza, e attendea maggiore\nforza di sua gente di d\u00ec in d\u00ec, e pensava che i nimici per le ruberie\nfatte a\u2019 paesani venissono in soffratta, e volea a sua stanza e a\nsuo tempo andare sopra i suoi nimici e a suo vantaggio, e non alla\nloro richiesta, e questo era salutevole e buono consiglio. Ma dove la\nfortuna giuoca pi\u00f9 che \u2019l senno, la gente vi corre.\nCAP. XLVIII.\n_Come la gente del re d\u2019Ungheria sconfisse i baroni del Regno._\nVedendo i capitani della gente del re d\u2019Ungheria che la baronia del\nRegno era accolta a Napoli contro a loro, e non si movea n\u00e8 mostrava\nin campo per le loro cavalcate, si feciono loro pi\u00f9 presso a Meleto\nquattro miglia presso a Napoli; e quivi stando, cominciarono a dare\nvoce che discordia fosse tra\u2019 Tedeschi e gli Ungheri, e seguendo\nloro malizia s\u2019armarono, e acconciarono il campo come se dovessero\ncombattere insieme; e avendo tra loro mezzani gli Ungheri, come\nmalcontenti d\u2019essere con Currado Lupo, dierono voce di volersene\ntornare in Puglia. I giovani baroni che sentivano di presso le novelle\nde\u2019 loro nimici, e\u2019 baldanzosi cavalieri napoletani credendo che la\ndiscordia fosse tra gli Ungheri e\u2019 Tedeschi come la boce correa, non\naccorgendosi del baratto, e parendo loro che per difetto di vittuaglia\ne\u2019 non potessono pi\u00f9 stare nel paese, quasi come la preda uscisse\nloro tra le mani aspettando, fremivano nell\u2019animo d\u2019uscire fuori, e\ncorrere sopra i nimici; e contradicendo il re e \u2019l suo consiglio la\nfuriosa presunzione de\u2019 giovani baroni e de\u2019 pomposi Napoletani, in\nfuria s\u2019apparecchiarono dell\u2019arme. E montati sopra i loro destrieri e\nbuoni cavalli, che n\u2019erano bene forniti, e con ricchi arredi e nobili\nsopransegne, colle cinture dell\u2019oro e dell\u2019argento cinte, in grande\npompa, avendo fatto loro capitani messer Ruberto di Sanseverino,\ne messer Ramondo del Balzo, valenti baroni, e il conte di Sprech\nTedesco, e messer Guiglielmo da Fogliano, ordinate loro battaglie,\ncontradicendolo il re in persona, uscirono di Napoli, e addirizzaronsi\na\u2019 nimici. Il cammino era corto, e il paese piano, sicch\u00e8 in poca d\u2019ora\nfurono giunti al campo, ove trovarono di costa a Meleto nella spianata\nschierati i nemici, i quali aveano sentito il furioso movimento de\u2019\nricchi baroni e cavalieri del Regno, e aveano con savio provvedimento\nfatte tre schiere. Vedendo la folle condotta de\u2019 loro avversari,\ns\u2019allegrarono, e\u2019 baldanzosi regnicoli s\u00ec diedono francamente nella\nprima schiera, la quale, per ordine fatto a maestria, s\u2019aperse, e\nlasci\u00f2 valicare, e mescolare tra loro la cavalleria del Regno, non\nostante che assai fussono pi\u00f9 di loro; e reggendo a testa la seconda\nschiera e intrigata la battaglia, il conte di Lando, ch\u2019era da parte\ncolla sua schiera, torn\u00f2 un poco di campo, e venne loro alle reni,\ne combattendoli dinanzi e didietro, avvegnach\u00e8 v\u2019avesse di valorosi\ncavalieri, per la loro mala provvedenza in poca d\u2019ora con non troppa\nasprezza di battaglia gli ebbono vinti, e sbarattati e richiusi tra\nloro per modo, che la maggior parte co\u2019 loro capitani furono presi,\ne pochi ne morirono. Quelli che poterono fuggire ne fuggirono, e\nnon furono incalciati, perch\u00e8 erano presso alla citt\u00e0, e i loro\nnemici n\u2019aveano assai tra le mani a guardare, sicch\u00e8 non si curarono\nd\u2019incalciare gli altri. Questa propriamente non si pot\u00e8 dire battaglia,\nma uno irretamento da pigliare baroni e cavalieri di grandi ricchezze.\nI presi furono tra conti e baroni venticinque de\u2019 maggiori del Regno,\ncon molti ricchi cavalieri napoletani di Capovana e di Nido, e nobili\nscudieri e grandi borgesi e baroncelli del Regno, i quali erano tutti\nbene montati. E come i capitani de\u2019 Tedeschi e degli Ungheri ebbono\nraccolti insieme i prigioni e la preda, con grande festa e sollazzo\nd\u2019avere acquistato grande tesoro senza fatica, gli condussono ad\nAversa; e messi i baroni e\u2019 cavalieri in sicure prigioni, l\u2019altra preda\ndivisono tra loro. E questo fu a d\u00ec sei di giugno 1349.\nCAP. XLIX.\n_Come i Napoletani ricomperarono la vendemmia da\u2019 nimici._\nDopo la detta sconfitta la gente del re d\u2019Ungheria avendo presa grande\nbaldanza, cavalcavano ogni d\u00ec infino a Napoli per tutte le contrade\ncircostanti alla citt\u00e0, senza trovare alcuno contasto. Ch\u2019e\u2019 cavalieri\nch\u2019erano in Napoli, e quelli che scamparono della sconfitta, tutti\ntornarono in loro paese, e i Napoletani non ebbono pi\u00f9 ardire di\nmontare a cavallo contra i nimici; per la qual cosa assai picciola\ngente spesso entravano con grande ardire tra santa Maria del Carmino\ne il Santolo, rubando e facendo preda in sul mercato; e per questo\navvenne che per terra non v\u2019entrava alcuna vittuaglia, e per\u00f2 convenne\nche per mare vi venisse d\u2019altre parti, e montasse ogni cosa, fuori\ndel vino, in grande carestia. Vedendo i Napoletani nella forza de\u2019\nloro nemici tutto il loro contado, temendo delle loro vendemmie,\ne per avere alcuna posa, diedono a Currado Lupo e a\u2019 suoi compagni\nventimila fiorini d\u2019oro, e messer Ramondo del Balzo, e messer Ruberto\nda Sanseverino, e il conte di Tricario anche della casa di Sanseverino,\ne il conte di santo Angiolo, e un altro barone, ch\u2019erano presi, si\nricomperarono fiorini centomila d\u2019oro, e gli altri baroni del Regno\ne cavalieri si ricomperarono fiorini cinquantamila, e\u2019 cavalieri e\nscudieri di Napoli si ricomperarono altri cinquantamila fiorini: e\nil conte di Sprech Tedesco, e M. Guiglielmo da Fogliano e\u2019 soldati\nforestieri, tolto loro l\u2019arme e\u2019 cavalli, furono lasciati alla fede. E\ntrovandosi questa gente del re d\u2019Ungheria fornita d\u2019arme e di cavalli,\ne pieni d\u2019arnesi, e abbondante d\u2019ogni bene, questi danari, e molti\ngioielli d\u2019oro e d\u2019ariento, riposono nel castello d\u2019Aversa senza\npartire, acciocch\u00e8 niuno avesse cagione di partirsi del paese. E per\naccogliere maggiore tesoro, i danari del riscatto, e del tempo della\nvendemmia, furono pagati, e queto il paese mentre che le vendemmie\ndurarono, secondo la loro promessa, e passato il tempo ricominciarono\nla guerra come prima, aspettando danari freschi dal re e da\u2019\nNapoletani, come appresso seguendo si potr\u00e0 trovare.\nCAP. L.\n_Come si fe\u2019 triegua nel Regno._\nIl papa e\u2019 cardinali avendo sentita la rotta de\u2019 baroni del Regno,\ne che \u2019l paese si guastava, mandarono nel Regno M. Annibaldo da\nCeccano cardinale legato di santa Chiesa, a procacciare di conservare\nil reame, acciocch\u00e8 la discordia de\u2019 due re non guastasse quello\nch\u2019era di santa Chiesa. Il cardinale giunto a Napoli trov\u00f2 il re e\u2019\nNapoletani in male stato, e i paesi di Terra di Lavoro guasti, rubate\nle castella, le ville, i casali, e vedendo che la forza de\u2019 Tedeschi\ne degli Ungheri guastava tutto, si mise a cercare via d\u2019accordo, e\nandava dall\u2019una parte all\u2019altra, ma poco frutto di concordia seppe\nfare. Onde il re e\u2019 Napoletani avvedendosi che il cardinale non facea\nloro profitto, si condussono a cercare eglino con loro confidenti. E\nmandarono a Currado Lupo e agli altri caporali ad Aversa, e in fine\nvennono con loro a concordia, che dovessono lasciare in mano del\ncardinale Aversa e Capova, e tutte le terre e castella che teneano\ndal Volturno di Tuliverno in verso Napoli, per tutta Terra di Lavoro\ne di Principato, e facendo questo avessono contanti centoventimila\nfiorini d\u2019oro. Le terre furono lasciate nella guardia del cardinale,\ne i danari furono pagati del mese di gennaio 1349. Allora vidono il\nconto de\u2019 danari che aveano raunati, e trovaronsi in contanti pi\u00f9 di\ncinquecento migliaia di fiorini d\u2019oro, i quali di molta concordia si\ndivisono a bottino. E\u2019 caporali dividitori furono, Currado Lupo, e il\ndoge Guernieri, e il conte di Lando, e M. Gianni d\u2019Ornicchi, e alcuni\naltri. E oltre a questo tesoro, e oltre a molti destrieri, e ricchi\narnesi e armadure che catuno avea, ebbono parte di molte vasellamenta\nd\u2019argento, e di croci e di calici e d\u2019altri ornamenti delle chiese che\navieno spogliate, e ornamenti delle donne, e drappi e vestimenta di\ngrandissima valuta, de\u2019 quali erano pieni, avendone spogliate parecchie\ncitt\u00e0, come detto abbiamo. Costoro sopra modo ricchi, passato il\nVolturno, si diliberarono di partirsi del Regno, e tutti, fuori che\nCurrado Lupo, e fra Moriale e gli Ungheri, che si ritennono per lo\nre d\u2019Ungheria nel Regno, si partirono e menandone molte donne rapite\na\u2019 loro mariti, e molte altre che non aveano marito, cosa strana e\ndisusata tra\u2019 fedeli cristiani; e ricchi delle loro rapine, quali\nsi tornarono in Alamagna, e altri si sparsono nell\u2019italiane guerre:\ne per questo modo il Regno ebbe alcuno sollevamento dalle ruberie\ne dalla guerra, che catuno si posava volentieri. E dandoci alquanto\ntriegua le novit\u00e0 dello sviato Regno, ci s\u2019apparecchia nuova e lieve\ncagione, della quale surse come di picciola favilla fuoco di smisurata\ngrandezza.\nCAP. LI.\n_Di novit\u00e0 di barbari di Bella Marina._\nTornando alquanto nostra materia a\u2019 fatti de\u2019 barbari, in questo tempo\nBuevem figliuolo di Balese della Bella Marina, a cui come addietro \u00e8\nnarrato, il detto Buevem avea rubellato il regno di Tremusi, sentendo\nche Maometto suo cugino gli avea rubellato Fessa e il suo reame, liber\u00f2\ndi servaggio mille cristiani, e misegli a cavallo e in arme, e accolse\nsuo oste di quindicimila cavalieri, e di gran popolo di Mori a pi\u00e8,\ne andonne verso Fessa, contro a Maometto, il quale trov\u00f2 provveduto\ncon venticinquemila cavalieri e di grande popolo, e fecelisi incontro\nfuori della citt\u00e0 di Fessa, e non troppo lungi della citt\u00e0 commisono\naspra battaglia, nella quale morirono grandissima quantit\u00e0 di saracini\nda catuna parte; in fine, come piacque a Dio, per virt\u00f9 de\u2019 cristiani\nMaometto fu sconfitto, colla sua gente morta e sbarattata, ed egli\nsi rifugg\u00ec nel castello di Villanuova, ove Buevem il tenne assediato\nsei mesi senza speranza di poterlo avere per la grande fortezza; e\nper\u00f2 argoment\u00f2 di fare fuggire da se un grande caporale de\u2019 cristiani\ncon sua masnada, e mostrando di perseguirlo per uccidere, si fugg\u00ec\na Maometto nel castello, il quale conoscendo la prodezza e senno de\u2019\ncristiani, pens\u00f2 di difendersi meglio, avendo costui dal suo lato, e\nper\u00f2 gli fece onore e grandi promesse, perch\u00e8 avesse materia d\u2019aiutarlo\ne d\u2019esser leale. Costui mostrandosi agro nimico di Buevem, alcuna volta\nusc\u00ec fuori percotendo il campo, e ritornando con onore. Il re Buevem\nmostrando che onta gli fosse cresciuta per la fuggita del malvagio\ncristiano, ordin\u00f2 di volere combattere il castello. Maometto sentendo\nci\u00f2 s\u2019ordin\u00f2 alla difesa: e avendo presa confidenza nel conestabile\ncristiano, gli accomand\u00f2 la guardia d\u2019una porta del castello. E venendo\nil re alla battaglia, il traditore gli aperse la porta, ed entrato\ndentro con grande sforzo, preso Maometto, e incarcerato, in pochi d\u00ec\nil fece morire. E andato a Fessa, fu ricevuto come re e loro signore,\ne fu coronato re di Morocco, e della Bella Marina e di Tremusi in\npoco tempo, essendo il padre a Tunisi, il quale tornando poi contro al\nfigliuolo per lo regno, gli avvenne quello che a suo tempo diremo.\nCAP. LII.\n_Come Balase tornando per lo suo reame contro al figliuolo ebbe grande\nfortuna, e poi fu avvelenato._\nBalase avendo acquistato il reame di Tunisi, e perduto quello di Bella\nMarina e di Tremusi, di che Buevem suo figliuolo s\u2019avea fatto coronare,\nfece in Tunisi re un altro suo figliuolo, e con sei galee armate, e\nuna nave di Genovesi carica di grande tesoro ch\u2019avea tratto di Tunisi,\ndel mese d\u2019ottobre del detto anno, si mise in mare per tornare nel\nsuo reame: confidandosi, che essendo con sua persona nel paese, i\nsuoi sudditi l\u2019ubbidirebbono, non ostante che il figliuolo avesse la\nsignoria. E avendo lasciato il suo nuovo re in Tunisi, poco appresso la\nsua partita gli Arabi entrarono in Tunisi, e uccisono questo figliuolo\nrimaso, e fecionne re il nipote del re di Tunisi, cui Balase avea\nmorto; e \u2019l detto Balase essendo in mare, una fortuna il percosse,\ne tutte e sei le sue galee ruppe, e tutti gli uomini perirono, salvo\nil re con alquanti compagni che camparono in su uno scoglio: e indi\nlevato da certi pescatori fu portato a Morocco, ove riconosciuto, fu\nricevuto come loro signore. La nave col suo tesoro messasi in alto\npelago arriv\u00f2 in Ispagna, e il re Pietro s\u2019appropi\u00f2 il tesoro. Balase\nessendo ubbidito in Morocco e nel paese, di presente accolse di suoi\nbaroni, e con grande oste and\u00f2 contro a Buevem suo figliuolo, inverso\nFessa; e cominciato a guerreggiare, veggendo Buevem che i suoi baroni\ncominciavano a ubbidire al padre, disperandosi della difesa, argoment\u00f2\ncon incredibile tradimento. Egli avea seco una sua sirocchia giovane\nfanciulla figliuola di Balase, costei ammaestr\u00f2 di quello ch\u2019egli\nvolle ch\u2019ella facesse: la quale si part\u00ec da lui, mostrando mal suo\nvolere, e torn\u00f2 al padre, il quale la vide allegramente, ed ella lui,\ncome caro padre, e commendatola della sua venuta, la tenea intorno a\nse come figliuola. Ma la corrotta fanciulla osservando la malizia del\nfratello, ivi a pochi d\u00ec avvelen\u00f2 il padre. Finito Balase il corso\ndella sua vita, e delle sue grandi fortune prospere e avverse, Buevem\nsuo figliuolo rimase re della Bella Marina, e di Morocco e di Tremusi;\nma poco appresso i Mori gli rubellarono Tremusi, ma egli di presente\nvi mand\u00f2 grande oste, e racquist\u00f2 tutto. E montato in grande potenzia,\nper forza si sottomise il reame di Buggea e quello di Costantina, e\u2019\nloro re mise in prigione. E incrudelito, per ambizione di reggere la\nsignoria con meno paura, in brieve tempo fece morire venticinque suoi\nfratelli di diverse madri. Ed esaltato sopra tutti i Barberi, cominci\u00f2\na usare senza freno la sua lussuria, e gli altri diletti carnali, ove\nsi riposa la gloria di quelli saracini; e a un\u2019otta avea trecento mogli\ne grande novero di vergini, le pi\u00f9 nobili e le pi\u00f9 belle de\u2019 suoi\nreami: e quando gli piaceva, usava con quella che l\u2019appetito della\nsua concupiscenza richiedeva, e quella mettea nel numero delle sue\nmogli. Uomo fu ridottato sopra gli altri signori, e aspro punitore di\ngiustizia; e con grande guardia e con molto ordine governava i suoi\nreami. A\u2019 cristiani mercatanti facea grande onore, e volentieri gli\nricettava in suo reame.\nCAP. LIII.\n_Come per lievi cagioni suscit\u00f2 novit\u00e0 in Romagna._\nEssendo conte di Romagna messer Astorgio di Duraforte di Proenza,\nil quale avea per moglie una nipote di papa Clemente sesto, o che\npi\u00f9 vero fosse sua figliuola, il papa l\u2019amava, e intendeva a farlo\ngrande. Costui il d\u00ec della Pasqua di Natale del detto anno, mostrando\nfamiliarit\u00e0 co\u2019 gentiluomini di Faenza, gli fece invitare a pasquare\nseco. Ed essendo a desinare, riscaldati dalla vivanda e dal vino,\nmesser Giovanni de\u2019 Manfredi dimestico del conte gli disse: in cotale\nmattina per cagione di padronatico, ci \u00e8 debitore il vescovo di Faenza\ndi mandare una gallina con dodici pulcini di pasta, e con carne cotta:\ne quando questo e\u2019 non fa, a noi \u00e8 lecito mandare alla sua cucina,\ne trarne la vivanda, e ci\u00f2 che in quella si trova. La gallina non \u00e8\nvenuta, e per\u00f2 piacciavi che con vostra licenza noi possiamo usare\nla ragione del nostro padronatico. La domanda fu indiscreta, essendo\nin casa altrui, che non era certo che il vescovo avesse fallato;\ne il conte con poco sentimento, non considerando il pericolo della\nnovit\u00e0, concedette quella licenza follemente. Il vescovo avea fatto\nsuo dovere, e avea mandata a casa messer Giovanni d\u2019Alberghettino la\ngallina e i pulcini, a cui l\u2019anno toccava quello onore, e la donna\nper un suo scudiere l\u2019avea mandata al marito al palagio del conte;\nma per comandamento fatto a\u2019 portieri per lo conte che alcuno non\nvi lasciassero entrare, se n\u2019era tornato a casa. Nondimeno messer\nGiovanni, ch\u2019avea avuta la licenzia dal conte, disse a\u2019 suoi famigli:\nandate, e chiamate de\u2019 nostri amici, e dite loro rechino le scuri, ed\nentrate nel vescovado: e se le porti non vi sono aperte, colle scuri\nl\u2019aprite, e della cucina del vescovo gittate fuori vivanda, e ci\u00f2\nche vi trovate dentro. Costoro andando agli amici di messer Giovanni\ndiceano: togliete le scuri, e venite con noi. Coloro ch\u2019erano invitati\nche togliessono le scuri non sapendo la cagione, pigliarono anche\nl\u2019altre armi, e l\u2019uno confortava l\u2019altro: e cos\u00ec armati traevano a\ncasa messer Giovanni. Le masnade del conte a pi\u00e8 e a cavallo che il\nd\u00ec avieno la guardia, temendo di questa novit\u00e0, trassono a casa messer\nGiovanni, e cominciarono mischia contro a coloro vi trovarono armati.\nI terrazzani si difendeano non sappiendo la cagione del fatto: la\ngente traeva da ogni parte a romore. Sentendosi la novit\u00e0 al palagio\ndov\u2019erano i convitati, facendosi il conte alle finestre, vidde a pi\u00e8\ndel palagio uno Franceschino di Valle, grande amico di messer Giovanni\nManfredi, a cui commise che andasse da sua parte a comandare alla sua\ngente e a\u2019 cittadini che lasciassono la zuffa e non contendessono\ninsieme. Costui disarmato and\u00f2 a fare il comandamento da parte del\nconte. La gente del conte, che conosceano costui amico di messer\nGiovanni, presono maggiore sospetto, e rivolsonsi contro a lui, e\nvolendogli uno dare della spada in sulla testa, parando la mano al\ncolpo gli fu tagliata: e seguendo i colpi contro a lui, fu morto, e in\nquello stante tre altri amici di messer Giovanni vi furono tagliati e\nmorti. Per la qual cosa, al matto movimento aggiunto la vergogna e il\ndanno, gener\u00f2 fellonia e sdegno in messer Giovanni, e conceputo nel\npetto, propose nella mente di tentare cose quasi incredibili a poterli\nvenire fatte, secondo il suo piccolo e povero stato, le quali per molto\nstudio copertamente, come vedere si potr\u00e0 appresso, condusse al suo\nintendimento.\nCAP. LIV.\n_Come messer Giovanni Manfredi rubell\u00f2 Faenza alla Chiesa._\nMesser Giovanni Ricciardi de\u2019 Manfredi avendo conceputo il tradimento\nch\u2019egli intendea fare, cominci\u00f2 segretamente a dare ordine al fatto:\ne avvennegli bene, che il conte sopraddetto and\u00f2 a corte a Vignone.\nE per alcuno sentimento di gelosia, per sicurt\u00e0 men\u00f2 con seco messer\nGuglielmo fratello carnale del detto messer Giovanni, come per grande\nconfidenza di sua compagnia, e lasci\u00f2 vececonte un Provenzale di poca\nvirt\u00f9, con trecento cavalieri a sua compagnia. E oltre a ci\u00f2, lasci\u00f2\nfornite le fortezze della citt\u00e0 e le castella di fuori. Messer Giovanni\nde\u2019 Manfredi con molta stanzia tenea grande familiarit\u00e0 col vececonte,\ne con singulare studio traeva a se l\u2019amore e la benivoglienza de\u2019\ncittadini. E come gli parve tempo, cominci\u00f2 a mettere copertamente\nfanti in Faenza a pochi insieme, e feceli ricettare a\u2019 suoi confidenti.\nE seppe s\u00ec fare, che in poco tempo ebbe nella citt\u00e0 cinquecento\nfanti forestieri a sua petizione, innanzi che il vececonte o alcuno\nse ne fosse accorto. Ma discordandosi da lui messer Giovanni dello\nArgentino suo consorto, per via di setta, sent\u00ec come in certa contrada\nnel contado, gli amici di messer Giovanni di messer Ricciardo non si\ntrovavano, e non si sapea dove fossono. E per questo sospettando di\ntradimento, fece sentire al vececonte, com\u2019egli sapea che gli amici di\nmesser Giovanni di messer Ricciardo in cotale e in cotale parte non\nsi ritrovavano, perch\u00e8 temea che in Faenza non apparisse novit\u00e0; il\nvisconte avendo con messer Giovanni singolare amicizia e confidenza,\nnon volea intendere di lui alcuno sospetto, ma provvedea al riparo. E\nappressandosi il tempo che il fatto si dovea muovere, la cosa si venia\npi\u00f9 scoprendo. Allora il visconte ingelosito mand\u00f2 a fare richiedere\ndegli amici di messer Giovanni: costoro andarono prima a messer\nGiovanni a sapere quello ch\u2019avessono a fare. Messer Giovanni disse\nloro: tornatevi a casa, e armatevi co\u2019 vostri parenti e amici, e levate\nil romore. Ed egli co\u2019 cittadini con cui egli si confidava, e co\u2019 fanti\nche avea messi in Faenza s\u2019and\u00f2 ad armare, e accolto il suo aiuto, usc\u00ec\ndelle case armato, e fecesi forte a\u2019 suoi palagi. Levato il romore, il\nvisconte fu a cavallo co\u2019 suoi cavalieri e con fanti appi\u00e8 soldati, e\ndirizzossi alle case di messer Giovanni, ove sentiva la gente armata.\nE giunto al luogo, trovando messer Giovanni co\u2019 suoi armati cominci\u00f2 a\ncombattere con loro fortemente. Messer Giovanni co\u2019 suoi si difendeva\nvirtudiosamente, sostenendo il d\u00ec e la notte, senza perdere della\npiazza. La mattina messer Giovanni prese una parte della sua gente, e\nmisesi sul fosso della citt\u00e0, onde attendea soccorso da alcuni suoi\namici di fuori, e sforzandosi il visconte di levarlo di quel luogo,\nnon ebbe podere. La gente venne, e misono un ponte, ch\u2019aveano fatto\nper\u00f2, sopra il fosso, e atati da quelli d\u2019entro valicarono senza\ncontrasto, e furono trecento fanti di Valdilamone, e altri amici di\nmesser Giovanni, e due bandiere di quaranta cavalieri che vi mand\u00f2 il\nsignore di Ravenna. Il Provenzale sbigottito per codardia, avendo la\nmaggior parte de\u2019 cittadini in suo aiuto, e tutte le fortezze della\ncitt\u00e0 in sua guardia, e l\u2019aiuto delle masnade di santa Chiesa a cavallo\ne a pi\u00e8, ed essendo vincitore, standosi fermo, tanta vilt\u00e0 gli occup\u00f2\nla mente, ch\u2019egli abbandon\u00f2 le fortezze della terra, e la libera\nsignoria ch\u2019egli avea nelle sue mani, e tutto il suo onore, e non stato\ncacciato, abbandon\u00f2 la citt\u00e0, e fuggissi a Imola colla sua gente, ove\nper reverenzia di santa Chiesa fu ricevuto, e raccettato mansuetamente.\nE abbandonata per costoro la citt\u00e0 di Faenza e le sue fortezze, messer\nGiovanni di messer Ricciardo de\u2019 Manfredi ne rimase libero signore.\nE incontanente si colleg\u00f2 col capitano di Forl\u00ec, e col signore di\nRavenna, e co\u2019 signori di Bologna, che temeano della Chiesa, perch\u00e8 per\ntirannia teneano le citt\u00e0 contro al volere della Chiesa, e segretamente\ndavano aiuto e consiglio a messer Giovanni, acciocch\u00e8 Faenza e Romagna\nnon rimanesse all\u2019ubbidienza della Chiesa. Questo appresso si dimostr\u00f2\nmanifestamente, come leggendo nostro trattato si potr\u00e0 trovare. E\nquesto rubellamento avvenne a d\u00ec 27 di febbraio del detto anno.\nCAP. LV.\n_Come il capitano di Forl\u00ec prese Brettinoro per assedio._\nDel mese di maggio seguente, gli anni _Domini_ 1350, il capitano di\nForl\u00ec vedendo che la Chiesa avea perduta Faenza, essendosi collegato\nco\u2019 tiranni di Bologna, con quello di Ravenna e di Faenza, che\ndesideravano al tutto svegliere la Chiesa di Romagna e la sua forza;\nconoscendo il tempo fece suo sforzo, e and\u00f2 ad assedio al castello di\nBrettinoro, ch\u2019era molto forte e bene fornito. E ivi stando lungamente,\nla Chiesa non lo soccorreva per avarizia, ma scrivea a\u2019 signori di\nBologna, i quali amavano che si perdesse, e ai comuni di Toscana, che\naiutassono al conte di Romagna a soccorrerlo senza darli forza di gente\nd\u2019arme. E stando d\u2019oggi in domane a speranza dell\u2019aiuto degl\u2019Italiani,\nnon avendo alcuna forza da se, il conte si trov\u00f2 ingannato. Il\ncapitano stringeva gli assediati con ogni argomento, i quali disperati\ndi soccorso, in prima i terrazzani s\u2019arrenderono al capitano, e\nappresso quelli della rocca la dierono per danari, che bene la poteano\nlungamente difendere. Ma la vilt\u00e0 del non sentire apparecchiare\nsoccorso gli fece affrettare a trarre il loro vantaggio.\nCAP. LVI.\n_Come i cristiani d\u2019Europa cominciarono a venire al perdono._\nNegli anni di Cristo della sua nativit\u00e0 1350, il d\u00ec di Natale, cominci\u00f2\nla santa indulgenza a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a\nRoma, facendo le vicitazioni ordinate per la santa Chiesa alla basilica\ndi santo Pietro, e di san Giovanni Laterano, e di santo Paolo fuori di\nRoma: al quale perdono uomini e femmine d\u2019ogni stato e dignit\u00e0 concorse\ndi cristiani, con maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di\npoco tempo innanzi stata la generale mortalit\u00e0, e ancora essendo in\ndiverse parti d\u2019Europa tra\u2019 fedeli cristiani; e con tanta devozione\ne umilit\u00e0 seguivano il romeaggio, che con molta pazienza portavano\nil disagio del tempo, ch\u2019era uno smisurato freddo, e ghiacci e nevi\ne acquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte: e i cammini\npieni di d\u00ec e di notte d\u2019alberghi, e le case sopra i cammini non erano\nsofficienti a tenere i cavalli e gli uomini al coperto. Ma i Tedeschi e\ngli Ungheri in gregge, e a turme grandissime, stavano la notte a campo\nstretti insieme per lo freddo, atandosi con grandi fuochi. E per gli\nostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane il vino e\nla biada, ma di prendere i danari. E molte volte avvenne, che i romei\nvolendo seguire il loro cammino, lasciavano i danari del loro scotto\nsopra le mense, loro viaggio seguendo: e non era de\u2019 viandanti chi gli\ntogliesse, infino che dell\u2019ostelliere venia chi gli togliesse.\nNel cammino non si facea riotte n\u00e8 romori, ma comportava e aiutava\nl\u2019uno all\u2019altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroni\nin Terra di Roma a rubare e a uccidere, dai romei medesimi erano\nmorti e presi, aiutando a soccorrere l\u2019uno l\u2019altro. I paesani faceano\nguardare i cammini, e spaventavano i ladroni: sicch\u00e8 secondo il\nfatto, assai furono sicure le strade e\u2019 cammini tutto quell\u2019anno.\nLa moltitudine de\u2019 cristiani ch\u2019andavano a Roma era impossibile a\nnumerare: ma per stima di coloro ch\u2019erano risedenti nella citt\u00e0, che\nil d\u00ec di Natale, e de\u2019 d\u00ec solenni appresso, e nella quaresima fino\nalla pasqua della santa Resurrezione, al continovo fossono in Roma\nromei dalle mille migliaia alle dodici centinaia di migliaia. E poi per\nl\u2019Ascensione e per la Pentecoste pi\u00f9 di ottocento migliaia; essendo\npieni i cammini il d\u00ec e la notte, come detto \u00e8. Ma venendo la state\ncominci\u00f2 a mancare la gente per l\u2019occupazione delle ricolte, e per\nlo disordinato caldo; ma non s\u00ec, che quando v\u2019ebbe meno romei, non\nvi fossono continovamente ogni d\u00ec pi\u00f9 di dugento migliaia d\u2019uomini\nforestieri. Le vicitazioni delle tre chiese, movendosi d\u2019onde era\nalbergato catuno, e tornando a casa, furono undici miglia di via. Le\nvie erano s\u00ec piene al continovo, che convenia a catuno seguitare la\nturba a piede e a cavallo, che poco si poteva avanzare; e per tanto\nera pi\u00f9 malagevole. I romei ogni d\u00ec della visitazione offerivano a\ncatuna chiesa, chi poco, e chi assai, come gli parea. Il santo sudario\ndi Cristo si mostrava nella chiesa di san Pietro, per consolazione de\u2019\nromei, ogni domenica, e ogni d\u00ec di festa solenne; sicch\u00e8 la maggior\nparte de\u2019 romei il poterono vedere. La pressa v\u2019era al continovo\ngrande e indiscreta. Perch\u00e8 pi\u00f9 volte avvenne, che quando due, quando\nquattro, quando sei, e tal\u2019ora fu che dodici vi si trovarono morti\ndalla stretta, e dallo scalpitamento delle genti. I Romani tutti erano\nfatti albergatori, dando le sue case a\u2019 romei a cavallo; togliendo per\ncavallo il d\u00ec uno tornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvolta due,\nsecondo il tempo; avendosi a comprare per la sua vita e del cavallo\nogni cosa il romeo, fuori che il cattivo letto. I Romani per guadagnare\ndisordinatamente, potendo lasciare avere abbondanza e buono mercato\nd\u2019ogni cosa da vivere a\u2019 romei, mantennero carestia di pane, e di\nvino e di carne tutto l\u2019anno, facendo divieto, che i mercatanti non vi\nconducessono vino forestiere, n\u00e8 grano n\u00e8 biada, per vendere pi\u00f9 cara\nla loro. Valsevi al continovo uno pane grande di dodici o diciotto\nonce a peso, danari dodici. E il vino soldi tre, quattro, e cinque il\npitetto, secondo ch\u2019era migliore. Il biado costava il rugghio, ch\u2019era\ndodici profende comunali, a comperarlo in grosso, quasi tutto l\u2019anno,\nda lire quattro e soldi dieci in lire cinque: il fieno, la paglia,\nle legne, il pesce, e l\u2019erbaggio vi furono in grande carestia. Della\ncarne v\u2019ebbe convenevole mercato, ma frodavano il macello, mescolando\ne vendendo insieme, con sottili inganni, la mala carne colla buona. Il\nfiorino dell\u2019oro valeva soldi quaranta di quella moneta. Nell\u2019ultimo\ndell\u2019anno, come nel cominciamento, v\u2019abbond\u00f2 la gente e poco meno. Ma\nallora vi concorsono pi\u00f9 signori, e grandi dame, e orrevoli uomini, e\nfemmine d\u2019oltre a\u2019 monti e di lontani paesi, ed eziandio d\u2019Italia, che\nnel cominciamento o nel mezzo del tempo: e ogni d\u00ec presso alla fine si\nfaceano delle dispensagioni, del vicitare le chiese, maggiori grazie.\nE nell\u2019ultimo, acciocch\u00e8 niuno che fosse a Roma, e non avesse tempo\na potere fornire le visitazioni, rimanesse, senza la grazia, senza\nindulgenzia de\u2019 meriti della passione di Cristo, fu dispensato infino\nall\u2019ultimo d\u00ec, che catuno avesse pienamente la detta indulgenzia. E\ncos\u00ec fu celebrato questo anno del santo giubbileo la dispensagione\nde\u2019 meriti della passione di Cristo, e di quelli della santa Chiesa, e\nremissione de\u2019 peccati de\u2019 fedeli cristiani.\nCAP. LVII.\n_Perch\u00e8 s\u2019intramesse il dificio d\u2019Orto san Michele._\nEra cominciato innanzi alla mortalit\u00e0 il nobile edificio del palagio\nsopra dodici pilastri nella piazza d\u2019Orto san Michele, per farvi\ngranai per lo comune, acciocch\u00e8 si stesse in continua provvisione di\ngrano e di biada, per sovvenire il popolo al tempo della carestia.\nMa avvedendosi il comune, che il minuto popolo era ingrassato e\nimpoltronito dopo la mortalit\u00e0, e non volea servire agli usati\nmestieri, e voleano per loro vita le pi\u00f9 care e le pi\u00f9 dilicate cose\nche gli altri antichi cittadini, e con questo disordinavano tutta la\ncitt\u00e0, volendo di salario le fanti, femmine rozze e senza essere ausate\na servigio, e i ragazzi della stalla, il meno fiorini dodici l\u2019anno,\ne i pi\u00f9 sperti diciotto e ventiquattro l\u2019anno: e cos\u00ec le balie, e gli\nartefici minuti manuali, volevano tre cotanti o appresso che l\u2019usato,\ne i lavoratori delle terre voleano tutti buoi e tutto seme, e lavorare\nle migliori terre, e lasciare l\u2019altre: pensarono i nostri rettori con\nbuono consiglio, di mettere ordine alle cose, e raffrenare i soperchi\ncon certe leggi, ma per cosa che fare sapessono, a questa volta non vi\npoterono porre rimedio, e convenne che a Dio si lasciasse il corso e\nl\u2019addirizzamento di quelli soperchi, i quali ancora nel 1362 durano,\npoco corretti, o mancati. Perocch\u00e8 l\u2019abbondanza del guadagno corrompeva\nil comune corso del ben vivere, pensarono che pi\u00f9 utile era raffrenare\nlo ingrato e sconoscente popolo la carestia, che la dovizia. E allora\nsi rimase coperto d\u2019un basso tetto l\u2019edificio del palagio d\u2019Orto san\nMichele. E il comune avendo bisogno, raddoppi\u00f2 la gabella del vino alle\nporte, e dove pagava soldi trenta il cogno, lo rec\u00f2 in soldi sessanta.\nE chi vendesse vino a minuto, dovesse pagare de\u2019 due danari l\u2019uno\nal comune. E dinuovo puosono soldi due a ogni staio di farina che si\nlogorasse nella citt\u00e0, e danari quattro alla libbra della carne, e che\nlo staio del sale si vendesse per lo comune lire cinque e soldi otto.\nE non vollono che provvisione di grano o di biada si facesse per lo\ncomune, ma in contradio ordinarono, che tutto il pane vendereccio si\nfacesse per lo comune, e vendessesi caro: e quale fornaio ne volesse\nfare per vendere, pagasse d\u2019ogni staio soldi otto di gabella al comune.\nQueste furono cose di grande gravezza; ma tanto era l\u2019utile che traeva\nd\u2019ogni cosa il minuto popolo, che meno se ne curavano che i maggiori\ncittadini.\nCAP. LVIII.\n_Come la Chiesa mand\u00f2 il conte per racquistare la contea di Romagna._\nIn questo anno 1350, parendo al papa e a\u2019 cardinali, con vergogna\ndi santa Chiesa avere perduta la signoria e la propiet\u00e0 di Romagna,\nordinarono di volerla racquistare per forza; e avendo papa Clemente\nsesto volont\u00e0 d\u2019accrescere onore e stato a messer Astorgio di\nDuraforte, conte di Romagna, suo parente, il fece capitano della gente\nche la Chiesa intendea di mettere in arme a questo servigio. Il quale\naccolse quattrocento cavalieri gentiluomini in Proenza, e fece suo\nmaliscalco messer Rostagno da Vignone della casa de\u2019 Cavalierri, pro\u2019\ne ardito e valoroso cavaliere. E la Chiesa gli ordin\u00f2 uno tesoriere,\nche ricogliesse i danari, e convertissegli ne\u2019 soldi e negli altri\nbisogni che occorressono alla guerra, a volont\u00e0 del conte. E innanzi\nche il conte si movesse di Proenza, fece a Firenze e a Perugia soldare\nottocento cavalieri e mille masnadieri di buona gente d\u2019arme. E oltre a\nci\u00f2, il papa con molta istanza fece richiedere i tiranni di Lombardia,\ncatuno per se, e i comuni di Toscana, che dovessono aiutare al conte\nracquistare Romagna. L\u2019arcivescovo di Milano gli mand\u00f2 cinquecento\nbarbute: messer Mastino della Scala glie ne mand\u00f2 dugento: i tiranni\ndi Bologna glie ne mandarono dugento: il marchese di Ferrara cento;\ni comuni di Toscana non vi mandarono loro gente. Il conte di Romagna\navendo i suoi cavalieri e masnadieri, e questo aiuto, a d\u00ec 13 di maggio\ndel detto anno si part\u00ec d\u2019Imola, e addirizzossi al ponte san Brocolo;\ned essendo il ponte molto afforzato e bene guernito di gente alla\ndifesa per lo signore di Faenza, a d\u00ec 15 del detto mese, con aspra\ne dura battaglia combatterono la fortezza e vinsonla, che fu assai\nprospero cominciamento. E rafforzata la bastita del ponte, e messovi le\nguardie per difendere il passo, con tutta sua cavalleria s\u2019addirizz\u00f2 a\nSalervolo, uno castello presso a Faenza a cinque miglia, il quale non\nera murato, n\u00e8 fortezza, nel luogo, che avendolo vinto fosse grande\nacquisto. E ivi puose l\u2019assedio, lasciando per mala provvisione di\nporsi a Faenza, ch\u2019era male fornita e poco intera alla difesa, e i\ncittadini non amavano la signoria del nuovo tiranno, e per\u00f2 fu reputato\npe\u2019 savi follemente fatto. Il tiranno di Faenza, messer Giovanni di\nmesser Ricciardo Manfredi, che stava in grande paura della citt\u00e0,\nsentendo posta l\u2019oste a Salervolo, fu molto contento, e prese cuore\nalla difesa; e di subito mise masnadieri in Salervolo, che avea soldati\nin Toscana, sperti a sapere guardare le castella, i quali francamente\ndifesono la terra di molte battaglie che \u2019l conte vi fece dare,\ndurandovi l\u2019assedio dal d\u00ec 17 di maggio, fino a d\u00ec 6 del prossimo mese\ndi luglio, senza lasciarsi avanzare alcuna cosa.\nCAP. LIX.\n_Processo de\u2019 traditori di Romagna, e di certi Provenzali._\nSeguita il processo de\u2019 traditori, che si provvedeano con molta\nsagacit\u00e0 a ingannare l\u2019uno l\u2019altro, e catuno infine con la sua parte\ndell\u2019impresa rimase disfatto e ingannato. E dell\u2019attizzamento di questa\nmaladetta favilla crebbe fuoco, il cui fumo corruppe tutta Italia,\ne offusc\u00f2 gli occhi a\u2019 liberi popoli, e ottenebr\u00f2 la vista de\u2019 sacri\npastori, e fu cagione di nuovi avvenimenti di signori, e di grandi e\ngravi revoluzioni di stati, come seguendo a\u2019 loro tempi racconteremo.\nPer questa impresa della Chiesa, i tiranni di Bologna, che allora erano\nmesser Giovanni e messer Iacopo di messer Taddeo di Romeo de\u2019 Peppoli\ndi Bologna, avendo occupata la citt\u00e0 alla Chiesa di Roma sotto certo\ncenso, ed essendo in grande stato e pompa nella signoria, temeano che\nla Chiesa non racquistasse la signoria di Romagna; e dall\u2019altra parte\nsi tenea dissimulando per lo conte, che per lo loro caldo e favore\nmesser Giovanni Manfredi avesse rubellata Faenza alla Chiesa, e che\nsegretamente atassono a mantenere la difesa. E per\u00f2 il conte, che\nera pi\u00f9 sperto in coperta malizia, che in aperta prodezza o virt\u00f9,\ncontinovo attendeva a tendere suoi lacci, come i tiranni i loro, e\nmostravansi insieme con molta confidanza e grande amist\u00e0, e davansi\naiuto e consiglio l\u2019uno all\u2019altro, coperto di frode e di dolo.\nCAP. LX.\n_Come messer Giovanni de\u2019 Peppoli cerc\u00f2 accordo dal conte a messer\nGiovanni._\nIn fra \u2019l tempo gi\u00e0 detto dell\u2019assedio di Salervolo, crescendo\ncontinuo la forza del conte per lo sussidio de\u2019 danari della Chiesa, e\ndell\u2019amist\u00e0 che giugnea in aiuto al conte, messer Giovanni de\u2019 Peppoli,\nper tenere in tranquillo il conte e farli perdere tempo, cominci\u00f2\nun trattato, di voler riducere messer Giovanni Manfredi di Faenza\nall\u2019ubbidienza di santa Chiesa: e mand\u00f2 a dire al conte che volea\nessere in ci\u00f2 mezzano, facendo a santa Chiesa riavere suo diritto e\nsuo onore. Il conte, ch\u2019era di natura e di studio malizioso, si mostr\u00f2\nmolto contento di voler seguire questo trattato, mostrando in questo,\ne nell\u2019altre cose, volersi reggere per suo consiglio, dicendo, che\ncos\u00ec aveva in mandato dal santo padre: e nondimeno sapea al certo,\nche per operazione de\u2019 signori di Bologna, e del capitano di Forl\u00ec,\ne co\u2019 loro danari, al presente era entrato il doge Guernieri con\ncinquecento barbute alla difesa di Faenza. E dato lo intendimento a\nmesser Giovanni, acciocch\u00e8 seguisse il trattato, egli con sollecitudine\nmandava in Faenza suoi ambasciadori, e nell\u2019oste al conte, e mostravasi\ngi\u00e0 il trattato venire a concordia. Allora il conte mand\u00f2 a dire\na messer Giovanni a Bologna per li suoi medesimi ambasciadori, che\ninnanzi che fermasse la concordia, volea essere personalmente con lui\nin Bologna, o dovunque gli piacesse, per dare compimento a questo,\ne ragionargli d\u2019altre segrete cose, che dal santo padre avea in\ncommissione di conferire con lui: e per\u00f2 mandasse a dire dove e\u2019 volea\nch\u2019egli venisse, che avuta la risposta, con piccola compagnia subito\nsarebbe a lui.\nCAP. LXI.\n_Come messer Giovanni de\u2019 Peppoli and\u00f2 nell\u2019oste, e fu preso._\nMesser Giovanni de\u2019 Peppoli signore di Bologna, avendo dal conte\ndimostramento di tanta libert\u00e0, e sentendo che il papa l\u2019amava e\ndavali molta fede, prese sicurt\u00e0 per lo trattato ch\u2019egli menava, e\nperch\u00e8 aveva nell\u2019oste del conte dugento suoi cavalieri, e avea grande\namist\u00e0 con molti altri conestabili dell\u2019oste. E volendo mostrare\nal conte com\u2019egli era fedele di santa Chiesa, per ricoprire le sue\ncoperte operazioni fatte contro a quella, secondo la malizia del conte,\npervenne a sua volont\u00e0: e contro al consiglio di messer Iacopo suo\nfratello, di presente prese in sua compagnia de\u2019 maggiori cittadini\ndi Bologna, e di suoi soldati trecento cavalieri, e promettendo al\nfratello che non passerebbe Castel san Pietro, si mise a cammino.\nEd essendo giunti la mattina a buon ora a Castel san Pietro, come il\npeccato conduce, e le fini de\u2019 tiranni s\u2019apparecchiano per non pensato\nsentiere, come si vide a Castel san Pietro non attese la promessa al\nfratello, ma volendo improvviso e tosto giugnere al conte, cavalc\u00f2\nsenza arresto: e prima fu giunto al padiglione del conte, che sapesse\nche vi dovesse venire; e scavalcato, il conte il ricevette con grande\nfesta, mostrandogli ne\u2019 sembianti amore fraternale; e molto s\u2019allegrava\ncon lui della sua cortese venuta. E questo fu a d\u00ec 6 di luglio in\nsulla nona, che \u2019l caldo era grande. Innanzi fece venire vini, frutte\ne confetti, per fare rinfrescare lui e la sua brigata ch\u2019erano ivi;\ne in questo soggiorno, veggendosi il conte tra le mani il tiranno\ndi Bologna, o ch\u2019egli avesse prima pensato il tradimento, o che\nsubitamente l\u2019animo il tirasse all\u2019inganno, bevendo e mangiando insieme\nin grande sollazzo, mand\u00f2 il suo maliscalco a fare armare cavalieri\ne masnadieri cui egli volle, dando voce di fare assalto a quelli di\nSalervolo. E come furono armati, fece promettere a\u2019 conestabili paga\ndoppia e mese compiuto, acciocch\u00e8 non si mettessono alla difesa del\nsignore di Bologna. Messer Giovanni che avea bevuto e mangiato, e preso\nrinfrescamento a volont\u00e0 del conte, attendea che il conte gli parlasse:\ne non vedendo che ne facesse sembiante, disse a quelli ambasciadori\nche quella ambasciata gli aveano portata, che dicessono al conte che si\ndovea diliberare; e gi\u00e0 cominciava a dubitare. Il conte rispuose, che\nattendeva il suo maliscalco, che di presente vi sarebbe, e fornirebbono\nloro parlamento. Ancora erano le parole, quando messer Rostagno\nmaliscalco dell\u2019oste giunse colla gente armata al padiglione del conte\nove messer Giovanni attendea, e fugli intorno: e apparecchiatogli\nuno cavallo de\u2019 suoi, disse: messer Giovanni, montate qui su: e\nimmantinente vi fu posto pi\u00f9 tosto che non vi sarebbe montato, e\nsenza contesa o difesa, di salto fu menato prigione a Imola. Uno suo\nfamiglio cominci\u00f2 a gridare e a piagnere, dicendo: oim\u00e8, signore mio:\ne di presente gli fu morto a\u2019 piedi. E giunto in Imola, fu messo nella\nrocca, e ordinatogli buona guardia. I cittadini di Bologna, e tutta\nla compagnia che avea menata di Bologna, e i dugento cavalieri che\navea tenuti nell\u2019oste in servigio del conte, in quella medesima ora,\ncome preda di nimici vinta in battaglia, furono presi, e rubato loro\nl\u2019arme, e\u2019 cavalli, e arnesi, e i soldati cos\u00ec rubati furono cacciati\ndel campo; e i cittadini di Bologna furono tenuti prigioni alquanti d\u00ec,\ne manifestato per tutto il grande tradimento, furono lasciati. E messer\nGiovanni rimase in prigione: il quale, dappoich\u00e8 pervenne alla tirannia\ndi Bologna, non tenne fede a parte guelfa, n\u00e8 a\u2019 suoi cittadini,\nn\u00e8 a\u2019 Fiorentini, n\u00e8 all\u2019altre citt\u00e0 di sua vicinanza: e per\u00f2 forse\ndegnamente con tradimento fu punito della sua corrotta fede.\nCAP. LXII.\n_Come il conte scoperse l\u2019altro trattato che avea con messer Mastino._\nNon ostante che il conte tenesse trattato con messer Giovanni de\u2019\nPeppoli, avea trattato con messer Mastino della Scala, che venendo\negli sopra la citt\u00e0 di Bologna gli darebbe mille cavalieri in aiuto\ninfino a guerra finita. Onde essendo venuto fatto al conte d\u2019avere\nmesser Giovanni a prigione, prese grande speranza d\u2019avere Bologna con\nl\u2019aiuto di messer Mastino. E significatoli il fatto, e domandatoli\nl\u2019aiuto promesso, a d\u00ec 10 di luglio, del detto anno 1350, si lev\u00f2\nda Salervolo, e venne a Imola con tutta l\u2019oste. E come uomo di poca\ndiscrezione e provvedenza promise un\u2019altra volta paga doppia e mese\ncompiuto a\u2019 suoi cavalieri, se per forza pigliassono Castel san Pietro.\nI quali cavalieri di presente andarono al detto castello, che non era\nfornito di gente n\u00e8 provveduto alla difesa, e senza trovarvi resistenza\nin poca d\u2019ora l\u2019ebbono preso, che non vi morirono quattro persone.\nE cos\u00ec in meno di dieci d\u00ec i soldati del conte ebbono per vituperose\ncagioni guadagnate due paghe doppie e due mesi compiuti, che montarono\nun grande tesoro: e non parea che il conte se ne curasse, se non come\navesse a distribuire il tesoro di santa Chiesa. Le quali promesse\nfollemente fatte, con l\u2019altre follie della sua pazza condotta, al fine\nrend\u00e8 il merito a santa Chiesa della provvisione di s\u00ec fatto capitano,\nchente la disciplina della guerra richiede. Ed essendo il conte\ncon l\u2019oste a Castel san Pietro, messer Mastino gli mand\u00f2 ottocento\ncavalieri, per compiere i mille che promesso gli avea, ov\u2019egli venisse\nall\u2019assedio di Bologna, come detto \u00e8 addietro.\nCAP. LXIII.\n_Come messer Iacopo Peppoli rimaso in Bologna si provvidde alla difesa._\nInfra queste sopraddette tempeste, messer Iacopo de\u2019 Peppoli ch\u2019era\nrimaso in Bologna sentendo preso il fratello, e che l\u2019oste del conte\navea preso Castel san Pietro, e venia sopra lui a Bologna: e come\nmesser Mastino signore di Verona e di Vicenza s\u2019era scoperto suo\nnimico, non sapea che si fare; ma come la necessit\u00e0 intrigata dalla\npaura argomenta, mand\u00f2 per soccorso al signore di Milano, e al marchese\ndi Ferrara, e al comune di Firenze, e in ogni parte onde sperava\navere alcuno aiuto o consiglio; e mandate le lettere e\u2019 messaggi,\nrichiese con grande istanza i cittadini di Bologna, che a questo punto\nsoccorressono al suo e al loro pericolo. I quali gi\u00e0 domati dal servile\ngiogo della tirannia, essendo venuto il tempo della franchezza, per\npovert\u00e0 d\u2019animo, e per li loro peccati, non furono degni di cotale\nbeneficio, che senza contasto a quel punto era in loro potenzia di\ntornare in libert\u00e0. E aveano il comune di Firenze vicino nimico della\ntirannia, il quale per la libert\u00e0 di quel popolo avrebbe prestato\nloro aiuto e favore, e riparato allo assalto del conte, con giusta\ncagione di pace e di concordia con la santa Chiesa, disposto che il\ntiranno fosse della tirannia. Ma perocch\u00e8 ne\u2019 popoli pi\u00f9 regna corso\ndi fortuna che libert\u00e0 d\u2019arbitrio, per apparecchiarsi alle debite\npene de\u2019 peccati, per li quali l\u2019empio tiranno regna, fu accecato\nil loro intendimento: e mollemente s\u2019apparecchiarono alla difesa per\npaura del tiranno, combattuti nell\u2019animo dall\u2019apparecchiata libert\u00e0.\nIn questo stante l\u2019arcivescovo signore di Milano sent\u00ec la presura di\nmesser Giovanni, e scoperto l\u2019animo di messer Mastino, mand\u00f2 al conte\nsuoi ambasciadori dolendosi dell\u2019ingiuria fatta a messer Giovanni suo\namico, e di sua lega e compagnia, dimandando che di presente il dovesse\nliberare: e quando questo non facesse, mand\u00f2 comandamento a\u2019 suoi\ncapitani e a\u2019 suoi cavalieri che erano al servigio del conte, che di\npresente si dovessono partire da lui. Il conte rispuose di non volerlo\nlasciare perocch\u00e8 sapea al certo ch\u2019egli avea fatta rubellare, la citt\u00e0\ndi Faenza alla Chiesa di Roma, e come tenea trattato col capitano di\nForl\u00ec, e col signore di Ravenna, e con quello di Faenza, di rompergli\nl\u2019oste a un d\u00ec nominato, e di prendere lui a grande tradimento: e\nper\u00f2 avea preso il traditore, e intendea tenerlo a volont\u00e0 del papa\ne di santa Chiesa. E per\u00f2 fu comandato a\u2019 cavalieri dell\u2019arcivescovo\nsi dovessono partire. Ma i cavalieri, e\u2019 loro capitani, che aveano\npromesse dal conte di due paghe doppie e di due mesi compiuti, non\nsi vollono partire, e rimasono cassi dal soldo dell\u2019arcivescovo; e il\nconte con lo sfrenato animo, non guardandosi innanzi, gli condusse al\nsoldo della Chiesa, facendo debito sopra debito. E riveduta sua gente,\nsi trov\u00f2 a Castel san Pietro con tremila barbute e con grande popolo di\nsoldo.\nCAP. LXIV.\n_L\u2019aiuto che messer Iacopo accolse per guardare Bologna._\nStando il conte colla sua oste a Castel san Pietro, e cavalcando il\ncontado di Bologna, l\u2019arcivescovo di Milano mand\u00f2 di presente trecento\ncavalieri in Bologna, per aiuto della guardia d\u2019entro. E cominci\u00f2\na pensare, che mantenendo messer Iacopo nella citt\u00e0, a poco insieme\nconducerebbe lui e la terra in tali stremi, che agevolemente all\u2019ultimo\nne diverrebbe signore, come in fine fatto gli venne. Messer Malatesta\nd\u2019Arimino, ch\u2019era allora nemico di santa Chiesa, vi venne in persona,\ne dato conforto a messer Iacopo, gli lasci\u00f2 dugento cavalieri de\u2019 suoi,\ne tornossene in Romagna. I Fiorentini per niuno modo vi vollono mandare\nalcuna gente per riverenzia della Chiesa, ma incontanente vi mandarono\nambasciadori a cercare se tra loro e il conte potessero metter\npace o accordo; e pi\u00f9 volte andarono da Bologna al conte senza fare\nalcuno frutto tra le parti. Messer Iacopo vedendosi pi\u00f9 l\u2019uno d\u00ec che\nl\u2019altro infiebolire, condusse il doge Guernieri ch\u2019era in Faenza con\ncinquecento barbute; il quale volendo andare a Bologna, convenne che\nvalicasse per lo distretto del comune di Firenze nell\u2019alpi, ove lieve\nera a impedire per li stretti passi, ed egli era nimico del comune, e\nandava contro a santa Chiesa. Trovossi che fu fattura de\u2019 priori che\nallora erano all\u2019uficio senza sentimento degli altri cittadini; della\nqual cosa in Firenze ne fu grande ripitio, ma fatta la cosa si rimase a\ntanto, e il doge pass\u00f2 senza impedimento, e con tutta sua compagnia se\nn\u2019entr\u00f2 in Bologna.\nCAP. LXV.\n_Del male stato che si condusse la citt\u00e0 di Bologna, e di certi\ntrattati che allora si tennono._\nCome il duca Guernieri co\u2019 suoi cavalieri fu in Bologna, prese per suo\nabituro una contrada, e in quella volle le case, e le masserizie, e\nquello che in esse trov\u00f2 da vivere, come se egli avesse presa la terra\nper forza: e non era chi osasse parlare contro a suo volere. Gli altri\nsoldati all\u2019esempio di costui cominciarono a fare il simigliante.\nI nimici di fuori cavalcavano ogni d\u00ec intorno alla terra, pigliando\ngli uomini, e predando le ville del contado, venendo spesso fino alle\nporti. Per la qual cosa la citt\u00e0 cominci\u00f2 a sentire grandissimi disagi\ne carestia d\u2019ogni bene, e i cittadini oppressati dentro e di fuori,\nnon sapendo che si fare, e non trovando accordo col conte per ambiziosa\nsuperbia, messer Iacopo e\u2019 cittadini di Bologna, di grande concordia,\ne d\u2019uno consentimento, vollono dare la guardia di Bologna libera al\ncomune di Firenze, disponendosi al tutto di volere lasciare la signoria\nmesser Iacopo, sperando che ci\u00f2 fatto, colla Chiesa non mancherebbe\naccordo. E nel vero questa era salutevole via: ma certi cittadini\npopolani di Firenze della casa ... che aveano in quel tempo stato in\nFirenze, ed erano per la Chiesa al servigio del conte e del tesoriere,\nper loro spezialit\u00e0 avvisandosi, che venendo Bologna alle mani della\nChiesa, come speravano, e\u2019 ne sarebbono governatori, e farebbonsene\nricchi e grandi; e per questa cagione smossono i loro amici cittadini\ngrandi e popolani: ed eglino medesimi essendo a consigliare quello\nch\u2019era grandezza e stato del loro comune, e riposo di tutta Italia, si\nopposono al contradio, dicendo, che il comune n\u2019offenderebbe troppo il\npapa, e\u2019 cardinali e la santa Chiesa. Ed essendo favoreggiati da\u2019 loro\namici, ebbono podere di non lasciare imprendere al comune di Firenze\nquesto servigio, e commisono grande materia di molto male a tutta\nItalia, e non pervennono alla loro corrotta intenzione. I Bolognesi\ndisperati di questo, ove riposava tutta la loro speranza, e \u2019l conte\nmontato nella cima della sua superbia, coloro non sapevano pi\u00f9 che si\nfare, e il conte credendo senza contasto venire al suo intendimento\nd\u2019avere la citt\u00e0 per forza, essendo stato infino al settembre a Castel\nsan Pietro, volle muovere l\u2019oste, e porsi su le porti di Bologna; e\nsarebbegli venuto fatto, tanto erano i cittadini oppressati da\u2019 soldati\nd\u2019entro, e in disagio di tutte le cose da vivere, le quali al continuo\nmontavano in disordinata carestia, e non aveano capo a cui i cittadini\ne\u2019 forestieri ubbidissono, ma come la mala provvedenza del conte\nmerit\u00f2, i soldati mossono quistione come appresso diviseremo.\nCAP. LXVI.\n_Come i soldati mossono quistione al conte, e fu loro assegnato messer\nGiovanni Peppoli._\nLa mala provvedenza del conte di Romagna avendo moltiplicata gente\nd\u2019arme al suo soldo, e promesse paghe doppie e mesi compiuti per\nniente, e dalla Chiesa non aveva i danari, come la sua follia avea\nstimato: i soldati conoscendo loro tempo, essendo a pagare di parecchi\nmesi di loro propi soldi, senza le promesse del conte, dissono, che di\nquel luogo non si partirebbono, se prima non fossono pagati de\u2019 loro\nsoldi serviti, e delle paghe doppie e mesi compiuti che promessi avea\nloro. Il quale soldo, colle promesse fatte, montava centocinquanta\nmigliaia di fiorini d\u2019oro. Il conte vedendo che la Chiesa non gli\nmandava danari, se non a stento, e a pochi insieme, temette che i\nsoldati, ch\u2019erano tutti di concordia, a uno volere non lo pigliassono,\ntratt\u00f2 con loro d\u2019avere termine da fare venire loro danari, e diede\nloro in pegno messer Giovanni de\u2019 Peppoli, e certi Bolognesi che avea\nprigioni a Imola, e Castel san Pietro, e quello di Luco, e quello di\nDoccia, ch\u2019egli avea acquistati in sul Bolognese: e fu con loro in\naccordo, come avessono la possessione di tutto, allora cavalcherebbono,\ne porrebbonsi a campo stretto alla citt\u00e0 di Bologna. Il conte fece\ndare loro i prigioni e la guardia delle castella, e avutole, volea\nche cavalcassono. I soldati colla corrotta fede, usati de\u2019 baratti,\ndissono che \u2019l pegno non era buono, e non voleano cavalcare n\u00e8 partirsi\nda Castel san Pietro. Messer Giovanni de\u2019 Peppoli sentendo questo,\ndi presente ebbe de\u2019 conestabili, e tratt\u00f2 con loro di dare contanti\nfiorini ventimila d\u2019oro, e per stadichi i suoi figliuoli e quelli\ndi messer Iacopo suo fratello, e certi cittadini di Bologna per lo\nrimanente, ed elli li liberassono di prigione. L\u2019accordo fu fatto\ncon assentimento del conte, se infra certo tempo la Chiesa non avesse\nmandati i danari. Venuto il termine, e non i danari, i soldati presono\nfiorini ventimila contanti, e gli stadichi promessi, e lasciarono\nmesser Giovanni, il quale torn\u00f2 in Bologna, e il fratello e la parte\nloro furono pi\u00f9 forti, e signori di potere fare della citt\u00e0 a loro\nsenno, senza la volont\u00e0 e consiglio de\u2019 loro cittadini, perocch\u00e8 messer\nGiovanni era molto temuto, e sapeva bene essere co\u2019 soldati ne\u2019 fatti\ndella guerra.\nCAP. LXVII.\n_Come messer Giovanni tenne suoi trattati della citt\u00e0 di Bologna._\nTornando messer Giovanni in Bologna, e lasciati a\u2019 soldati della\nChiesa gli stadichi promessi, trov\u00f2 la citt\u00e0 in molto male stato per\nle cagioni gi\u00e0 dette, e non vide modo come difendere si potesse, e\nconobbe che perdere gli convenia la signoria di Bologna in breve tempo.\nI cittadini di Firenze, che desideravano l\u2019accordo di quella citt\u00e0\ncolla Chiesa, sentendo tornato in Bologna messer Giovanni, vi mandarono\nde\u2019 loro cittadini pi\u00f9 solenne ambasciata, i quali da\u2019 tiranni furono\nricevuti a onore, e di loro volont\u00e0 trattarono accordo col conte, e\ncondussono il trattato a questo punto. Che i tiranni lasciassono al\ntutto la signoria della citt\u00e0 e contado, e renderla alla Chiesa di\nRoma per lo modo usato: ch\u2019ella tornasse al governamento del popolo,\ne avere continuo i rettori della Chiesa, e pagare il censo consueto;\ne al presente voleano ricevere nella citt\u00e0 il conte con cinquecento\ncavalieri, e riformare doveano loro stato al popolo, per quelli\ncittadini che \u2019l comune di Firenze vi mandasse a ci\u00f2 fare. Il conte\nche avea provati i rimprocci de\u2019 soldati, e il pericolo che correa\ncon loro, dichinava le corna della sua superbia, e acconciavasi alla\ndetta concordia. Ma come pomposo e vano, si strinse al consiglio di\nquesto partito che potea pigliare con messer Guglielmo da Fogliano,\ne con messer Frignano, figliuolo bastardo di messer Mastino, e altri\nconestabili che v\u2019erano per messer Mastino, i quali non v\u2019erano tanto\nper onore di santa Chiesa, quanto per loro vantaggio, per cui faceva\nla guerra, e speravano con loro malizia conducere la citt\u00e0 di Bologna\npiuttosto in mano del loro signore, che del conte e della Chiesa di\nRoma, i quali dissono al conte: tu vedi che i signori di Bologna non\npossono pi\u00f9, e la citt\u00e0 \u00e8 condotta a tanta stremit\u00e0 dentro, che delle\nmani tue non puote uscire: e per\u00f2 non pensare a questi patti, che noi\nte ne faremo libero signore colla spada in mano. Il conte pomposo,\npieno di vanagloria, con lieve testa, non pens\u00f2 i casi che occorrono\nnelle guerre, e per le vane promesse de\u2019 fallaci adulatori ruppe il\ntrattato menato per gli ambasciadori del comune di Firenze fedelmente,\na onore e a beneficio di santa Chiesa, e a ricoveramento di riposo al\nfortunoso stato di quella citt\u00e0. Vedendo i tiranni la sconcia volont\u00e0\ndel conte, si pensarono con tradimento de\u2019 loro cittadini e della loro\npatria venire a un altro loro intendimento, gi\u00e0 mosso per la malizia\ne per lo sdegno di messer Giovanni; e per\u00f2, acciocch\u00e8 pi\u00f9 copertamente\na\u2019 loro cittadini potessono fare l\u2019inganno, dissono che al tutto erano\ndiliberati mettere Bologna nella guardia del comune di Firenze. E a\nquesto i Bolognesi e grandi e piccoli di buona voglia s\u2019accordarono,\ne sotto questa concordia elessono tre de\u2019 maggiori cittadini di cui\nil popolo faceva maggiore capo, e quasti tre con altri compagni, e con\npieno mandato, mandarono a Firenze con diversi intendimenti. Il popolo\ncredendosi racquistare libert\u00e0 e pace sotto la protezione del comune di\nFirenze, e i tiranni avendone tratti i caporali del popolo, pensarono\nsenza contasto, come fatto venne loro, di venire a loro intendimento,\ndi potere vendere la citt\u00e0 e i suoi cittadini all\u2019arcivescovo di\nMilano. Gli ambasciadori in fede e con grandissima affezione vennono\na Firenze, e spuosono la loro ambasciata, solennemente dinanzi a\u2019\nsignori, e a\u2019 loro collegi, e a molti altri grandi e buoni cittadini\ndi Firenze, richiesti e adunati per la detta cagione. E il dicitore\nfu messer Ricciardo da Saliceto, famoso dottore di legge, e la sua\nproposta fu: _Ad Dominum cum tribularer clamavi, ec._ E con nobile\ned eccellente orazione, e con efficaci ragioni e induttivi argomenti,\nconchiuse la sua dimanda, a inducere il comune di Firenze a prendere\nla guardia della citt\u00e0 e de\u2019 cittadini di Bologna. I governatori del\ncomune di Firenze gi\u00e0 aveano alcuna spirazione del trattato ch\u2019e\u2019\ntiranni di Bologna aveano col signore di Milano, e comprendevano che\nquesti ambasciadori fossono mandati a inganno: nondimeno per non aversi\na riprendere, in quello consiglio deliberarono di mandare solenni\nambasciadori di presente a corte per trovare accordo col papa, e in\nquesto mezzo di mandare cavalieri, e de\u2019 suoi cittadini alla guardia di\nBologna, per contentare il popolo. Ma l\u2019altro d\u00ec vegnente fu manifesto\na\u2019 signori di Firenze e agli ambasciadori di Bologna, che i tiranni\nl\u2019aveano per danari venduta all\u2019arcivescovo di Milano; e fu per lettera\nde\u2019 tiranni detti comandato agli ambasciadori, che non si dovessono\npartire di Firenze senza loro comandamento; allora fu al tutto la cosa\npalese, e seguit\u00f2 il fatto come appresso racconteremo.\nCAP. LXVIII.\n_Secondo trattato di Bologna._\nMesser Giovanni de\u2019 Peppoli avvelenato di sdegno della sua presura,\nvedendo che per\u00f2 perdea la tirannia di Bologna, avendo con non\npiccola fatica recato Messer Iacopo al suo volere, e vota la terra de\u2019\ncaporali di cui temea, e fortificata la guardia nella citt\u00e0, avendo\nsegretamente tenuto trattato coll\u2019arcivescovo di Milano, coll\u2019impeto\ndel suo dispettoso cuore, ebbe podere di vendere la citt\u00e0 e\u2019 suoi\ncittadini della sua propria patria, e da cui avea ricevuto esaltamento\ndella sua signoria e onore, e niente per loro difetto del suo caso,\ncosa molto detestabile a udire. Costui vedendo che \u2019l suo trattato era\nscoperto, cavalc\u00f2 di presente a Milano, e ferm\u00f2 la maledetta vendita\nper dugentomila fiorini, de\u2019 quali si dovea dare certa parte a\u2019\nsoldati della Chiesa per riavere gli stadichi che avea loro lasciati\nper liberare la sua persona, e a lui e al fratello dovea rimanere in\nloro libert\u00e0 il castello di san Giovanni in Percesena, e Nonandola e\nCrevalcuore. E tornato lui, manifestata la vendita, i Bolognesi grandi\ne piccoli si tennono soggiogati di giogo d\u2019incomportabile servaggio, e\nmolto si doleano palesemente e in occulto l\u2019uno coll\u2019altro; e innanzi\nche la terra si pigliasse per lo signore di Milano grande gelosia\nebbono i traditori della patria, e molto vegghiarono e di d\u00ec e di notte\nalla guardia della citt\u00e0. Ma i vili e codardi cittadini non ardirono\ndi levarsi contra a\u2019 tiranni, n\u00e8 a muovere romore nella terra: che se\nfatto l\u2019avessono, leggiermente coll\u2019aiuto del comune di Firenze, a cui\ndispiaceva la vicinanza di s\u00ec potente tiranno, sarebbe venuto fatto\ndi tornare in libert\u00e0. Alcuna trista vista ne feciono mollemente, e\nin fine si lasciarono vendere e sottoporre al duro giogo, del mese\nd\u2019ottobre gli anni di Cristo 1350.\nCAP. LXIX.\n_Come l\u2019arcivescovo di Milano mand\u00f2 a prendere la possessione di\nBologna._\nCome l\u2019arcivescovo di Milano ebbe fermo il patto della compera di\nBologna con messer Giovanni, non guard\u00f2 con alcuna reverenzia o debito\ndi ragione che la citt\u00e0 fosse di santa Chiesa, ma cresciuto nella\ntirannesca superbia subitamente fece apparecchiare messer Bernab\u00f2\nsuo nipote, figliuolo di messer Stefano, valente uomo e di grande\nardire, e con millecinquecento barbute di soldati eletti il mise a\ncammino, e mandollo a pigliare la tenuta di Bologna. Sentendo questa\nvenuta il doge Guernieri, ch\u2019era in bando dell\u2019arcivescovo di Milano,\ncon tutta sua masnada si part\u00ec di Bologna; e standosi fuori della\ncitt\u00e0, accogliea gente senza soldo per fare una compagna. Messer\nBernab\u00f2 giunto alla citt\u00e0 entr\u00f2 dentro senza alcuno contasto co\u2019 suoi\ncavalieri, e con trecento che prima avea alla guardia di Bologna vi\nsi trov\u00f2 con millecinquecento barbute: e prese la tenuta e la guardia\ndella citt\u00e0 e delle castella di fuori, e appresso convoc\u00f2 i cittadini\na parlamento, e per forza fece loro ratificare la vendita fatta per\ni tiranni, e dinuovo aggiudicarsi fedeli dell\u2019arcivescovo e de\u2019 suoi\nsuccessori. E l\u2019obbligazioni e le carte e il saramento fece fare il\nmeglio seppe divisare; e questo fu fatto all\u2019uscita del mese d\u2019ottobre\n1350. E cos\u00ec ebbe fine la tirannia della casa di Romeo de\u2019 Peppoli,\ngrandi ed antichi cittadini di Bologna, i quali erano stati onorati\ne fatti signori da\u2019 loro cittadini, dalla cacciata del cardinale del\nPoggetto legato del papa, i quali aveano loro signoria mantenuta assai\ndolcemente co\u2019 cittadini. Essendo di natura guelfi, per la tirannia\nerano quasi alienati dalla parte, e i Fiorentini, amicissimi di quello\ncomune, trattavano in molte cose con dissimulata e corrotta fede; e\nperocch\u00e8 a\u2019 traditori della patria tosto pare che Iddio apparecchi la\nvendetta, in breve tempo seguit\u00f2 a messer Iacopo e a messer Giovanni,\nper addietro tiranni di Bologna, pena del peccato commesso, come\nseguendo nostra materia racconteremo.\nCAP. LXX.\n_Come capit\u00f2 il conte di Romagna e l\u2019oste della Chiesa._\nIl conte di Romagna ventoso di superbia, e incostante per poco senno,\nil quale cotante volte pot\u00e8 avere con grande sua gloria e onore di\nsanta Chiesa la citt\u00e0 di Bologna, e non volutola se non colla spada\nin mano, secondo il consiglio de\u2019 malvagi compagni, vedendola nelle\nmani del potente tiranno, vorrebbe avere creduto al consiglio de\u2019\nFiorentini. Non per\u00f2 dimeno, perocch\u00e8 per tutto questo la citt\u00e0 non era\nallargata di vittuaglia, ma piuttosto aggravata, e\u2019 soldati erano per\ngli stadichi che aveano, per li ventimila fiorini ricevuti, allargati\ndi speranza, e messer Mastino che dell\u2019impresa dell\u2019arcivescovo era\ndolente a cuore, offerendo al conte tutto suo sforzo di gente e di\nprestare danari alla Chiesa, confort\u00f2 il conte a seguitare l\u2019impresa.\nIl conte per questo si rec\u00f2 a conducere il doge Guernieri con\nmilledugento barbute, uscito di Bologna, e raccolta gente come detto\n\u00e8. Messer Mastino anche vi mand\u00f2 di nuovo de\u2019 suoi cavalieri, e danari\nper comportare i soldati. E il conte fatte grandi impromesse a\u2019 soldati\nmosse il campo da Castel san Pietro e venne con l\u2019oste a Budri, in\nmezzo tra Bologna e Ferrara, e di l\u00e0 valicarono ad Argellata e a san\nGiovanni in Percesena, e ivi stettono dieci d\u00ec aspettando danari, con\nintenzione di porsi presso a Bologna dalla parte di Modena, per levare\nogni soccorso a messer Bernab\u00f2: il quale era dentro in grande soffratta\ndi vittuaglia e di strame, e male veduto da\u2019 cittadini, e per\u00f2 stava\nin paura e non s\u2019ardiva a muovere. Onde la citt\u00e0 era a partito da\nnon poter durare: e per forza convenia che tornasse alle mani della\nChiesa, se il pagamento o in tutto o in parte fosse venuto a\u2019 soldati.\nMa chi si fida ne\u2019 fatti della guerra alla vista delle prime imprese\nde\u2019 prelati, e non considera come la Chiesa \u00e8 usata a non mantenere le\nimprese, spesso se ne truova ingannato. E\u2019 non valse al conte scrivere\nal papa, n\u00e8 mandare ambasciadori, n\u00e8 tanto mostrare come Bologna si\nracquistava con grande onore di santa Chiesa, assai pot\u00e8 dolere la\nvergogna, che l\u2019arcivescovo di Milano facea d\u2019avere tolta Bologna, che\ndanari debiti a\u2019 soldati, per vincere cos\u00ec onorevole punga, venissero\nda corte. Per tanto i soldati non si vollono strignere a Bologna, anzi\ndi loro arbitrio mossero il campo e tornarono a Budri, e ivi ch\u2019era\nluogo ubertuoso, e che \u2019l marchese dava copioso, si misono ad attendere\nse i danari de\u2019 loro soldi e dell\u2019altre promesse venissero: e ivi\ndimorarono infino a d\u00ec 28 di gennaio del detto anno, e per\u00f2 i danari\nnon vennono. Per la qual cosa al conte parea male stare, e per paura\ndi se consent\u00ec a\u2019 soldati che trattassero d\u2019avere le paghe sostenute e\nle paghe doppie promesse per lui da messer Bernab\u00f2, condotto in parte\nper la sua mala provvedenza, che altro non poteva fare; rimanendogli\nalcuna vana speranza, che se messer Bernab\u00f2 non si accordasse con loro,\nche gli farebbono pi\u00f9 aspra guerra, ma il tiranno s\u2019accord\u00f2 di presente\nad accordarli e pagarli, e riavere le castella e li stadichi; e questo\nforn\u00ec de\u2019 danari della compra che avea fatta di Bologna. In questo\nmedesimo trattato, condusse settanta bandiere di Tedeschi e Borgognoni\nsoldati della Chiesa al suo soldo. Ed essendo assediato, in cotanto\npericolo ricolse gli stadichi, riebbe le castella, ruppe l\u2019oste de\u2019\nnimici, liber\u00f2 la citt\u00e0 dell\u2019assedio, e in uno d\u00ec mise in Bologna in\nsuo aiuto de\u2019 cavalieri della Chiesa millecinquecento barbute; e tutto\ngli avvenne per l\u2019avarizia de\u2019 prelati di santa Chiesa, e per la forza\ne larghezza della sua pecunia. Il doge Guernieri colla sua compagna\nsi ridusse in Doccia, e la gente di messer Mastino e del marchese di\nFerrara si tornarono a\u2019 loro signori: e il conte povero e vituperato\ndel fine della sua impresa si torn\u00f2 co\u2019 suoi Provenzali in Imola,\ne Bologna si rimase sotto il giogo del potente tiranno, mettendo in\npaura tutta Italia, e spezialmente la parte guelfa. Abbiamo stesamente\nnarrato il processo di questa guerra per esempio del pericolo che corre\nde\u2019 folli e ambiziosi capitani: e come per troppa superbia spesse volte\nvolendo tutto si perde ogni cosa: e a dimostrare come \u00e8 folle chi ha\nfidanza de\u2019 danari della Chiesa far le imprese della guerra. Ancora\nquesta rivoltura di Bologna fu cagione d\u2019apparecchiare a tutta Italia,\nper lunghi tempi, grandi e gravi novit\u00e0 di guerre, come seguendo nostro\ntrattato si potr\u00e0 vedere.\nCAP. LXXI.\n_Come i Guazzalotri di Prato cominciarono a scoprire loro tirannia._\nTornando a\u2019 fatti della nostra citt\u00e0 di Firenze, il nobile castello\ndi Prato ci d\u00e0 cagione di cominciare da lui, nel quale la famiglia\nde\u2019 Guazzalotri erano i migliori e pi\u00f9 potenti, e la loro grandezza\nprocedeva perocch\u00e8 erano amati sopra gli altri di quella terra dal\ncomune di Firenze: ed essendo guelfi, portavano fede e ubbidienza\ngrande al nostro comune. Vero \u00e8 che quello comune vedendosi in\nlibert\u00e0 e in vicinanza de\u2019 Fiorentini, per tema che alcuna volta\nnon si sommettessono al comune di Firenze aveano provveduto, come si\nracconta nella cronica del nostro antecessore, di darsi a messer Carlo\nduca di Calavra, figliuolo del re Ruberto, e a\u2019 suoi discendenti in\nperpetuo, con misto e mero imperio, ed egli cos\u00ec gli prese. Nondimeno\nsi manteneano in fede e amore del comune di Firenze. Avvenne che\nmorti gli antichi e savi cavalieri della casa de\u2019 Guazzalotri, i\nquali conoscevano la loro grandezza procedere dal comune di Firenze,\nrimasonvi giovani donzelli: i quali trovandosi nella signoria di quella\nterra, mancando allora il governamento della casa reale per le fortune\ndel Regno, cominciarono i giovani a trapassare l\u2019ordine e il modo de\u2019\nloro antecessori nel governamento di quel castello, conducendolo a\nmodo tirannesco. Della quale tirannia spesso veniva richiamo a\u2019 priori\ndi Firenze, e il comune per lo antico amore che portava a quelli di\nquella casa mandava pe\u2019 caporali, tra\u2019 quali il maggiore e il pi\u00f9\nardito e riverito da tutti a quelle stagioni era Iacopo di Zarino, e\nriprendevanli e ammonivano parentevolemente per riducerli alla regola\nde\u2019 loro maggiori. Ma i giovani caldi nella signoria e poco savi, e\ninzigati da mal consiglio, non seguendo il consiglio de\u2019 Fiorentini,\nl\u2019un d\u00ec appresso all\u2019altro pi\u00f9 dimostravano atto tirannesco per tenere\nin paura pi\u00f9 che in amore i loro terrazzani. E per dimostrare in\nfatto quello che aveano nella mente, feciono di subito pigliare due\nPratesi, l\u2019uno era uno buono uomo ricco, vecchio e gottoso, l\u2019altro\nera un giovane notaio ricco, onesto e di leggiadra conversazione a\ncui i Guazzalotri a altro tempo aveano fatto uccidere il padre, e a\nquesti due appuosono, che voleano tradire Prato, e darlo a\u2019 Cancellieri\ndi Pistoia. Sentendo questo il comune di Firenze mand\u00f2 per Iacopo di\nZarino, e per gli altri caporali de\u2019 Guazzalotri, e pregarongli che non\nseguissono questa novit\u00e0, e che i presi dovessono lasciare: perocch\u00e8\nmanifestamente sapieno ch\u2019elli erano innocenti: tornarono a Prato, e\ncontro alla preghiera del comune di Firenze strussono gl\u2019innocenti al\ngiudicio: e sentendosi in Firenze, il comune vi mand\u00f2 ambasciadori e\nlettere; ed essendovi gli ambasciadori del comune, e avute le lettere\nche gli richiedeano che non giudicassono a torto g\u2019innocenti, i\ntirannelli per male consiglio s\u2019affrettarono, e feciongli morire in\nvergogna del comune di Firenze, nella presenza de\u2019 suoi ambasciadori. E\nfatto a catuno tagliare la testa, occuparono i loro beni indebitamente.\nCAP. LXXII.\n_Come i Fiorentini andarono a oste a Prato, ed ebbonne la signoria._\nI Fiorentini vedendo la novit\u00e0 delle guerre d\u2019Italia che da ogni\nparte s\u2019apparecchiavano con tiranneschi aguati, e come avieno la\nnuova vicinanza del potente tiranno di Milano che teneva Bologna, e\ncos\u00ec messer Mastino, e vedeano che i Guazzalotri, congiunti per sito\nalle porti della citt\u00e0 di Firenze, cominciavano a usare tirannia,\npensarono che se possanza di grande tiranno s\u2019appressasse loro, come\ns\u2019apparecchiava, che della terra di Prato poco si poteano fidare. E\nper\u00f2 con buono consiglio, subitamente e improvviso a\u2019 Pratesi, del mese\ndi settembre gli anni _Domini_ 1350, feciono cavalcare le masnade de\u2019\ncavalieri soldati del comune, con alquanti cittadini e pedoni delle\nleghe del contado, e d\u2019ogni parte si puosono a campo intorno a Prato, e\nsenza fare preda o guasto, domandarono di volere la guardia di quella\nterra. I Pratesi smarriti del subito avvenimento, e non provveduti\nalla difesa, e avendo nella terra molti a cui la novella tirannia de\u2019\nGuazzalotri dispiaceva, senza troppo contasto furono contenti di fare\nla volont\u00e0 del comune di Firenze. E sicurati da\u2019 cittadini che danno\nnon si farebbe, dierono al comune di Firenze liberamente la guardia di\nPrato, rimanendo a\u2019 terrazzani la loro usata giurisdizione. E il comune\nprese il castello dello imperadore e misevi castellano, e fece la terra\nguardare solennemente.\nCAP. LXXIII.\n_Come i Fiorentini comperarono Prato, e recaronlo al loro contado._\nAvendo il nostro comune la guardia di Prato presa contro la comune\nvolont\u00e0 de\u2019 terrazzani, pens\u00f2 che se mai tornasse in libert\u00e0, che\ni giovani in cui mano era rimasa la signoria con provvedenza la\nguarderebbono e la recherebbono a tirannia lievemente: e per\u00f2 sentendo\nil re Luigi e la reina Giovanna ereda del duca di Calavra, tornati\ndi nuovo nel Regno, e che erano in fortuna e in grande bisogno,\ne governavansi per consiglio di messer Niccola Acciaiuoli nostro\ncittadino, feciono segretamente trattare di comperare la giurisdizione\nch\u2019aveano in Prato. E trovando la materia disposta per lo bisogno\ndel re e della reina, e bene favoreggiata da messer Niccola detto,\nil mercato fu fatto, e pagati per lo comune fiorini diciassettemila\ne cinquecento alla reina, come fu la convegna, per solenni privilegi\ne stipulazioni pubbliche dierono al comune di Firenze ogni ragione e\nmisto e mero imperio ch\u2019aveano nella terra di Prato e nel suo contado.\nE come il comune ebbe la ragione di questa compera, improvviso a\u2019\nPratesi mand\u00f2 alcuna forza a Prato e prese la tenuta di nuovo, e fece\nmanifestare a\u2019 Pratesi come la terra e il contado e gli uomini di quel\ncomune erano liberi del nostro comune per la detta compera, e mostrar\nloro i privilegi e le carte; e questo fu del mese di... nel detto\nanno. E presa la tenuta, incontanente lev\u00f2 le signorie, gli ordini\ne gli statuti de\u2019 Pratesi, e rec\u00f2 la terra e il contado a contado di\nFirenze, e diede l\u2019estimo e le gabelle a quello comune come a\u2019 suoi\ncontadini, e diede loro quelli beneficii della cittadinanza e degli\naltri privilegi ch\u2019hanno i contadini di Firenze: e ordinovvi rettori\ncittadini con certa limitata giurisdizione, recando il sangue e l\u2019altre\ncose pi\u00f9 gravi alla corte del podest\u00e0 del comune di Firenze. Della qual\ncosa i Pratesi vedendosi avere perduta la loro franchigia, generalmente\nsi tennono mal contenti, ma poterono conoscere per non sapere usare\nlibert\u00e0 divenire suggetti: e per la provvisione fatta di non venire\nalla signoria de\u2019 Fiorentini, con quella in perpetuo furono legati alla\nsua giurisdizione.\nCAP. LXXIV.\n_Come i guelfi furono cacciati dalla Citt\u00e0 di Castello._\nIn questo anno, essendo ne\u2019 collegi del reggimento di Perugia insaccati\nper segreti squittini gran parte de\u2019 ghibellini, de\u2019 quali a quel tempo\nn\u2019erano i pi\u00f9 all\u2019ufficio, per operazione di Vanni da Susinana e degli\naltri Ubaldini della Carda, ch\u2019erano cittadini della Citt\u00e0 di Castello,\nfu messo in sospetto de\u2019 Perugini la casa de\u2019 Guelfucci, antichi\ncittadini e guelfi, ed altri guelfi, apponendo loro che trattavano di\ndare la Citt\u00e0 di Castello a\u2019 Fiorentini, e aggiungendovi alcuna altra\ncagione, mossono il reggimento di Perugia, senza cercare la verit\u00e0 del\nfatto, a fare cavalcare a Castello tutti i loro soldati, e per forza\ncacciarono i Guelfucci di Castello e certi altri, i quali di queste\ncose non erano colpevoli, e non si guardavano. Come gli Ubaldini ebbono\nfornita la loro intenzione, tutti si vestirono di bianche robe, e\nandarono a Perugia colle carte bianche in mano, offerendo al comune\ndi fare tutta la sua volont\u00e0: scrivessono, ed elli affermerebbono. Ma\npoco stante, entrato a reggimento il nuovo uficio del loro priorato,\nuomini i pi\u00f9 guelfi, s\u2019avvidono dello inganno che il loro comune avea\nricevuto, di cacciare i caporali di parte guelfa di Castello per malo\ningegno degli Ubaldini, e in furia arsono e ruppono i sacchi de\u2019 loro\nufici, e di nuovo riformarono la citt\u00e0, mettendo ne\u2019 sacchi per loro\nsquittini cittadini guelfi, e ischiusonne i ghibellini; e di presente\nrimisono i Guelfucci nella Citt\u00e0 di Castello, e confinaronne gli\nUbaldini.\nCAP. LXXV.\n_Come mor\u00ec il re Filippo di Francia._\nStando la tregua, rinnovellata pi\u00f9 volte tra il re di Francia e il\nre d\u2019Inghilterra, poche notabili cose degne di memoria furono in\nque\u2019 paesi. Ma il detto re Filippo di Francia, avendo per troppa\nvaghezza tolta per moglie la nobile e sopra bella dama figliuola del\nre di Navarra, e levatala al figliuolo come abbiamo narrato, tanto\ndisordinatamente us\u00f2 il diletto della sua bellezza, che cadendo\nmalato, la natura infiebolita non pot\u00e8 sostenere, e in pochi d\u00ec\ndiede fine colla sua morte alla sollecitudine della guerra, e a\u2019\npensieri del regno e ai diletti della carne. E morto in Sanlisi,\nfu recato il corpo in Parigi, e fatto il reale esequio solennemente\nnella presenzia de\u2019 figliuoli e de\u2019 baroni del reame, e sepolto co\u2019\nsuoi antecessori alla mastra chiesa di san Dionigi, a d\u00ec... gli anni\n_Domini_ 1350. Immantinente appresso nella citt\u00e0 di Rems fu coronato\ndel reame di Francia messer Giovanni suo figliuolo primogenito, e\nla moglie in reina, e ricevette il saramento e l\u2019omaggio da tutti\ni baroni e da tutti gli altri feudatari del suo reame e dell\u2019altro\nacquisto. Questo Filippo re di Francia fu figliuolo di messer Carlo\nSanzaterra, e fu uomo di bella statura, composto e savio delle cose\ndel mondo, e molto astuto a trovar modo d\u2019accogliere moneta, e in\nci\u00f2 non seppe conservare n\u00e8 fede n\u00e8 legge. E sentendosi molto in\ngrazia e temuto da papa Giovanni ventiduesimo, per l\u2019openione che\nsparta avea disputando della visione dell\u2019anime beate in Dio, la cui\nopenione per li teologi del reame di Francia era riprovata, e perch\u00e8\nil collegio de\u2019 cardinali erano tutti quasi fuori de\u2019 Catalani, di\nsuo reame, e per questa baldanza ebbe animo d\u2019ingannar santa Chiesa,\nsotto la promessa di mostrare di volere fare passaggio oltre mare per\nracquistare la Terra santa: e per questo domand\u00f2 per cinque anni le\ndecime del suo reame a ricogliere in breve tempo, non avendo l\u2019animo\nal passaggio, come appresso l\u2019opere dimostrarono. E nel suo reame\nmut\u00f2 spesso e improvviso monete d\u2019oro, peggiorandole molto e di peso\ne d\u2019oro: per le quali mutazioni disert\u00f2 e fece tornare i mercatanti di\nsuo reame di ricchezza in povert\u00e0: e\u2019 suoi baroni e borgesi assottigli\u00f2\nd\u2019avere per modo, che poco era amato da loro per questa cagione. Onde\napparve quasi come sentenzia di Dio, che avendo egli cotanta baronia e\nmoltitudine di buoni cavalieri, i quali solieno essere pregiati sopra\ngli altri del mondo in fatti d\u2019arme, non s\u2019abboccavano in alcuna parte\ncon gl\u2019Inghilesi, che non facessono disonore al loro signore: ove per\nantico gli aveano in fatti d\u2019arme sopra modo a vile. E molte singulari\ngravezze sopra la mercatanzia e sopra uomini singulari mise, onde\nmolti mercatanti forestieri n\u2019abbandonarono il reame; e non ostante che\nspesso fosse percosso dal bastone degl\u2019Inghilesi, al continovo il re\naccrescea il suo reame per le infortune degli altri circustanti baroni,\ne per l\u2019aiuto de\u2019 suoi danari. Lasci\u00f2 due figliuoli il re: messer\nGiovanni e messer Luigi duca d\u2019Orliens: e quattro nipoti figliuoli\ndel re Giovanni: il maggiore nominato messer Carlo Dalfino di Vienna\ne duca di Normandia, l\u2019altro nominato Luigi duca d\u2019Angi\u00f2, il terzo\nmesser Giovanni conte di Pittieri, e il quarto messer Filippo piccolo\nfanciullo: e tre femmine: la prima moglie del re di Navarra, la seconda\nmonaca del grande monistero di Pusc\u00ec, e la terza nominata Caterina,\npicciola fanciulla, la quale fu poi moglie di messer Giovan Galeazzo\nde\u2019 Visconti di Milano, come a suo tempo diviseremo.\nCAP. LXXVI.\n_Come la Chiesa rinnov\u00f2 processo contra l\u2019arcivescovo di Milano._\nIn questo anno, avendo saputo il papa e\u2019 cardinali come l\u2019arcivescovo\ndi Milano per loro mandato non s\u2019era voluto rimuovere dell\u2019impresa\ndi Bologna, ma contro a loro volont\u00e0, e in vitupero della Chiesa,\navea presa la citt\u00e0 e rotta l\u2019oste della Chiesa e del conte, furono\nmolto turbati. E ricordandosi come l\u2019arcivescovo era stato infedele,\ne rinvoltosi nella resia dell\u2019antipapa e fattosi suo cardinale, e poi\ntornato all\u2019ubbidienza di santa Chiesa era ricevuto a misericordia\nda papa Giovanni ventesimosecondo, e riconciliato, il fece vescovo\ndi Novara, e poi per Clemente sesto promosso e fatto arcivescovo di\nMilano, e ora ingrato era tornato nella prima eresia, di non volere\navere riverenzia n\u00e8 ubbidire a santa Chiesa: rinnovellarono contro\na lui e contro a\u2019 suoi nipoti i processi altre volte fatti per papa\nGiovanni predetto, e feciono richiedere l\u2019arcivescovo, e messer\nGaleazzo, e messer Bernab\u00f2, e messer Maffiuolo di messer Stefano\nVisconti, e assegnarono loro i termini debiti che s\u2019andassono a\nscusare, e gli ultimi termini perentori furono a d\u00ec 8 d\u2019aprile 1351.\nInfra il termine del detto processo vedendo il papa e\u2019 cardinali per\nla loro avarizia, in vituperio, delle loro persone e in contento di\nsanta Chiesa, tolta tutta la Romagna e la citt\u00e0 di Bologna, volendo\ncon ingegno unire in lega e compagnia gli altri tiranni lombardi, col\ncomune di Firenze e di Perugia e di Siena, e colla Chiesa medesima,\nper potere con maggiore forza resistere al potente tiranno, mand\u00f2 in\nItalia il vescovo di Ferrara, cittadino di Firenze della casa degli\nAntellesi, con pieno mandato a ci\u00f2 ordinare e fermare: il quale giunto\nin Toscana, mand\u00f2 a\u2019 signori di Lombardia e a\u2019 comuni predetti, che\na certo termine catuno mandasse suoi ambasciadori alla citt\u00e0 d\u2019Arezzo\na parlamento. E innanzi che il termine venisse, il detto legato and\u00f2\nin persona a messer Mastino e al marchese di Ferrara, e al comune\ndi Perugia e di Siena a sporre la sua ambasciata, e torn\u00f2 a Firenze,\navendo sommossi i detti comuni e signori a venire in loro servigio e\ndi santa Chiesa alla detta lega, perocch\u00e8 catuno si temeva della gran\npotenza del\u2019arcivescovo. E messer Mastino, che gli era pi\u00f9 vicino, con\nsollecitudine confortava i Lombardi e\u2019 comuni di Toscana che venissono\nalla lega e a fare s\u00ec fatta taglia, che all\u2019arcivescovo si potesse\nresistere francamente. E del mese d\u2019ottobre vegnente gli ambasciadori\nd\u2019ogni parte furono ragunati ad Arezzo; quelli di messer Mastino e\nde\u2019 Fiorentini v\u2019andarono con pieno mandato; i Perugini mostravano di\nvolere lega e taglia, ma d\u2019ogni punto voleano prima risposta dal loro\ncomune, e i Sanesi faceano il somigliante, per li quali intervalli,\ngli ambasciadori stettono lungamente ad Arezzo senza poter prendere\npartito. E questo avveniva perocch\u00e8 a\u2019 Perugini e a\u2019 Sanesi parea\nche la forza dell\u2019arcivescovo non potesse giugnere a\u2019 loro confini, e\nvolevano mostrare di non volersi partire dal volere di santa Chiesa\ne de\u2019 Fiorentini. E in questo soggiorno, l\u2019arcivescovo di Milano\ntemendo che la Chiesa non si facesse forte coll\u2019aiuto de\u2019 Toscani\ne de\u2019 Lombardi, mand\u00f2 a messer Mastino messer Bernab\u00f2 suo genero,\npregandolo che si ritraesse da questa impresa: e grandi impromesse\nal comune di Firenze faceva d\u2019ogni patto e vantaggio che volesse\nda lui: e con queste suasioni cercava disturbare la detta lega: ma\ninvano s\u2019affaticava con questi tentamenti, che di presente tutti si\npiovicavano nel parlamento, e\u2019 Sanesi s\u2019erano ridotti al segno de\u2019\nFiorentini, ed era preso, che se i Perugini non volessono essere alla\nlega, che si facesse senza loro. E avendo questo protestato loro,\nattendendo l\u2019ultima risposta, la quale dilungavano con nuove cagioni\ndi d\u00ec in d\u00ec, andandovi in persona oggi l\u2019uno ambasciadore e domane\nl\u2019altro, essendo gli altri ambasciadori per fermare la lega e la taglia\nsenza loro, come a Dio piacque, sopravvenne la novella della morte\ndi messer Mastino, per la quale cosa si ruppe il parlamento senza\nfermare lega, e catuno ambasciadore si torn\u00f2 a suo comune e signore;\ndella qual cosa torn\u00f2 grande ripetio a\u2019 comuni di Toscana. E bench\u00e8 i\nFiorentini e i Sanesi non fossono cagione di questo scordo, nondimeno\npeccarono in tanto aspettare i Perugini: che grande utilit\u00e0 era al\ncomune di Firenze, che confinava col tiranno, avere in suo aiuto il\nbraccio di santa Chiesa e del signore di Verona, e di Ferrara e di\nSiena. Ma quando i falli si prendono ne\u2019 fatti della guerra sempre\nhanno uscimento di privato pericolo: e per\u00f2 gli antichi maestri della\ndisciplina militare punivano con aspre pene i mali consigliatori,\neziandio che del male consiglio conseguisse prospero fine. Ma ne\u2019\nnostri tempi, i falli della guerra si puniscono non per giustizia, ma\nper esperienza del male che ne seguita, come tosto avvenne a\u2019 detti\ncomuni di Toscana, come seguendo appresso ne\u2019 suoi tempi dimostreremo.\nCAP. LXXVII.\n_Come il tiranno di Milano si colleg\u00f2 con tutti i ghibellini d\u2019Italia._\nAvvenne in questo anno, come l\u2019arcivescovo di Milano sent\u00ec rotto\nil trattato della lega mosso per lo papa, e morto messer Mastino di\ncui pi\u00f9 temea, gli parve che fortuna al tutto fosse con lui, e prese\nsperanza di sottomettersi Toscana, e appresso tutta l\u2019Italia. E per\u00f2\nprocacci\u00f2 di recare a se il gran Cane della Scala cognato di messer\nBernab\u00f2, e vennegli fatto per la confidenza del parentado. E perch\u00e8\nessendo giovane e nuovo nella signoria non facea per lui la guerra di\ns\u00ec fatto vicino, e per\u00f2 lievemente venne a concordia e legossi con lui,\ne promise d\u2019aiutare l\u2019uno l\u2019altro nelle loro guerre. Sentita questa\nlega gli altri tiranni lombardi tutti si legarono coll\u2019arcivescovo,\nnon guardando il marchese di Ferrara perch\u00e8 avesse antico amore e\nsingolare affetto col comune di Firenze; e cos\u00ec tutti i tirannelli\ndi Romagna feciono il simigliante, e que\u2019 della Marca. E il comune di\nPisa per patto li promisono dugento cavalieri, e non volendo rompere\npatto di pace a\u2019 Fiorentini l\u2019intitolarono alla guardia di Milano. E in\nToscana s\u2019aggiunse i Tarlati d\u2019Arezzo, non ostante che fossono in pace\ne in protezione del comune di Firenze, e il somigliante di Cortona: e\ngli Ubaldini, e\u2019 Pazzi di Valdarno, e gli Ubertini, e de\u2019 conti Guidi\ntutti i ghibellini, e quei di Santafiore, e molti altri tirannelli\nghibellini, i quali segretamente s\u2019intesono coll\u2019arcivescovo, non\nvolendosi mostrare innanzi al tempo, per paura che i comuni guelfi\nloro vicini nol sapessono. Questa lega fu fatta e giurata tosto e\nmolto segretamente, perocch\u00e8 vedendo i ghibellini la gran potenza\ndell\u2019arcivescovo, e sappiendo che la Chiesa non avea potuto fare la\nlega, e che i tiranni tutti di Lombardia s\u2019erano accostati a dare\naiuto all\u2019arcivescovo, pensarono che venuto fosse il tempo di spegnere\nparte guelfa in Italia, e per\u00f2 senza tenere pace o fede promessa catuno\ns\u2019accost\u00f2 col Biscione, e vennesi provvedendo d\u2019arme e di cavalli per\nessere alla stagione apparecchiati. In questo mezzo l\u2019arcivescovo per\nmeglio coprire l\u2019intenzione sua amichevolemente mandava al comune di\nFirenze sue lettere, congratulandosi de\u2019 suoi onori, e profferendosi\ncome ad amici, e con questa dissimulazione pass\u00f2 tutto il verno,\ne mostrava d\u2019avere l\u2019animo a stendersi nella Romagna. E il comune\ndi Firenze per non mostrare in sospetto l\u2019amicizia che dimostrava\na\u2019 Fiorentini, non si provvedeva di capitano di guerra n\u00e8 di gente\nd\u2019arme, e le strade di Bologna e di Lombardia usava sicuramente colle\nmercatanzie de\u2019 suoi cittadini; e i Milanesi e\u2019 Bolognesi e gli altri\nLombardi faceano a Firenze il somigliante senza alcuno sospetto:\nperocch\u00e8 il malvagio concetto del tiranno e de\u2019 suoi congiunti si\nracchiudea ne\u2019 loro petti, e di fuori non si dimostrava, per meglio\npotere adempiere loro intenzione.\nCAP. LXXVIII.\n_Come fu assediata Imola dal Biscione e altri._\nIn questo medesimo verno, messer Bernab\u00f2, ch\u2019era in Bologna vicario per\nl\u2019arcivescovo, costrinse i Bolognesi, e mand\u00f2 a porre l\u2019oste a Imola\ni due quartieri della citt\u00e0: ed egli v\u2019and\u00f2 in persona con ottocento\ncavalieri, e fecevi venire il capitano di Forl\u00ec colla sua gente a pi\u00e8\ne a cavallo, e vennevi messer Giovanni Manfredi tiranno di Faenza colla\nsua forza, e il signore di Ravenna e gli Ubaldini, e assediarono Imola\nintorno con pi\u00f9 campi. Guido degli Alidogi signore d\u2019Imola, guelfo e\nfedele a santa Chiesa, avendo sentito questo fatto dinanzi, e richiesto\ni Fiorentini e gli altri comuni e amici di santa Chiesa d\u2019aiuto, e\nnon avendolo trovato, per la paura che catuno avea d\u2019offendere al\nBiscione, come uomo franco e di gran cuore s\u2019era provveduto dinanzi che\nl\u2019assedio vi venisse di molta vittuaglia; e per non moltiplicare spesa\ndi soldati elesse centocinquanta cavalieri di buona gente d\u2019arme e\ntrecento masnadieri nomati, tutti di Toscana, e con questi si rinchiuse\nin Imola; e fece intorno alla citt\u00e0 due miglia abbattere case chiese\ne quanti difici v\u2019erano, perch\u00e8 i nimici non potessono avere ridotto\nintorno alla terra; e cos\u00ec francamente ricevette l\u2019assedio, acquistando\nonore di franca difesa, insino all\u2019uscita di maggio gli anni _Domini_\n1351. In questo stante al continovo si mettea in ordine sotto questa\ncoverta d\u2019Imola di potere improvviso a\u2019 cittadini di Firenze assalire\nla citt\u00e0: e approssimandosi al tempo, di subito fece levare l\u2019oste da\nImola e lasciarvi certi battifolli, i quali in poco tempo straccati,\nsenza potere tenere assediata la citt\u00e0, se ne levarono e lasciaronla\nlibera.\nCAP. LXXIX.\n_Come il capitano di Forl\u00ec tolse al conticino da Ghiaggiuolo e al conte\nCarlo da Doadola loro terre._\nIn questo medesimo tempo, il capitano di Forl\u00ec disideroso d\u2019accrescere\nsua signoria, e avventurato nell\u2019imprese, non vedendosi avere in\nRomagna di cui e\u2019 dovesse temere, co\u2019 suoi cavalieri venne subitamente\nsopra le terre del conticino da Ghiaggiuolo, di cui non si guardava,\ne con lui venne l\u2019abate di Galeata, da cui il conticino tenea certe\nterre, e non gli rispondea com\u2019era tenuto. E parve che fosse una\nmaraviglia, che avendo buone e forti castella e bene guernite a grande\ndifesa, tutte l\u2019ebbe in pochi d\u00ec. E con questa foga se n\u2019and\u00f2 sopra le\nterre di Carlo conte di Doadola, e quasi senza trovar contasto tutte le\nrec\u00f2 sotto la sua signoria. Egli era a quel tempo in lega col signore\ndi Milano, e per\u00f2 non trov\u00f2 il comune di Firenze, bench\u00e8 il conticino\nfosse stato suo cittadino, ch\u2019aiutare lo volesse contro al capitano.\nCAP. LXXX.\n_Come nella citt\u00e0 d\u2019Orbivieto si cominci\u00f2 materia di grande scandalo._\nIn questo anno 1350, reggendosi la citt\u00e0 d\u2019Orbivieto a comune appo il\npopolo, erano i maggiori governatori di quello stato Monaldo di messer\nOrmanno, e Monaldo di messer Bernardo della casa de\u2019 Monaldeschi;\nBenedetto di messer Bonconte loro consorto, per invidia e per setta\nrecati a se due altri suoi consorti, tratt\u00f2 con loro il malificio, che\npoco appresso gli venne fatto; perocch\u00e8 del mese di marzo del detto\nanno, uscendo amendue i Monaldi sopraddetti del palagio del comune\ndal consiglio, Benedetto co\u2019 suoi due consorti s\u2019aggiunsono con loro,\ne senza alcuno sospetto, i due Monaldi, che al continovo il d\u00ec e la\nnotte usavano con Benedetto, s\u2019avviarono con lui ragionando; e avendo\nil traditore l\u2019uno di loro per mano, nel ragionamento, in sulla piazza,\nil fed\u00ec d\u2019uno stocco, e cadde morto; l\u2019altro Monaldo vedendo questo\ncominci\u00f2 a fuggire: Benedetto sgrid\u00f2 i compagni, i quali il seguirono,\ne innanzi che potesse entrare in casa sua il giunsono e uccisonlo.\nMorti che furono costoro, Benedetto corse a casa sua e armossi; e\naccolti certi suoi amici, co\u2019 suoi due consorti corsono la terra: e non\ntrovando contasto, entrarono nel palagio del comune; e aggiuntasi forza\ndi cittadini di sua setta, Benedetto si fece fare signore, e cominci\u00f2\na perseguitare tutti coloro ch\u2019erano stati amici de\u2019 suoi consorti\nmorti; e mont\u00f2 in tanta crudelt\u00e0 la sua tirannia coll\u2019audacia de\u2019 suoi\nseguaci, che cacciati molti cittadini, in piccolo tempo, innanzi che\nl\u2019anno fosse compiuto, pi\u00f9 di dugento tra dell\u2019una setta e dell\u2019altra\nse ne trovarono morti di ferro. Onde il contado e il paese d\u2019intorno se\nne ruppe in s\u00ec fatto modo, che in niuno cammino del loro distretto si\npotea andare sicuro.\nCAP. LXXXI.\n_Come la citt\u00e0 d\u2019Agobbio venne a tirannia di Giovanni Gabbrielli._\nAvendo narrato delle nuove tirannie che si cominciarono in Toscana,\nci occorre a fare memoria d\u2019un\u2019altra che si cre\u00f2 nella Marca in\nquesto medesimo anno, la citt\u00e0 d\u2019Agobbio, la quale in quel tempo avea\nsparti per l\u2019Italia quasi tutti i suoi maggiori cittadini in ufici\ne rettorie. Giovanni di Cantuccio de\u2019 Gabbrielli d\u2019Agobbio, essendo\nco\u2019 suoi consorti in discordia per una badia di Santacroce, si pens\u00f2\nche agevolemente si potea fare signore e della badia e d\u2019Agobbio,\ntrovandosi nella citt\u00e0 il maggiore, e non guardandosi i suoi consorti\nn\u00e8 gli altri cittadini di lui. E non ostante che fosse guelfo di\nnazione, consider\u00f2 che tutti i comuni e signori di parte guelfa di\nRomagna, e di Toscana e della Marca temeano forte del signore di\nMilano, ch\u2019avea presa di novello la citt\u00e0 di Bologna, e provvidde, che\ndove i Perugini o altra forza si movesse contro a lui, che l\u2019aiuto\ndell\u2019arcivescovo non gli mancherebbe. E avendo cos\u00ec pensato, senza\nindugio accolse cento fanti masnadieri, e con alquanti cittadini\ndisperati e acconci a mal fare, i quali accolse a questo tradimento\ndella patria, subitamente corse in prima alle case de\u2019 suoi consorti, e\naffocate e rotte le porti, prese messer Belo di messer Cante, e messer\nBino e Rinuccio suoi figliuoli, e Petruccio di messer Bino e quattro\naltri piccioli fanciulli, e tutti gli mise in prigione; e rubate le\ncase, vi mise il fuoco e arsele. E fatto questo, corse al palagio de\u2019\nconsoli rettori di quello comune: e non volendo il gonfaloniere darli\nil palagio, corse alle case sue e arsele in sua vista. E tornato al\npalagio, disse agli altri consoli, che se non gli dessono il palagio\naltrettale farebbe delle loro; onde per paura gli aprirono; e preso\nil palagio, vi lasci\u00f2 sue guardie, e corse la terra. I cittadini\nsentendo presi i consorti di Giovanni, di cui avrebbono potuto fare\ncapo, si stettono per paura, e niuno si mise a contastarlo. E cos\u00ec\ndisventuratamente coll\u2019aiuto di meno di centocinquanta fanti fu\noccupata in tirannia la citt\u00e0 d\u2019Agobbio in una notte, la quale avea\nseimila uomini d\u2019arme. Ma i peccati loro, e massimamente le ree cose\ncommesse per le citt\u00e0 d\u2019Italia per le continove rettorie ch\u2019aveano gli\nuomini di quella citt\u00e0, li condusse in quelle, e nella disciplina della\nnuova e disusata tirannia. E per le discordie della casa de\u2019 Gabbrielli\na quell\u2019ora non avea la citt\u00e0 podest\u00e0, n\u00e8 capitano n\u00e8 altro rettore.\nAvevavi alcune masnade de\u2019 Perugini, i quali Giovanni ne cacci\u00f2 fuori;\ne \u2019l d\u00ec seguente, avendo cresciuta la sua forza dentro, se ne fece fare\nsignore; e di presente, come pot\u00e8 il meglio, si forn\u00ec di gente, e di\nnotte facea sollecita guardia, e fortificava la sua signoria.\nCAP. LXXXII.\n_Come il comune di Perugia e il capitano del Patrimonio andarono a oste\nad Agobbio._\nSparta per lo paese la nuova signoria d\u2019Agobbio, messer Iacopo, ch\u2019era\ncapo della casa de\u2019 Gabbrielli, e allora era capitano del Patrimonio\nper la Chiesa, co\u2019 suoi cavalieri, e con aiuto d\u2019alquanti suoi amici,\ndi subito cavalc\u00f2 a Perugia; e il comune di Perugia, che si sentiva\noffeso per lo cacciare della sua gente d\u2019Agobbio, a furore di popolo\nsi mosse a cavalcare popolo e cavalieri con messer Iacopo, e puosonsi\na oste intorno alla citt\u00e0 d\u2019Agobbio. Vedendo Giovanni di Cantuccio,\nnuovo tiranno, che il comune di Perugia, e messer Iacopo e altri suoi\nconsorti con forte braccio l\u2019avieno assediato, e che da se era male\nfornito a potere resistere, e de\u2019 suoi cittadini d\u2019entro non si potea\nfidare, sagacemente mand\u00f2 nel campo a\u2019 Perugini suoi ambasciadori,\ni quali da parte di Giovanni dissono: Signori Perugini, Giovanni di\nCantuccio ci manda a voi a farvi assapere, com\u2019egli \u00e8 di quella casa\nde\u2019 Gabbrielli, che sempre furono amatori e fedeli del vostro comune,\ne cos\u00ec intende d\u2019essere egli; e intende che \u2019l comune di Perugia abbia\nin Agobbio ogni onore e ogni giurisdizione che da qui addietro avere\nvi solea, e maggiore, e vuole rendere i prigioni; ed e\u2019 si partissono\ndall\u2019assedio, e mandassono in Agobbio que\u2019 savi cittadini di Perugia\ncui elli volessono, a mettere in ordine e riformare il governamento\ndel comune, e ricevere i prigioni. La profferta fu larga, e\u2019 Perugini\npi\u00f9 baldanzosi che discreti, confidandosi follemente alla promessa del\ntiranno, elessono ambasciadori ch\u2019andassono a ricevere i prigioni e\nriformare la citt\u00e0, e misongli in Agobbio: e di presente si levarono\nda campo della terra e tornaronsi in Perugia, e lasciarono messer\nIacopo a campo colla gente d\u2019arme ch\u2019avea della Chiesa, il quale rimase\nall\u2019assedio pi\u00f9 d\u00ec partiti i Perugini; pensando coll\u2019aiuto de\u2019 suoi\ncittadini d\u2019entro potere da se alcuna cosa, o se la fede di Giovanni\nfosse intera co\u2019 Perugini, potere tornare in Agobbio. Gli ambasciadori\nde\u2019 Perugini entrati in Agobbio, con grandissima festa, e dimostramento\ndi grande amore e confidanza furono ricevuti da Giovanni. E cominciolli\nprima a convitare e tenerli in desinari e in cene, e tranquillarli\nd\u2019oggi in domane; e strignendolo gli ambasciadori, disse che volea\nprima vedere partito messer Iacopo dall\u2019assedio. Messer Iacopo\ns\u2019avvide bene dell\u2019inganno, ma stretto dagli ambasciadori perugini,\nacciocch\u00e8 a lui non si potesse imputare cagione che per lui seguitasse\nla discordia, si part\u00ec dall\u2019assedio e tornossi nel Patrimonio. Gli\nambasciadori di Perugia, partitosi messer Iacopo, con pi\u00f9 baldanza\nstrigneano Giovanni, di rivolere i prigioni, e ordinare il reggimento\ndella guardia della terra, com\u2019egli avea promesso. Il tiranno vedendosi\nlevato l\u2019assedio, tenea con pi\u00f9 fidanza gli ambasciadori in parole,\ne trovando nuove cagioni a dilungare il tempo, gli tenea sospesi. Ma\nvedendo che oltre al debito modo gli menava per parole, per sdegno\nsi partirono d\u2019Agobbio, e rapportarono al loro comune l\u2019inganno che\nGiovanni avea fatto. A\u2019 Perugini ne parve male: ma non trovarono tra\nloro concordia di ritornarvi ad oste. Nondimeno il nuovo tiranno,\npensandosi pi\u00f9 gravemente avere offeso il comune di Perugia, non\nostante che fosse per nazione e per patria guelfo, si pens\u00f2 d\u2019aiutare\nco\u2019 ghibellini. E mand\u00f2 ambasciadori a messer Bernab\u00f2 ch\u2019era a Bologna,\ndicendo: che volea tenere la citt\u00e0 d\u2019Agobbio dal suo signore messer\nl\u2019arcivescovo: e pregollo che gli mandasse gente d\u2019arme alla guardia\nsua e della terra; il quale senza indugio vi mand\u00f2 dugentocinquanta\ncavalieri, e appresso ve ne mand\u00f2 maggiore quantit\u00e0, parendoli avere\nfatto grande acquisto alla sua intenzione. Giovanni da se sforz\u00f2 i\nsuoi cittadini per avere danari, e fornissi di gente d\u2019arme a pi\u00e8 e a\ncavallo; e vedendosi fornito alla difesa si dimostr\u00f2 palesemente nimico\nde\u2019 Perugini, come appresso seguendo nostro trattato racconteremo.\nCAP. LXXXIII.\n_Come cominci\u00f2 l\u2019izza da\u2019 Genovesi a\u2019 Veneziani._\nEssendo cresciuto scandalo nato d\u2019invidia di stato tra il comune\ndi Genova e quello di Vinegia, tenendosi ciascuno il maggiore,\ncominciamento fu di grave e grande guerra di mare. E la prima cagione\nche mosse fu, che avendo avuto i Genovesi guerra e briga con Giannisbec\nimperadore nelle provincie del Mare maggiore, a cui i Genovesi aveano\narsa la Tana e fatto danno grande alla gente sua, per la qual cosa i\nGenovesi non potieno colle loro galee andare al mercato della Tana,\nanzi facevano a Caffa porto, e per terra vi faceano venire la spezieria\ne altre mercatanzie, con pi\u00f9 costo e avarie che quando usavano la Tana.\nI Veneziani dopo la detta briga s\u2019acconciarono coll\u2019imperadore, e alla\nTana andavano con loro navili e colle loro galee per la mercatanzia,\ne traevanla a migliore mercato, la qual cosa mettea male a\u2019 Genovesi.\nPer la qual cosa richiesono i Veneziani, e pregaronli che si dovessono\naccordare con loro a fare porto a Caffa, e darebbono loro quella\nimmunit\u00e0 e fondaco e franchigia ch\u2019avieno per loro: e facendo questo,\nl\u2019arebbono in grande servigio; ed essendo in concordia, non dottavano\nche Giannisbec si recherebbe a far loro ogni vantaggio che volessono,\nper ritornarli al mercato della Tana: e questo tornerebbe in loro\nprofitto, e in onore di tutta la cristianit\u00e0. I Veneziani non vi si\npoterono per alcun modo recare, anzi dissono, che intendeano d\u2019andare\ncon loro legni e galee alla Tana e dove pi\u00f9 loro piacesse, che della\nbriga che i Genovesi aveano coll\u2019imperadore non si curavano. Per la\nquale risposta i Genovesi sdegnarono, e dispuosonsi dove si vedessono\nil bello, di fare danno a\u2019 Veneziani in mare, e i Veneziani a loro; e\nd\u2019allora innanzi, dove si trovarono in mare si combatteano insieme, e\nin trapasso di non gran tempo feciono danno l\u2019uno all\u2019altro assai. E\nsentendo catuno comune come la guerra era cominciata in mare tra\u2019 loro\ncittadini, ordinarono di mandare a maggiore riguardo e pi\u00f9 armati i\nloro navili grossi che non solieno. E per non mostrare paura n\u00e8 vilt\u00e0\nl\u2019uno dell\u2019altro non si ristrinsono del navicare.\nCAP. LXXXIV.\n_Come quattordici galee di Veneziani presono in Romania nove de\u2019\nGenovesi._\nAvvenne che andando in questo anno alla Tana quattordici galee di\nVeneziani bene armate, come furono in Romania s\u2019abboccarono in undici\ngalee de\u2019 Genovesi ch\u2019andavano a Caffa, sopra l\u2019Isola di Negroponte,\ne incontanente si dirizzano colle vele e co\u2019 remi in verso loro. I\nGenovesi vedendole venire, l\u2019attesono arditamente, e acconciaronsi\nalla battaglia. E sopraggiungendo le galee de\u2019 Veneziani, combatterono\ninsieme. E dopo la lunga battaglia, i Veneziani sconfissono i Genovesi:\ne seguitando la fuga, delle undici galee ne presono nove, e le due\ncamparono, e fuggirono in Pera. I Veneziani avendo questa vittoria,\ntrovandosi presso all\u2019isola di Negroponte, acciocch\u00e8 non impedissono\nper tornare a Vinegia il loro viaggio della Tana, tornarono a Candia, e\nivi scaricarono la mercatanzia presa delle nove galee de\u2019 Genovesi, e\nmisonla nel loro fondaco, e tutti i prigioni incarcerarono: e i corpi\ndelle galee de\u2019 Genovesi lasciarono nel porto, pensando d\u2019avere ogni\ncosa in salvo alla loro tornata, e allora menar la preda della loro\nvittoria a Vinegia con grande gazzarra; e fatto questo seguirono il\nloro viaggio. Ma le cose ebbono tutto altro fine che non si pensarono,\ncome appresso diviseremo.\nCAP. LXXXV.\n_Come i Genovesi di Pera presono Negroponte, e riebbono loro\nmercatanzia._\nLe due galee di Genovesi campate dalla sconfitta, e venute a Pera,\nnarrarono a\u2019 Genovesi di Pera la loro fortuna. E sentito per quelli\ndi Pera come le quattordici galee di Veneziani erano passate nel\nMare maggiore, e come i Genovesi prigioni, e la mercatanzia e i corpi\ndelle loro galee erano in Candia; non inviliti per la rotta de\u2019 loro\ncittadini, ma come uomini di franco cuore e ardire, di presente avendo\nin Pera sette corpi di galee le misono in mare, e quelle e le due\nde\u2019 Genovesi della sconfitta, e quanti legni aveano armarono di loro\nmedesimi, e montaronvi suso a gara chi meglio pot\u00e8, fornendosi d\u2019arme\ne di balestra doppiamente; e senza soggiorno, improvviso a\u2019 Veneziani\ndi Candia, i quali non sapieno che galee di Genovesi fossono in quel\nmare, furono nel porto. I Veneziani co\u2019 paesani, volendo contastare\nla scesa a\u2019 Genovesi in terra nel loro porto, tratti alla marina, per\nforza d\u2019arme e dalle balestra de\u2019 Genovesi furono ributtati; e scesi in\nterra i Genovesi di Pera, e romore levato per la citt\u00e0, tutti trassono\ni cittadini alla difesa, per ritenere i Genovesi che non si mettessono\npi\u00f9 innanzi verso la terra. Ma poco valse loro, che con tanto empito\ndi loro coraggioso ardire i Genovesi si misono innanzi, che coll\u2019aiuto\ndelle loro balestra rotti que\u2019 della terra, e fuggendo nella citt\u00e0, con\nloro insieme v\u2019entrarono. Come si vidono dentro, affocando le case,\ne dilungando da loro i cittadini co\u2019 verrettoni, gli strinsono per\nmodo, che gi\u00e0 erano signori della terra; ma pervenuti alla prigione la\nruppono, e trassonne tutti i loro cittadini presi; ed entrarono nel\nfondaco, e tutta la mercatanzia presa delle nove galee de\u2019 Genovesi,\ne quella che dentro v\u2019era de\u2019 Veneziani presono, e caricarono ne\u2019\ncorpi delle loro nove galee prese nel porto, e su le loro; e rimessi i\nprigioni in su le galee, pensarono che tanto erano rotti e sbigottiti\ngli abitatori di Candia, che agevole parea loro vincere la terra, ma\nvincendola e convenendola guardare, convenia loro abbandonare Pera,\ne per\u00f2 si ricolsono alle galee, e con piena vittoria si ritornarono a\nPera. E a Genova rimandarono le nove galee racquistate per loro, e gli\nuomini e la mercatanzia, con notabile fama di loro prodezza e di varia\nfortuna.\nCAP. LXXXVI.\n_Come fu morto il patriarca d\u2019Aquilea, e fattane vendetta._\nIn questo anno, del mese di giugno, messer Beltramo di san Guinigi\npatriarca d\u2019Aquilea, cavalcando per lo patriarcato, da certi terrieri\nsuoi sudditi, con aiuto di cavalieri del conte d\u2019Aquilizia, ch\u2019era\nmale di lui, fu nel cammino assalito e morto con tutta sua compagnia,\ne senza essere conosciuti allora, coloro che feciono il malificio si\nricolsono in loro paese. Per la qual cosa rimaso il patriarcato senza\ncapo, i comuni smossono il duca d\u2019Osterich, il quale con duemila\nbarbute venne, e fu ricevuto da tutti i paesani senza contasto, e\nonorato da loro. E vicitato il paese infino nel Friuli, sentendo che \u2019l\npapa avea fatto patriarca il figliuolo del re Giovanni di Boemia, non\nilligittimo ma ligittimo, si torn\u00f2 in suo paese. E poco appresso, il\ndetto patriarca venne nel paese, e fu con pace ricevuto e ubbidito da\ntutti i comuni e terrieri del patriarcato. E statovi poco tempo, certi\ncastellani il vollono fare avvelenare, e furono coloro ch\u2019avieno morto\nl\u2019altro patriarca, avendo a ci\u00f2 corrotto due confidenti famigliari.\nOnde egli scoperto il tradimento, messer Francesco Giovanni grande\nterriere, capo di questi malfattori, con certi altri castellani che\n\u2019l seguitavano, furono da lui perseguitati senza arresto, tanto che\nsi ridussono a guardia nelle loro fortezze, e ivi furono assediati per\nmodo, che s\u2019arrenderono al patriarca. Il quale prima abbatt\u00e8 tutte loro\ncastella, le quali erano cagione della loro sfrenata superbia, e al\ndetto messer Francesco, con otto de\u2019 maggiori castellani fece tagliare\nle teste, e un\u2019altra parte ne fece impendere per la gola. Per la qual\ncosa tutto il paese rimase cheto e sicuro, e il patriarca temuto e\nubbidito da tutti senza sospetto o contasto.\nCAP. LXXXVII.\n_Come il legato del papa si part\u00ec del Regno, e il re riprese Aversa._\nTornando alle novit\u00e0 del regno di Cicilia di qua dal Faro, come \u00e8\nnarrato, fatto l\u2019accordo dal re Luigi a Currado Lupo e agli altri\ncaporali ch\u2019erano sotto il titolo del re d\u2019Ungheria in Terra di Lavoro,\nle citt\u00e0 e le castella che teneano in quella furono assegnate alla\nguardia del cardinale messer Annibaldo da Ceccano, salvo le torri\ndi Capova. Il cardinale non trovando tra le parti accordo, per dare\nmateria al re Luigi che si potesse riprendere le citt\u00e0 e le castella\nche a lui erano accomandate, si part\u00ec del Regno e andossene a Roma, ove\nda\u2019 Romani fu male veduto; perocch\u00e8 dispensava e accorciava i termini\ndella vicitazione a\u2019 romei, contro all\u2019appetito della loro avarizia,\nonde pi\u00f9 volte standosi nel suo ostiere fu saettato da loro, e alla\nsua famiglia fatta vergogna, e assaliti e fediti cavalcando per Roma.\nOnde egli sdegnoso si part\u00ec, e andossone in Campagna; e nel cammino\nmor\u00ec di veleno con assai suoi famigliari. Dissesi che ad Aquino era\nstato avvelenato vino nelle botti, del quale non ebbono guardia, e\nbevvonsene: se per altro modo fu non si pot\u00e8 sapere. Rimasta la citt\u00e0\nd\u2019Aversa e la guardia del castello a certi famigliari del cardinale in\nnome di santa Chiesa, il re Luigi vi cavalc\u00f2 con poca gente, e fecesi\naprire le porte del castello senza contasto, e misevi fornimento o\ngente d\u2019arme alla guardia. E incontanente la citt\u00e0, ch\u2019era troppo larga\ne sparta da non potersi bene difendere, ristrinse, facendo disfare\ntutte le case e\u2019 palagi che fuori del cerchio che prese rimanieno;\ne delle pietre fece cominciare a cignere quella di buone e grosse\nmura: e a ci\u00f2 fare mise grande sollecitudine, sicch\u00e8 in poco tempo,\ninnanzi l\u2019avvenimento del re d\u2019Ungheria nel Regno, le mura erano alzate\nper tutto sei braccia intorno alla terra. E fatto capitano messer\nIacopo Pignattaro di Gaeta, valente barone, di trecento cavalieri e\ndi seicento pedoni masnadieri, gli accomand\u00f2 la guardia della citt\u00e0\nd\u2019Aversa e del castello; e nella terra fece mettere abbondanza di\nvittuaglia, perocch\u00e8 di quella terra, pi\u00f9 che dell\u2019altre, si dubitava\nalla tornata del re d\u2019Ungheria. In quel tempo Currado Lupo non\nsentendosi forte di cavalieri, che s\u2019erano partiti del Regno, s\u2019era\nridotto a Viglionese in Abruzzi, e gli Ungheri in Puglia, e guardavano\nil passo delle torri di Capova, aspettando il loro signore.\nCAP. LXXXVIII.\n_Come il re d\u2019Ungheria ritorn\u00f2 in Puglia conquistando molte terre._\nIn questo anno, Lodovico re d\u2019Ungheria sentendo che la sua gente avea\nsconfitto a Meleto i baroni del re Luigi e i Napoletani, e aveano molti\na prigioni: essendo sollecitato per lettere e per ambasciadori da\u2019\ncomuni e da\u2019 baroni che teneano nel Regno la sua parte che ritornasse,\ndiliber\u00f2 di farlo. E di presente mand\u00f2 innanzi de\u2019 suoi cavalieri\nungheri con certi capitani in Ischiavonia, perch\u00e8 di l\u00e0 passassero\nin Puglia. E quando gli sent\u00ec passati, subitamente con certi suoi\neletti baroni, con piccola compagnia, si mise a cammino, e prima fu\nalla marina di Schiavonia che sapere si potesse della sua partita: e\ntrovando al porto le galee e i legni apparecchiati, vi mont\u00f2 suso; e\navendo il tempo buono, valic\u00f2 in Puglia a salvamento, assai pi\u00f9 tosto\nche per i paesani non si stimava. E sentita la partita sua in Ungheria,\ngrande moltitudine d\u2019Ungheri il seguitarono, valicando di Schiavonia\nin Puglia in barche e in piccoli legni armati s\u00ec disordinatamente, che\nse il re Luigi avesse avute due galee armate senza fallo gli avrebbono\nrotti e impediti per modo, che non sarebbono potuti passare: ma come\nfurono passati, il re Luigi vi mand\u00f2 tre galee armate che vi giunsono\ninvano. Ed essendo il re d\u2019Ungheria in Puglia, ragun\u00f2 la sua gente\ninsieme, e trovossi con diecimila cavalieri. In que\u2019 d\u00ec il conte di\nMinerbino, il quale s\u2019era ribellato dal detto re, si racchiuse nella\ncitt\u00e0 di Trani, alla quale il re and\u00f2 ad assedio. E vedendosi il conte\nsenza speranza di soccorso e disperato di salute, col capestro in\ncollo e in camicia usc\u00ec della citt\u00e0, e gittossi ginocchione in terra\na pi\u00e8 del re domandandoli misericordia. Il re d\u2019Ungheria dimenticati\ni baratti e\u2019 falli del conte benignamente gli perdon\u00f2, e rimiselo\nnel suo stato: e lasciato nelle citt\u00e0 e castella di Puglia quella\ngente che volle, venne in Principato. La citt\u00e0 di Salerno essendo\nin cittadinesche discordie gli apersono le porte, e ricevettonlo a\nonore: e ivi si ripos\u00f2 alquanti d\u00ec; e messo suo vicario nella citt\u00e0\ne castellano nel castello, se ne venne a Nocera de\u2019 cristiani; e in\nquella se n\u2019entr\u00f2 senza contasto. Il castello era forte e bene fornito\nalla difesa, ma invilito il castellano, per codardia l\u2019abbandon\u00f2. Il\nre il fece prendere e guardare alla sua gente. E partito di l\u00e0 venne a\nMatalona, nella quale entr\u00f2 senza contasto. E tutte le citt\u00e0 e castella\ndi Terra di Lavoro feciono il suo comandamento, salvo la citt\u00e0 di\nNapoli ed Aversa. E poi il detto re con tutto suo sforzo se ne venne\nad Aversa, del mese di maggio nel detto anno, e credettelasi avere alla\nprima giunta, ma trovossi ingannato, perocch\u00e8 era citt\u00e0 di mura cinta,\ne bene che fossero basse, era imbertescata e fornita di legname alla\ndifesa; e dentro v\u2019erano i cavalieri e i masnadieri che la difendevano\nvirtuosamente; e assaggiata per pi\u00f9 volte dall\u2019assalto degli Ungheri,\ncon loro dannaggio, il re conobbe che non la potea vincere per forza, e\nper\u00f2 vi mise assedio, e strinsela con pi\u00f9 campi per modo, che da niuna\nparte vi si poteva entrare.\nCAP. LXXXIX.\n_Come i Genovesi ebbono Ventimiglia._\nIn questo tempo dell\u2019assedio d\u2019Aversa, il doge di Genova e il suo\nconsiglio, conosciuto loro tempo, armarono dodici galee e mandaronle\nnel porto di Napoli, e diedono il partito a prendere al re e a alla\nreina, dicendo in questo modo: il doge di Genova e il suo consiglio\nci hanno mandati qui a essere in vostro aiuto, in quanto voi rendiate\nliberamente al nostro comune la citt\u00e0 di Ventimiglia, la quale \u00e8 di\nnostra riviera, avvegnach\u00e8 di ragione fosse della contea di Provenza.\nE se questo non fate, di presente abbiamo comandamento d\u2019essere contro\na voi, e di servire il re d\u2019Ungheria. Il re e la reina vedendosi\nassediati per terra dalla grande cavalleria del re d\u2019Ungheria, a cui\nubbidia tutta la Terra di Lavoro, e di mare convenia che venisse tutta\nloro vittuaglia, e da loro non aveano solo una galea: pensarono che\nse i Genovesi gli nimicassono in mare erano perduti, e per\u00f2 stretti\ndalla necessit\u00e0 deliberarono di fare la volont\u00e0 del doge e del comune\ndi Genova, avendo speranza dell\u2019aiuto di quelle galee molto migliorasse\nla loro condizione. E incontanente mandarono a far dare la tenuta\ndella citt\u00e0 di Ventimiglia al comune di Genova. E le dodici galee non\nsi vollono muovere del porto di Napoli, n\u00e8 fare alcuna novit\u00e0 infino a\ntanto che la risposta non venne dal loro doge, come avessono la tenuta\ndella detta citt\u00e0. Avuta la novella, non tennono fede al re Luigi n\u00e8\nalla reina di volere nimicare le terre che ubbidivano al re d\u2019Ungheria,\nn\u00e8 essere contro a lui; anzi si partirono da Napoli, e presono altro\nloro viaggio.\nCAP. XC.\n_Come fu data l\u2019ultima battaglia ad Aversa dal re d\u2019Ungheria._\nStando l\u2019assedio ad Aversa, il re d\u2019Ungheria facea scorrere continovo\nla sua gente fino a Napoli e per lo paese d\u2019intorno d\u2019ogni parte, e\ntutti i casali e le vicinanze l\u2019ubbidivano, e mandavano il mercato\nall\u2019oste. A Napoli per terra non entrava alcuna cosa da vivere, e per\u00f2\navea soffratta d\u2019ogni bene, salvo che di grechi e di vini latini. E\nse il re d\u2019Ungheria avesse avute galee in mare, avrebbe vinta la citt\u00e0\ndi Napoli per assedio pi\u00f9 tosto che Aversa: perocch\u00e8 non aveano d\u2019onde\nvivere, se per mare non veniva da Gaeta e di Roma con grande costo. Nel\ncominciamento, l\u2019oste del re d\u2019Ungheria fu abbondevole d\u2019ogni grascia,\nper l\u2019ubbidienza de\u2019 paesani: ma soprastando l\u2019assedio, il servigio\ncominci\u00f2 a rincrescere, e l\u2019oste ad avere mancamento di molte cose,\ne spezialmente di ferri di cavalli e di chiovi. E i nobili regnicoli\nvedendo che il re in persona con diecimila cavalieri non poteva\nprendere Aversa, debole di mura e di fortezza e con poca gente alla\ndifesa, cominciarono ad avere a vile gli Ungheri, e trarre le cose loro\nde\u2019 casali, e la vittuaglia non portavano al campo come erano usati. E\nper questo le masnade degli Ungheri andavano a rubare oggi l\u2019uno casale\ne domane l\u2019altro, e spaventati i paesani, la carestia e il disagio\nmontava nell\u2019oste. Il re temendo che la vittuaglia non fallasse nel\nsoggiorno, deliber\u00f2 di combattere la citt\u00e0 con pi\u00f9 ordine e con pi\u00f9\nforza ch\u2019altra volta non avea fatto, come appresso diviseremo.\nCAP. XCI.\n_Della materia medesima._\nVedendo il re d\u2019Ungheria mancare la vittuaglia all\u2019oste, ebbe i\ncapitani e\u2019 conestabili de\u2019 suoi Ungheri e Tedeschi che v\u2019erano a\nparlamento: e disse come grande vergogna era a lui e a loro essere\nstati tanto tempo intorno a quella terra, abbandonata di soccorso e\nimperfetta di mura, e non averla potuta prendere; e ora conoscea che\nper lo mancamento della vittuaglia il soggiorno non gli tornasse a\nvergogna; e per\u00f2 gli richiedeva e pregava ch\u2019elli confortassono loro e\ni loro cavalieri, ch\u2019elli adoperassono per loro virt\u00f9, che combattendo\nla terra si vincesse: ch\u2019egli intendea di volere che la battaglia\nda ogni parte vi si desse aspra e forte, sicch\u2019ella si vincesse. I\ncapitani e\u2019 conestabili di grande animo e di buono volere s\u2019offersono\nal re, e il re in persona disse loro d\u2019essere alla detta battaglia.\nQuelli d\u2019entro che sentirono come doveano essere combattuti con tutta\nla forza di quella gente barbara, non si sbigottirono, anzi presono\ncuore e ardire e argomento alla loro difesa. Gli Ungheri e i Tedeschi\nsprovveduti d\u2019ingegni da coprirsi e da prendere aiuto all\u2019assalto delle\nmura, fidandosi negli archi e nelle saette, da ogni parte a uno segno\nfatto assalirono le mura. E il re in persona fu all\u2019assalto, per fare\nda se, e per dare vigore agli altri. E data la battaglia, e rinfrescata\nspesso, per stancare i difenditori, e fatto di loro saettamento ogni\nprova, ed essendo da quelli della terra in ogni parte ribattuti,\ncoll\u2019aiuto de\u2019 balestrieri e delle pietre e della calcina gittata sopra\nloro, e delle lanci e pali e d\u2019altri argomenti, non ebbono podere di\nprendere alcuna parte delle mura, ma molti di loro morti e pi\u00f9 fediti,\ne infino fedito il re, con acquisto d\u2019onta e di vergogna si ritrassono\ndalla battaglia. Que\u2019 d\u2019entro avendo combattuto francamente, confortati\ne medicati di loro fedite, presono delle fatiche riposo.\nCAP. XCII.\n_Come il conte d\u2019Avellino con dieci galee stette a Napoli, e Aversa\ns\u2019arrend\u00e8 al re._\nStando l\u2019assedio ad Aversa, la reina Giovanna non essendo bene del\nre Luigi, perch\u00e8 volea essere da lui pi\u00f9 riverita che non le parea,\nperocch\u00e8 era donna e reina del reame, e il marito non era ancora re,\na sua \u2019stanza fece in Proenza al conte d\u2019Avellino, capo e maggiore\ndella casa del Balzo, armare dieci galee, e all\u2019uscita di giugno nel\ndetto anno giunse nel porto di Napoli colla detta armata, atteso\nper soccorso, del quale aveano gran bisogno. Ma il conte pieno di\nmalizia, conoscendo il bisogno del re Luigi, e poco curandosi della\nreina, mostrandosi di volere trattare suo vantaggio, colle sue galee\nsi teneva in alto sopra il porto di Napoli. E per trarre vantaggio e\nmantenere l\u2019armata, ordin\u00f2 che ogni legno o barca che nel porto volesse\nentrare o uscire pagasse certa quantit\u00e0 di danari, e per questo modo\naggravava i Napoletani, e faceva loro pi\u00f9 grande la carestia della\nvittuaglia. E stando in questo modo, trattava domandando vantaggio\nal re Luigi, e il re gliel\u2019otriava quanto sapea domandare, per avere\nl\u2019aiuto di quelle galee, aggiugnendo i prieghi della reina, mostrando\ncome con quelle galee poteano racquistare le terre di quella marina,\nonde seguirebbe loro grande soccorso. Ma per cosa che fare sapesse\nnon pot\u00e8 smuovere il conte a dargli l\u2019aiuto di quell\u2019armata, anzi\nsi part\u00ec di l\u00e0, e per potere agiare la ciurma in terra s\u2019apport\u00f2\nal castello dell\u2019Uovo: e cominci\u00f2 a trattare col re d\u2019Ungheria di\nvolergli dare per moglie la sirocchia della reina, che fu moglie del\nduca di Durazzo, e il re avvisato gli dava intendimento, per volere\nquelle galee tenere in contumace de\u2019 suoi avversari. E stando il conte\nin trattati e di l\u00e0 e di qua, non si potea conoscere che facesse la\nvolont\u00e0 della reina, n\u00e8 che fosse ribello al re Luigi, o in che modo si\npotesse giudicare essere col re d\u2019Ungheria, tenendo colla sua malizia\nogni parte sospesa. Al re Luigi e ai Napoletani fece danno, alla reina\nnon accrebbe baldanza: ma al re d\u2019Ungheria, per lo suo trattare, fece\npiuttosto avere Aversa: che sentendo gli assediati i trattati del\nconte, affaticati lungamente alla difesa d\u2019Aversa, pensando che il re\nd\u2019Ungheria rimanesse nel Regno, bench\u00e8 ancora si potessono difendere\nalcun tempo, presono partito di trattare per loro. E messer Iacopo\nPignattaro loro capitano, essendo regnicolo, e di natura mobile alla\nnuova signoria, tosto s\u2019accord\u00f2 col re, ed ebbe sotto titolo di loro\nsoldi moneta dal re d\u2019Ungheria, e rend\u00e9gli la citt\u00e0 d\u2019Aversa: il quale\nincontanente v\u2019entr\u00f2 dentro con tutta sua cavalleria, e non lasci\u00f2\nfare a\u2019 cittadini alcuna violenza o ruberia. E questo fu del mese di\nsettembre del detto anno. Manifesto fu che questa vittoria venne agli\nUngheri a gran bisogno, perocch\u00e8 gi\u00e0 era s\u00ec stracca la gente, per lungo\ndisagio e per la carestia, che poco pi\u00f9 vi poteano stare, e il partire\nsenza averla vinta tornava al re e alla sua grande cavalleria ontosa\nvergogna.\nCAP. XCIII.\n_Come il re d\u2019Ungheria e il re Luigi vennono a certa tregua._\nAvendo non ispedite guerre, ma piuttosto avviluppamenti di quelle\nnarrate de\u2019 fatti del regno di Cicilia, seguita non meno incognito\ne avviluppato processo nelle seguenti successioni di que\u2019 fatti; ma\ncotali chenti alla nostra materia s\u2019offeriranno, con nostra scusa gli\nracconteremo. Avuta il re d\u2019Ungheria la citt\u00e0 d\u2019Aversa, alla quale\nlungo tempo s\u2019era dibattuto con tutta la sua grande oste, e non l\u2019avea\npotuta n\u00e8 per forza n\u00e8 per assedio acquistare, essendo debole citt\u00e0\ndi mura e da poca gente difesa, si pens\u00f2 che l\u2019altre maggiori e pi\u00f9\nforti citt\u00e0 che si teneano contro a lui sarebbono pi\u00f9 malagevoli a\nconquistare, e per esempio d\u2019Aversa troverebbe maggiore resistenza; e i\nsuoi baroni aveano gi\u00e0 compiuto con lui il termine del debito servigio,\ne a volerli ritenere al conquisto del Regno bisognava che desse loro\ndanaro, che n\u2019avea pochi, e del Regno non ne potea trarre, essendo in\nguerra: vide che il re Luigi, i baroni, e quelli che si teneano dal\nsuo lato erano disposti di stare alla difesa delle mura: e per\u00f2 mut\u00f2\nl\u2019animo agevolmente disposto a trovare accordo, col quale con meno sua\nvergogna si potesse partire del Regno. E dall\u2019altra parte il re Luigi\nera a tanto condotto, che non che potesse con arme resistere al nimico,\nma di mantenere bisognose e necessarie spese di sua vita era impotente;\ne se non fosse che l\u2019animo de\u2019 Napoletani concorrea a lui e alla reina\nalla loro difesa, non arebbono potuto sostenere. E per questa cagione\nera atta la materia da catuna parte a venire alla concordia con piccolo\naiuto d\u2019alcuni mezzani. Onde alcuno prelato di santa Chiesa, il quale\nera dal papa mandato nel Regno, e il conte d\u2019Avellino, che avea da\nogni parte puttaneggiato, coll\u2019aiuto d\u2019alcuno altro barone, movendosi\na cercare se potessono trovare via d\u2019accordo, con piccola fatica vi\npervennono alla cavalleresca, in questo modo. Che triegue fossono\nfatte infino a calen di aprile, gli anni _Domini_ 1351, con patto, che\nchi avesse nel Regno dovesse sicuramente tenere sue citt\u00e0, castella\ne ville in pace tutto il tempo detto. Che la questione che si faceva\ncontro alla reina Giovanna della morte del re Andreasso, si dovesse\ncommettere nel papa e ne\u2019 cardinali: e dove fosse trovata colpevole,\ndovesse perdere il reame, e tornasse libero al re d\u2019Ungheria: e\ndove ella non fosse giudicata colpevole della morte del marito, ma\nliberatane per sentenza del papa e del collegio de\u2019 cardinali dovesse\nrimanere reina del detto regno. E il re d\u2019Ungheria le dovea rendere\ntutte le citt\u00e0, castella e baronaggi che vi tenea, riavendo da lei per\nle spese fatte per lui fiorini trecentomila d\u2019oro, per quello modo e\ntermine competente che ordinato fosse per la santa Chiesa; e per patto\ncatuno re si dovea partire personalmente, e la reina del reame. Per\nla fermezza d\u2019attenere l\u2019uno all\u2019altro questi patti non ebbe altro\nlegame, che la fe e la scrittura e la testimonianza de\u2019 mezzani. Il re\nd\u2019Ungheria che avea d\u2019uscire del reame maggior voglia, prese l\u2019onesta\ncagione d\u2019andare in romeaggio a Roma al santo perdono; e in Puglia\nalle terre della marina lasci\u00f2 de\u2019 suoi Ungheri alla guardia con loro\ncapitani, e forn\u00ec di buona guardia tutte le sue tenute in Terra di\nLavoro; e a Capova e Aversa, e per l\u2019altre terre e castella circustanti\nlasci\u00f2 suo vicario messer fra Moriale cavaliere friere di san Giovanni\ndi Provenza, valente e ridottato cavaliere, con buone masnade di\nProvenzali, di cui il detto re molto si confidava; e a Viglionese\ne a Lanciano e nell\u2019altre terre che tenea in Abruzzi lasci\u00f2 vicario\nmesser Currado Lupo, franco cavaliere, con sue masnade di Tedeschi\na quella guardia. E ordinato ch\u2019ebbe la guardia delle sue terre nel\nRegno si mise a cammino per andare a Roma: e incontanente il re Luigi\nper mostrare di volere uscire del Regno, e tenere i patti, si part\u00ec\nda Napoli colla reina, e venne alla citt\u00e0 di Gaeta in su\u2019 confini del\nreame, e ivi attendeva che il re d\u2019Ungheria si partisse d\u2019Italia e\ntornasse in suo reame, com\u2019era in convegna; e ci\u00f2 fatto, il re Luigi\ne la reina Giovanna doveano fuori del reame attendere la sentenza di\nsanta Chiesa. I Gaetani ricevettono il re Luigi e la reina Giovanna\nin Gaeta con grande onore: e provviddongli di loro danari per aiuto\nalle spese, che n\u2019aveano grande bisogno. Ed ivi si fermarono con animo\ne intenzione di non uscire del Regno, bene che promesso l\u2019avessono,\nparendo loro che il dilungamento da quello, al bisognoso e lieve stato\nch\u2019aveano, fosse pericoloso al fatto loro. Il re d\u2019Ungheria segu\u00ec a\nRoma suo viaggio, e avuto il santo perdono senza soggiorno se ne torn\u00f2\nin Ungheria.\nCAP. XCIV.\n_Come il conte d\u2019Avellino di\u00e8 al suo figliuolo per moglie la duchessa\ndi Durazzo._\nIl conte d\u2019Avellino, il quale colle sue galee era rimaso sopra Napoli\nal castello dell\u2019Uovo, vedendo i fatti del Regno rimasi intrigati per\nlungo tempo, essendo rimasa la duchessa di Durazzo sirocchia della\nreina, vedova, nel castello dell\u2019Uovo, chiamata Maria, non ostante\nche \u2019l detto conte fosse suo compare, ma per quello mostrando pi\u00f9\nfamiliarit\u00e0, con piccola compagnia and\u00f2 al castello per vicitarla,\ninnanzi alla sua partita; la duchessa con buona confidanza gli fece\naprire liberamente il castello, ed egli con due suoi figliuoli e colla\nsua famiglia armata v\u2019entrarono: e entrati, fece prendere la guardia\ndelle porti e delle fortezze d\u2019entro. Ed essendo colla duchessa, disse\nche volea ch\u2019ella fosse moglie di Ruberto suo figliuolo, e per forza le\nfece consumare il matrimonio: e di presente la trasse del castello con\ntutti i suoi arnesi, e misela nella sua galea, per menarla in Proenza.\nIl re Luigi ch\u2019era in Gaeta sent\u00ec di presente questo fatto, e egli e\nla reina ne furono molto turbati. E seguendo il conte suo viaggio per\ntornare in Proenza con tutte le galee, quando furono sopra a Gaeta\nl\u2019otto entrarono nel porto, e i padroni e\u2019 nocchieri e le ciurme\nscesono in terra per pigliare rinfrescamento. Il conte colla duchessa\ne co\u2019 figliuoli rimasono fuori del porto in due galee, e attendevano\nl\u2019altre che prendevano rinfrescamento per seguire loro viaggio. Il re\nLuigi cautamente fece venire a se i padroni e\u2019 nocchieri dell\u2019otto\ngalee, e fece segretamente armare de\u2019 Gaetani e stare alla guardia,\nche non potessono senza sua volont\u00e0 tornare alle galee. E fatto questo,\ndisse: pensate di morire se non fate che le due galee dov\u2019\u00e8 il conte,\ne i figliuoli e la duchessa, venghino dentro nel porto a terra; e alle\nminacce aggiunse amore e preghiere: e ritenuti de\u2019 caporali cui egli\nvolle per sicurt\u00e0 del fatto, lasci\u00f2 gli altri tornare alle galee: i\nquali di presente s\u2019accostarono alle due galee del conte, che di questo\nfatto, come il peccato l\u2019accecava, non s\u2019era avveduto, e di presente\nl\u2019ebbono condotte a terra dentro al porto. Allora il re mand\u00f2 a dire al\nconte che venisse a lui. Il conte si scus\u00f2 che non potea perocch\u2019era\nforte stretto dalle gotte. Il re acceso di furore e infiammato d\u2019ira,\nper l\u2019ingiuria ricevuta della vergogna fatta al sangue reale, e de\u2019\nsuoi gravi e pericolosi baratti, non si pot\u00e8 temperare n\u00e8 raffrenare il\nconceputo sdegno: ma prese certi compagni di sua famiglia, e armati,\nin persona si mosse: e giunto al porto, mont\u00f2 in su la galea dov\u2019era\nil conte. Venuto a lui, in brieve sermone gli raccont\u00f2 tutti i suoi\ntradimenti, e la folle baldanza che lo avea condotto a vituperare il\nsangue reale: e detto questo, senza attendere risposta, con uno stocco\nil fed\u00ec del primo colpo; e incontanente n\u2019ebbe tanti, che senza potere\nfare parola rimase morto in su la galea. La duchessa di presente fu\ntratta di galea, e collocata colla sua famiglia e co\u2019 suoi arnesi\nin uno ostieri in Gaeta, e i due figliuoli del conte furono messi in\nprigione. Lasceremo ora de\u2019 fatti del Regno, che stando le triegue non\nv\u2019ebbe cosa degna di memoria, e ritorneremo alla nostra materia degli\naltri fatti d\u2019Italia, e della nostra citt\u00e0 di Firenze.\nCAP. XCV.\n_Della grande potenza dell\u2019arcivescovo di Milano, e come i Fiorentini\ntemeano di Pistoia, e quello che ne segu\u00ec._\nIn questo medesimo tempo, tra il fine del cinquantesimo ed il\ncominciamento del milletrecentocinquantuno, i Fiorentini cominciarono\nforte a temere della citt\u00e0 di Pistoia, la quale per cittadinesche\nsette era divisa e in male stato. E la casa de\u2019 Panciatichi, che non\nerano originali guelfi, in que\u2019 d\u00ec aveano cacciato della citt\u00e0 messer\nRiccardo Cancellieri e i suoi naturali, guelfi, di quella terra, e\nantichi servidori del comune di Firenze: e messer Giovanni Panciatichi\ns\u2019avea recato in mano il governamento di quella terra, e per sembianti\nmostrava d\u2019essere amico del comune di Firenze. I Fiorentini sentendo\nl\u2019arcivescovo di Milano, il quale in quel tempo avea sotto la sua\ntirannia ventidue citt\u00e0, tra in Lombardia e in Piemonte, e di nuovo\navea contro la volont\u00e0 di santa Chiesa presa la citt\u00e0 di Bologna,\nla quale confinava col loro comune, temeano forte che Pistoia per le\ncittadinesche discordie non pervenisse nelle sue mani, e per\u00f2 voleano\nla guardia di quella terra. E quanto che messer Giovanni si mostrasse\namico del comune di Firenze, con diverse e nuove cagioni tranquillava\ne metteva indugio col seguito de\u2019 cittadini della sua setta, che il\ncomune di Firenze non avesse la guardia, raffrenando l\u2019appetito de\u2019\nFiorentini, col sospetto del potente vicino. Nondimeno i Pistolesi\nguelfi pur vollono che il comune di Firenze v\u2019avesse dentro alcuna\nsua sicurt\u00e0, e consentirono che i Fiorentini mettessono in Pistoia\nmesser Andrea Salamoncelli, uscito di Lucca loro soldato, con cento\ncavalieri e con centocinquanta masnadieri alla guardia di Pistoia, alle\nspese del comune di Firenze, con patto espresso, che il detto capitano\nco\u2019 suoi cavalieri e fanti giurassono di mantenere quello stato che\nallora reggeva Pistoia, contro il comune di Firenze, e ogni altro che\noffendere o mutare il volesse. I Fiorentini vedendo che meglio non si\npoteva fare senza grave pericolo, bench\u00e8 conoscessono che questa non\nera la guardia che bisognava, acconsentirono, e misonvi il capitano e\nla gente d\u2019arme sotto il detto saramento: e con molte dissimulazioni\ne lusinghe manteneano quella citt\u00e0, ritenendo i cavalieri in Firenze\nsenza mutazione infino al primo tempo.\nCAP. XCVI.\n_Come certi rettori di Firenze vollono prendere Pistoia per inganno._\nEra per successione de\u2019 rettori di Firenze di priorato in priorato\nla sollecitudine di mettere rimedio alla guardia di quella citt\u00e0, e\nnon trovandosi da potere fare altro che fatto si fosse, alcuni allora\nrettori del nostro comune, con pi\u00f9 presunzione che il loro consiglio\nnon permettea, provvidono di fare tra loro segretamente d\u2019avere per\nnon leale ingegno la signoria di quella terra; e com\u2019ebbono conceputo\nil non debito fatto, cos\u00ec per non discreto n\u00e8 savio modo il vollono\nmettere a esecuzione, e sotto altro titolo accolsono i soldati del\ncomune a piedi e a cavallo, e mossonne delle leghe del contado: e\navendo a questa gente dato ordine alla notte che si doveano muovere,\nvollono provvedere di mutare di Pistoia il capitano ch\u2019avea giurato a\u2019\nPistolesi, ch\u2019era troppo diritto e leale cavaliere di sua promessa,\ne scambiare le masnade sotto il titolo della condotta, acciocch\u00e8\npotessono senza contasto dentro meglio fornire la loro intenzione: e a\nci\u00f2 fare mattamente si confidarono a uno ser Piero Gucci, soprannomato\nMucini, allora notaro della condotta, il quale era paraboloso e di\ngrande vista, e poco veritiere ne\u2019 fatti. Questi promise di fornire\nla bisogna chiaramente, e d\u2019avvisare del fatto alcuni conestabili\nconfidenti: e preso a fornire il servigio, i poco discreti rettori del\ncomune ebbono la promessa di colui come se la cosa fosse ferma e certa;\ne per questo la notte ordinata, a d\u00ec 26 di marzo gli anni _Domini_\n1351, feciono cavalcare i cavalieri e\u2019 pedoni ch\u2019aveano apparecchiati,\ne con loro messer Ricciardo Cancellieri, colle scale provvedute alla\nmisura delle mura, e a Pistoia furono la mattina innanzi d\u00ec, ed ebbono\nmesse le scale, e montati de\u2019 cavalieri e de\u2019 pedoni in su le mura,\ne scesine dentro una parte, avvisando d\u2019avere l\u2019aiuto de\u2019 soldati del\ncomune di Firenze che v\u2019erano dentro, come era loro dato a divedere,\npensavano a dare la via agli altri e farsi forti, e tutto era senza\ncontasto, perocch\u00e8 i cittadini si dormivano senza sospetto. E i soldati\ndel comune che dentro v\u2019erano non aveano sentimento n\u00e8 avviso alcuno,\nperocch\u00e8 il notaio, a cui la bisogna fu commessa, fu trovato in Prato\nnell\u2019albergo a dormire. Messer Ricciardo essendo co\u2019 suoi in sulle mura\nsi scoperse innanzi tempo, facendo gridare viva il comune di Firenze e\nmesser Ricciardo. I Pistolesi sentendo il rumore credettono fosse opera\ndi messer Ricciardo loro sbandito, il quale aveano in gran sospetto;\ne per\u00f2 co\u2019 soldati de\u2019 Fiorentini insieme furono all\u2019arme, e trassono\nalle mura francamente ad assalire coloro che dentro erano scesi: e\nfeditine alquanti, tutti gli presono, e allora di prima seppono che\nquesta era fattura de\u2019 Fiorentini; e tutti co\u2019 soldati de\u2019 Fiorentini\ninsieme intesono sollecitamente a guardare la terra il d\u00ec e la notte. E\nla folle impresa, mattamente condotta per li rettori di Firenze, gener\u00f2\nin Pistoia grave e pericoloso sospetto, e in Firenze molta riprensione.\nIl notaio, a cui i signori aveano commessa la bisogna, fu preso a\nfurore di popolo e menato alla podest\u00e0, e avrebbe perduta la persona,\nse non che il grande fallo ch\u2019aveano commesso i suoi comandatori,\nperch\u00e8 non gravasse loro difesono lui. E di questo segu\u00ec quello che\nappresso diviseremo.\nCAP. XCVII.\n_Come i Fiorentini assediarono Pistoia ed ebbonla a\u2019 comandamenti loro._\nQuando i Fiorentini s\u2019avvidono del pericolo, ove l\u2019indebita impresa\nde\u2019 loro rettori gli aveva messi, di recare a partito i Pistolesi,\nper la nuova ingiuria ricevuta, d\u2019aiutarsi colla forza del vicino\ntiranno: temendo che questo non avvenisse, non per animo di volere di\nquella citt\u00e0 alcuna giurisdizione fuori che la guardia, per gelosia\nche al tiranno non pervenisse, di presente diliberarono che la citt\u00e0\nsi strignesse per forza e per amore tanto che la guardia solo se ne\navesse, per loro sicurt\u00e0, e del nostro comune, e altro non volea; e\nsenza indugio alla gente che andata v\u2019era s\u2019aggiunse cavalieri, quanti\nallora il comune ne aveva, e fanti a pi\u00e8. E per decreto del comune si\ndi\u00e8 parola agli sbanditi che catuno facesse suo sforzo, e alle sue\nspese menasse gente nell\u2019oste in aiuto al comune di Firenze secondo\nsuo stato, e dopo il servigio fatto sarebbe ribandito d\u2019ogni bando. Per\nla qual cosa in tre d\u00ec furono intorno a Pistoia ottocento cavalieri e\ndodicimila pedoni, e ristrinsonla d\u2019ogni parte con pi\u00f9 campi, sicch\u00e8\ndi loro contado n\u00e8 da altra amist\u00e0 dentro non poterono avere alcuno\nsoccorso o aiuto. E di Firenze vi s\u2019aggiunse sedici pennoni, uno per\ngonfalone, co\u2019 quali andarono duemila cittadini quasi tutti armati come\ncavalieri, e molti ve n\u2019andarono a cavallo; e giunti nell\u2019oste con\nloro capitani, feciono dirizzare intorno alla citt\u00e0 otto battifolli.\nIn Pistoia aveva a questo tempo millecinquecento cittadini, o poco\npi\u00f9, da potere con arme difendere la terra, oltre alle masnade a\ncavallo e a pi\u00e8 che dentro v\u2019erano a soldo de\u2019 Fiorentini, i quali\nsi stavano senza fare novit\u00e0 dentro o guerra di fuori: per la qual\ncosa al gran giro della citt\u00e0 parea che cos\u00ec pochi cittadini non la\ndovessono potere difendere. E per questa cagione i Fiorentini aveano\nsperanza di vincerla per forza, quando con loro non si potesse trovare\naccordo. I Pistolesi d\u2019entro, uomini coraggiosi e altieri, con dura\nfaccia intendeano d\u00ec e notte alla loro difesa: e perch\u2019erano pochi a\ntanta guardia quanta il d\u00ec e la notte convenia loro fare, uscirono\ndelle loro case, e vennono ad abitare intorno alle mura: e le mura\narmarono di bertesche e di ventiere, e dentro uno largo corridore di\nlegname, e fornironlo di pietre e di legname e di pali da gittare,\ne di travi sopra i merli: e feciono a pi\u00e8 delle mura intorno intorno\nmolti fornelli con caldaie, per apparecchiare acqua bollita per gittare\nsopra coloro che combattessono: e apparecchiarono calcina viva in\npolvere per gittare, e con ferma e aspra fronte mostravano volere\ndifendere la loro franchigia; la qual cosa era degna di molta lode,\nse per antichi e nuovi e continovi esempli, della loro cittadinesca\ndiscordia non fosse contaminata. E addurandosi di non volere prendere\naccordo col comune di Firenze, soffersono il guasto di fuori de\u2019 loro\ncampi; e vedendo i Fiorentini che pi\u00f9 s\u2019adduravano, diliberarono che\nla terra si combattesse; e per levare loro la speranza del contradio,\ncomandarono a messer Andrea Salamoncelli, capitano e conestabile de\u2019\ncavalieri e de\u2019 pedoni che dentro v\u2019erano a soldo del nostro comune,\nche ne dovesse uscire, e cos\u00ec fu fatto; per la qual cosa la nostra\noste s\u2019accrebbe, e a loro manc\u00f2 la speranza: e ordinati di fuori ponti\ne grilli, e castella di legname e altri fornimenti da combattere le\nmura, acciocch\u00e8 con pi\u00f9 sicurt\u00e0 si potesse intendere alla battaglia,\ncinsono di buono steccato dall\u2019uno battifolle all\u2019altro. I Pistolesi\nvedendo la disposizione de\u2019 Fiorentini, e pensando, eziandio che si\ndifendessono, non poteano bene rimanere, cominciarono pi\u00f9 a temere.\nIn questo mezzo ambasciadori da Siena v\u2019entrarono, mandati dal loro\ncomune per trovare accordo, e come che s\u2019aoperassono conferendo colle\nparti, manifesto fu che peggiorarono la condizione, e inacerbirono\ngli animi e dentro e di fuori. E dato il d\u00ec della battaglia, e da ogni\nparte apparecchiata, i guelfi di Pistoia, ch\u2019erano la maggiore forza\ndella citt\u00e0, s\u2019accolsono insieme con pochi ghibellini, ed essendo al\nconsiglio, ricercarono con l\u2019animo pi\u00f9 riposato il pericolo a che si\nconducevano, per contrastare a\u2019 padri loro, il comune di Firenze, la\nguardia loro e della citt\u00e0, la quale doveano con istanza domandare\na\u2019 Fiorentini che la prendessono, volendo mantenere la citt\u00e0 a parte\nguelfa, e in pi\u00f9 sicuro e pacifico stato che non erano. E cos\u00ec parlato,\nmisono il partito a segreto squittino, e vinsero che la guardia della\ncitt\u00e0 fosse messa liberamente nel comune di Firenze, e che dentro vi\nmettesse gente e capitano alla guardia quanto al detto comune piacesse;\ne che dentro alla citt\u00e0 in su le mura si facesse un castello alle spese\nde\u2019 Fiorentini, per pi\u00f9 sicura guardia, e che oltre a ci\u00f2 avessono\nla guardia di Seravalle e quella della Sambuca. E messi dentro de\u2019\ncittadini di Firenze in quel d\u00ec, ogni cosa di grande concordia si rec\u00f2\nin buona pace; e dentro vi misono il capitano e\u2019 cavalieri e\u2019 pedoni\nche i nostri cittadini vollono, e presono la tenuta, e ordinarono\nla guardia di Seravalle: e per fretta e mala provvidenza indugiarono\ndi mandare per la tenuta della Sambuca nel passo dell\u2019alpe, la quale\nquando poi vollono, senza difetto de\u2019 Pistolesi, non poterono avere:\nonde poi ne segu\u00ec cagione di grande pericolo a\u2019 Pistoiesi e al nostro\ncomune, come leggendo per innanzi si potr\u00e0 trovare. Fatta la detta\nconcordia, i Fiorentini levarono il campo e arsono i battifolli, e\nordinatamente con gran festa torn\u00f2 tutta la bene avventurata oste nella\nnostra citt\u00e0, all\u2019uscita d\u2019aprile, gli anni di Cristo 1351. E pochi d\u00ec\nappresso vi mand\u00f2 il comune di Firenze de\u2019 suoi grandi cittadini con\npieno mandato, i quali riformassono al piacere de\u2019 cittadini di Pistoia\nlo stato e il reggimento di quello comune; e rimisonvi messer Ricciardo\nCancellieri e\u2019 suoi, con pace de\u2019 Panciatichi, fortificata e ferma con\npi\u00f9 matrimoni dall\u2019una famiglia all\u2019altra.\nCAP. XCVIII.\n_Come il re d\u2019Inghilterra sconfisse in mare gli Spagnuoli._\nNel tempo delle tregue del re di Francia e di quello d\u2019Inghilterra,\ngli Spagnuoli, i quali usavano colle loro cocche e navili di navicare\nil mare di Fiandra, cominciarono a danneggiare i navili d\u2019Inghilterra,\ne a rubare in corso le loro mercatanzie; e seguitando con pi\u00f9 forza la\nloro guerra, per pi\u00f9 riprese feciono agl\u2019Inghilesi onta e danno assai.\nIl re d\u2019Inghilterra non pot\u00e8 dissimulare questa ingiuria, che senza\ncagione di guerra gli Spagnuoli gli aveano fatta, e per\u00f2 accolse suo\nnavilio, e in persona con due suoi figliuoli assai giovani si mise in\nmare per andare in Spagna. Il re di Castella che sent\u00ec l\u2019armata del\nre d\u2019Inghilterra, fece suo sforzo d\u2019armare molte navi, e abboccaronsi\ncoll\u2019armata d\u2019Inghilterra nella vicinanza delle loro marine, e\ncommisono aspra e fiera battaglia, della quale il re d\u2019Inghilterra\nebbe la vittoria, con grande danno degli Spagnuoli e delle loro navi.\nE fatta la sua vendetta, con piena vittoria si torn\u00f2 in Inghilterra. E\nqui finisce il nostro primo libro, anni di Cristo 1351.\nLIBRO SECONDO\nCAPITOLO PRIMO\n_Prolago._\nPerocch\u00e8 anticamente gl\u2019infedeli e i pagani e le barbare nazioni,\ncompiacendosi alla reverenza delle virt\u00f9 morali, i cominciamenti della\nguerra alle ragioni della giustizia congiugneano, non senza debita\nammirazione ne\u2019 nostri tempi, ne\u2019 quali i cristiani, non solamente\ndalle morali, ma dalle virt\u00f9 divine ammaestrati nella perfetta fede\ndi Cristo nostro redentore, molti trapassano con disordinato appetito\nla via eguale della vera giustizia, e seguitando la sfrenata volont\u00e0\ndella tirannesca ambizione, non colle debite ragioni, ma con perverse\ncagioni, con subiti e sprovveduti assalti gli sprovveduti popoli\nassaliscono, le citt\u00e0 e le terre, confidandosi nella loro quiete, per\nfurti, per tradimenti, e per inganni rapiscono, sforzandosi con ogni\ngenerazione d\u2019inganni quelle soggiogare, e sottomettere al giogo della\nloro tirannia; e non meno la cristianit\u00e0, che le infedeli nazioni,\ndi queste malizie e inganni spesso si conturba. E avvegnach\u00e8 queste\ncose senza vergogna de\u2019 laici secolari raccontare non si possono, ne\u2019\ncherici, e massimamente ne\u2019 prelati, i quali, invece di Cristo fatti\nspirituali pastori della sua greggia, diventando rapaci lupi, nelle\npredette cose sono con ogni abominazione da detestare. E per\u00f2 venendo\nal cominciamento del secondo libro del nostro trattato, diverse e\nvarie cagioni di questa materia prima ci s\u2019apparecchiano, vinti da\nonesta necessit\u00e0, la verit\u00e0 del fatto, con seguire nostra materia,\nracconteremo.\nCAP. II.\n_Come il comune di Firenze usava la pace coll\u2019arcivescovo di Milano._\nI Fiorentini avendo per gelosia presa la guardia del castello di Prato\ne della citt\u00e0 di Pistoia, usciti della paura di quelle, si stavano\nin pace, riputandosi essere in amist\u00e0 dell\u2019arcivescovo di Milano,\nperocch\u00e8 guerra non v\u2019era, e contro a sua impresa i Fiorentini non\ns\u2019erano voluti travagliare. Con Bologna tenea le strade e i cammini\naperti, e le mercatanzie d\u2019ogni parte andavano e venivano sicure. E\nspesso il tiranno scrivea al comune de\u2019 suoi onori e de\u2019 singulari\nservigi, come accade ad amici, e il comune a lui, come a reverente\nsignore e caro amico. E con folle ignoranza stava il nostro comune\nsenza sospetto, e per non dare materia di sospetto al vicino tiranno,\nsi guardava di fornirsi di capitano di guerra e di gente d\u2019arme, e\nappena aveano fornite di guardie le loro castella. Il tiranno, ch\u2019avea\nfatta la lega con gli altri tiranni d\u2019Italia e con tutti i ghibellini,\nsi venia fornendo di gente d\u2019arme al suo soldo a pi\u00e8 e a cavallo,\ne vegghiava al continovo contro al nostro comune nella conceputa\nmalizia, attendendo il tempo che a ci\u00f2 avea divisato. E in questo mezzo\ncarezzava con doni e con servigi i suoi vicini tiranni, per averli\npi\u00f9 pronti al suo servigio al tempo del bisogno. E si pensava, che\ningannando i Fiorentini, e venendo della citt\u00e0 al suo intendimento,\nessere appresso al tutto signore d\u2019Italia. E i rettori della citt\u00e0 di\nFirenze avendo a\u2019 suoi confini il tiranno potente, viveano improvvisi,\nsotto confidenza degna di biasimo e di grave punizione. Ma cos\u00ec avviene\nspesso alla nostra citt\u00e0: perocch\u00e8 ogni vile artefice della comunanza\nvuole pervenire al grado del priorato e de\u2019 maggiori ufici del comune,\nove s\u2019hanno a provvedere le grandi e gravi cose di quello, e per forza\ndelle loro capitudini vi pervengono; e cos\u00ec gli altri cittadini di\nleggiere intendimento e di novella cittadinanza, i quali per grande\nprocaccio, e doni e spesa si fanno a\u2019 temporali di tre in tre anni agli\nsquittini del comune insaccare: \u00e8 questa tanta moltitudine, che i buoni\ne gli antichi, e\u2019 savi e discreti cittadini di rado possono provvedere\na\u2019 fatti del comune, e in niuno tempo patrocinare quelli, che \u00e8 cosa\nmolto strana dall\u2019antico governamento de\u2019 nostri antecessori, e dalla\nloro sollecita provvisione. E per questo avviene, che in fretta e\nin furia spesso conviene che si soccorra il nostro comune, e che pi\u00f9\nl\u2019antico ordine, e il gran fascio della nostra comunanza, e la fortuna,\ngoverni e regga la citt\u00e0 di Firenze, che il senno o la provvidenza de\u2019\nsuoi rettori. Catuno intende i due mesi c\u2019ha a stare al sommo uficio al\ncomodo della sua utilit\u00e0, a servire gli amici, o a diservire i nimici\ncol favore del comune, e non lasciano usare libert\u00e0 di consiglio a\u2019\ncittadini: e questo \u00e8 spesso cagione di vergogna e di grave danno del\nnostro comune, ricevuto da\u2019 suoi minori e impotenti vicini.\nCAP. III.\n_Come l\u2019arcivescovo di Milano appuose tradimento e condann\u00f2 messer\nIacopo Peppoli._\nEra in questo tempo rimaso in Bologna messer Iacopo de\u2019 Peppoli, il\nquale fu traditore con messer Giovanni suo fratello della propria\npatria, vendendo la citt\u00e0 e i suoi cittadini all\u2019arcivescovo, come\ndetto abbiamo, al quale la sua malizia, e il commesso peccato, tosto\napparecchi\u00f2 alcuna penitenza alle sue male operazioni. Che trattando\negli con certi tiranni lombardi di fare rivolgere la citt\u00e0 di Bologna,\nl\u2019arcivescovo, o vero o bugia che fosse, sent\u00ec che trattato si tenea\nper lui e per alcuni altri cittadini di Bologna: e la boce corse\nche trattavano co\u2019 Fiorentini: e questo non ebbe sostanza alcuna di\nverit\u00e0. Il tiranno avea voglia di trarlo di Bologna, sicch\u00e8 ogni lieve\nragionamento o materia gli fu assai: e per\u00f2 di presente fece prendere\nlui e\u2019 figliuoli e alcuni altri cittadini, e condannati gli altri a\nmorte, messer Iacopo per grande servigio condannato a perpetua carcere,\ne pubblicati i suoi beni alla sua camera, come di traditore, e tolsegli\ni danari che gli restavano della vendita di Bologna, e le castella che\ndato gli avea, e il proprio patrimonio: e fattolo venire co\u2019 figliuoli\na Milano, incarcer\u00f2 lui nel castello di... e i figliuoli a Cremona.\nL\u2019altro fratello che a quello tempo era in Milano non involse in\nquesta sentenza, il quale dissimulando suo dolore rimase in Milano in\nlieve stato, per passare il tempo alla provvigione del signore, con\namaro cuore. Assai tosto ha fatto manifesto qui il divino giudicio la\nmiseria a che sono condotti i traditori della loro patria, i quali per\ndisperato consiglio, i cittadini i quali gli aveano con grande onore\nesaltati e fatti signori sottopuosono per avarizia al giogo del crudele\ntiranno: e ora spogliati de\u2019 propri beni, e privati d\u2019ogni amore de\u2019\nloro cittadini, in calamitosa prigione danno esemplo agli altri di pi\u00f9\nintera fede a\u2019 loro comuni.\nCAP. IV.\n_Come l\u2019arcivescovo ferm\u00f2 d\u2019assalire improvviso la citt\u00e0 di Firenze._\nNel mese di luglio del detto anno, l\u2019arcivescovo di Milano, avendo\npurgato di sospetto la citt\u00e0 di Bologna, per la morte d\u2019alquanti\ncittadini e per l\u2019incarcerazione di messer Iacopo de\u2019 Peppoli e\nde\u2019 figliuoli, e accolti e fatti accogliere quasi tutti i soldati\noltramontani d\u2019Italia, parendoli venuto il tempo di scoprire a\u2019 suoi\ncollegati ghibellini d\u2019Italia la sua intenzione, ebbe in Milano i\ncaporali di parte ghibellina d\u2019Italia, e confer\u00ec con loro di volere\nsottomettersi il comune di Firenze, e con molte ragioni dimostr\u00f2\ncom\u2019era venuto il tempo da poterlo fare col loro aiuto: e ci\u00f2 fatto,\nera spento in Italia il nome di parte guelfa. La proposta fu in piacere\ndi tutti. Eranvi caporali, oltre a\u2019 Lombardi, gli Ubaldini, i figliuoli\ndi Castruccio Interminelli e messer Francesco Castracani da Lucca,\nmesser Carlino di Pistoia e\u2019 suoi, il conte Nolfo d\u2019Urbino, i conti di\nSantafiore e il conte Guglielmo Spadalunga, e de\u2019 ribelli del comune di\nFirenze alquanti di quelli da Cigliano, e messer Tassino e il fratello\ndiscesi della casa de\u2019 Donati. E non volendosi scoprire d\u2019esservi in\npersona i Tarlati d\u2019Arezzo, il vescovo co\u2019 suoi Ubertini, e\u2019 Pazzi di\nValdarno, e il conte Tano da Montecarelli, ch\u2019erano allora in pace e\nin amore col comune di Firenze, in segreto vi mandarono catuno segreti\nambasciadori con pieno mandato. I quali tutti udita l\u2019intenzione del\npotente tiranno furono molto allegri, e confortarono l\u2019arcivescovo\ndell\u2019impresa: aggiugnendo che sentivano i cittadini di Firenze in tanta\ndiscordia per le loro sette, e per lo male contentamento del reggimento\ndella citt\u00e0, e Arezzo e Pistoia in s\u00ec male stato, che se la sua potenza\nimprovviso a quelli comuni col loro aiuto si stender\u00e0 sopra loro, non\nvedeano che di tutto in breve tempo e\u2019 non fosse signore: e la signoria\ndi Firenze il facea signore d\u2019Italia. E cos\u00ec d\u2019un animo rimasono in\naccordo col tiranno di fare l\u2019impresa ordinata; e data la fede della\nloro credenza e di loro aiuto, con grandi promesse lieti si ritornarono\nin loro contrade, e intesono d\u2019apparecchiarsi di cavalli e d\u2019arme al\nloro podere. L\u2019ordine fu preso, che quando l\u2019oste dell\u2019arcivescovo\nfosse sopra i Fiorentini, che gli Ubaldini co\u2019 Romagnuoli assalissono\nnel\u2019alpe, e i Tarlati Ubertini e Pazzi si rubellassono e assalissono\nil Valdarno: e il conte Tano da Montecarelli movesse guerra in Mugello.\nA\u2019 Pisani intendea l\u2019arcivescovo co\u2019 suoi confidenti ambasciadori fare\nrompere pace a\u2019 Fiorentini, e muovere guerra dalla loro parte: cercando\nmuoverli con sue coperte suasioni, non dimostrando il perch\u00e8, in suo\naiuto. Ma i Pisani accorgendosi del fatto, nutricavano il tiranno con\nparole di speranza, e mandarono a lui loro ambasciadori per potere\nsentire pi\u00f9 il vero da che movea quella inchiesta, e per avere pi\u00f9\ntempo a deliberare. E questo avvenne, perocch\u00e8 allora la citt\u00e0 di\nPisa signoreggiava per li Gambacorti, uomini mercatanti e amici de\u2019\nFiorentini. Ma i governatori del comune di Firenze, addormentati e\nfuori della mente, non procuravano di sentire queste cose, e quello\nche sentivano mettevano al non calere, e provvisione alla loro guardia\nnon faceano, sentendo che molta gente d\u2019arme s\u2019accogliea in Lombardia,\ne che Lombardia non era in guerra, ma in lega coll\u2019arcivescovo di\nMilano. I quali rettori del nostro comune non erano degni di governare\nil fascio di tanta citt\u00e0, ma di grandi pene delle loro persone,\ncommettendo contro al loro comune pericolo d\u2019irreparabile fallo.\nCAP. V.\n_Come si mise in ordine il consiglio preso._\nL\u2019arcivescovo di Milano, la gente d\u2019arme che avea in diverse parti\nin Lombardia, in pochi d\u00ec la fece venire a Bologna: e fatto capitano\nmesser Giovanni de\u2019 Visconti da Oleggio, il quale per fama si tenea\nessere suo figliuolo, per addietro capitano de\u2019 Pisani, e prigione\nde\u2019 Fiorentini nella battaglia che feciono per soccorrere Lucca alla\nGhiaia, animoso contro a\u2019 Fiorentini, singularmente per quell\u2019onta,\nuomo di grande animo, e accompagnato da\u2019 caporali ghibellini lombardi\ntoscani e marchigiani, maestrevoli conducitori di guerra, si pens\u00f2\nprosperamente fornire la commissione a lui fatta per lo suo signore. Il\ncastello della Sambuca, nel passo della montagna tra Bologna e Pistoia,\nera allora per difetto de\u2019 Fiorentini nelle sue mani, al quale avea di\nvittuaglia per l\u2019oste grande apparecchiamento; e di questo non s\u2019erano\naccorti i Fiorentini: e cos\u00ec provveduto, subitamente a d\u00ec 28 del mese\ndi luglio, gli anni _Domini_ 1351, mosse colla sua oste da Bologna, e\nprima fu valicato la Sambuca, e accampatosi presso a Pistoia a quattro\nmiglia, per attendere il rimanente del suo esercito, che i Fiorentini\nsapessono alcuna cosa, o che avessono avuto pensiero che la forza del\ntiranno si stendesse sopra loro: ma sentendo questo, subitamente, in\nque\u2019 due d\u00ec ch\u2019e\u2019 nimici attesono la loro gente, i Fiorentini misono\ngente d\u2019arme a pi\u00e8 e a cavallo in Pistoia, sicch\u00e8 dentro vi si trov\u00f2\nalla guardia da cinquecento cavalieri e seicento fanti alla venuta\ndell\u2019oste, messer Giovanni raunata tutta la sua oste e la vittuaglia, a\nd\u00ec 30 di luglio predetto si strinse alla citt\u00e0 di Pistoia, credendolasi\navere per vane promesse, ma non essendogli risposto come s\u2019avvisava,\nvi si strinse e posevisi ad assedio. La gente de\u2019 Fiorentini che\ndentro v\u2019era, faceano di d\u00ec e di notte sofficiente e buona guardia, e\nper questo, se trattato niuno v\u2019era non s\u2019ard\u00ec a scoprire, ma tutti i\ncittadini colla gente de\u2019 Fiorentini insieme attesono alla difesa della\ncitt\u00e0.\nCAP. VI.\n_Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e presono Montecolloreto._\nGli Ubaldini, ch\u2019erano in pace col comune di Firenze, sentendo l\u2019oste\ndell\u2019arcivescovo sopra Pistoia, avendo fatto loro sforzo, e avuto\ncavalieri del tiranno, improvviso a\u2019 Fiorentini apparirono nell\u2019alpe,\ne corsono a Firenzuola, che si redificava pe\u2019 Fiorentini, ma non era\nancora cinta di mura, n\u00e8 di fossi n\u00e8 di steccati, ma incominciata, e\ndentro v\u2019erano capanne per alberghi, e lieve guardia per tener sicuro\nil cammino, sicch\u00e8 senza contrasto la presono e arsono: e andaronsene\na oste a Montecolloreto, nel quale era castellano per lo comune di\nFirenze uno popolano de\u2019 Ciuriani di Firenze, giovane poco scorto\ndegl\u2019inganni delle guerre. Costui vedendosi assediato, e dando fede\nalle parole de\u2019 nimici, i quali diceano come Firenze era per arrendersi\nal signore di Milano, si condusse mattamente a patteggiar con loro:\nche se in fra \u2019l terzo d\u00ec non fosse soccorso, darebbe la rocca: e\nper istadico diede un suo fratello. I Fiorentini ch\u2019aveano l\u2019animo\na guardare quella fortezza, cercarono di soccorrerla, e trovato uno\nconestabile valente con venticinque masnadieri, promise d\u2019entrare\ninnanzi al termine nel castello; e di presente si mise in cammino: e\ntanto procacci\u00f2 per suo ingegno e virt\u00f9, che innanzi il termine fu nel\ncastello, ma non pot\u00e8 entrare nella mastra fortezza, che si guardava\nper lo castellano, e \u2019l castellano avendo questo soccorso si potea\ndifendere per lungo tempo da tutta la forza ch\u2019avessono potuta fare gli\nUbaldini, perocch\u00e8 il luogo era fortissimo e bene fornito: ma essendo\n(come egli follemente avea messo il fratello nelle mani de\u2019 nimici,\ni quali minacciavano d\u2019impiccarlo se non rendesse la rocca) vinto\ndall\u2019amore della carne, non volle ricevere il soccorso, anzi diede la\nrocca a\u2019 nimici. E salvate le persone da\u2019 nimici, condotto a Firenze,\ne giudicato traditore del comune, per la sua dicollazione e di due suoi\ncompagni diede esemplo agli altri castellani di pi\u00f9 intera fede al loro\ncomune. I mallevadori che dati avea di rassegnare la rocca al comune\nconvenne che pagassono lire ottomila com\u2019erano obbligati.\nCAP. VII.\n_Come gli Ubertini, e\u2019 Tarlati, e i Pazzi assalirono il contado di\nFirenze._\nMesser Piero Sacconi co\u2019 suoi Tarlati usciti d\u2019Arezzo, e il vescovo\nd\u2019Arezzo degli Ubertini co\u2019 suoi consorti, e Bustaccio co\u2019 Pazzi di\nValdarno, per lungo tempo stati in pace e in protezione col comune\ndi Firenze, sentendo l\u2019avvenimento di messer Giovanni Visconti da\nOleggio con grande forza d\u2019arme sopra Pistoia, si ragunarono con\ntutto loro sforzo di gente d\u2019arme a pi\u00e8 e a cavallo a Bibbiena; e\ndall\u2019arcivescovo aveano avuto dugentocinquanta barbute, acciocch\u00e8\npotessono fare maggiore guerra. Di presente, improvviso a\u2019 Fiorentini,\ncominciarono a cavalcare sopra loro, e sopra i conti Guidi, amici e\nfedeli del comune di Firenze, e oggi correvano in una contrada e domane\nin un\u2019altra, uccidendo e predando, e facendo aspra guerra. I Fiorentini\nvedendo d\u2019ogni parte le subite e sprovvedute tempeste venire sopra\nloro, e sentendo gli amici diventati nimici, ebbono paura non piccola,\nmescolata di grande sospetto, e i provveduti rettori del comune non\nsapeano che si fare. E cos\u00ec era la citt\u00e0 di forza e di consiglio\nspaventata, e molto piena di paura e di sospetto per modo, che non\nveggendo n\u00e8 per atto n\u00e8 per consiglio alcuna cagione di sospetto\ncittadinesco, non si fidava l\u2019uno del\u2019altro, e non si provvedea al\ncomune riparo per via di consiglio in que\u2019 primi cominciamenti.\nCAP. VIII.\n_Come i Fiorentini mandaro ambasciadori al capitano dell\u2019oste._\nVedendosi i Fiorentini con tanta forza e da cotante parti assalire dal\nsignore di Milano, senza avere con lui alcuna guerra o conturbagione\ndi pace, elessono alquanti cittadini, e mandaronli ambasciadori nel\ncampo a messer Giovanni da Oleggio, capitano dell\u2019oste sopra a Pistoia,\ni quali essendo giunti nel campo, furono ricevuti dal capitano assai\ncortesemente. E secondo la commissione a loro fatta da\u2019 priori e\nda\u2019 collegi del nostro comune, domandarono messer Giovanni, con ci\u00f2\nfosse cosa che tra l\u2019arcivescovo suo signore e \u2019l comune di Firenze\nfosse pace e niuno sospetto di guerra, perch\u00e8 venuto era ostilmente\ncome contra suoi nimici sopra il comune di Firenze, non avendo prima\nannunziato al comune la sua guerra secondo i patti della pace, salvo\nche per una breve lettera, mandata per lui poich\u00e8 fu sopra Pistoia: la\nquale senza precedente cagione di nostro fallo, disse: _non avete voi\nvoluto osservare la pace, e per\u00f2 vi facciamo la guerra_: la quale non\nera n\u00e8 onesta n\u00e8 debita cagione; e per\u00f2 siamo mandati dal nostro comune\na sapere la verit\u00e0 di questo movimento. Udito il capitano la loro\nambasciata, raccolse il suo consiglio, e appresso rispose altieramente\nin questo modo. Il nostro signore, messer l\u2019arcivescovo di Milano, \u00e8\npotente, benigno e grazioso signore, e non fa volentieri male ad alcuna\ngente, anzi mette pace e accordo in ogni luogo ove la sua potenza si\nstende; \u00e8 amatore di giustizia, e sopra gli altri signori la difende e\nmantiene: e qui non ci ha mandati per mal fare, ma per volere tutta la\nToscana riducere e mettere in accordo e in pace, e levare le divisoni\ne le gravezze che sono tra\u2019 popoli e\u2019 comuni di questi paesi. E perch\u00e8\na lui \u00e8 pervenuto e sente le divisioni discordie e sette, e le gravezze\nche sono in Firenze, le quali conturbano e aggravano la vostra citt\u00e0 e\ntutti i comuni di Toscana, ci ha mandati qui affinch\u00e8 voi vi governiate\ne reggiate in pace e in giustizia per lo suo consiglio, e sotto la sua\nprotezione e guardia; e cos\u00ec intende volere addirizzare tutte le terre\ndi Toscana. E dove questo non si possa fare con dolcezza e con amore,\nintende farlo colla forza della sua potenza e degli amici suoi. E a\nnoi ha commesso, ove per voi non si ubbidisca al suo buono e giusto\nproponimento, che mettiamo la sua oste in sulle vostre porti e intorno\nalla vostra citt\u00e0, e che ivi tanto manterr\u00e0 quella, accrescendola e\nfortificandola, continuamente combattendo d\u2019ogni parte il contado e il\ndistretto del vostro comune col fuoco e col ferro, e colle prede de\u2019\nvostri beni, che tornerete per vostro bene alla volont\u00e0 sua. Udendo\ngli ambasciadori la superba risposta del capitano e del suo consiglio,\nnon parve che luogo e tempo fosse di quivi stendere pi\u00f9 loro sermone:\ne per\u00f2 domandarono sicurt\u00e0 fino a Bologna per potere andare al signore\ndi Milano, come aveano in commissione dal loro comune, la quale il\ncapitano non volle dare. E per\u00f2 si tornarono a Firenze, e spuosono a\u2019\nsignori e al consiglio quello ch\u2019aveano avuto dal capitano dell\u2019oste\nper risposta della loro ambasciata, per la quale l\u2019animo de\u2019 cittadini\ndi Firenze crebbe pi\u00f9 in disdegno che in paura.\nCAP. IX.\n_Come l\u2019oste si lev\u00f2 da Pistoia e puosesi a Campi._\nEssendo stata l\u2019oste del tiranno otto d\u00ec sopra la citt\u00e0 di Pistoia, e\nmancata la speranza d\u2019avere la terra, per la buona guardia e sollecita\nche \u2019l d\u00ec e la notte vi faceano i Fiorentini: e il somigliante di\nPrato, nelle quali terre erano le tre parti della gente d\u2019arme che\nallora aveano i Fiorentini, essendo la citt\u00e0 di Firenze quasi rimasa\nsenza aiuto di soldati forestieri, e non avendo capitano di guerra:\nmesser Giovanni da Oleggio col consiglio de\u2019 caporali ghibellini\nch\u2019avea con seco, i quali stavano solleciti a sentire il fatto del\nnostro comune, e sentivano essere dentro grande sospetto e poco\nconsiglio, e minore forza d\u2019arme che in Pistoia e in Prato, con molte\nverisimili suasioni mossono il capitano subitamente a stringersi\nsopra Firenze colla sua oste: il quale essendo uomo di grande ardire,\ne animoso contro a\u2019 Fiorentini, sentendosi accompagnato da molti\nbuoni capitani di guerra, e da cinquemila barbute, e da duemila\naltri cavalieri, e seimila masnadieri a piede, non bene provveduto di\nvittuaglia, sperando nel contado di Firenze farsene abbondevole, come\nmostrato gli era, a d\u00ec 4 d\u2019agosto del detto anno subitamente lev\u00f2 il\ncampo da Pistoia, e per la strada dritta e piana senza arresto valicata\nla terra di Prato, condusse la sua oste in sull\u2019ora del vespero a\nCampi, Brozzi e Peretola, improvviso, non che a\u2019 Fiorentini, ma agli\nuomini di quelle ville e contrade, per la qual cosa non poterono\ncampare alcuna cosa, fuori che le persone, e di quelle vi rimasono\nassai. Il capitano per non conducersi al tardi, e perch\u00e8 il luogo era\nalbergato e pieno d\u2019ogni bene, ferm\u00f2 il campo a Campi. Della villa di\nCampi e d\u2019altre d\u2019intorno raccolsono grano e biada e carnagione assai,\ne molte masserizie e letta de\u2019 paesani: e intesono a starsi ad agio e a\nrinfrescare la gente di vivanda, della quale intorno a Pistoia aveano\navuto disagio. E dato l\u2019ordine al campo di buona guardia di d\u00ec e di\nnotte, provviddono che ogni cavalcata che si facesse verso la citt\u00e0\ndi Firenze avesse riscossa di mille cavalieri il meno. E incontanente\ncominciarono a cavalcare per lo piano, prendendo e raccogliendo\nil bestiame e la roba che rimasa v\u2019era senza trovare riparo, e\nalcuna volta si stesono infino alle mura della citt\u00e0 di Firenze. I\nFiorentini sentendo questa subita venuta dell\u2019oste sopra la citt\u00e0, e la\nbaldanza presa d\u2019aversi lasciato dietro Pistoia e Prato, sbigottirono\ndisordinatamente, non trovandosi forniti n\u00e8 provveduti al riparo. E i\nrettori del comune per lo fallo commesso dell\u2019abbandonata provvisione\nnon sapeano che si fare; e molto temeano che fossono venuti cos\u00ec\nbaldanzosi a istanza de\u2019 loro cittadini d\u2019entro. E in questa contumacia\ne sospetto si stette insino che manifesto apparve per l\u2019operazione\nde\u2019 cittadini grandi e popolani grassi, che catuno era in fede al suo\ncomune: e levata la nebbia che teneva intenebrata la mente del popolo\ne del comune, presono pi\u00f9 ardire, e feciono trarre fuori i gonfaloni,\ne andarono coll\u2019arme alle porti, e fecionle serrare di verso la parte\nd\u2019ond\u2019erano i nimici; e ordinarono guardie di buoni cittadini, facendo\nil d\u00ec e la notte fare buona guardia. E armarono le mura di ventiere,\ne le pi\u00f9 deboli parti feciono afforzare per difendere la citt\u00e0, che di\nmettere gente in campo a quell\u2019ora non aveano podere.\nCAP. X.\n_Come l\u2019oste ebbe gran difetti a Campi e a Calenzano._\nAvvenne, che stando l\u2019oste a Campi, per mala provvisione, tutto il\nbestiame ch\u2019avrebbe dato con ordine lungamente carne all\u2019oste, in\npochi d\u00ec si strazi\u00f2 e consum\u00f2. E in quello tempo era sformato caldo e\nsecco grande, e tutte mulina di quelle contrade erano state sferrate\ne guaste; per la qual cosa, bench\u00e8 l\u2019oste avesse del grano, non potea\nfare farine, ed erano in grande soffratta di sale. E la vittuaglia\ndi quel piano cominci\u00f2 a mancare, e quella che venia da Bologna per\nscorta era spesso in preda de\u2019 cavalieri ch\u2019erano in Pistoia. E per\nquesto avvenne, che in pochi d\u00ec all\u2019oste manc\u00f2 il pane e il sale: e\nnon aveano che manicare, se non carne, e di quella poca, e cocevanla\ncol grano, che farina non aveano. Da niuna parte del contado di Firenze\naveano mercato, e cavalcate non poteano stendere in parte onde recare\npotessono fornimento al campo, perocch\u00e8 tutte le circustanze aveano\nsgombrato e ridotto nella citt\u00e0. Onde cominciarono a sentire fame, e\nil caldo li consumava e affliggeva forte i corpi degli uomini; e il\nmaggiore sussidio ch\u2019avessono era l\u2019agresto e le frutta non mature: e\npoco tempo v\u2019aveano a stare, che senza essere contastati da\u2019 Fiorentini\nveniano in ultima disperazione. I loro capitani e conducitori vedendosi\na questo pericolo, diedono voce di volersi strignere alla citt\u00e0, e\nper forza valicare nel piano di san Salvi. I Fiorentini temettono di\nquesto: e non trovandosi gente d\u2019arme da potere contradiare il passo\na\u2019 nimici, feciono una tagliata dal ponte della porta a san Gallo\ninfino alla costa di Montughi: e ivi misono molti balestrieri e popolo\nalla guardia, con ordine di soccorso se bisogno fosse. L\u2019altra voce\ndiedono di tornarsene per lo piano d\u2019ond\u2019erano venuti verso Pistoia;\ni Pistolesi per questa tema ruppono i passi, e abbarrarono i cammini\ncon fossi e con alberi. E per questo i Fiorentini pi\u00f9 temeano che non\nvalicassono nel piano di san Salvi, e per questa cagione afforzarono\ndi bertesche e di steccati la rocca di Fiesole, e fecionla guardare;\ne nondimeno tutto il contado da lunge e d\u2019appresso feciono sgombrare\nda quella parte. I capitani dell\u2019oste vedendosi a cotanto disagio, non\nardirono di strignersi pi\u00f9 alla citt\u00e0, anzi levarono il campo, a d\u00ec 11\nd\u2019agosto del detto anno, e traendosi addietro si puosono a Calenzano. I\nFiorentini stimando che se n\u2019andassono, sonarono le campane del comune\na stormo; e il popolo volonteroso a cacciare chi fuggisse s\u2019arm\u00f2, e\nalquanti mattamente senza ordine e senza capitano uscirono della citt\u00e0:\nma sentendo che i nimici non fuggivano, tosto ritornarono dentro dalle\nmura. Ma di questo nacque la voce per lo contado e scorse per tutto,\nche se n\u2019andavano per la Valdimarina; e di stormo in stormo si mossono\ni contadini senza ordine o comandamento del comune, e occuparono\nle montagne sopra la Valdimarina d\u2019ogni parte, e furono loro tanto\ninnanzi all\u2019ora del vespero, che forte feciono temere e maravigliare i\nnimici, ch\u2019aveano intenzione di valicare nel Mugello per quella via.\nCome i capitani ebbono fermo il loro campo sotto Calenzano in sulla\nMarina, feciono combattere la pieve e certa fortezza ov\u2019era raccolta la\nvittuaglia de\u2019 paesani, e presonle a patti, salve le persone: e anche\npresono il castello di Calenzano, che non era murato n\u00e8 difeso, e in\nquesta tenuta trovarono alcuno rinfrescamento. Fino a quell\u2019ora non\naveano fatta alcuna arsione: stando ivi, uno grande conestabile tedesco\nsi stese a Pizzidimonte, e fuvvi morto da\u2019 villani; e per questa\ncagione vi cavalcarono e arsonlo, e appresso alcuna altra villa intorno\na Calenzano. E feciono provvedere i passi per valicare in Mugello,\nch\u2019ogni altro viaggio era loro, in stremit\u00e0 del pane, pi\u00f9 pericoloso a\npigliare.\nCAP. XI.\n_Come i rettori di Firenze abbandonarono il passo di Valdimarina._\nLa necessit\u00e0 delle cose da vivere, l\u2019un d\u00ec appresso l\u2019altro gi\u00e0\ntornata in fame, strignea l\u2019oste del Biscione, che cos\u00ec si chiamava\nallora, a partirsi del piano, ove senza speranza di potersi allargare,\ndi pane erano affamati. I cittadini di Firenze, a cui era commessa\nla provvisione della guerra, ch\u2019erano oltre a\u2019 priori e a\u2019 collegi\ndiciotto tra grandi e popolani, sapeano bene il difetto ch\u2019aveano i\nnemici, ma non aveano capitano, e da loro non sapeano la maestria della\nguerra, conobbono per lo comune grido, che agevole era a tenere loro il\npasso che non entrassono nel Mugello per la Valdimarina, che per natura\nil luogo era stretto, e\u2019 passi aspri e forti, da tenergli poca gente\ncon loro sicurt\u00e0 da tutta l\u2019oste: e vidono manifesto, che dove questa\nvia s\u2019impedisse loro, convenia che si partissono, tornando addietro da\nPistoia sconciamente. Ma la tema della boce che non passassono a san\nSalvi, ch\u2019era quasi impossibile, fece al comune non riparare a quel\npasso. Ma un gentile scudiere alamanno, il quale in quel tempo per lo\ncomune era capitano in Mugello, da se medesimo commise a uno della casa\nde\u2019 Medici, il quale era in sua compagnia, ch\u2019andasse a provvedere al\npasso, e diegli dugento fanti e cinquanta cavalieri. La commissione fu\ndebole a cotanto fatto: nondimeno se il cittadino fosse stato valoroso,\ne avesse voluto acquistare onore, molto agevole gli era a guardare\nquel passo, perocch\u00e8 i Mugellesi sentendo che il capitano mandava a\nguardare quel passo, con grande animo di ben fare trassono da ogni\nparte allo stretto ov\u2019era venuto il provveditore. Ed essendo nel luogo,\nviddono che il passo si difendea senza dubbio, a grande sicurt\u00e0 de\u2019\ndifenditori, per la fortezza naturale di quelle valli, onde conveniva\nl\u2019oste de\u2019 nemici valicare a piede, e uomo innanzi uomo, che a cavallo\ninsieme non v\u2019era modo da poter valicare. Ma il cittadino deputato\na quel servigio disse a\u2019 Mugellesi che gli conveniva essere altrove,\ne quivi per niuno modo si potea ritenere. Onde i Mugellesi ch\u2019erano\ntratti coraggiosi alla difesa, vedendo come colui cui doveano avere\nper capitano a quella guardia si partiva, perderono ogni vigore: e\npartito il capitano, tornarono a casa, e cominciarono a fuggire il loro\nbestiame, e le loro famiglie e masserizie, maledicendo il comune di\nFirenze e\u2019 suoi governatori, con giusta cagione della loro fortuna.\nCAP. XII.\n_Come l\u2019oste del Biscione valic\u00f2 il passo, e and\u00f2 in Mugello._\nI capitani dell\u2019oste che si vedeano in gran bisogno d\u2019uscire del\nluogo dov\u2019erano stretti dalla fame, seppono di presente come il passo\nera abbandonato da\u2019 Mugellesi, e per\u00f2 incontanente mandarono innanzi\nmasnadieri eletti, e buoni balestrieri a prendere il passo: e senza\narresto levarono il campo, a d\u00ec 12 d\u2019agosto del detto anno, e misonsi\nloro appresso. In sul passo erano rimasi alquanti fanti del paese, i\nquali di loro volont\u00e0 attesono i masnadieri de\u2019 nemici; e alle mani con\nloro, li ributtarono indietro. Ma vedendosi pochi e senza soccorso, e\nvedendo i nemici che riempieano le coste de\u2019 poggi e le valli d\u2019ogni\nparte, abbandonarono il passo, e i nemici di presente il presono, e\nl\u2019oste senza contrasto o pericolo valic\u00f2, facendosi grandi beffe del\ncomune di Firenze, parendo a catuno di servo essere divenuto signore.\nE pensando alla vilt\u00e0 ch\u2019avevano trovata ne\u2019 Fiorentini, a non avere\nfatto tenere e difendere quel passo, e al poco provvedimento che\nmostravano ne\u2019 fatti della guerra, crebbe la loro superbia. E poich\u00e8 si\nviddono essere valicati senza contrasto nel piano di Mugello, presono\nfidanza d\u2019essere signori di tutto il paese senza contrasto, e quel d\u00ec\nmedesimo cavalcarono a Barberino, e a Villanuova. Barberino era forte\ne bene fornito alla difesa, e molta roba v\u2019era dentro raccolta delle\nvicinanze, ad intendimento di difendersi, tanto ch\u2019avessono soccorso\nda\u2019 Fiorentini. Ma Niccol\u00f2 da Barberino, antico castellano e de\u2019\nnobili di quella terra, avendo la fede corta al comune di Firenze, se\nn\u2019and\u00f2 al capitano dell\u2019oste, e senza consiglio de\u2019 suoi castellani, a\nsuo vantaggio trasse patto, e rend\u00e8 il castello a\u2019 nemici, e misonvi\nla loro guardia, e la vittovaglia che v\u2019era fece dare all\u2019oste.\nVillanuova, e Gagliano, e Latera, e altre terre circustanti, che non\nerano di gran fortezza, n\u00e8 guardate da gente d\u2019arme del comune di\nFirenze, feciono il comandamento del capitano dell\u2019oste, e dieronli\nil mercato. Trovandosi la gente affamata in paese largo e dovizioso\ne pieno d\u2019ogni bene, soggiornarono volontieri pi\u00f9 d\u00ec, per prendere\nconforto delle loro persone, e a\u2019 loro animali, che tutti n\u2019avevano\ngran bisogno. Ma chi ha ne\u2019 fatti della guerra il tempo da avanzare, e\nper riposo lo indugia, tardi il racquista; e cos\u00ec avvenne a costoro per\nlo detto soggiorno, come appresso diviseremo.\nCAP. XIII.\n_Come il conte di Montecarelli si rubell\u00f2 a\u2019 Fiorentini e venne al\ncapitano._\nIl conte Tano di Montecarelli rompendo la pace ch\u2019avea col comune di\nFirenze, essendo con gli altri ghibellini collegato coll\u2019arcivescovo,\navendo in prima per inganno, per mala provvedenza del castellano,\nritolta a\u2019 Fiorentini la rocca di Montevivagni, nella quale era a\nguardia uno popolare figliuolo di Piero del Papa, il quale fu per\u00f2\ncondannato per traditore, come sent\u00ec l\u2019oste del Biscione nel Mugello,\nfece suo sforzo di cavalieri in piccolo numero, e in persona con i\nsuoi compagni a cavallo e con dugento fanti venne nell\u2019oste, e in\nMontecarelli mise la guardia per l\u2019arcivescovo e le sue insegne; e\nmentre che l\u2019oste stette in Mugello fu a nimicare il comune di Firenze,\ne a dare il mercato all\u2019oste, e ricetto in Montecarelli a\u2019 nemici del\ncomune.\nCAP. XIV.\n_Come si forn\u00ec la Scarparia e il Borgo._\nAvvenne come l\u2019oste del tiranno fu valicata nel Mugello, e dilungata\ndalla citt\u00e0, a\u2019 Fiorentini parve al tutto essere fuori di sospetto,\ne ritorn\u00f2 loro il vigore e la virt\u00f9 dell\u2019animo a consigliare e a\nprovvedere a\u2019 rimedi. E in quello stante che l\u2019oste si riposava a\nBarberino, misono nella Scarperia Iacopo di Fiore conestabile tedesco,\nuomo leale e valoroso, il qual era capitano del Mugello. A costui\ndierono dugento cavalieri eletti di buona gente, e trecento masnadieri\nesperti in arme, de\u2019 quali quasi tutti i conestabili furono Fiorentini,\nuomini di grande pregio in fatti d\u2019arme. E fornirono la terra di molta\nvittuaglia, e d\u2019arme, di balestra, e di saettamento, e di lagname e\ndi ferramenti, e di buoni maestri da fare ogni dificio da offendere\ne da difendere; e fornita d\u2019ogni cosa bisognevole per un anno, al\ndetto capitano e conestabile accomandarono la guardia e la difesa di\nquello castello. E per simigliante modo e forma fornirono il Borgo\na san Lorenzo, e Pulicciano, e altre fortezze. E mandarono armadure,\nsaettamento e balestra, e ammonirongli di buona guardia, confortandogli\nche a ogni bisogno avrebbono aiuto e soccorso presto dal comune. E gli\nuficiali deputati alla provvigione di quella guerra si cominciarono a\nprovvedere, e accogliere gente di soldo a cavallo e a pi\u00e8 quanti avere\nne poteano, per attendere alla difesa.\nCAP. XV.\n_Come l\u2019oste assedi\u00f2 la Scarperia._\nMesser Giovanni da Oleggio capitano dell\u2019oste, e il Conte Nolfo\nda Urbino maliscalco, veduto la gente rinfrescata, e presa forza e\nbaldanza per lo abbondante paese dove si trovarono, con le spalle\ndi Bologna, onde potevano avere prestamente aiuto e favore quando\nbisogno fosse, pensavano senza contrasto essere signori di tutto. E\ncon questa baldanza, a d\u00ec 20 del mese d\u2019Agosto del detto anno vennero\ncolle schiere fatte sopra il castello della Scarperia, e con loro\ns\u2019aggiunsono gli Ubaldini, ch\u2019erano con tutto loro sforzo nell\u2019alpe,\ne pi\u00f9 altri ghibellini nemici del comune di Firenze. La Scarperia\nera a quell\u2019ora debole terra di piccolo compreso, e non era murata se\nnon dall\u2019una delle parti, ma in quello stare di Barberino, in molta\nfretta s\u2019era rimesso il fosso vecchio e trattone la terra, e innanzi\na quello fattone un\u2019altro piccolo, e racconciato lo steccato assai\ndebole. I nimici vi furono intorno con tanta moltitudine di cavalieri\ne di pedoni, che copriano tutto il piano, e avendo da ogni parte\ncircondato il piccolo castello, e fermi i campi loro, domandarono il\ncastello a coloro che \u2019l guardavano, dicendo come i Fiorentini non lo\npotevano soccorrere n\u00e8 difendere, ma perocch\u00e8 sentivano che dentro\nv\u2019erano di prod\u2019uomini e virtudiosi d\u2019arme, voleano far loro grazia\nd\u2019avergli per amici, dove rendessono la terra senza contasto: e che\nquando questo non facessono nel breve termine loro assegnato, gli\nvincerebbono per battaglia, e la vita non perdonerebbono ad alcuno: e\ncos\u00ec era deliberato per lo capitano e per tutti i guidatori dell\u2019oste.\nGli assediati risposono che voleano termine a rispondere, e che dopo\nil termine farebbono quello che la fortuna concedesse con loro onore.\nFurono domandati da\u2019 capitani quanto termine voleano. Gli assediati\nrisposono, che con loro onore non vedeano che potesse essere meno\ndi tre anni: e dopo il detto termine intendeano prima morire in su i\nmerli, che di quelli dessono uno a\u2019 nimici: e di cos\u00ec franca risposta\nmolto feciono maravigliare i capitani dell\u2019oste, parendo che si\nmettessono a grande pericolo a volere difendere cos\u00ec debole castello,\ne da cotanta forza. E fatta la risposta, di presente s\u2019ordinarono\ne di d\u00ec e di notte a molta sollecita guardia, e a buona e a franca\ndifesa; e cominciarono a regolare la vita di tutti, come se l\u2019oste vi\ndovesse stare due anni. I nimici cominciarono prima ad assalirli con\ngrossi badalucchi, per tentare il loro reggimento, il quale trovarono\nsollecito, e maestrevolmente provveduto alla difesa.\nCAP. XVI.\n_Come i Fiorentini afforzarono Spugnole._\nI Fiorentini ch\u2019al continovo raccoglievano gente d\u2019arme a cavallo\ne a pi\u00e8 al loro soldo, e sollecitavano gli amici d\u2019aiuto, avendo\ngi\u00e0 accolto un poco di gente, deliberarono d\u2019afforzare Spugnole e\nMontegiovi per guardare le contrade di qua da Sieve, e per dare alcuna\nsperanza agli assediati della Scarperia, e ivi misono de\u2019 cavalieri\nch\u2019aveano, e parecchie masnade di buoni e valorosi masnadieri. E al\nBorgo a san Lorenzo crebbono gente d\u2019arme: e come crescea al comune\ngente d\u2019arme per soldo o per amist\u00e0 gli mandavano alle frontiere\nde\u2019 nemici in Mugello. Onde avvenne pi\u00f9 volte, che per gli aguati da\ncatuna parte, e per le cavalcate de\u2019 nimici v\u2019ebbe di belli e di grossi\nassalti, ove si mostrarono operazioni di buoni cavalieri e di franchi\nmasnadieri. Per questo avvenne che i nemici non ardirono a valicare la\nSieve colle loro cavalcate inverso Firenze. E tutte loro cavalcate di\nl\u00e0 da Sieve faceano grosse di mille cavalieri, o di millecinquecento,\no di duemila per volta, e nondimeno erano continuamente percossi alla\nritratta, e assaliti d\u2019aguati che si metteano loro. E in questo modo\nsi venne domesticando la guerra, e gli uomini del paese cominciarono a\nprendere cuore e ardire, per modo che i villani si raccoglieano insieme\ne nascondevansi a\u2019 passi, e come i cavalieri si stendevano alle ville\ngli uccidevano; e avvezzi a questo guadagno dell\u2019arme e de\u2019 cavalli,\ncon molta sollecitudine intendevano a tendere i loro aguati in ogni\nluogo. E per questo modo uccisono de\u2019 nemici grande quantit\u00e0 nel tempo\nche dur\u00f2 la detta guerra.\nCAP. XVII.\n_Come si difese Pulicciano di grave battaglia._\nAl castello di Pulicciano furono condotti per certi ghibellini della\nterra in una cavalcata cinquecento cavalieri e quattrocento fanti, e\nnon essendo se non pochi terrazzani nella fortezza di sopra, appena la\ndifesono. I borghi di fuori arsono e rubarono, e mandaronne il bestiame\ne la preda nel campo. Sentito questo a Firenze, subito vi mand\u00f2 il\ncomune cento fanti masnadieri alla guardia: i quali vi furono tosto a\ngran bisogno, perocch\u00e8 quelli dell\u2019oste per seducimento di traditori\ndel castello, e per conforto de\u2019 soldati ch\u2019erano stati in quella\ncavalcata, si pensarono vincere la fortezza, che non era chiusa di\nmura, ma da uno vile steccato, e avendo quella, signoreggerebbono un\npaese forte e pieno d\u2019ogni bene da vivere: e per\u00f2 una mattina per tempo\nvi feciono cavalcare duemila barbute, e mille fanti e pi\u00f9 balestrieri.\nE giunti a pi\u00e8 del castello, i cavalieri scesono de\u2019 cavalli, e\ncon gli elmi e colle barbute in testa si legarono con le braccia\ninsieme, tenendo l\u2019uno \u2019altro, e tra loro ordinarono i balestrieri,\ne cominciarono da ogni parte a un\u2019ora a montare verso gli steccati.\nI terrazzani arditi e fieri, co\u2019 soldati che v\u2019erano, si misono\nfrancamente alla difesa colle balestra ch\u2019aveano e co\u2019 sassi maneschi.\nLa forza de\u2019 nemici era grande tanto, che per forza condussono un loro\nconestabile con la sua bandiera quasi al pari dello steccato. Come si\nferm\u00f2 con l\u2019insegna per dare favore agli altri, tra con le balestra e\ncon le pietre lo traboccarono morto gi\u00f9 per la ripa. Nondimeno i nimici\ncon grave battaglia gli stringeano forte, e quelli del castello molto\nvivamente senza riposo difendeano gli steccati per modo, che da mezza\nterza fino a mezzo d\u00ec, che la battaglia era durata senza arresto, i\nnimici non aveano potuto abbattere un legno del loro steccato. Per\nla qual cosa vedendo i cavalieri la franca difesa di que\u2019 villani, e\ngi\u00e0 morti alquanti di loro, e che il giorno era nel calare, disperati\ndi quell\u2019impresa, con loro vergogna si ritrassono della battaglia e\ntornarono nel campo, e pi\u00f9 non tentarono di ritornarvi.\nCAP. XVIII.\n_Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini vennono in sul\ncontado di Firenze, e furonne cacciati per forza da\u2019 Fiorentini._\nDall\u2019altra parte messer Piero de\u2019 Tarlati d\u2019Arezzo in prospera\nvecchiezza, valicati i novanta anni della sua et\u00e0, e il vescovo\nd\u2019Arezzo della casa degli Ubertini, e i Pazzi di Valdarno, non ostante\nche fossono in pace col comune di Firenze, avendo dugentocinquanta\ncavalieri di quelli dell\u2019arcivescovo, e aggiuntosi de\u2019 conti\nd\u2019Urbino e altri ghibellini, mentre che l\u2019oste era in Mugello, con\ntrecentocinquanta cavalieri e con duemila pedoni si misono da capo\npredando il contado di Firenze, e vennono all\u2019Ambra, e di l\u00e0 intendeano\nentrare nel Valdarno e venire a Fegghine. I Fiorentini sdegnosi di\nquesti traditori, subitamente trassono dalle loro frontiere cinquecento\ncavalieri, e commisono a centocinquanta cavalieri ch\u2019aveano in Arezzo\nche dovessono venire a raccozzarsi co\u2019 nostri; e mossono il popolo\ndel Valdarno, che con grande animo e di buona voglia andavano in\nquello servigio. Il comune di Firenze si confid\u00f2 al tutto in questa\ncavalcata di Albertaccio di messer Bindaccio da Ricasoli, uomo savio,\npro\u2019 e ardito e buono capitano, se fosse stato in fede nel servigio\ndel comune: e bench\u00e8 altri buoni cittadini fossono mandati in detto\nservigio, a costui fu dato il mandato che in tutto fosse ubbidito. La\ngente a pi\u00e8 e a cavallo che cavalcavano di volont\u00e0, sopraggiunsono\ni nimici in sul vespero all\u2019Ambra, in parte, che avendo voluto fare\nquello si poteva per la nostra gente, non ne campava testa che non\nfossono morti o presi: perocch\u00e8 la gente del comune di Firenze era due\ncotanti, e migliore gente d\u2019arme, e erano nel loro terreno intorniati\ndagli amici. Questo Albertaccio avendo parentado e amist\u00e0 co\u2019 detti\nnimici, port\u00f2 infamia di non avere servito il comune lealmente. In\nprima d\u2019avere sostenuta la gente del comune a Montevarchi, che potea\npi\u00f9 infra \u2019l d\u00ec avere occupati i nimici: appresso, che quando fu a loro\nnon gli lasci\u00f2 per la nostra gente badaluccare, per tenerli corti e\nristretti che non si potessono provvedere: e perocch\u00e8 non lasci\u00f2 porre\nla sera la cavalleria de\u2019 Fiorentini nel luogo dove si poteva torre\nla via a\u2019 nimici che andare non se ne potessono quella notte. Per li\nsavi che v\u2019erano con lui si provvedeva, nondimeno per lo pieno mandato\nch\u2019aveva dal comune fu ubbidito; ed egli mostrava di fare buona e\nfranca capitaneria, e di volere vincere i nimici senza pericolo della\nsua gente: e per\u00f2 puose quella sera il campo in luogo sicuro a\u2019 suoi,\ne utile a\u2019 nimici. O vero o bugia che fosse, infamato fu d\u2019avere dato\nil tempo e fatto assapere a\u2019 nimici che si dovessono partire in quella\nnotte. I nimici traditori del nostro comune, vedendosi sorpresi a\nloro gran pericolo, intesono con ogni sollecitudine, senza dormire, a\ncampare le persone: e non tennono per una via, ma per diverse parti per\nlo scuro della notte presono la fuga molto chetamente. La nostra gente\nnon fu ordinata a quella guardia, e poi innanzi che il capitano facesse\narmare il campo, i nimici erano pi\u00f9 di sei miglia dilungati; allora\nsi strinsono ove la sera aveano lasciati i loro avversari, e niuno ve\nne trovarono: onde la infamia crebbe al capitano per lo fatto, e il\nripitio fu grande tra i cavalieri soldati e il conducitore, ch\u2019avea\ntolto loro quella preda per mala condotta. La gente che v\u2019era d\u2019Arezzo,\nforte sdegnata di questo tradimento che parve loro avere ricevuto,\nsi partirono senza licenza del capitano con centocinquanta cavalieri\nch\u2019aveano per loro guardia da\u2019 Fiorentini, e tornaronsi in Arezzo.\nCAP. XIX.\n_Come Bustaccio entr\u00f2 e rend\u00e8 la Badia a Agnano._\nIn quella notte Bustaccio degli Ubertini si ridusse con parte di quella\ngente a piede e a cavallo nella Badia a Agnano, la quale era molto\nforte e bene guernita. La cavalleria de\u2019 Fiorentini rimasa con vergogna\ndella partita de\u2019 nimici, sentendo come Bustaccio era ricoverato in\nquella Badia, cavalcarono l\u00e0, e trovaronli racchiusi, e ordinati alla\ndifesa di quella tenuta. Il capitano per volere ricoprire sua infamia\nvolea combattere la fortezza; i conestabili de\u2019 cavalieri, stretti\ninsieme, dissono ch\u2019erano stati ingannati, e per baratto aveano perduta\nla preda de\u2019 nimici fuggiti, e per\u00f2 non intendeano combattere se prima\nnon fossono sicuri della preda, se per patto si lasciassono i nimici\npartire: e in fine ne furono in concordia d\u2019avere fiorini cinquecento\nd\u2019oro, come che i nimici si capitassono. E di presente combattendo\ncerto borgo il vinsono. Poi combattendo la Badia furono ributtati a\ndietro, e perderono tre bandiere, ch\u2019erano in sulle case, le quali\ni nimici presono, e per paura del passo ove si trovavano le locaro\nritte in sull\u2019altare maggiore della badia. I cavalieri aontati delle\nloro bandiere prese, d\u2019un animo si disponeano per forza a vincere\nla Badia, e sarebbe venuto fatto loro, ma non senza grande danno,\nperch\u00e8 dentro v\u2019erano buoni guerrieri; e per\u00f2 innanzi che alla grave\nbattaglia si venisse, il Roba da Ricasoli, allora discordante per\nsetta d\u2019Albertaccio, volle parlare con quelli d\u2019entro, i quali stavano\nin gran paura: e parlato loro, di presente s\u2019acconciarono a rendere\nla Badia, potendosene andare salve le persone, e i cavalli e l\u2019arme.\nE presa per lo meno reo partito la detta concordia, e data la fede,\ni nimici si partirono, e la fortezza e le bandiere s\u2019ebbono senza\nvergogna del comune, e i conestabili vollono i fiorini cinquecento\nd\u2019oro loro promessi.\nCAP. XX.\n_Come l\u2019arcivescovo tent\u00f2 i Pisani di guerra contro a\u2019 Fiorentini._\nStando l\u2019oste intorno alla Scarperia, e dando opera i capitani a\nfar fare dificii da traboccare nella terra per rompere le torri\ne mura, e gatti e altri ingegni di legname per vincere la terra\nper battaglia, e i Fiorentini d\u2019accogliere gente d\u2019arme, e d\u2019avere\ncapitano per poterla soccorrere, l\u2019arcivescovo non restava di tentare\ni Pisani dalla sua parte in comune e in diviso che rompessono pace\na\u2019 Fiorentini, con intenzione di mandare messer Bernab\u00f2 da quella\nparte con duemila cavalieri ad assalire co\u2019 Pisani insieme il nostro\ncomune, e faceva loro grandi promesse. I Gambacorti, a cui segno Pisa\nsi governava, non vollono rompere la pace: nondimeno l\u2019arcivescovo\navendo favore dentro, e\u2019 consigli\u00f2 del modo che avesse a tenere\ndi muovere il popolo naturale nemico de\u2019 Fiorentini, ed elesse una\nsolenne ambasciata, fornita d\u2019autorit\u00e0 di savi uomini, e mand\u00f2gli a\nPisa: e giunti l\u00e0, e sposta la loro ambasciata con molte suadevoli\nragioni, i Pisani astuti, per pigliare consiglio nel tempo, dissono di\nrispondere all\u2019arcivescovo per loro ambasciadori, e incontanente gli\nmandarono a Milano, imponendo loro, che della volont\u00e0 dell\u2019arcivescovo\nnon si rompessono, ma tranquillassono il fatto. E in questo mezzo\nprovvidono pi\u00f9 riposatamente sopra il partito, e conobbono che\nrompere pace al comune di Firenze non tornava in loro utile: che se\nl\u2019arcivescovo prendea signoria in Toscana, era loro suggezione e danno;\ne segretamente feciono quello sentire a tutti i confidenti di quello\nstato, buoni cittadini. L\u2019arcivescovo avvedendosi del modo che con\nlui tenevano coloro che governavano la terra, li credette ingannare,\ne per lo favore ch\u2019avea nel popolo e in molti altri cittadini, e non\nostante che avesse gli ambasciadori pisani in Milano, fece maggiore\ne pi\u00f9 solenne ambasciata a\u2019 Pisani; e commise loro, che in parlamento\nesponessono la sua domanda, come detto gli era, sperando che a grido\ndi popolo avrebbe la sua intenzione contro a\u2019 Fiorentini. E come\ngiunti furono in Pisa, senza sporre alcuna cosa a\u2019 rettori del comune,\naddomandarono loro di volere il parlamento, e risposto fu loro di\nfarlo adunare volentieri a certo giorno, onde gli ambasciadori furono\ncontenti; e incontanente feciono a tutti i cittadini, con cui aveano\nconferito loro consiglio, dire che venissono al parlamento; e bandito e\nsonato a parlamento, come ordinato fu si ragun\u00f2 il popolo nella chiesa\nmaggiore in gran numero, ove furono tutti i cittadini che temeano di\nperdere loro libert\u00e0 e il loro stato. Gli ambasciadori ammaestrati in\nudienza di tutto il parlamento, con molto ornato sermone, ricordando\ni servigi grandi per la casa de\u2019 Visconti fatti al comune di Pisa,\ne come gli aveano onorati e aggranditi sopra gli altri cittadini di\nToscana, e\u2019 raccontarono per ordine la mala volont\u00e0 che i Fiorentini\naveano verso di loro, e l\u2019ingiurie che altro tempo inimichevolmente\naveano loro fatte, e intendeano di fare quando si vedessono il destro,\nmostrando loro come ora era venuto tempo nel quale il loro signore\nintendea d\u2019abbattere in tutto lo stato e l\u2019arroganza de\u2019 Fiorentini\nloro antichi nemici, e spegnere parte guelfa in Italia, e a ci\u00f2 fare\navea mossi tutti i ghibellini di Lombardia e di Toscana, e di Romagna e\ndella Marca, come per opera era loro manifesto. La qual cosa conosciuta\nper loro, ch\u2019erano capo di parte ghibellina in Toscana, molto doveano\nessere contenti di poter fare in cotanta loro esaltazione la volont\u00e0\ndel loro signore, la quale e\u2019 domandava con tanta istanza a quello\npopolo. Essendo uditi attentamente, si pensarono a grida di popolo\navere impetrata la loro dimanda, ma la cosa and\u00f2 tutt\u2019altrimenti,\nper la provvisione de\u2019 savi cittadini, li quali si ritennero in\nsilenzio in quello parlamento, come per loro fu provveduto. E quando\ngli ambasciadori l\u2019uno dopo l\u2019altro ebbono detto e confermato loro\nsermone, pregarono gli ambasciadori che si attendessono alquanto, e\ntosto risponderebbono di comune consentimento alla loro ambasciata,\ne cos\u00ec si trassono del parlamento. E usciti gli ambasciadori, gli\nanziani feciono la proposta che si consigliasse se il comune di Pisa\ndovesse rompere pace a\u2019 Fiorentini, oggi loro amici e loro vicini,\no no: e levatosi alcuno a dire in servigio dell\u2019arcivescovo, molti\npi\u00f9, i maggiori cittadini, si levarono a dire come grande male e\nvergogna del loro comune sarebbe, avendo ferma e buona pace col comune\ndi Firenze, a romperla contro a ragione, in perpetua infamia del\nloro comune. E fatto il partito, fu vinto che pace non si rompesse\na\u2019 Fiorentini. Gli ambasciadori, gi\u00e0 preso sdegno per l\u2019uscita del\nparlamento, avvedendosi dove la cosa riuscirebbe, senza attendere se\nn\u2019erano andati all\u2019ostiere. E quando gli anziani mandarono per loro per\nfare la risposta del parlamento, sentendo che non sarebbe quella ch\u2019e\u2019\nvoleano, non vi vollono andare, e senza prendere comiato montarono\na cavallo e tornaronsene a Milano. I Pisani si scusarono saviamente\nall\u2019arcivescovo, perch\u00e8 non stesse indegnato, e mandarongli dugento\ncavalieri, che mandar gli doveano per loro convenenza alla guardia\ndi Milano. Allora venne meno all\u2019arcivescovo la maggiore speranza che\navesse di potere vincere i Fiorentini. Il comune di Firenze cercava in\nquesto tempo d\u2019avere capitano di guerra che guidasse la sua gente, che\nal continuo la cresceva, e avendo mandato a molti l\u2019elezione con grande\nsalario, tutti la rifiutavano per paura del potente tiranno: nondimeno\nil comune pensava d\u2019atarsi con la capitaneria de\u2019 suoi cittadini.\nE avendo l\u2019oste cos\u00ec grande in Mugello, non pareva se ne curasse, e\nnella citt\u00e0 catuno faceva la sua mercatanzia e sua arte senza portare\nalcuna arme; e continovo facea rendere a\u2019 cittadini i danari del\nmonte: e sapendo questo i nemici forte se ne maravigliavano, e molto\nn\u2019abbassarono la loro superbia.\nCAP. XXI.\n_Come l\u2019oste deliber\u00f2 combattere la Scarperia._\nQuando i conduttori dell\u2019oste seppono che il comune di Pisa non voleva\nrompere pace a\u2019 Fiorentini, e come alcuno trattato ch\u2019aveano in Pistoia\nera scoperto, con tutta la loro intenzione si rivolsono alla Scarperia,\ne quella cominciarono a tormentare con percosse di grandissimi dificii,\nche il d\u00ec e la notte gettavano nel piccolo castello grossissime pietre,\nle quali rompeano le case d\u2019entro, e le mura e le bertesche gettavano\na terra. E ogni d\u00ec faceano assalto loro alla terra: onde gli assediati\nper la continova guerra, e per la sollecita guardia che conveniva loro\nfare il d\u00ec e la notte alla difesa, erano infieboliti, e pensarono che\nsenza soccorso di fuori, o aiuto di masnadieri freschi poco potrebbono\nsostenere: e per\u00f2 scriveano a\u2019 Fiorentini per loro fanti tedeschi, che\nsi mescolavano con gli altri Tedeschi di fuori, che avacciassono il\nloro soccorso. I Fiorentini erano in ci\u00f2 assai solleciti, e gi\u00e0 avevano\nal loro soldo accolti milleottocento cavalieri, e tremilacinquecento\nmasnadieri a piede de\u2019 buoni d\u2019Italia, e dugento cavalieri aveano da\u2019\nSanesi, e seicento n\u2019attendeano da Perugia, i quali erano a cammino;\ne avendo ordinato d\u2019uscire a campo con questi cavalieri, e con grande\npopolo, a petto a\u2019 nemici sopra il Borgo a san Lorenzo luogo detto a\nsan Donnino, ove erano forti per lo sito, e con le spalle al Borgo a\nsan Lorenzo da potere strignere e danneggiare i nemici, ch\u2019erano assai\ndi presso, e dare vigore e baldanza agli assediati della Scarperia:\ned essendo ogni cosa provveduta, attendendo i cavalieri perugini per\nuscire fuori, n\u2019avvenne la fortuna che appresso diviseremo.\nCAP. XXII.\n_Come i Tarlati sconfissono i cavalieri de\u2019 Perugini._\nIn questi d\u00ec, del mese di settembre del detto anno, era giunto a\nmesser Piero Saccone de\u2019 Tarlati in Bibbiena, mandato dal tiranno,\nil doge Rinaldo Tedesco con quattrocento cavalieri per incominciare\npi\u00f9 forte guerra a\u2019 Fiorentini nel Valdarno. In questo stante, messer\nPiero molto avveduto, sent\u00ec che seicento cavalieri buona gente\nd\u2019arme, che \u2019l comune di Perugia mandava in aiuto a\u2019 Fiorentini,\nerano in cammino, e venivano baldanzosi senza sospetto, e la sera\ndoveano albergare all\u2019Olmo fuori d\u2019Arezzo a due miglia. Avendo messer\nPiero il certo del fatto, col doge Rinaldo insieme con quattrocento\ncavalieri e con duemila fanti cavalc\u00f2 la notte, e chetamente ripose\ni fanti nella montagna sopra l\u2019Olmo, per averli al suo soccorso nel\nfatto; e la mattina per tempo co\u2019 suoi cavalieri e col doge Rinaldo\nassal\u00ec la cavalleria di Perugia, che la maggior parte era ancora per\ngli alberghi, ma quelli ch\u2019erano montati a cavallo si cominciarono\nfrancamente a difendere. E gi\u00e0 aveano tra loro messer Piero, che\ns\u2019era messo molto innanzi nella via ov\u2019era la battaglia, prigione,\ncon pi\u00f9 altri de\u2019 caporali in sua compagnia. E se in quello assalto\ngli Aretini fossono stati favorevoli ad aiutare gli amici del comune\ndi Firenze, come doveano, tutta la gente di messer Piero rimaneva\npresa per lo stretto luogo dove s\u2019erano messi. Ma usciti d\u2019Arezzo i\nBrandagli con loro seguito, che allora erano i maggiori cittadini,\nintesono a campare Messer Piero con gli altri prigioni che i cavalieri\ndi Perugia aveano ritenuti, come gente che aveano l\u2019animo corrotto\nalla tirannia della loro citt\u00e0, come poco appresso dimostrer\u00f2. Campato\nmesser Piero e\u2019 suoi, gli Aretini si tornarono dentro senza aiutare\nque\u2019 di Perugia, o dar loro la raccolta nella citt\u00e0. In questo, messer\nPiero e\u2019 suoi ripresono ardire, e feciono scendere della montagna\ni fanti loro, traboccando addosso a\u2019 Perugini con smisurato romore:\ni quali non vedendo essere soccorsi, n\u00e8 avere ricolta, non poterono\nsostenere, ma chi pot\u00e8 fuggire camp\u00f2, e gli altri tutti furono presi\nnelle vie e negli alberghi. Messer Piero raccolta la preda dell\u2019arme,\ne de\u2019 cavalli, e de\u2019 prigioni, senza esser contastato dagli Aretini,\nsi raccolse colla sua gente a salvamento, menandone pi\u00f9 di trecento\ncavalieri prigioni, ventisette bandiere cavalleresche, e trecento\ncavalli; e giunto in Bibbiena con questa vittoria i cavalli e l\u2019armi e\nl\u2019altra roba part\u00ec a bottino, e i cavalieri prigioni poveri e mendichi\nlasci\u00f2 alla fede. A\u2019 Fiorentini lev\u00f2 l\u2019aiuto e la speranza d\u2019uscire a\ncampo al soccorso della Scarperia, come ordinato era, e a\u2019 nimici diede\nmaggiore baldanza di vincere il castello.\nCAP. XXIII.\n_Come i Fiorentini procuraro di mettere gente nella Scarperia._\nVeggendo i Fiorentini mancato disavventuratamente l\u2019aiuto de\u2019 Perugini,\ne cresciuta baldanza a\u2019 nimici per quella vittoria di messer Piero\nTarlati, perderono al tutto la speranza del campeggiare, e quelli\nch\u2019erano assediati addomandavano soccorso pi\u00f9 sollecitamente. Avvenne\nche uno valente conestabile della casa de\u2019 Visdomini di Firenze, che\naveva nome Giovanni, con grande ardire elesse trenta compagni sperti\nin arme, buoni masnadieri, e una notte si mise nel campo de\u2019 nimici,\ne per mezzo delle guardie, non pensando che gente de\u2019 Fiorentini si\nmettessono tra loro, virtuosamente si misono nella Scarperia; la\nqual cosa fu agli assediati alcuno conforto, e pi\u00f9 per la persona\ndel valente conestabile, che per la sua piccola compagnia, a cotanto\nbisogno quanto aveano d\u00ec e notte, per gli assalti continovi de\u2019 loro\nnimici. E i conducitori dell\u2019oste avendo sentito l\u2019entrata di que\u2019\nmasnadieri nella Scarperia, la feciono pi\u00f9 strignere e pi\u00f9 guardare il\nd\u00ec e la notte. E tentato i Fiorentini per pi\u00f9 riprese di mettervi anche\ngente, e non trovando per niuno prezzo il modo, un altro conestabile\ncittadino di Firenze della casa de\u2019 Medici, di grande fama tra gli\nuomini d\u2019arme, per accrescere suo onore si fece dare cento fanti\nmasnadieri a sua eletta, e avendo con seco uno della Scarperia che\nsapeva l\u2019ore delle vegghie delle guardie, e le loro vie, presono il\ncammino di notte per l\u2019alpe di verso quella parte donde meno si potea\ntemere per quelli dell\u2019oste, con la insegna levata co\u2019 suoi compagni\nstretti si mise arditamente per lo campo, dirizzandosi verso la\nScarperia. E in su l\u2019entrata del campo le guardie s\u2019avviddono, e levato\nil romore, venti di quelli fanti rimasono addietro, e non poterono\nristrignersi co\u2019 compagni, e tornaronsi nell\u2019alpe, e camparono: e il\nconestabile con ottanta compagni sanza fare arresto, innanzi che i\nnimici il potessono occupare con la loro forza, sano e salvo co\u2019 suoi\ncompagni entr\u00f2 nella Scarperia; e cos\u00ec per virt\u00f9 di due conestabili\nfu fornito quello castello di quello che aveva maggiore bisogno. E per\nquesto soccorso gli assediati presono cuore e speranza ferma della loro\ndifesa; e tra capitani dell\u2019oste n\u2019ebbe ripitio e grande sospetto,\ntemendo che gli Ubaldini non gli avessono condotti, ma niuna colpa\nv\u2019ebbono. E soprastando alquanto allo infestamento de\u2019 nimici sopra\nquesto castello, ci occorre alcune altre materie a cui ci conviene dare\nluogo per debito del nostro trattato, e appresso ritorneremo con pi\u00f9\nonest\u00e0 alla presente materia.\nCAP. XXIV.\n_Come la reina Giovanna si fece scusare in corte di Roma._\nCome addietro abbiamo narrato, quando l\u2019accordo si fece dal re\nd\u2019Ungheria al re Luigi, ne\u2019 patti venne fatta la commissione nel\npapa e ne\u2019 cardinali per catuna parte: che se la reina Giovanna si\ntrovasse colpevole della morte d\u2019Andreasso suo marito, fratello del re\nd\u2019Ungheria, ch\u2019ella dovesse essere privata del reame, e dove colpevole\nnon si trovasse, dovesse essere reina. A questo patto acconsent\u00ec il\nre d\u2019Ungheria, pi\u00f9 per l\u2019animo che avea di tornare in suo paese, che\nper altra buona volont\u00e0 che di ci\u00f2 avesse, e per\u00f2 la commissione fu\navviluppata pi\u00f9 che ordinato o spedito libello, e non vedendo i pastori\ndella Chiesa come onestamente potessono diliberare questa cosa, la\ndilungarono. Essendo lungamente gli ambasciatori di catuna parte stati\nin corte senza alcuno frutto dell\u2019altre cose commesse per li detti re\nnella Chiesa, vedendo che questo articolo non terminandosi portava\ninfamia e pericolo alla reina, con ogni studio vollono che il suo\nprocesso si terminasse. E perocch\u00e8 assoluta verit\u00e0 del fatto non poteva\nscusare la regina, levare il luogo della dubbiosa fama proposono;\nche se alcuno sospetto di non perfetto amore matrimoniale si potesse\nproporre o provare, che ci\u00f2 non era avvenuto per corrotta intenzione o\nvolont\u00e0 della reina, ma per forza di mal\u00ede o fatture che le erano state\nfatte, alle quali la sua fragile natura femminile non avea saputo n\u00e8\npotuto riparare. E fatta prova per pi\u00f9 testimoni come ci\u00f2 era stato\nvero, avendo discreti e favorevoli uditori, fu giudicata innocente\ndi quello malificio, e assoluta d\u2019ogni cagione che di ci\u00f2 per alcun\ntempo le fosse apposto, o che per innanzi le si potesse apporre di\nquella cagione: e la detta sentenza fece divulgare per la sua innocenza\novunque la fede giunse della detta scusa.\nCAP. XXV.\n_Come i Genovesi e i Veneziani ricominciarono guerra in mare._\nSeguita di dar parte intra le italiane tempeste della terra a quelle\nche in que\u2019 tempi concepute ne\u2019 nostri mari Tirreno e Adriatico\nda superbe presunzioni di due comuni, in Grecia e poi nelli stremi\nd\u2019Europa partorirono gravi cose, come seguendo nostro trattato si potr\u00e0\ntrovare. I Genovesi infestati dalla loro alterezza, ricordandosi che\ni Veneziani l\u2019anno passato aveano soperchiato in mare le undici loro\ngalee, avvegnach\u00e8 per l\u2019aiuto de\u2019 loro di Pera si fossono felicemente\nvendicati, vollono per opera mostrare loro potenza a\u2019 Veneziani, e per\ncomune consiglio, essendo a quel tempo catuna casa de\u2019 loro maggiori\ncittadini tornata con pace in Genova, ordinarono di fare armata, la\nquale fosse fornita per pi\u00f9 eccellente modo che mai avessono armato.\nE comandarono a\u2019 grandi e a\u2019 popolani mercatanti, e agli artefici\nminori e ad ogni maniera di gente, che di due l\u2019uno s\u2019acconciassono ad\nandare in quell\u2019armata, e simigliante comandamento feciono fare per\ntutta la loro riviera, e certo la volont\u00e0 vinse il comandamento, che\npi\u00f9 volentieri s\u2019acconciavano d\u2019andare che di rimanere: i corpi delle\ngalee furono per numero sessantaquattro, e ammiraglio fu fatto messer\nPaganino Doria; i soprassaglienti furono sopra ogni galea doppi, armati\nnobilmente, e doppi i balestrieri e i galeotti, tutti forniti d\u2019arme,\ne tutti si vestirono per compagne chi d\u2019un\u2019assisa e chi d\u2019un\u2019altra, e\ncomandamento ebbono dal loro comune d\u2019abbattere la forza de\u2019 Veneziani\nin mare e in terra giusta loro podere: e fornite le galee di panatica\ne di ci\u00f2 ch\u2019aveano bisogno, e pagati per ordine di mercatanzia e\u2019\ndazii, senza trarre danari di comune, per sei mesi, del mese di\nluglio, gli anni di Cristo 1351, si partirono da Genova, ed entrarono\nnel golfo di Vinegia facendo danno assai a\u2019 navili e alle terre de\u2019\nVeneziani, e senza lungo soggiorno si partirono di l\u00e0 e andaronne\nall\u2019isola di Negroponte. I Veneziani non provveduti della subita armata\nde\u2019 Genovesi, aveano mandate venti loro galee armate in Romania, le\nquali erano nell\u2019Arcipelago, delle quali i Genovesi ebbono lingua, e\nseguitandole, le sopraggiunsono all\u2019isola di Scio: le quali vedendosi\ndi presso l\u2019armata de\u2019 Genovesi, con la paura aggiunsono forza a\u2019 remi,\ne avendo aiuto d\u2019alcuno vento alle loro vele, essendo seguitate da\u2019\nGenovesi, fuggendo le diciassette ricoverarono nel porto di Candia, e\nle tre presono alto mare per loro scampo.\nCAP. XXVI.\n_Come l\u2019armata genovese and\u00f2 a Negroponte e assedi\u00f2 Candia, e quello\nche ne segu\u00ec._\nL\u2019armata de\u2019 Genovesi seguendo quella de\u2019 Veneziani giunsono a\nNegroponte, ove i Veneziani con grande studio e paura erano arrivati, e\navendo da\u2019 terrazzani aiuto, appena aveano compiuto di tirare le loro\ndiciassette galee in terra, lasciando le poppe in mare per poterle\ndifendere, e in aringo l\u2019aveano messe l\u2019una a lato all\u2019altra a modo\ndi bertesca per poterle meglio di terra difendere, ove giunta l\u2019armata\nde\u2019 Genovesi, senza arresto l\u2019assalirono con aspra e folta battaglia, e\nprese l\u2019avrebbono, se non fosse che tutti gli uomini d\u2019arme di quella\nterra furono alla loro difesa, e a guardare la marina che i Genovesi\nnon potessono scendere in terra: e in quello assalto la feciono s\u00ec\nbene, che i Genovesi s\u2019avvidono per forza non poterle guadagnare n\u00e8\nscendere in terra nel porto: e per\u00f2 presono loro consiglio d\u2019assediare\nla citt\u00e0 di Candia per mare e per terra, e procacciare di Pera e\ndell\u2019altre parti di loro amici legni grossi, e gente e dificii di\nlegname per combattere e vincere la terra, se per loro virt\u00f9 e forza\nfortuna l\u2019assentisse. E allora lasciarono guardia delle loro galee\nsopra il porto, e con l\u2019altre girarono alquanto, e misono in terra loro\ncampo, attendendo gente e fornimenti che procacciavano per combattere\nla terra, e que\u2019 d\u2019entro s\u2019afforzavano alla difesa, e d\u00ec e notte\nintendeano a fare buona guardia, avendo mandato a\u2019 Veneziani per loro\nsoccorso.\nCAP. XXVII.\n_Come i Veneziani feciono lega co\u2019 Catalani, e di nuovo armarono\ncinquanta galee._\nStando l\u2019armata de\u2019 Genovesi per mare e per terra all\u2019assedio della\ncitt\u00e0 di Candia, il comune di Vinegia ebbe le novelle, ed essendo\ntanti loro grandi e buoni cittadini, e le loro galee e la loro\ncitt\u00e0 assediata, ebbono grande dolore, nondimeno con franco animo\ndeliberarono di fare ogni loro sforzo per soccorrerli: e ricercando\nla gente che allora poteano fare di loro distretto, non trovarono che\nbastasse a potere fornire loro armata, tanto era mancata per la passata\nmortalit\u00e0, e per\u00f2 elessono di loro cari cittadini solenni ambasciadori,\ni quali mandarono prima a Pisa, e appresso in Catalogna, per recarli a\nloro lega, e averli in loro aiuto, con ogni largo patto che volessono:\ne di ci\u00f2 diedono agli ambasciadori piena libert\u00e0 e bal\u00eca, con ispendio\ndi grande somma di moneta. I Pisani essendo in pace co\u2019 Genovesi,\navvegnach\u00e8 poco s\u2019amassono, per promesse o patto che fosse offerto\nloro non si vollono muovere contro a\u2019 Genovesi, ma alquanto pi\u00f9 che \u2019l\nconsueto s\u2019inamicarono con loro, ricevendo grazie da\u2019 Genovesi per la\nfede mantenuta a quel punto. I Catalani per grande odio che aveano a\u2019\nGenovesi, per ingiurie e danni ricevuti da loro in mare, di presente\ns\u2019allegarono co\u2019 Veneziani, e promisono di dare armate di loro uomini\nquelle galee che i Veneziani volessono, dando i Veneziani loro i corpi\ndelle galee e i debiti soldi a\u2019 Catalani. E ferma la lega, i Veneziani\nincontanente misono il banco, e cominciarono a scrivere e a soldare la\ngente, e mandarono a Venezia che vi mandassono i corpi delle galee e\u2019\ndanari, i quali senza indugio vi mandarono ventitr\u00e8 corpi di galee, e\ndanari assai, e fecionle armare di buona gente. I Veneziani a Venezia\nprestamente n\u2019armarono ventisette, e mentre che l\u2019armata si facea\nin Catalogna e a Venezia, i Veneziani mandarono una galea sottile\nbene armata a portare novelle del loro grande soccorso, e mandarono\nin quella danari per fare apparecchiare le galee ch\u2019erano l\u00e0, che di\npresente al tempo della venuta della loro armata fossono apparecchiate,\nsicch\u00e8 contra a\u2019 loro nimici fossono pi\u00f9 possenti. Questa galea per\nscontro di fortuna s\u2019abbatt\u00e8 in una galea di Genovesi, e combattendo\ninsieme, la veneziana fu vinta e presa in segno del futuro danno.\nI Genovesi ebbono i danari, e le lettere e l\u2019avviso dell\u2019armata de\u2019\nVeneziani e de\u2019 Catalani per potersi provvedere; il corpo della galea\naggiunsono alle loro, e gli uomini ritennono a prigioni, con gran festa\ndi questa avventura.\nCAP. XXVIII.\n_Come la imperatrice di Costantinopoli col figliuolo si fugg\u00ec in\nSalonicco._\nAvvenne che in questi medesimi tempi che l\u2019armata de\u2019 Genovesi era a\nNegroponte, che Mega Domestico del lignaggio imperiale, il quale si\nfaceva dire Cantacuzeno, cio\u00e8 imperadore, essendo rimaso balio del\nfigliuolo dell\u2019imperadore di Costantinopoli a cui succedea l\u2019imperio,\ngovernava tutto per lui, gli di\u00e8 la figliuola per moglie, ingannando\nla giovanezza del suo pupillo, senza consentimento della madre.\nL\u2019imperatrice sentendo quello che Mega Domestico avea fatto, prese\nsospetto, e fatto le fu vedere che \u2019l figliuolo sarebbe avvelenato,\nperch\u00e8 l\u2019imperio come era in guardia rimanesse libero al detto Mega,\nbalio dell\u2019imperio e del giovane, onde l\u2019imperadrice col figliuolo,\ndi furto e improvviso a Mega s\u2019erano fuggiti di Costantinopoli, e\nandati nel loro reame di Salonicco, ivi mostrando manifesto sospetto\ndel balio dell\u2019imperio, si dimorarono in grande guardia. E Mega\nDomestico, come \u00e8 detto, vedendosi rimaso nella forza dell\u2019imperio,\nsi fece dinominare imperadore: e senza fare guerra al giovane, si\nfortificava nell\u2019imperio, e aveasi confederato l\u2019amist\u00e0 de\u2019 Veneziani.\nL\u2019imperadrice avendo sentita l\u2019armata de\u2019 Genovesi a Negroponte,\nmossa da femminile furia e sprovveduto consiglio, mand\u00f2 a trattare\nco\u2019 Genovesi, in cui prendeva confidanza, perocch\u00e8 era figliuola\ndel conte di Savoia, assai presso di vicinanza a\u2019 Genovesi, e sapea\nch\u2019elli erano nimici de\u2019 Veneziani, amici di Mega Domestico suo\navversario; il trattato fu fermo co\u2019 Genovesi, e le promesse furono\ngrandi ove rimettessono il figliuolo in signoria dell\u2019imperio di\nCostantinopoli. I Genovesi per questo si pensarono di passare il verno\nalle spese del\u2019imperadrice, e abbattere molto della forza degli amici\nde\u2019 Veneziani, e d\u2019essere pi\u00f9 agresti e pi\u00f9 forti contro alla loro\narmata, e per\u00f2 si dispuosono a lasciar l\u2019assedio con loro onore, ove\npoco profittavano, e a prendere il servigio dell\u2019imperadrice. Lasceremo\nal presente questa materia per riprenderla al suo debito tempo, e\ntorneremo a\u2019 fatti di Firenze.\nCAP. XXIX.\n_Come la Scarperia sostenne la prima battaglia dal Biscione._\nTornando all\u2019assedio della Scarperia, il capitano dell\u2019oste col suo\nconsiglio vedendo che la Scarperia era fornita per la sua difesa di\nvalorosi masnadieri, e che dentro era bene fornita di vittuaglia,\ne sentendo che i Fiorentini non si curavano di loro, e continovo\naccresceva loro forza, ed essendo mancata la ferma de\u2019 loro soldati:\nper non partirsi con vergogna di non avere vinto per forza uno piccolo\ncastello, rifermarono i loro cavalieri, e avuti danari dall\u2019arcivescovo\ntutti gli pagarono, e promisono paga doppia e mese compiuto a coloro\nche combattendo vincessono la Scarperia. Il tempo era gi\u00e0 all\u2019entrata\nd\u2019ottobre, e la vittuaglia cominciava a rincarare, e questo pi\u00f9 gli\nspronava a volere vincere la punga. I dificii da combattere la terra\nerano apparecchiati, scale assai, e grilli e gatti e torri di legname,\nle quali aveano condotte presso al castello al tirare della balestra,\no poco pi\u00f9. E cos\u00ec apparecchiati, una domenica mattina, ordinati\ni combattitori, da pi\u00f9 parti con molti balestrieri assalirono il\ncastello, e conduceano i dificii e le scale alle mura con gran tempesta\ndi loro grida. Quelli del castello ordinati dentro alla difesa co\u2019 loro\ncapitani, si teneano coperti e cheti, e lasciarono valicare i nimici il\nprimo fosso e entrare nel secondo, che non v\u2019avea acqua, e accostare\nmolte scale alle mura innanzi che si movessono: allora dato il segno\nda\u2019 loro conestabili, con grande romore sollecitamente cominciarono\ndalle mura a percuotere sopra i nimici colle pietre, lance e pali, e\na traboccare loro legname addosso, e i balestrieri saettare da presso\ne da lungi senza perdere in vano i loro verrettoni. In questo primo\nassalto fediti e magagnati assai di quelli che s\u2019erano accostati\nalle mura e agli steccati per forza ne furono dilungati: nondimeno\ni capitani per straccare di fatica quelli delle mura, rimutavano\nspesso la loro gente dalla battaglia, rinfrescando gente nuova, e non\nlasciando prendere lena n\u00e8 riposo a que\u2019 delle mura e della guardia\ndegli steccati, ma i franchi masnadieri si difendeano virtudiosamente,\navendo in dispregio il riposo, e confortando l\u2019uno l\u2019altro per modo,\nche per forza n\u00e8 per rinfrescamento di loro battaglia, da innanzi terza\nall\u2019ora di nona, per molte riprese di battaglie non ebbono podere\nd\u2019accostarsi alle mura, n\u00e8 agli steccati ove le mura non erano. Nel\nprimo fosso condussono sessantaquattro scale, e nel secondo accosta\ndel muro tre, le quali abbandonarono, non potendo avanzare; e con poco\nonore di questa prima battaglia, e con alquanti morti rimasi nel fosso,\ne con molti fediti e magagnati, si ritrassono dalla battaglia, e que\u2019\nd\u2019entro intesono al riposo e a medicare i loro fediti, che ne aveano\ngran bisogno.\nCAP. XXX.\n_Come la Scarperia ripar\u00f2 alla cava de\u2019 nimici._\nNonostante l\u2019ordine delle battaglie, i conducitori dell\u2019oste con gran\ncosto e con molto studio conducevano una cava sotterra per abbattere\nle mura della Scarperia, e molto grande speranza aveano in quella di\nvincere la terra. Que\u2019 d\u2019entro pensando e temendo che cos\u00ec dovessono\nfare i loro avversari, provvidono al rimedio, e feciono un fosso dentro\nintorno alle mura, il quale era braccia quattro e mezzo largo in bocca,\ne braccia tre largo in fondo, e andava di sotto al fondamento delle\nmura braccio uno e mezzo, acciocch\u00e8 se le mura cadessono, si trovassono\nl\u2019aiuto del detto fosso alla loro difesa. E nondimeno provvidono di\ncavare di fuori de\u2019 fossi per ritrovare la cava de\u2019 nimici innanzi che\ngiugnesse alle mura. E a fornire questo misono grande sollecitudine,\nma i loro avversari adoperarono grande forza per ritrarli da quello\nlavorio: e condussono un castello di legname in sul primo fosso, s\u00ec\npresso, che con le pietre combatteano coloro ch\u2019erano tra l\u2019uno fosso\ne l\u2019altro alla guardia de\u2019 loro cavatori, e avvenne che a questa si\nrivolse grande parte dell\u2019oste, e tutta la forza di quelli d\u2019entro.\nQuelli di fuori combattendo con le pietre e con le balestre, e\nrinnovando d\u2019ora in ora i freschi combattitori, quelli del fosso colle\nfosse delle parate e co\u2019 palvesi francamente s\u2019atavano, con le loro\nbalestra e con quelle del loro aiuto dalle mura, e diputati a questa\npunga trecento di que\u2019 d\u2019entro, sostennono l\u2019assalto de\u2019 nimici il\nluned\u00ec e \u2019l marted\u00ec molto francamente, non lasciando impedire i loro\ncavatori: i quali lavorando con grande sollecitudine pervennero alla\ncava de\u2019 nimici, la quale era venuta innanzi centottanta braccia, e\npresso alle mura a venti braccia: la quale di presente affocarono, e\ncacciarono i cavatori, e guastarono loro la cava. Essendo da catuna\nparte molti fediti, que\u2019 del campo abbandonarono l\u2019assalto con loro\nvergogna; e i valenti masnadieri alla ritratta de\u2019 nimici presono e\narsono il castello del legname ch\u2019era sopra il fosso, e stesonsi ad\nassalire un altro ch\u2019era pi\u00f9 di lungi, e per forza l\u2019affocarono, e\ntornaronsi sani e salvi nel castello, avendo presa grande baldanza\ndella loro difesa, per la vittoriosa punga di quella cava.\nCAP. XXXI.\n_Del secondo assalto dato alla Scarperia._\nVedendo il capitano dell\u2019oste e il suo consiglio essere di ogni assalto\nfatto con vergogna ributtato da que\u2019 della Scarperia, e vedendosi\nvenire addosso il verno e non avere vinto il castello, e che lo strame\nmancava, pensavano che la partita sarebbe con loro grande vergogna:\nper\u00f2 vollono ancora da capo cercare la fortuna, innanzi che da quello\nassedio si partissono. E per avere apparecchiato da riempiere i\nfossi, feciono tutto il legname e\u2019 frascati che aveano ne\u2019 loro campi\nconducere presso a\u2019 fossi: e il gioved\u00ec mattina innanzi d\u00ec, essendo\nl\u2019oste armata, e le battaglie ordinate, e pi\u00f9 torri di legnami condotte\npresso a\u2019 fossi, con ordine di palvesari e di loro balestrieri, senza\ncontasto riempierono di frascati il primo fosso, e le torri condussono\nsopr\u2019esso fornite di molti balestrieri. I cavalieri smontarono de\u2019\ncavalli con gli elmi in testa, e cominciata la battaglia a un\u2019ora da\nogni parte, i cavalieri si sforzarono di conducere gatti, grilli e\nscale alle mura. Que\u2019 d\u2019entro che aveano preso maggiore ardire per gli\naltri assalti, lasciarono fare molte cose innanzi che alla battaglia\nsi scoprissono, ma ordinato da\u2019 loro conestabili, al segno dato si\nmostrarono alla difesa, e con tanto impeto cominciarono a caricare di\npietre, e di pali aguti e di legname i loro assalitori, con l\u2019aiuto\nde\u2019 loro buoni balestrieri, che per forza gli ributtarono addietro\ndel primo fosso. E avendo a quelli ch\u2019erano nelle torri ordinato\ndi loro i migliori balestrieri, gli strinsono per modo, che non si\npoteano scoprire, n\u00e8 dare a loro utile aiutorio. E in questo assalto\nalcuni conestabili d\u2019entro ebbono ardire con certi loro compagni\neletti d\u2019uscire fuori della terra, e con le lance e con le spade in\nmano fediano per costa i combattitori, e incontanente si ritraevano:\ne questo feciono pi\u00f9 volte danneggiando i nimici, e ritraendoli dalla\nbattaglia dov\u2019erano ordinati, senza ricevere impedimento. Ed essendo\ndurata la battaglia infino a nona, senza avere que\u2019 dell\u2019oste fatto\nalcuno acquisto, feciono sonare la ritratta. E di presente quei del\ncastello misono fuori de\u2019 loro masnadieri, i quali presono le torri\ne\u2019 dificii e arsonli, che i nimici aveano condotti, e dato opera\ninfino alla notte a mettere dentro il legname utile, tutto l\u2019altro co\u2019\nfrascati arsono nel fosso. E intesono a medicare i loro fediti, e a\nfarsi ad agio d\u2019alcuno riposo, del quale aveano gran bisogno per quella\ngiornata.\nCAP. XXXII.\n_Del terzo assalto dato._\nAvendo i capitani dell\u2019oste quasi perduta ogni speranza di potere\nvincere la Scarperia, vollono tentare l\u2019ultimo rimedio con danari e\ncon ingegno; e in quello rimanente del d\u00ec feciono venire a loro tutti\ni conestabili tedeschi con i pi\u00f9 nomati cavalieri di loro lingua, i\nquali nelle battaglie date al castello poco s\u2019erano travagliati altro\nche di vedere, e dissono loro: se a voi desse il cuore di vincere con\nforza e con ingegno questa terra, l\u2019onore sarebbe vostro, e oltre alla\npaga doppia e mese compiuto, a catuno daremo grandi doni. I conestabili\ne i loro baccellieri si strinsono insieme, e mossi da presuntuosa\nvanagloria e da avarizia, rispuosono: che dove e\u2019 fossono sicuri\nd\u2019avere di dono sopra le cose promesse fiorini diecimila d\u2019oro, che\ndarebbono presa la Scarperia: e questo dava loro il cuore di fornire\ncon l\u2019aiuto dell\u2019altra oste, ove fosse fatto quello che direbbono\nin quella notte. I capitani promisono tutto senza indugio, sicch\u00e8\nrimasono contenti, e di presente feciono fare comandamento a tutti\ni conestabili delle masnade da cavallo e da pi\u00e8, che col\u00e0 da mezza\nnotte fossono apparecchiati dell\u2019arme e de\u2019 cavalli; e fatto questo,\nandarono a cenare e a prendere alcuno riposo. Venuta la mezza notte,\ne armata l\u2019oste chetamente, il tempo era sereno e bello, e la luna\nfaceva ombra in quella parte della Scarperia che i Tedeschi aveano\npensato d\u2019assalire: e fatto tra loro elezione di trecento baccellieri,\na loro commisono tutto il fascio della loro intenzione; i quali bene\narmati, separati dall\u2019altra gente, con le scale a ci\u00f2 diputate e con\naltri utili argomenti, senza alcuno lume, s\u2019addirizzarono verso quella\nparte della terra ove l\u2019ombra gli copriva. Tutta l\u2019altra oste con\ninnumerabili luminarie, e con ismisurato romore e suoni di tutti gli\nstromenti dell\u2019oste, colle schiere fatte e colle battaglie ordinate\nsi cominciarono a dirizzare dall\u2019altre parti verso la Scarperia. I\nfanti della Scarperia, che appena aveano ancora dell\u2019affanno del d\u00ec\npreso alcuno riposo, sentendo lo stormo, e vedendo l\u2019esercito venire\ncon ordine di loro battaglie a combattere la terra, cacciata la paura\ne invilito il riposo, di presente furono all\u2019arme: e con l\u2019ardire\ndelle loro difese apparecchiati, and\u00f2 catuno alla sua guardia delle\nmura e de\u2019 palancati; e stando cheti e senza mostrare i loro lumi\nattesono tanto, che le schiere e le battaglie s\u2019appressarono alle mura,\ne cominciato fu l\u2019assalto con suoni di tanti stromenti e con grida\nd\u2019uomini, che riempieva il cielo e tutto il paese molto di lungi.\nQuest\u2019asprezza delle grida era maggiore che dell\u2019arme, per attrarre\nl\u2019aiuto da quella parte di que\u2019 d\u2019entro, e mancarlo ov\u2019era l\u2019aguato.\nQuelli della terra maestri di cotali cose delle grida non si curavano,\ne quelli che si appressavano, francamente colla balestra e colle pietre\ngli faceano risentire e allungare, e niuno non si partiva o mosse dalla\nsua guardia. I trecento baccellieri riposti presso della terra sentendo\nil romore e l\u2019infestamento di quelli dell\u2019oste, chetamente colle scale\nin collo passarono il primo e il secondo fosso, che non v\u2019avea acqua,\ne condussono e dirizzarono alle mura pi\u00f9 e pi\u00f9 scale, vedendolo e\nsentendolo que\u2019 della terra ch\u2019erano a quella guardia, e lasciandogli\nfare, finch\u00e8 cominciarono a salire sopra esse, e aveano gi\u00e0 i loro\naiutori a piede; allora quelli della guardia cominciarono a gridare,\ne a mandare sopra loro grandi pietre e legname e pali, percotendoli e\nfacendoli traboccare delle scale nel fosso l\u2019uno sopra l\u2019altro. E in\nun punto gli ebbono s\u00ec storditi e fediti e magagnati, che in caccia si\npartirono da quello assalto, e tornaronsi all\u2019altra oste. Dall\u2019altra\nparte fu maggiore il grido che l\u2019assalto, ma per li buoni balestrieri\nmolti ve ne furono fediti in quella notte. E facendosi d\u00ec, in sulla\nritratta uscirono della terra un fiotto di buoni briganti, e dieronsi\ntra\u2019 nimici, e per forza ne presono e ne menarono tre di loro cavalieri\nnella Scarperia, e gli altri ritornarono al campo perduta ogni speranza\nd\u2019avere la Scarperia. Que\u2019 di dentro uscirono fuori un\u2019altra volta\nquella mattina, e arsono pi\u00f9 dificii di legname ch\u2019erano presso, e uno\ncastello ch\u2019era pi\u00f9 di lungi, e contamente senza impedimento sani e\nsalvi si ritornarono nella Scarperia.\nCAP. XXXIII.\n_La partita dell\u2019oste dalla Scarperia._\nVedendo il capitano dell\u2019oste e i suoi consiglieri aver fatta la loro\noste ogni prova per vincere la Scarperia, ed esserne con vergogna\nributtati per la virt\u00f9 de\u2019 buoni masnadieri che dentro v\u2019erano, e\ntornando l\u2019oste piena di molti fediti, e che la vittuaglia venia\nmancando l\u2019un d\u00ec appresso l\u2019altro fortemente, e che gi\u00e0 lo strame per i\ncavalli al tutto venia loro meno, e il tempo ch\u2019era stato fermo e bello\nlungamente s\u2019apparecchiava di corrompere all\u2019acqua, prese per partito\nd\u2019andarsene a Bologna; e al segno dato d\u2019una lumiera alzata sopra\nogni lume molto, il sabato notte, a d\u00ec 16 d\u2019ottobre, l\u2019oste si dovesse\npartire, e ogni uomo si dovesse riducere verso l\u2019alpe di Bologna, i cui\npassi erano tutti in loro signoria, e il cammino era corto e il passo\naperto, e la gente volonterosa di levarsi da campo, per la qual cosa\nsubito ebbono passato il giogo dell\u2019alpe. I Fiorentini avendo sentito\nche i nimici erano per partirsi dall\u2019assedio, aveano mandati in Mugello\ni cavalieri che aveano per danneggiarli, se potessono, alla levata:\nma gli avvisati capitani dell\u2019oste la domenica mattina innanzi che la\nloro gente s\u2019avviasse feciono una schiera di duemila buoni cavalieri,\ni quali tennero ferma in sul piano, insino che seppono che tutta la\nloro gente e la salmeria erano valicati il giogo e passati in luogo\nsalvo; la schiera della guardia pass\u00f2, non vedendo apparire alcuno\nnimico, gir\u00f2 e prese il suo cammino verso la montata dell\u2019alpe, ch\u2019era\npresso a due miglia di piano: ed ebbono passato prima il giogo, che\nla cavalleria de\u2019 Fiorentini si assicurasse di stendere per lo piano,\ntemendo d\u2019aguato: e cos\u00ec sani e salvi si ricolsono a Bologna senza\nimpedimento per lo senno de\u2019 loro capitani. Quest\u2019oste mossa con tanto\nordine e aiuto di tutti i ghibellini d\u2019Italia, venuta di subito sopra\nla nostra citt\u00e0 sprovveduta d\u2019ogni aiuto, stette ottantadue d\u00ec sopra\nil nostro contado senza potere vincere per forza niuno castello, e de\u2019\nquali, sessantuno d\u00ec consumarono all\u2019assedio del piccolo castello della\nScarperia. E come fu piacer di Dio, la sfrenata potenza di cotanto\nsignore, aggiunta con tutta la forza de\u2019 ghibellini d\u2019Italia, guidata\nda buoni capitani, credendosi soggiogare la citt\u00e0 di Firenze e\u2019 popoli\ncircustanti, non ebbono podere di vincere la Scarperia, da qui addietro\nvilissimo castello, non murato per tutto e di piccola fortezza per\nsito, ma difeso da piccolo numero di valorosi masnadieri: essendovi\na oste con pi\u00f9 di cinquemila barbute, e duemila cavalieri, e seimila\npedoni di soldo, senza la forza degli Ubaldini e degli altri ghibellini\ncon loro sforzo; per la qual cosa il tiranno che avea l\u2019animo levato a\ninghiottire le italiane provincie, pot\u00e8 conoscere che un piccolo e vile\ncastello dom\u00f2 e fece ricredente tutta la sua forza. E come era venuto\na guisa di leone con la testa alzata, spaventevole a tutte le citt\u00e0\ndi Toscana, chinate le corna dell\u2019ambiziosa superbia, torn\u00f2 pieno di\nvergogna e di vituperio, non avendo per sua potenza potuto acquistare\nun debole castello, e diede materia a\u2019 popoli di grande confidenza\ndella loro difesa. Lasceremo ora finita questa materia, e torneremo\nall\u2019altre tempeste italiane, che non bastando in terra conturbano\nl\u2019altrui mare.\nCAP. XXXIV.\n_Come l\u2019armata de\u2019 Genovesi si part\u00ec da Negroponte e and\u00f2 a Salonicco._\nIn questo tempo cominciando aspro e fortunoso verno, i Genovesi che con\nla loro armata di sessantaquattro galee erano stati all\u2019assedio della\ncitt\u00e0 di Candia nell\u2019isola di Negroponte, sentendo l\u2019apparecchiamento\ndelle cinquanta galee de\u2019 Veneziani e de\u2019 Catalani che doveano venire\ncontro a loro al soccorso; e vedendo che lo stare ivi per speranza\nd\u2019avere la terra era invano, e non minor danno a loro che a\u2019 Veneziani,\ne avendo promesso il loro aiuto all\u2019imperadrice di Costantinopoli,\nch\u2019era fuggita col figliuolo nel reame di Salonicco, parendo per\nquesta cagione la loro levata dall\u2019assedio fosse con meno vergogna,\ned entrando nell\u2019imperio aveano pi\u00f9 sicuro vernare, si partirono di\nl\u00e0 e dirizzarono loro viaggio verso Salonicco; e giunti a Malvagia,\nintendeano levare l\u2019imperadrice e \u2019l figliuolo, e fare loro podere di\nrimetterli in Costantinopoli con la loro forza e della parte che amava\nil loro vero signore. L\u2019imperadrice sentendo l\u2019armata di presso, come\nfemmina mutevole, non avendo piena confidenza del figliuolo, cominci\u00f2 a\nsospettare: e il giovane medesimo non avendo avuto pi\u00f9 maturo consiglio\nall\u2019impresa, convenendo la sua persona mettere nelle mani dell\u2019altrui\nforza, dubit\u00f2, e non lo volle fare, e forse fu pi\u00f9 da biasimare il\ncominciamento della folle impresa che \u2019l cambiamento del femminile e\ngiovanile animo, i quali non si vollono abbandonare alla non provata\nfede de\u2019 Genovesi; per la qual cosa l\u2019ammiraglio col suo consiglio\npresono sdegno, e rivolta la loro armata, desiderosi di rapina e\ndi preda, vennero all\u2019isola di Tenedo, piena di gente e d\u2019avere,\nsottoposta all\u2019imperio, i quali de\u2019 Genovesi non prendeano alcuna\nguardia, ed elli la presono e rubarono d\u2019ogni sustanza. E quivi feciono\ndimoro gran parte del verno prendendo rinfrescamento, e ragunando la\npreda di quella e dell\u2019altre terre di Grecia, della quale data a catuno\nla parte sua, si trovarono pieni di roba e di danari, sicch\u00e8 a loro non\nfece bisogno altro soldo, e la loro vita tutta ebbero per niente delle\nruberie del paese. E ivi stettono fino al Natale senza mutare porto.\nCAP. XXXV.\n_Come i Veneziani e\u2019 Catalani s\u2019accozzarono in Romania con l\u2019altra\narmata._\nI Veneziani, come addietro abbiamo narrato, avendo fatta compagnia e\nlega co\u2019 Catalani contro a\u2019 Genovesi, armarono in Venezia ventisette\ngalee molto nobilmente, ove si ricolsono quasi tutti i maggiori e\nmigliori cittadini di Venezia per governatori e soprassaglienti,\nforniti a doppio di ci\u00f2 che a guerra faccia mestiero, e ventitr\u00e8 galee\narmarono i Catalani. E tanto bolliva negli animi loro lo infocamento\ndell\u2019izza ch\u2019aveano presa contro a\u2019 loro avversari genovesi, che\nnel tempo che l\u2019armate sogliono abbandonare il mare e vernare in\nterra, si mossono da Venezia e di Catalogna, domando le tempeste\ndel mare, ad andare contro a\u2019 loro nimici in Romania. Del mese di\nnovembre s\u2019accozzarono insieme in Cicilia, e di l\u00e0 senza soggiorno\nsi dirizzarono verso l\u2019Arcipelago, e con grandi e aspre fortune,\navendo per quelle perdute sette galee veneziane e due catalane, non\nsenza danno della loro gente, pervennero in Turchia, e posono alla\nPalatia e a Altoloco; e ivi, del mese di dicembre del detto anno,\navendo raccolte le galee che aveano a Negroponte e nelle contrade si\ntrovarono con settanta galee: e in Turchia stettono gran parte del\npi\u00f9 fortunoso verno per rivedere i loro legni e avere novelle di loro\nnimici. In questo travalicamento del tempo delle due armate ci occorre\na raccontare altre cose rimase addietro, e in prima una pazzia di\ncorrotta mente dell\u2019ambizione umana, la quale alcuna volta combattendo,\ncontro al suo prospero e buono stato abbatte e rovina se medesimo con\ndebito e degno traboccamento.\nCAP. XXXVI.\n_Come i Brandagli si vollono fare signori d\u2019Arezzo._\nDappoich\u2019e\u2019 Bostoli per loro superbia furono cacciati della terra\nd\u2019Arezzo, una famiglia che si chiamarono i Brandagli, loro nimici,\ncominciarono di nuovo ad avere stato in comune, e montando l\u2019un d\u00ec\nappresso all\u2019altro vennono in maggiori, ed erano al tutto governatori\ndel reggimento di quello comune, e per questo montati in grandi\nricchezze: e della loro famiglia Martino e Guido di Messer Brandaglia\nerano i caporali. Costoro ingrati del loro buono stato cercarono di\nfarsene signori con tradimento, non perch\u00e8 fossono da tanto, ma per\nfarne loro mercatanzia, come nel fine del fatto si scoperse. Costoro\ntrattarono col nuovo tiranno d\u2019Agobbio d\u2019avere da lui al tempo ordinato\ncentocinquanta cavalieri, e da quello di Cortona dugento cavalieri, non\nche da se gli avesse, ma per servire costoro n\u2019accatt\u00f2 centocinquanta\ndal prefetto da Vico, e cinquanta dal conte Nolfo da Urbino, e\nfeceli venire e soggiornare all\u2019Orsaia, come gente di passaggio che\nattendessono d\u2019essere condotti e oltre a questa gente a cavallo, di\nquello che non era richiesto, mise in ordine d\u2019avere apparecchiati\nundicimila fanti a piede, con intenzione, che se fortuna il mettesse in\nArezzo di volerlo per se. E ancora richiese messer Piero Tarlati, che\naveva in Bibbiena il doge Rinaldo con trecento cavalieri, bench\u00e8 fosse\nghibellino e nimico del loro comune richieselo non manifestandogli\nil fatto. Ma la volpe vecchia che conobbe la magagna, si offerse loro\nmolto liberamente, sperando altro fine del fatto che non pensavano i\ntraditori, accecati nella cupidigia della sperata tirannia. A conducere\nquesta gente aveano fuori d\u2019Arezzo Brandaglia loro nipote, e Guido\nintendeva a raccogliere i masnadieri che gli capitavano segretamente,\ne a nasconderli ne\u2019 loro palagi, e Martino stava nel palagio co\u2019\npriori della terra a tutti i segreti del comune. In quel tempo si\ndava in guardia a confidenti cittadini una porta della citt\u00e0 che si\nchiamava la porta di messer Alberto, la quale era a modo d\u2019un cassero,\ne dava l\u2019entrata tra le due castella. Questa guardia per procaccio\ndi Brandaglia era ne\u2019 figliuoli di messer Agnolo loro confidenti, con\ncui elli si teneano in questo tradimento. E messe le cose d\u2019ogni parte\nin assetto, a\u2019 signori d\u2019Arezzo fu scritto per lo comune di Firenze\ne per quello di Siena ch\u2019avessono buona guardia, perocch\u00e8 sentivano\nche una terra si cercava di furare, ma non sapeano come n\u00e8 quale;\nMartino Brandagli ch\u2019era nel consiglio, co\u2019 suoi argomenti levava i\nsospetti. E venuto il d\u00ec che la notte si dava il segno a que\u2019 di fuora,\nun conestabile fiorentino ch\u2019era in Arezzo, uomo guelfo e fedele, fu\nrichiesto da\u2019 Brandagli per la notte. Costui per amore della sua citt\u00e0\ne di parte non pot\u00e8 sostenere per promesse che avesse avute che non\nmanifestasse a\u2019 priori il tradimento di quella notte. Incontanente\ni priori mandarono per Martino, il quale confidandosi nel suo grande\nstato e ne\u2019 molti amici, and\u00f2 dinanzi a\u2019 priori, e negava scusandosi\nche niente sapeva di quelle cose; e in quello stante Guido suo fratello\ncorse a\u2019 loro palagi, e colla gente che avea nascosa lev\u00f2 il romore, e\ntennesi co\u2019 suoi masnadieri forte. I cittadini in furia armati corsono\nalla porta di messer Alberto, che poteva dare l\u2019entrata a\u2019 forestieri,\nper fornire di guardia per lo comune, ma trovarono ch\u2019ella si tenea\nper i traditori. E cos\u00ec la citt\u00e0 intrigata nel nuovo pericolo, e non\nprovveduta, fu in grande paura. La porta era forte e bene guernita alla\ndifesa da non poter vincersi per battaglia, e gi\u00e0 era venuta la notte,\ne quei della torre della porta d\u2019entro feciono i cenni ordinati alla\ngente di fuori, che venire doveano a loro aiuto per vincere la terra.\nCAP. XXXVII.\n_Di quello medesimo._\nI cittadini vedendo i cenni, temendo di non essere sorpresi dall\u2019aiuto\nprovveduto da\u2019 traditori, tempestando nell\u2019animo, intrigati dalle\ntenebre della notte e dalla paura, intendendo a combattere quei\ndella porta e mettere gente in su le mura, ma per questo non poteano\nconoscere riparo che i forestieri non entrassono per forza nella\ncitt\u00e0, e per\u00f2 s\u2019avvisarono di rompere le mura della citt\u00e0 appresso a\nquella porta: e fattane la rotta che vollono, avendo per loro guardia\ncento cavalieri di Fiorentini e alcuni di loro, li misono fuori in uno\nborgo fuori di quella porta, ove dovea essere l\u2019entrata de\u2019 nemici,\ne accompagnaronli di cittadini e d\u2019altri fanti alla difesa con buone\nbalestra; e di subito tagliarono alberi, e abbarrarono e impedirono\nle vie al corso de\u2019 cavalli, e le mura guarentirono di gente e di\nsaettamento: e nondimeno facevano dal lato d\u2019entro combattere di\ncontinovo quelli della porta e della torre, ma e\u2019 si difendevano, e\ndi quella battaglia poco si curavano, e continovo manteneano cenni a\nloro soccorso: e dentro i Brandagli difendeano i loro palazzi e la loro\ncontrada co\u2019 masnadieri che aveano accolti, e attendendo Brandaglia\ncon la gente invitata, con la quale non dottavano d\u2019essere signori\ndella terra s\u2019ella v\u2019entrasse. I segni della torre furono veduti dal\nprincipio della notte, e il signore di Cortona che stava attento fu\nin sul mattutino con dugento cavalieri e duemila pedoni giunto ad\nArezzo, e Brandaglia con altri dugento cavalieri. La gente di messer\nPiero Saccone tard\u00f2 pi\u00f9 a venire, per riotta che mosse il doge Rinaldo\nin sul fatto; gli altri ch\u2019erano venuti baldanzosi, credendosi senza\ncontasto entrare nella citt\u00e0, come furono presso alla terra, mandarono\ninnanzi cento cavalieri che prendessono e guardassono l\u2019entrata della\nporta, e quella trovarono imbarrata dagli alberi e le vie innanzi al\nborgo: ed essendo l\u00e0 venuti, e saettati da quelli ch\u2019erano alla guardia\ndel borgo, e scorgendo in su l\u2019aurora le mura piene di cittadini\narmati alla difesa, e gi\u00e0 morti due di loro compagni da quei del\nborgo, si tornarono addietro, e feciono assapere a quelli dell\u2019oste\nche attendeano come stava il fatto: di che spaventati s\u2019arrestarono\nsenza strignersi pi\u00f9 alla terra, e gi\u00e0 per segni e ammattamento che\nque\u2019 della torre e della porta facessono, e eziandio chiamandoli ad\nalte voci, non si attentarono di venire pi\u00f9 innanzi, ma ivi presso si\nfermarono attendendo come i fatti dentro procedessono, e cos\u00ec stettono\nschierati dalla mattina sino presso a nona. E in verso la nona messer\nPiero Sacconi giunse co\u2019 suoi cavalieri e pedoni, il quale sentendo\nla cosa scoperta e i cittadini alla difesa, senza attendere punto co\u2019\nsuoi cavalieri di\u00e8 volta e co\u2019 suoi pedoni, e tornossene a Bibbiena;\ne veduto questo, tutti gli altri si partirono, e i traditori rimasono\nsenza speranza di soccorso. Questa novit\u00e0 sentita nel contado e\ndistretto de\u2019 Fiorentini, mosse senza arresto i cavalieri e\u2019 masnadieri\nche allora avea in quelle circustanze, e i Valdarnesi per venire al\nsoccorso degli Aretini: i quali non bene confidenti del comune di\nFirenze parte ne ritennono per loro sicurt\u00e0, e agli altri diedono\ncommiato onestamente, senza riceverli nella citt\u00e0, e dolcemente fu\nsostenuto. Nondimeno i traditori teneano i palagi, e la torre e la\nporta: e tanta miseria occup\u00f2 l\u2019animo di que\u2019 pochi cittadini in cui\nera rimaso il reggimento, per tema di non volere fare parte agli altri\nda cui e\u2019 potessono avere aiuto, che si misono a trattare con Martino\ncui eglino aveano prigione, dicendo di lasciare andare e lui e\u2019 suoi,\ne i figliuoli di messer Agnolo e le loro cose liberamente, ed e\u2019\nrendessono la porta. E innanzi che questo venisse alla loro intenzione,\nconvenne che i figliuoli di messer Agnolo fossono sicuri a loro modo\nd\u2019avere contanti fiorini tremila d\u2019oro, e avuta la sicurt\u00e0 renderono la\nporta e la torre al comune; e facendosi loro il pagamento per coloro\nche aveano fatta la promessa, i danari furono staggiti per coloro che\naveano per loro sodo al comune, che eglino renderebbono quella fortezza\nal detto comune: e cos\u00ec s\u2019uscirono della citt\u00e0 co\u2019 Brandagli insieme;\ne il seguente d\u00ec furono tutti condannati per traditori, e i loro beni\ndisfatti e pubblicati al comune. Trovossi poi di vero, che i traditori\naveano trattato come avessono presa la signoria, con ci\u00f2 sia cosa che\nnon erano d\u2019aiuto per loro lignaggio da poterla tenere, di venderla\nall\u2019arcivescovo di Milano, a gravamento della loro detestabile malizia,\nla quale prese non il debito fine, ma alcuno segno della loro rovina,\nper la vilt\u00e0 di coloro che non degni rimasono al governamento di quella\nterra.\nCAP. XXXVIII.\n_Come il re Luigi mand\u00f2 il gran siniscalco ad accogliere gente in\nRomagna._\nTanto imbrigamento di guerra sboglientava gli animi degl\u2019Italiani per\nterra e per mare in questi tempi, che volendo cercare delle novit\u00e0\ndegli strani, non ci lasciano da loro partire. Il re Luigi valicata\nla tregua dal re d\u2019Ungheria a lui, non ostante che rimesso avessono\nle loro questioni al giudicio del papa e de\u2019 cardinali, tentava con\npreghiere e impromesse di recare dalla sua parte fra Moriale, friere\ndi san Giovanni, il quale teneva Aversa e Capua dal re di Ungheria,\ne questo fra Moriale, astuto e malizioso, mostrava di voler piacere\nal re Luigi; e dandogli speranza, cominci\u00f2 ad allargare il passo\nalla gente del re e a\u2019 paesani d\u2019Aversa e di Capua, sicch\u00e8 andavano\ne venivano sicuramente, e non faceva guerra, ma nondimeno guardava\nle citt\u00e0 e le fortezze di quelle, e per questo corse la voce che la\nconcordia era fatta: ma per\u00f2 il re di lui, o egli del re si fidava.\nMa in questo tranquillo, il re mand\u00f2 il grande siniscalco nella Marca\nad accogliere gente d\u2019arme, il quale con grandi promesse mosse messer\nGaleotto da Rimini a venire al servigio del re con trecento cavalieri,\ne messer Ridolfo da Camerino con cento, a tutte loro spese, e \u2019l grande\nsiniscalco messer Niccola Acciaiuoli di Firenze ne condusse e men\u00f2\nquattrocento al soldo del re, e con tutta questa cavalleria entr\u00f2 in\nAbruzzi. E mand\u00f2 al re, che con la sua forza e con quella de\u2019 baroni\ndel Regno, i quali il re avea richiesti e ragunati a Napoli, venisse\nl\u00e0, come era ordinato, per vincere messer Currado Lupo, e racquistare\nle terre d\u2019Abruzzi che di l\u00e0 si teneano per lo re d\u2019Ungheria.\nCAP. XXXIX.\n_Come il re Luigi accolse i baroni del Regno e and\u00f2 in Abruzzi._\nIl re Luigi sentendo come il gran siniscalco avea con seco in Abruzzi\nque\u2019 due buoni capitani con ottocento cavalieri di buona gente, fu\nmolto contento, e avendo presa sicurt\u00e0 che fra Moriale per la concordia\nch\u2019aveano non moverebbe guerra in Terra di Lavoro, si mosse da Napoli\nper mare, e capit\u00f2 incontanente a Castello a mare del Volturno, e\ntutta sua gente a pi\u00e8 e a cavallo fece andare per terra da Pozzuolo\ne per lo Gualdo al detto Castello a mare, non fidando la gente sua\nper gli stretti passi d\u2019Aversa e di Capua ch\u2019erano in guardia di\nfra Moriale: e seguendo di l\u00e0 loro cammino, del mese d\u2019ottobre del\ndetto anno s\u2019accozz\u00f2 in Abruzzi con la cavalleria accolta per lo gran\nsiniscalco: e fatta fare la mostra, si trov\u00f2 con undicimila cavalieri\ne con grande popolo. Messer Currado Lupo avendo sentito l\u2019oste che\ngli veniva addosso, e non avendo gente da potere uscire a campo, mise\nguardia nelle terre che teneva in Abruzzi e ordinolle alla difesa, e\ncon cinquecento cavalieri tedeschi bene montati e buoni dell\u2019arme si\nmise in Lanciano. Il re poco provveduto di quello che a mantenere oste\nbisognava, e povero di moneta, volendo usare l\u2019aiuto degli amici che\nquivi avea si mise a oste a Lanciano; e dopo non molti d\u00ec, cavalcando\nmesser Galeotto co\u2019 suoi cavalieri intorno alla terra, messer Currado\nLupo usc\u00ec fuori con parte de\u2019 suoi cavalieri e percosse i nimici, e\ndanneggi\u00f2 molto la masnada di messer Galeotto, e innanzi che dall\u2019altra\noste fosse soccorso si ritrasse in Lanciano a salvamento. Per questa\ncagione spaventato l\u2019oste, considerando l\u2019ardimento preso per li\ncavalieri di messer Currado, e che la terra di Lanciano era forte\ne bene guernita, e il verno veniva loro addosso, per lo migliore\npresono consiglio e levaronsi dall\u2019assedio: e stando in dubbio di\nquello dovessono fare pi\u00f9 d\u00ec, a messer Galeotto e a messer Ridolfo,\nnon vedendo di poter fare utile servigio al re, rincrebbe lo stallo,\npresono congi\u00f2 dal re e tornaronsi nella Marca, e i baroni del Regno\nfeciono il simigliante. Il re con la sua gente invilito e quasi\ndisperato avendo animo di volere entrare nell\u2019Aquila, gli fu detto non\nse ne mettesse a pruova, perocch\u00e8 non vi sarebbe lasciato entrare, e\nscoprirebbe nimico messer Lallo che gli si mostrava fedele; e cos\u00ec\nrimaso il re pieno di sdegno e voto di forza e d\u2019avere, si torn\u00f2 a\nSulmona a mezzo dicembre del detto anno, e ivi s\u2019arrest\u00f2 per trarre\nda\u2019 paesani alcuno sussidio, e per fare in quella terra la festa del\nNatale.\nCAP. XL.\n_Come il re Luigi sostenne gli Aquilani che pasquavano con lui._\nVedendosi il re Luigi rotto da\u2019 suoi intendimenti, e abbandonato\ndel servigio degli amici, trovandosi a Sulmona povero, si ristrinse\nnell\u2019animo, e diede opera di volere fare in Sulmona gran festa per lo\nNatale, e fece a quella invitare quei gentiluomini e baroni circostanti\nche pot\u00e8 avere. I Sulmontini il providono di moneta e d\u2019altri doni\nper aiuto alla festa. Ciascuno si sforz\u00f2 di comparire bene a quella\nfesta, e intra gli altri principali fu invitato messer Lallo, il\nquale governava il reggimento dell\u2019Aquila, e conoscendo la sua coperta\ntirannia si dubit\u00f2 d\u2019andare al re, e infinsesi d\u2019essere malato, e sotto\nquesta scusa ricus\u00f2 l\u2019andare alla festa. Per fare pi\u00f9 accetta la sua\nscusa al re elesse quindici de\u2019 maggiori cittadini d\u2019Aquila col suo\nfratello carnale, i quali portarono al re per dono da parte del comune\ndell\u2019Aquila fiorini quattromila d\u2019oro, e costoro mand\u00f2 a festeggiare\ncol re: e giunti a Sulmona furono ricevuti dal re graziosamente,\nnonostante che si turbasse perch\u00e8 messer Lallo non v\u2019era venuto. E\nfatto il corredo reale con piena festa, i cittadini dell\u2019Aquila volendo\nprendere licenza dal re per tornare a casa furono ritenuti prigioni,\ndella qual cosa il re fu forte biasimato di mal consiglio, parendo\na tutti pi\u00f9 opera tirannesca che reale. La novella corse in Aquila:\nil tiranno molto savio e buono parlatore raccolse il popolo, e con\nargomenti di sua savia diceria infiamm\u00f2 il popolo all\u2019ingiuria, e\nmosselo all\u2019arme e corse la terra, e ordin\u00f2 la guardia come se il re\ncon l\u2019oste vi dovesse venire, ma il re non era atto a poterlo fare, e\nper\u00f2 si rimase, e messer Lallo pi\u00f9 s\u2019afforz\u00f2 nella signoria.\nCAP. XLI.\n_Come papa Clemente sesto fe\u2019 la pace de\u2019 due re._\nStando il re Luigi in Sulmona maninconoso e quasi in disperazione di\nsuo stato, considerando come in tutte cose la fortuna gli era avversa,\ne come con abbassamento di suo onore gli avea fatte fare cose non\nreali, ma di vile e mendace tiranno, e vedendosi povero e mal ubbidito,\nnon sapeva che si fare, e parevagli per la baldanza presa pe\u2019 suoi\navversari ch\u2019elli dovessono ristrignerlo o cacciare del Regno, e de\u2019\nsuoi fatti da corte non avea potuto avere alcuna speranza o novella che\nbuona fosse. Il papa Clemente in questo tempo era stato in una grande e\ngrave malattia, nella quale rimorso da coscienza di non avere capitato\nil fatto tra i due re che gli era commesso, e di questo sostenere era\nseguito danno e confusione di molti, propuose nell\u2019animo come fosse\nguarito di capitare quella questione senza indugio, e come fu sollevato\nmise opera al fatto; e per pi\u00f9 acconcio di quello reame, vedendo che\nil re d\u2019Ungheria avea l\u2019animo al suo reame, ed era appagato della\nvendetta fatta del suo fratello, deliber\u00f2, poich\u00e8 avea deliberato la\nreina, che messer Luigi fosse re: e questo pubblic\u00f2 co\u2019 suoi cardinali,\ne poi il mise a esecuzione, come appresso nel suo tempo racconteremo.\nLa novella venne improvviso al re Luigi a Sulmona, della qual cosa\nfu molto allegro: e confortato nel fondo della sua fortuna da questa\nprosperit\u00e0, di presente conobbe il suo esaltamento per opera, che i\nbaroni e\u2019 comuni il cominciarono ad onorare e a vicitare con doni e\ngrandi profferte come a loro signore: e tornato a Napoli con grandi\nonori, stette in festa pi\u00f9 d\u00ec tutta la terra delle buone novelle.\nLasceremo al presente alquanto de\u2019 fatti del Regno sollecitandoci le\nnovit\u00e0 di Toscana, delle quali prima ci conviene fare memoria, per non\ntravalicare il debito tempo della nostra materia.\nCAP. XLII.\n_Come messer Piero Saccone prese il Borgo a san Sepolcro._\nAvendo messer Piero Saccone de\u2019 Tarlati a Bibbiena il conte Pallavicino\ncon quattrocento cavalieri dell\u2019arcivescovo di Milano, e cento di suo\nsforzo per fare guerra, e standosi e non facendola, faceva maravigliare\nla gente, ma egli nel soggiorno lavorava copertamente quello che\nprosperamente gli venne fatto. Il Borgo a san Sepolcro, terra forte e\npiena di popolo e di ricchi cittadini, e fornita copiosamente d\u2019ogni\nbene da vivere, era nella guardia de\u2019 Perugini con due casseri forniti\nalla guardia de\u2019 castellani perugini e di gente d\u2019arme. Messer Piero\naveva appo se uno suo fedele che aveva nome Arrighetto di san Polo,\nquesti era grande e maraviglioso ladro, e facea grandi e belli furti\ndi bestiame, traendo i buoi delle tenute murate e guardate, e rompeva\ntanto chetamente le mura, che niuno il sentiva, e di quelle pietre\nrimurava le porti a\u2019 villani di fuori s\u00ec contamente, che prima aveva\ndilungate le turme de\u2019 buoi, e tratte per lo rotto del muro due o tre\nmiglia, che i villani trovandosi murate le porti, e impacciati dalle\ntenebre della notte e dalla novit\u00e0 del fatto, le potessono soccorrere;\ncos\u00ec n\u2019avea fatte molte beffe, e accusatone di furto, messer Piero il\ndifendea, e davagli ricetto in tutta sua giurisdizione. Questi saliva\nsu per li cauti delle mura e delle torri co\u2019 suoi lievi argomenti\nincredibilmente, e quanto che fossono alte non se ne curava, ed era\ndell\u2019altezza maraviglioso avvisatore. Per costui fece messer Piero\nfurare la forte e alta torre del castello di Chiusi alla moglie\nche fu di messer Tarlato. A costui scoperse messer Piero come volea\nfurare il Borgo a Sansepolcro, e mandollo a provvedere l\u2019altezza della\ntorre della porta: il quale tornato disse, che gli dava il cuore di\nmontare in su la pi\u00f9 alta torre che vi fosse; e avuta messer Piero\nquesta risposta, s\u2019intese con uno de\u2019 Boccognani del Borgo e grande\nghibellino, il quale odiava la signoria de\u2019 Perugini, e da lui ebbe,\nche se la porta e la torre fosse presa, e di fuori fosse forza di\ngente a cavallo e a pi\u00e8 grande, ch\u2019egli con gli altri ghibellini\nd\u2019entro verrebbono in loro aiuto a metterli dentro. E dato l\u2019ordine\ntra loro, messer Piero con cinquecento cavalieri e duemila pedoni un\nsabato notte, a d\u00ec 20 del mese di novembre del detto anno, improvviso\na\u2019 Borghigiani, innanzi il d\u00ec fu presso al Borgo; e mandato Arrighetto\ncon certi masnadieri eletti in sua compagnia a prendere la torre\ne la porta, il detto Arrighetto con suoi incredibili argomenti in\nquello servigio, cintosi corde, e aiutato di non esser sentito per\nuno grande vento che allora soffiava, e avea ristrette le guardie\nsotto il coperto, mont\u00f2 in su la torre della porta, ed essendovi due\nsole guardie, si rec\u00f2 il coltello ignudo in mano, e mostr\u00f2 d\u2019avere\ncompagnia, minacciandoli d\u2019uccidere. Eglino storditi per la novit\u00e0,\nnon sapendo che si fare, stettono cheti per paura, e Arrighetto data\nla corda a\u2019 masnadieri ch\u2019erano a pi\u00e8 del muro, con una scala leggieri\ndi funi tir\u00f2 su l\u2019uno de\u2019 capi e accomandollo a uno de\u2019 merli, e\nincontanente montati suso per quella l\u2019uno appresso l\u2019altro dodici\nmasnadieri, e quando si vidono signori della porta, feciono a quelli\ntraditori d\u2019entro certo segno ordinato. Quello de\u2019 Boccognani veduto il\nsegno come la porta era presa, fece sonare a stormo una campana d\u2019una\nchiesa, al cui suono, come ordinato avea, tutti i ghibellini del Borgo\nfurono all\u2019arme e traevano verso la porta. I guelfi che non sapeano il\ntradimento traevano storditi alla piazza senza niuno capo; e schiarito\nil d\u00ec, vedendo aperta e presa la porta per i ghibellini, e sentendo\ncome messer Piero era di fuori con molta gente, non vedevano da potere\nriparare; ma i ghibellini non volendo guastare la terra sicurarono i\nguelfi che ruberia non vi si farebbe, e senza contasto vi lasciarono\nentrare messer Piero con tutta la sua gente e del conte Pallavicino,\ne non vi si di\u00e8 colpo e non vi si fece alcuna ruberia: e cos\u00ec messer\nPiero ne fu signore; ma le due rocche che erano forti e guardate\nper li Perugini si misono alla difesa, per attendere il soccorso de\u2019\nPerugini. Messer Piero e il conte senza prendere soggiorno con tutta\nla sua gente a cavallo e a pi\u00e8 uscirono del Borgo, e accamparonsi\ndi fuori dirimpetto alle rocche per torre la via a\u2019 Perugini, e\nfecionsi innanzi al loro campo fare un fosso di subito e uno steccato,\ne mandarono a tutte le terre dov\u2019avea gente d\u2019arme del signore di\nMilano che mandassero loro aiuto, e in pochi d\u00ec vi si trovarono\ncon ottocento cavalieri e popolo assai. E per impedire a\u2019 Perugini,\nGiovanni di Cantuccio d\u2019Agobbio con la cavalleria che avea del Biscione\ncavalc\u00f2 sopra loro: nondimeno i Perugini turbati di questa perdita,\nprocacciarono da ogni parte aiuto per racquistare la terra, tenendosi\ni casseri, e di presente ebbono cinquecento cavalieri da\u2019 Fiorentini: e\ncon millequattrocento cavalieri e con grande popolo se ne vennono alla\nCitt\u00e0 di Castello: e acconciandosi per soccorrere quelli de\u2019 casseri,\ntanta vilt\u00e0 fu in coloro che gli aveano in guardia, che senza attendere\nil soccorso cos\u00ec vicino s\u2019arrenderono a messer Piero; e incontanente\nquelli del castello d\u2019Anghiari cacciarono la guardia che v\u2019era de\u2019\nPerugini, e dieronsi al vicario dell\u2019arcivescovo, ed egli lo rend\u00e8 a\nmesser Maso de\u2019 Tarlati. In que\u2019 d\u00ec il castello della Pieve a santo\nStefano, e \u2019l Castello perugino, tenendosi mal contenti de\u2019 Perugini,\nanche si rubellarono da loro.\nCAP. XLIII.\n_Come i Perugini arsono intorno al Borgo e sconfissono de\u2019 nimici._\nI Perugini avendo perduta la speranza di soccorrere le rocche,\ncavalcarono al Borgo, e arsonlo intorno guastando tutte le possessioni,\ne gi\u00e0 messer Piero e \u2019l conte Pallavicino non ebbono ardire d\u2019uscire\ndella terra contro a loro: e fatto il guasto, si tornarono alla Citt\u00e0\ndi Castello. Messer Piero preso suo tempo, con tutta la cavalleria\nch\u2019avea nel Borgo cavalc\u00f2 fino alle porti della Citt\u00e0 di Castello: i\ncavalieri che v\u2019erano dentro de\u2019 Perugini, e singolarmente quelli de\u2019\nFiorentini, ch\u2019erano buona gente d\u2019arme e bene montati, uscirono fuori\nperch\u00e8 i nimici aveano a fare lunga ritratta, e seguitando i nimici\nquasi a mezzo il cammino, s\u2019abbatterono in un grosso aguato: e ivi\ncominci\u00f2 l\u2019assalto aspro e forte, ove s\u2019accolse la maggiore parte della\ngente di catuna parte senza fanti a piede; e ivi dando e ricevendo\nsi fece aspra battaglia, e dur\u00f2 lungamente, perocch\u00e8 catuno voleva\nmantenere l\u2019onore del campo; e non avendo pedoni che l\u2019impedissono,\nfeciono i buoni cavalieri grande punga, e in fine per virt\u00f9 di certi\nconestabili della masnada de\u2019 Fiorentini, ristringendosi insieme, con\nimpetuoso assalto ruppono la cavalleria di messer Piero, e a forza in\nisconfitta gli cacciarono del campo, e rimasono morti sessanta de\u2019 loro\ncavalieri in sul campo e pi\u00f9 cavalli, e presi sei de\u2019 loro conestabili\nda\u2019 cavalieri de\u2019 Fiorentini, e messer Manfredi de\u2019 Pazzi di Valdarno,\ne pi\u00f9 altri cavalieri tedeschi e borgognoni, a\u2019 quali tolsono l\u2019arme e\u2019\ncavalli secondo l\u2019usanza, e lasciaronli alla fede: e questo fu del mese\ndi dicembre del detto anno.\nCAP. XLIV.\n_D\u2019una cometa ch\u2019apparve in oriente._\nIn questo anno 1351, del detto mese di dicembre, si vide in prima in\ncielo a noi verso levante una cometa, la quale per li pi\u00f9 fu giudicata\nNigra, la quale \u00e8 di natura saturnina. Il suo apparimento fu a noi\nall\u2019uscita del segno del Cancro, e alcuni dissono ch\u2019ella entr\u00f2 nel\nLeone: ma innanzi che per noi si vedesse fuori del Cancro, fu fuori del\nverno, sicch\u00e8 approssimandosi il Sole al Cancro se ne perd\u00e8 la vista.\nAlcuni pronosticarono morte di grandi signori, ovvero per decollazione,\ne avvenimento di signorie. Noi stemmo quell\u2019anno a vedere le novit\u00e0 che\npi\u00f9 singolari e grandi apparissono onde avere potessimo novelle, e in\nItalia e nel patriarcato d\u2019Aquilea furono molte dicollazioni di grandi\nterrieri e cittadini, che lungo sarebbe a riducere qui i singulari\ntagliamenti. E mortalit\u00e0 di comune morte in questo anno non avvenne: ma\nper la guerra de\u2019 Genovesi, e Veneziani e Catalani avvennono naufragii\ngrandi, e mortalit\u00e0 di ferro grandissima in quelle genti e ne\u2019 loro\nseguaci, e per i difetti sostenuti in mare non meno ne morirono\ntornando che combattendo. Avvenne in Italia singolare accidente al\ngrano, vino e olio e frutti degli alberi, che essendo ogni cosa in\nsperanza di grande ubert\u00e0, subitamente del mese di luglio si mosse una\nsformata tempesta di vento, che tutti gli alberi pericol\u00f2 de\u2019 loro\nfrutti, e i grani e le biade ch\u2019erano mature batt\u00e8 e mise per terra\ncon smisurato danno. Dappoi a pochi d\u00ec fu il caldo s\u00ec disordinato, che\ntutte le biade verdi inarid\u00ec e secc\u00f2. Per questo accidente avvenne,\nche dove s\u2019aspettava ricolta fertile e ubertosa, fu generalmente per\ntutta Italia arida e cattiva. E avvennono in questi anni singulari\ndiluvi d\u2019acque, che feciono in molte parti gran danni, e gitt\u00f2 per\ntutta Italia generale carestia di pane e sformata di vino. In questo\nmedesimo mese di dicembre apparve la mattina anzi giorno, a d\u00ec 17, un\ngrande bordone di fuoco, il quale corse di verso tramontana in mezzod\u00ec.\nE in questo medesimo anno all\u2019entrare di dicembre mor\u00ec papa Clemente\nsesto, e alcuno de\u2019 cardinali. Al nostro lieve intendimento basta di\nquesti segni del cielo e delle cose occorse averne raccontato parte,\nlasciando agli astrolaghi l\u2019influenza di quello che s\u2019appartiene alla\nloro scienza, e noi ritorneremo alla pi\u00f9 rozza materia.\nCAP. XLV.\n_Come fu preso il castello della Badia de\u2019 Perugini, e come si\nracquist\u00f2._\nEssendo i Perugini imbrigati nelle rubellioni delle loro terre per\ngli assalti de\u2019 loro vicini, con la forza dell\u2019arcivescovo di Milano,\nla quale di prima, come addietro narrammo, nel tempo che si cerc\u00f2\ndi fare lega con la Chiesa e co\u2019 Lombardi, dicevano che non si potea\nstendere a loro, due conestabili di fanti a pi\u00e8 cittadini sbanditi di\nFirenze, partendosi dal soldo del tiranno d\u2019Agobbio co\u2019 loro compagni,\ndi furto entrarono nel castello della Badia, grosso castello, il quale\nera de\u2019 Perugini, e cominciarono a correre e predare le villate vicine\ncon l\u2019aiuto di Giovanni di Cantuccio signore d\u2019Agobbio. I Perugini vi\nmandaro certe masnade di cavalieri che aveano di Fiorentini e altra\ngente a pi\u00e8: costoro vi si puosono a oste del mese di gennaio. Giovanni\ndi Cantuccio con la cavalleria ch\u2019avea dell\u2019arcivescovo di Milano\ne co\u2019 suoi fanti a pi\u00e8, essendo tre cotanti di cavalieri e di fanti\nche quelli de\u2019 Perugini, andarono per levarli da campo e fornire il\ncastello. Un conestabile tedesco delle masnade de\u2019 Fiorentini valente\ncavaliere, ch\u2019avea nome M... si fece incontro a\u2019 nimici a un ponte onde\nconveniva ch\u2019e\u2019 nimici venissono, e francamente li ritenne, tanto che\nl\u2019altra cavalleria de\u2019 Perugini ch\u2019era alla Citt\u00e0 di Castello venne\nal soccorso del passo: e giunti, valicarono il ponte, e per forza\ncacciarono l\u2019oste di Giovanni di Cantuccio in rotta, e presono cento e\npi\u00f9 de\u2019 cavalieri del Biscione: e tornati al castello, i masnadieri che\n\u2019l teneano, vedendosi fuori di speranza di avere soccorso, il renderono\na\u2019 Perugini, salvo le persone e l\u2019arme, a d\u00ec 6 del detto mese di\ngennaio.\nCAP. XLVI.\n_Come i Fiorentini cercarono lega co\u2019 comuni di Toscana, e accrebbono\nloro entrata._\nTemendo il comune di Firenze la gran potenza del signore di Milano,\nfornito della compagnia de\u2019 ghibellini d\u2019Italia, con suoi ambasciadori\nsmosse i Perugini Sanesi e Aretini a parlamento alla citt\u00e0 di Siena,\ndel mese di dicembre del detto anno, e ivi composono lega e compagnia\ndi tremila cavalieri e di mille masnadieri, contra qualunque volesse\nfare guerra a\u2019 detti comuni o ad alcuno di quelli; e incontanente il\ncomune di Firenze si forn\u00ec di cavalieri e di masnadieri di pi\u00f9 assai\nche in parte della lega non li toccava. E per avere l\u2019entrata ordinata\na mantenere la spesa elessono venti cittadini, con bal\u00eca a crescere\nl\u2019entrata e le rendite del comune, i quali commutarono il disutile\ne dannoso servigio de\u2019 contadini personale in danari, compensandoli\nche pagassono per servigio di cinque pedoni per centinaio del loro\nestimo per rinnovata dell\u2019anno, a soldi dieci il d\u00ec per fante: e\nquesto pagassono in tre paghe l\u2019anno, e fossono liberi dell\u2019antico\nservigio personale: o quando per necessit\u00e0 occorresse il bisogno del\nservigio personale, scontassono di questo. E questa entrata secondo\nl\u2019estimo nuovo mont\u00f2 l\u2019anno cinquantaduemila fiorini d\u2019oro, e fu grande\ncontentamento de\u2019 condannati. E a\u2019 cherici ordinarono certa taglia\nper aiuto e guardia e alla difesa della citt\u00e0 e del contado, la quale\nstribuirono e raccolsono i loro prelati, e mont\u00f2 fiorini ... d\u2019oro; e\nraddoppiarono e crebbono pi\u00f9 gabelle, per le quali entrate il comune\npot\u00e8 spendere l\u2019anno trecentosessantamila fiorini d\u2019oro. E oltre a ci\u00f2\nordinarono e distribuirono tra\u2019 cittadini la gabella de\u2019 fumanti, la\nquale nel fatto fu per modo di sega, che catuno capo di famiglia fu\ntassato in certi danari il d\u00ec per modo, che raccogliendosi il numero\nmontava fiorini d\u2019oro centoquaranta il d\u00ec: poi per ogni danaro che\nl\u2019uomo avea di sega, fu recato in estimo di soldi trenta; e questa\ngabella montava l\u2019anno fiorini cinquantamila d\u2019oro: e quando il comune\naveva necessit\u00e0, riscoteva questa gabella per avere i danari presti,\ne assegnavali alla restituzione di certe gabelle. Per queste sformate\ngravezze, avendo carestia generale delle cose da vivere, era la citt\u00e0\ne il contado in assai disagio, forse meritevolmente per la dissoluta\nvita, e\u2019 disordinati e non leciti guadagni de\u2019 suoi cittadini.\nCAP. XLVII.\n_Come i Romani feciono rettore del popolo._\nIn questo anno essendo per lo corso stato a Roma del general\nperdono arricchito il popolo, i loro principi e gli altri gentilotti\ncominciarono a ricettare i malandrini nelle loro tenute, che facevano\nassai di male, rubando, e uccidendo, e conturbando tutto il paese.\nSenatore fu fatto Giordano dal Monte degli Orsini, il quale reggeva\nl\u2019uficio con poco contentamento de\u2019 Romani. E per questa cagione gli\nfu mossa guerra a un suo castello, per la quale abbandon\u00f2 il senato.\nIl vicario del papa ch\u2019era in Roma, messer Ponzo di Perotto vescovo\nd\u2019Orvieto, uomo di grande autorit\u00e0, vedendo abbandonato il senato,\ncon la famiglia che aveva, in nome del papa entr\u00f2 in Campidoglio per\nguardare, tanto che la Chiesa provvedesse di senatore. Iacopo Savelli\ndella parte di quelli della Colonna accolse gente d\u2019arme, e per forza\nentr\u00f2 in Campidoglio e trassene il vicario del papa, e Stefano della\nColonna occup\u00f2 la torre del conte, e la citt\u00e0 rimase senza governatore,\ne catuno facea male a suo senno perocch\u00e8 non v\u2019era luogo di giustizia.\nE per questo il popolo era in male stato, la citt\u00e0 dentro piena di\nmalfattori, e fuori per tutto si rubava. I forestieri e i romei erano\nin terra di Roma come le pecore tra\u2019 lupi: ogni cosa in rapina e in\npreda. A\u2019 buoni uomini del popolo pareva stare male, ma l\u2019uno s\u2019era\naccomandato all\u2019una parte, e l\u2019altro all\u2019altra di loro maggiori, e per\u00f2\ni pensieri di mettervi consiglio erano prima rotti che cominciati:\ne la cosa procedeva di male in peggio di d\u00ec in d\u00ec. Ultimamente non\ntrovando altro modo come a consiglio il popolo si potesse radunare,\nil d\u00ec dopo la nativit\u00e0 di Cristo, per consuetudine d\u2019una compagnia\ndegli accomandati di Madonna santa Maria, s\u2019accolsono avvisatamente\nmolti buoni popolani in santa Maria Maggiore, e ivi consigliarono di\nvolere avere capo di popolo: e di concordia in quello stante elessono\nGiovanni Cerroni antico popolare de\u2019 Cerroni di Roma, uomo pieno d\u2019et\u00e0,\ne famoso di buona vita. E cos\u00ec fatto, tutti insieme uscirono della\nchiesa e andarono per lui, e smosso parte del popolo, il menarono\nal Campidoglio ov\u2019era Luca Savelli. Il quale vedendo questo subito\nmovimento non ebbe ardire di contastare il popolo, ma dimand\u00f2 di loro\nvolere: ed e\u2019 dissono che voleano Campidoglio, il quale liberamente\ndi\u00e8 loro; ed entrati dentro sonarono la campana: il popolo trasse al\nCampidoglio d\u2019ogni parte della citt\u00e0 senza arme, e i principi con le\nloro famiglie armati, ed essendo l\u00e0, domandarono la cagione di questo\nmovimento e quello che \u2019l popolo volea: il popolo d\u2019una voce risposono\nche voleano Giovanni Cerroni per rettore, con piena bal\u00eda di reggere\ne governare in giustizia il popolo e comune di Roma. E consentendo\ni principi all\u2019ordinazione del popolo, di comune volont\u00e0 fu fatto\nrettore; e mandato per lo vicario del papa che lo confermasse, come\nsavio e discreto volle che prima giurasse la fede a santa Chiesa, e\nd\u2019ubbidire i comandamenti del papa, e ricevuto di volont\u00e0 del popolo\nil saramento dal rettore, il conferm\u00f2 per quell\u2019autorit\u00e0 che aveva: e\ntutto fu fatto in quella mattina di santo Stefano, innanzi ch\u2019e\u2019 Romani\nandassono a desinare. E lasciato il rettore in Campidoglio, catuno si\ntorn\u00f2 a casa con assai allegrezza di quello ch\u2019era loro venuto fatto\ncos\u00ec prosperamente.\nCAP. XLVIII.\n_Di una lettera fu trovata in concistoro di papa._\nEssendo per lo papa e per i cardinali molto tratto innanzi il processo\ncontro al\u2019arcivescovo di Milano, una lettera fu trovata in concistoro,\nla quale non si pot\u00e8 sapere chi la vi recasse, ma uno de\u2019 cardinali\nla si lasci\u00f2 cadere avvisatamente in occulto: la lettera venne alle\nmani del papa, e la fece leggere in concistoro. La lettera era d\u2019alto\ndittato, simulata da parte del principe delle tenebre al suo vicario\npapa Clemente e a\u2019 suoi consiglieri cardinali: ricordando i privati e\ncomuni peccati di catuno, ne\u2019 quali li commendava altamente nel suo\ncospetto, e confortavali in quelle operazioni, acciocch\u00e8 pienamente\nmeritassono la grazia del suo regno: avvilendo e vituperando la vita\npovera e la dottrina apostolica, la quale come suoi fedeli vicari\neglino aveano in odio e ripugnavano, ma non ferventemente ne\u2019 loro\nammaestramenti come nell\u2019opere, per la qual cosa li riprendeva e\nammoniva che se ne correggessono, acciocch\u00e8 li ponesse per loro\nmerito in maggiore stato nel suo regno. La lettera tocc\u00f2 molto e bene\ni vizi de\u2019 nostri pastori di santa Chiesa, e per questo molte copie\nse ne sparsono tra\u2019 cristiani. Per molti fu tenuto fosse operazione\ndell\u2019arcivescovo di Milano allora ribello di santa Chiesa, potentissimo\ntiranno, acciocch\u00e8 manifestati i vizi de\u2019 pastori si dovessono pi\u00f9\ntollerare i suoi difetti, manifesti a tutti i cristiani. Ma il papa\ne i cardinali poco se ne curarono, come per innanzi l\u2019operazioni si\ndimostreranno.\nCAP. XLIX.\n_Come il re d\u2019Inghilterra essendo in tregua col re di Francia acquist\u00f2\nla contea di Guinisi._\nAvvenne in questo anno, che un Inghilese prigione nella forte rocca\ndi Guinisi, la quale era del re di Francia, essendo per ricomperarsi,\navea larghezza d\u2019andare per la rocca, e cos\u00ec andando, provvide l\u2019ordine\ndelle guardie e l\u2019altezza d\u2019alcuna parte della rocca ond\u2019ella si\npotesse furare. E pagati i danari della sua taglia, fu lasciato; e\ntrovatosi con alquanti sergenti d\u2019arme, suoi confidenti, disse ove\npotesse avere il loro aiuto gli farebbe ricchi. E presa fede da loro\nmanifest\u00f2 come intendea furare la rocca di Guinisi, e avea provveduto\ncome fare il poteva, i quali arditi e volonterosi di guadagnare\npromisono il servigio: ed essendo tra tutti cinquanta sergenti bene\narmati, avendo scale fatte alla misura del primo procinto, una notte in\nsu l\u2019ora che l\u2019Inghilese sapea che la guardia della mastra fortezza vi\nsi rinchiudea dentro, condotte le scale al muro chetamente montarono\nsopra il primo procinto: e sorprese le guardie, per non lasciarsi\nuccidere si lasciarono legare, e cos\u00ec legati gli faceano rispondere\nall\u2019altre guardie della rocca. Quando venne in sul fare del d\u00ec\ngl\u2019Inghilesi feciono alle guardie muovere riotta, e fare romore tra\nloro in modo di mischia. Il castellano sentendo questo tra le guardie,\nmostrando non avere sospetto scese della rocca, e aprendo l\u2019uscio per\nvenire a correggere le guardie, gl\u2019Inghilesi apparecchiati nell\u2019aguato,\nimmantinente con l\u2019armi ignude in mano furono sopra lui, e presono\nl\u2019uscio ed entrarono nella rocca, e presono il castello e le guardie.\nE incontanente mandarono al re d\u2019Inghilterra come aveano presa la\nforte rocca di Guinisi, la quale il re molto desiderava. E di presente\nvi mand\u00f2 gente d\u2019arme e fecela prendere e guardare, e commendata\nla valenza e l\u2019industria del suo fedele e degli altri scudieri fece\nloro onore e provvidegli magnificamente. E per questa rocca fu il re\nd\u2019Inghilterra in tutto signore della contea di Guinisi, e il re di\nFrancia forte conturbato. E avvegnach\u00e8 questa presura andasse per la\nforma che \u00e8 detto, e\u2019 si trov\u00f2 poi che il castellano avea consentito\nal tradimento, e tornato di prigione, essendo lasciato, in Francia fu\nsquartato.\nCAP. L.\n_Il piato fu in corte tra\u2019 due re per la contea di Guinisi._\nEssendo furata la contea di Guinisi al re di Francia sotto la\nconfidanza delle triegue, trasse in giudicio il re d\u2019Inghilterra a\ncorte di Roma per suoi ambasciadori, dicendo che sotto la fede delle\ntriegue prestata il re d\u2019Inghilterra gli avea tolto per furto la rocca,\ne la contea occupata per forza. Per la parte del re d\u2019Inghilterra fu\nrisposto, che avendo per suo prigione il conte di Guinisi conestabile\ndi Francia preso in battaglia, e dovendosi riscattare per lo patto\nfatto della sua taglia scudi ottantamila d\u2019oro, o in luogo di danari\nla detta contea di Guinisi, e lasciato alla fede acciocch\u00e8 procacciare\npotesse la moneta, il re di Francia appellandolo traditore, per non\naverlo a ricomperare, o acconsentirgli la contea di Guinisi il fece\ndicollare: e cos\u00ec contro a giustizia priv\u00f2 il re d\u2019Inghilterra delle\nsue ragioni, le quali giustamente avea racquistate. La quistione fu\ngrande in concistoro, e pendeva la causa in favore del re di Francia,\ne per\u00f2 innanzi che sentenza se ne desse, il re fece restituire la terra\ndi Guinisi a quell\u2019Inghilese che data glie l\u2019avea; e seguendo la morte\ndi papa Clemente non ne segu\u00ec altra sentenza.\nCAP. LI.\n_Come l\u2019arcivescovo di Milano ragun\u00f2 i suoi soldati per rifare guerra\na\u2019 Fiorentini._\nIn questo tempo del verno, avendo l\u2019arcivescovo di Milano fatte\nrivedere e rassegnare le sue masnade tornate da Firenze, trov\u00f2 ch\u2019aveva\na fare ammenda di bene milledugento cavalli. E turbato forte nel suo\nfurore, propose di fare al primo tempo maggiore e pi\u00f9 aspra guerra\na\u2019 Fiorentini. E trovando che avea consumato senza acquisto grande\ntesoro, volendolo rifare senza mancare la sua generale entrata, fece\nnuova colta in Milano e in tutte le sue terre per s\u00ec grave modo, che\ntutti i mercatanti si ritrassono delle loro mercatanzie nelle sue\nterre: nondimeno a catuno convenne portare la soma che gli fu imposta;\nper la quale gravezza accrebbe cinquecento migliaia di fiorini d\u2019oro\nsopra le sue rendite ordinarie in piccolo tempo. In queste oppressioni\nmolti parlavano biasimando l\u2019impresa contro al comune di Firenze, e\nrimproveravano quello che avea fatto loro il vile castelletto della\nScarperia per provvisione del comune di Firenze, essendovi intorno la\nforza de\u2019 Lombardi e de\u2019 ghibellini di Toscana. E in tra gli altri\nun cavaliere bresciano di grande et\u00e0, amico e fedele alla casa de\u2019\nVisconti, biasim\u00f2 l\u2019impresa, dicendo semplicemente il vero, come\naveva ricordo di lungo tempo, che qualunque signore avea impreso\ndi far guerra al comune di Firenze n\u2019era mal capitato, per\u00f2 per\namore che aveva al suo signore non lodava l\u2019impresa. Le parole del\ncavaliere furono rapportate all\u2019arcivescovo; il tiranno inacerbito,\nnon considerando la fede dell\u2019antico cavaliere, seguitando l\u2019impetuoso\nfurore del suo animo, mand\u00f2 per lui. E venuto nella sua presenza, il\ndomand\u00f2 s\u2019egli aveva usate quelle parole. Il cavaliere disse, che dette\nl\u2019avea per grande amore e fede ch\u2019avea alla sua signoria, ricordandosi\ndell\u2019imperadore Arrigo, e dell\u2019impresa di messer Cane della Scala e\ndegli altri che non erano bene capitati. Il tiranno infiammato nel\nsuo disordinato appetito, di presente fece armare un suo conestibile\ncon la sua masnada, e accomandogli il cavaliere, e disse il rimenasse\nin Brescia, e in su l\u2019uscio della sua casa gli facesse tagliare la\ntesta, e cos\u00ec fu fatto. Costui per la sua fede degno di premio e per\nl\u2019utile consiglio ricevette pena, la quale soddisfece colla sua testa\nall\u2019appetito del turbato tiranno.\nCAP. LII.\n_Come i Fiorentini, e\u2019 Perugini, e\u2019 Sanesi mandarono ambasciadori a\ncorte._\nStando le citt\u00e0 di Toscana in gran tema di futura guerra, i comuni\ndella lega di parte guelfa mandarono al papa e a\u2019 cardinali solenne\nambasciata, a inducere la Chiesa contro alla grande tirannia\ndell\u2019arcivescovo di Milano per aggravare il processo che contro a lui\nsi faceva, e procurare l\u2019aiuto e il favore di santa Chiesa alla loro\ndifesa. Gli ambasciadori furono ricevuti dal papa e da\u2019 cardinali\ngraziosamente. Ma innanzi che questi ambasciadori fossono a corte,\nl\u2019arcivescovo v\u2019avea mandati i suoi, per riconciliarsi colla Chiesa, e\nfare annullare il processo fatto contro a lui per l\u2019impresa di Bologna,\ni quali ambasciadori erano forniti di molti danari contanti per\nspendere e donare largamente; e facendolo con molta larghezza aveano\nil favore del re di Francia, che faceva parlare per lui, e quello di\nmolti cardinali, e de\u2019 parenti del papa e della contessa di Torenna,\nper cui il papa si movea molto alle gran cose. E il papa medesimo avea\ngi\u00e0 l\u2019ingiuria fatta a santa Chiesa per l\u2019arcivescovo della tolta di\nBologna temperata, ed era disposto a prendere accordo coll\u2019arcivescovo:\ne per questo fu molto pi\u00f9 contento della venuta degli ambasciadori\nde\u2019 tre comuni di Toscana, credendo fare l\u2019accordo dell\u2019arcivescovo di\nloro volont\u00e0; perocch\u00e8 nel primo parlamento disse agli ambasciadori:\neleggete delle tre cose che io vi proporr\u00f2 l\u2019una, quale pi\u00f9 vi piace, o\nvolete pace coll\u2019arcivescovo, o volete lega colla Chiesa, o volete la\nvenuta dell\u2019imperadore in Italia per vostra difesa. L\u2019offerte furono\nlarghe per conchiudere alla pace che parea pi\u00f9 abile e migliore. Gli\nambasciadori savi e discreti di concordia rimisono la detta elezione\nnel papa, a fine di farlo pi\u00f9 pensare nel fatto dandoli gravezza,\ndimostrando grande confidanza nella deliberazione. E cos\u00ec cominciata\nla cosa a praticare ebbono tempo e cagione gli ambasciadori d\u2019avvisare\ni loro comuni, e in questo si soggiorn\u00f2 la maggior parte del verno\nsenza uscirne alcun frutto. Lasceremo alquanto gli ambasciadori e \u2019l\nprocesso del papa, e torneremo agli altri fatti che occorsono in questo\nsoggiorno, rendendo a catuno suo diritto.\nCAP. LIII.\n_Come l\u2019ammiraglio di Damasco fece novit\u00e0 a\u2019 cristiani._\nIn questo tempo l\u2019ammiraglio del soldano che reggeva la gran citt\u00e0 di\nDamasco si pens\u00f2 di trarre un gran tesoro da\u2019 cristiani di Damasco per\nsua malizia, e una notte fece segretamente mettere fuoco in due parti\ndella citt\u00e0, il quale fece in Damasco grave danno. Spento il fuoco,\nl\u2019ammiraglio fece apporre che questo era stato avvistatamente messo\npe\u2019 cristiani, e richiese i pi\u00f9 ricchi cristiani della citt\u00e0, che ve\nn\u2019avea assai, e feceli martoriare, e per martorio confessarono che\nfatto l\u2019aveano a fine di cacciare i saracini: e coloro che di questo\npericolo vollono campare la vita gli dierono danari assai; e tanti\nfurono coloro che si ricomperarono, che l\u2019ammiraglio ne trasse gran\ntesoro: agli altri diede partito o che rinnegassono la fede di Cristo\no che morissono in croce. Una gran parte di loro per corrotta fede\nrinneg\u00f2 per campare; rimasonne ventidue, i quali diliberarono di morire\nin croce, innanzi che la perfetta fede di Cristo volessono rinnegare. E\nper\u00f2 il crudele ammiraglio li fece mettere in sulle croci, e ordinolli\nin suso i cammelli che li conducessono per la terra, e in questo\ntormento vivettono tre d\u00ec. Ed era menato il padre crocifisso innanzi\nal figliuolo, e il figliuolo innanzi al padre rinnegato; e i rinnegati\ncon pianto e con preghiere pregavano i crocifissi che volessono campare\nla crudele morte e tornare alla fede di Maometto; ma i costanti\nfedeli, il padre spregiava il figliuolo rinnegato, dicendo che non\nera suo figliuolo, e il figliuolo il padre rinnegato, dicendo che non\nera suo padre, ma del nimico che \u2019l volea tentare e torli i beni di\nvita eterna: e molto biasimavano a\u2019 rinnegati la loro incostanza per\nla paura della pena temporale, dicendo che a loro era diletto e gran\ngrazia potere seguitare Cristo loro redentore. E cos\u00ec consumate le\nloro temporali vite in grave tormento e in grandissima costanza, nella\nveduta per tre d\u00ec de\u2019 saracini e de\u2019 cristiani, renderono l\u2019anime\na Dio. Il soldano sent\u00ec il movimento reo del suo ammiraglio, mand\u00f2\nincontanente per lui, e fecelo tagliare per mezzo.\nCAP. LIV.\n_Come i Fiorentini disfeciono terre di Mugello._\nIn questo medesimo tempo, di verno, i Fiorentini mandarono certi loro\ncittadini per lo contado a provvedere le loro castella e terre, a fine\ndi afforzare le parti deboli, e fornire le terre di ci\u00f2 ch\u2019alla difesa\nmancasse per averle guernite, sopravvenendo la guerra che s\u2019aspettava\ndel Biscione. Avvenne, come \u00e8 usanza del nostro comune, acciocch\u00e8 il\nbuon consiglio non fosse senza difetto di singolare ovvero cittadinesco\nodio, che nel Mugello furono per loro fatte disfare alquante tenute\nforti e utili alla difesa di quello contado per modo, che dove state\nnon vi fossono, era utile consiglio a porlevi di nuovo. E feciono\nabbattere Barberino, Latera, Gagliano e Marcoiano, ch\u2019erano al Mugello\nmura contra i nimici di verso Montecarelli, e di Montevivagni e delle\nterre degli Ubaldini, ove in que\u2019 tempi si faceva capo pe\u2019 nimici\na fare guerra al nostro comune, le quali tenute con piccola spesa\nd\u2019afforzamento erano gran sicurt\u00e0 a tutto il Mugello, per le cui\nrovine s\u2019accrebbe campo a\u2019 nimici senza contasto di pi\u00f9 di sei miglia\ndi nostro contado, il quale tutto s\u2019abbandon\u00f2, a danno e vergogna del\nnostro comune. Riprensione comune ne seguit\u00f2 a coloro che cos\u00ec mala\nprovvisione feciono, altro gastigamento no, per la corrotta usanza\ndel comune di Firenze di non punire le cose mal fatte, n\u00e8 meritare le\nbuone.\nCAP. LV.\n_Come la Scarperia fu furata e racquistata._\nFacendo il comune di Firenze con molta sollecitudine afforzare il\ncastello della Scarperia di grandi fossi e di forti palancati, il\ntiranno e gli Ubaldini con ogni sottigliezza d\u2019inganno tentavano di\nprocacciare ridotto nel Mugello, e sopra tutto di levarsi l\u2019onta della\nScarperia, e continovo cercavano come la potessono furare: per la qual\ncosa corruppono pi\u00f9 loro fedeli mandandoli per essere manovali, come\nse fossono Mugellesi, e alcuno maestro. E messi al lavorio del votare\nil fosso, del quale si portava la terra al palancato per alzare la\nparte dentro, costoro provvidono la via onde la terra si portava: e\nsegretamente tra le due terre segarono alcuni legni del palancato, e\ndierono la posta agli Ubaldini: i quali di presente feciono scendere\ngente a cavallo e a pi\u00e8 a Montecarelli, e alla Sambuca, e a Pietramala,\ne nell\u2019alpe e nel Podere, per dare diversi riguardi a\u2019 Fiorentini, e\nseppono come pochi d\u00ec innanzi i soldati che guardavano la Scarperia\naveano fatto mischia co\u2019 terrazzani, e mortine parecchi, onde tra\u2019\nterrazzani e\u2019 forestieri era sconfidanza grande. La notte che ordinata\nfu a questo servigio scesono dell\u2019alpe e da Montecarelli nel piano\ndi Mugello duemilacinquecento fanti, e quattro bandiere di cento\ncavalieri a guida degli Ubaldini. Costoro elessono dugentocinquanta\ni pi\u00f9 pregiati briganti di tutta quella gente con dieci bandiere, e\nconestabili molto famosi d\u2019arme, e lasciati gli altri fanti e cavalieri\nriposti ivi presso per loro soccorso, chetamente guidati per la via\nprovveduta del fosso dalla parte di Sant\u2019Agata, e senza esser sentiti,\nentrarono tutti nella Scarperia a d\u00ec 17 di gennaio del detto anno:\ne stretti insieme si condussono in su la piazza, gridando, muoiano i\nforestieri, e vivano i terrazzani. E in quella notte non avea nella\nScarperia tra forestieri e terrazzani centocinquanta uomini d\u2019arme,\nsicch\u00e8 al tutto n\u2019erano signori i nimici. Sentendo questo romore\nnella scurit\u00e0 della notte i soldati forestieri, credettono che i\nterrazzani li volessono offendere, e non ardivano d\u2019uscire delle\ncase, e i terrazzani temeano de\u2019 soldati, pensando che fosse in su\nla piazza inganno, e non voleano uscire fuori, e cos\u00ec i nimici non\naveano contasto; e dove Iddio per singolar grazia non avesse liberato\nquella terra, senza speranza di soccorso umano era perduta. Ma la\nvolont\u00e0 di Dio fu, che la grande potenza del tiranno non avesse quello\nridotto a consumazione del nostro paese; onde a coloro ch\u2019aveano presa\nla terra, e che aveano presso a un miglio tutta la loro gente tolse\nl\u2019accorgimento, che non lasciassono guardia al passo ond\u2019erano entrati,\ne non feciono il segno ordinato a quelli di fuori; e diede Iddio\nbaldanza manifesta a que\u2019 d\u2019entro e accorgimento, perocch\u00e8 per la vista\nscura i terrazzani conobbono all\u2019insegne che coloro dalla piazza erano\nnemici: e incontanente assicurarono i conestabili de\u2019 forestieri che\nv\u2019erano, per paura che quella gente n\u00e8 quelle grida non erano per loro\nfattura, ma de\u2019 nimici ch\u2019erano nella terra. Come i valenti masnadieri\nsentirono la verit\u00e0 del fatto, ragunati insieme meno di cinquanta tra\nterrazzani e forestieri, gridando alla morte alla morte, s\u00ec fedirono\ntra\u2019 nimici, che lungamente erano stati ammassati in su la piazza, e\nnel primo assalto senza fare resistenza li ruppono, cacciandoli come\nse fossono stati altrettanti montoni; e senza attendere l\u2019uno l\u2019altro,\naffrettando d\u2019uscire per lo luogo stretto ond\u2019erano entrati, e\u2019 cadeano\nnel fosso, e voltolavansi per quelle ripe. Que\u2019 d\u2019entro erano pochi, e\nper\u00f2 non ve ne poterono uccidere pi\u00f9 di cinque, e dodici ne ritennono\na prigioni, tra\u2019 quali furono conestabili di pregio, che \u2019l signore\navrebbe ricomperati molti danari, ma tutti furono impiccati. Que\u2019 di\nfuori che attendeano il segno per entrare dentro sentendo la tornata\nin rotta, senza attendere il giorno chiaro, innanzi che la novella si\nspandesse per il Mugello, si ricolsono nell\u2019alpe a salvamento; e cos\u00ec\nin una notte fu presa e liberata la Scarperia con dubbia e maravigliosa\nfortuna.\nCAP. LVI.\n_Come messer Piero Sacconi cavalc\u00f2 con mille barbute infino in su le\nporte di Perugia._\nDel mese di febbraio del detto anno, cresciuta gente d\u2019arme a messer\nPiero Sacconi de\u2019 Tarlati dall\u2019arcivescovo di Milano, trovandosi\nbaldanzoso per la presa del Borgo a san Sepolcro e delle terre vicine,\ne trovando i signori di Cortona ch\u2019aveano rotta pace a\u2019 Perugini, ed\neransi collegati col Biscione, se n\u2019and\u00f2 a Cortona con mille cavalieri,\ne da\u2019 Cortonesi ebbono il mercato e gente d\u2019arme, con la quale cavalc\u00f2\nsopra il contado di Perugia, ardendo e predando le ville d\u2019intorno\nal lago; e per forza presono Vagliano e arsonlo, e combatterono\nCastiglione del Lago e non lo poterono avere; e partiti di l\u00e0 se\nn\u2019andarono fino presso a Perugia facendo grandissimi danni. E non\nessendo i Perugini in concio da potere riparare a\u2019 nemici, fatta grande\npreda, senza contasto si ritornarono a Cortona sani e salvi, e di l\u00e0\nal Borgo a san Sepolcro, onde partirono e venderono la loro preda.\nPer questa cagione grande sdegno presono i Perugini contro a\u2019 signori\ndi Cortona, ma la baldanza dell\u2019arcivescovo gli aveva s\u00ec gonfiati di\nsuperbia, che non si curavano rompere pace n\u00e8 fare ingiuria a\u2019 loro\nvicini, per la qual cosa poco appresso ricevettono quello che aveano\nmeritato per la loro follia, come ne\u2019 suoi tempi racconteremo.\nCAP. LVII.\n_Come i Chiaravallesi di Todi vollono ribellare la terra e furono\ncacciati._\nQuesta sfrenata baldanza de\u2019 ghibellini di Toscana e della Marca per la\nforza del Biscione facea gravi movimenti, tra\u2019 quali, mentre che messer\nPiero Sacconi guastava e predava il contado di Perugia, i Chiaravallesi\ngrandi cittadini di Todi, d\u2019animo ghibellino, feciono venire il\nprefetto di Vico con trecento cavalieri subitamente per metterlo in\nTodi, e cacciarne i caporali guelfi che s\u2019intendeano co\u2019 Perugini; ed\nessendo il prefetto con la detta cavalleria gi\u00e0 presso alla citt\u00e0 di\nTodi, il popolo e\u2019 guelfi scoperto il trattato de\u2019 Chiaravallesi, di\nsubito presono l\u2019arme e corsono sopra i traditori: i quali essendosi\npi\u00f9 fidati alla venuta del prefetto che provveduti d\u2019aiuto dentro\nall\u2019assalto del popolo, non ebbono forza a ributtarlo, ma francamente\nsostennono la battaglia, consumando il rimanente del d\u00ec nella loro\ndifensione. I Perugini che tosto sentirono la novella vi cavalcarono\nprestamente, sicch\u00e8 la notte furono alla porta. Il popolo per metterli\nnella terra spezzarono una porta, che gi\u00e0 non erano signori d\u2019aprirla,\ned entrati i Perugini in Todi, e fatto giorno, i Chiaravallesi furono\ncostretti d\u2019uscire della citt\u00e0 co\u2019 loro seguaci, e fuggendo trovarono\nassai di presso il prefetto colla sua gente che veniva a loro stanza, i\nquali co\u2019 cacciati insieme vituperosamente si tornarono indietro, e la\ncitt\u00e0 rimase a pi\u00f9 fermo stato di popolo e di parte guelfa col favore\nde\u2019 Perugini in suo riposo.\nCAP. LVIII.\n_Come que\u2019 da Ricasoli rubellarono Vertine a\u2019 Fiorentini._\nEra in questi d\u00ec questione non piccola tra\u2019 consorti della casa da\nRicasoli per cagione della pieve di san Polo di Chianti, che essendo\nil piovano in decrepita et\u00e0 ammalato, temendo i figliuoli d\u2019Arrigo e\nil Roba da Ricasoli, che per maggioranza dello stato messer Bindaccio\nda Ricasoli e\u2019 figliuoli non occupassono la detta pieve, pervennono\nad accuparla contro la riformagione del comune di Firenze, onde\nfurono condannati nella persona a condizione; il Roba ubbid\u00ec, e fu\nprosciolto: i figliuoli d\u2019Arrigo, avvegnach\u00e8 restituissono al comune\nla possessione, non essendo loro attenuto quello che per\u00f2 fu loro\npromesso dal comune, rimasono in bando; e sdegnati di questa ingiuria,\nsapendo che molta roba de\u2019 loro consorti era ridotta nel castello di\nVertine, accolsono centocinquanta fanti masnadieri, ed entrarono nel\ncastello, che non si guardava, e di presente l\u2019afforzarono: e corsono\nper le villate d\u2019attorno, e misono nel castello molta roba, e gli\nabituri e case de\u2019 loro consorti arsono e guastarono. Il comune di\nFirenze vi feciono cavalcare il podest\u00e0 con certe masnade di cavalieri\ne di pedoni, stimando che contro al comune non facessono resistenza:\nma i giovani trovandosi in luogo forte e bene guerniti, e la forza del\nBiscione di presso, di cui il comune forte temeva, e favoreggiati da\nGiovanni d\u2019Ottolino Bottoni de\u2019 Salimbeni di Siena, pensarono di tenere\nil castello per forza, tanto che il comune di Firenze per riaverlo\nfarebbono la loro volont\u00e0: e per\u00f2 si misono a ribellione. E alla loro\nfollia aggiunse il tempo aiuto, che all\u2019entrata di febbraio caddono\nnevi grandissime l\u2019una dopo l\u2019altra, che stettono sopra la terra oltre\nall\u2019usato modo tutto il detto mese per tale maniera, che tale era a\ncavalcare il contado di Firenze come le pi\u00f9 serrate alpi. Lasceremo\nVertine tra le nevi nella sua ribellione, traendoci altra maggiore\nmateria in prima a raccontare.\nCAP. LIX.\n_Come i Veneziani e\u2019 Catalani furono sconfitti in Romania da\u2019 Genovesi._\nAvendo in parte narrato lo sboglientamento delle guerre e delle\nseduzioni italiane, bench\u00e8 ci partiamo del paese, ci accade a\nraccontare le marine battaglie che gl\u2019Italiani medesimi feciono in\nRomania tra loro. Era l\u2019armata de\u2019 Genovesi di sessantaquattro galee\npresso a Pera sopra il passo di Turchia, e ivi stavano per riguardo\nche l\u2019armata de\u2019 Veneziani e Catalani non passassono in Costantinopoli,\nacciocch\u00e8 non si aggiugnessono forza dall\u2019imperadore ch\u2019era in lega con\nloro. I Veneziani e\u2019 Catalani avendo soggiornato gran parte del verno\na Modone e Corone in Turchia, e riparate loro galee, si trovarono con\nsessantasette galee bene armate, e con aiuto di molti legni e barche\narmate di loro sudditi e di certi Turchi, avendo volont\u00e0 d\u2019essere a\nCostantinopoli, dove s\u2019accrescerebbe la loro forza e per mare e per\nterra, senza attendere che il verno valicasse si misono a navicare\nverso Costantinopoli, a intenzione di combattere co\u2019 Genovesi se\nimpedire gli volessono. I Genovesi con le sessantaquattro galee armate,\navendo per ammiraglio messer Paganino Doria, e stando solleciti alla\nguardia per attendere i loro nemici, mandarono a d\u00ec 7 di febbraio due\ngalee a Gallipoli per avere lingua di loro nemici, e quel d\u00ec trovarono\nche l\u2019armata de\u2019 Veneziani e Catalani entravano all\u2019isola de\u2019 Principi.\nCome i Genovesi ebbono questa novella si mossono per andare loro\nincontro, e per forza d\u2019impetuoso vento furono portati indietro al\nporto di san Dimitrum verso Peschiera, dove stettono fino al luned\u00ec,\na d\u00ec 13 di febbraio. E partiti di l\u00e0 con grande fatica, tornarono al\npasso di Turchia. In questo mezzo tornarono le due galee con festa\nch\u2019aveano seguita una galea de\u2019 Veneziani e aveanla fatta dare in\nterra, e campati gli uomini, la galea aveano arsa e profondata; allora\ntutte le galee insieme si misono da capo per andare contro a\u2019 nemici,\ne poco avanzato di mare per lo contrario tempo, scopersono alla uscita\ndi Principi l\u2019armata de\u2019 Veneziani e Catalani che facevano la via verso\nGrecia con grosso mare e molto vento in poppa. I Catalani e\u2019 Veneziani\ncom\u2019ebbono scoperti i loro nimici genovesi, si dirizzarono verso loro\ncolle vele piene per combattere, conoscendo il vantaggio che aveano\nper l\u2019aiuto del vento e del mare, e passare in Costantinopoli a loro\ncontradio. I Genovesi veggendosi venire addosso i nimici con le vele\npiene si ristrinsono insieme sopra la Turchia, e ritennonsi da parte a\nmodo d\u2019una schiera, per cessare e lasciare passare l\u2019impeto de\u2019 nimici,\ntemendo della percossa delle loro galee aiutate dalla forza del vento\ne del mare. E come le galee veneziane e catalane passando vennono al\npari delle poppe delle galee de\u2019 Genovesi, i Genovesi si sforzarono\nper ingegni e per forza d\u2019arme traversarne e ritenerne alcuna, ma non\nebbono podere, tanto era forte il corso di quelle. E cos\u00ec i Veneziani\ne\u2019 Catalani con le loro galee e co\u2019 loro navili armati valicarono a\nValanca lasciandosi addietro l\u2019armata de\u2019 Genovesi, e aggiuntosi otto\ngalee armate di gente greca dell\u2019imperadore di Costantinopoli, si\ntrovarono settantacinque galee e molti legni armati. Le sessantaquattro\ngalee de\u2019 Genovesi per lo traversare che aveano voluto fare, avendo\ni marosi e \u2019l vento contrario, erano scerrate e sparte, e vedendosi\ndisordinati, e con gli avversari passati, intendeano a raccogliersi\ninsieme senza seguire i nimici per riducersi nel porto di san\nDimitrum. I Veneziani e\u2019 Catalani che si trovarono valicati per\nforza, e accresciuta la loro potenza, vedendo che i Genovesi non\nveniano verso di loro, e ch\u2019aveano le galee sparte e male ordinate a\npotere sostenere la battaglia, presono subitamente partito di tornare\nloro addosso sperando avere piena vittoria. E dato il segno a tutta\nl\u2019oste, si dirizzarono per forza di remi, avendo il mare contradio, a\nvenire sopra le galee de\u2019 Genovesi, le quali non erano ancora potute\nraccogliersi insieme. Ma vedendo che tutto lo stuolo de\u2019 Veneziani, e\nCatalani e Greci erano rivolti per venire loro addosso, catuna parte\ndella loro armata, secondo che le galee genovesi si trovarono insieme,\nnon potendosi ristrignere n\u00e8 raccozzarsi al loro ammiraglio, come\nuomini di grande cuore e ardire s\u2019ordinarono alla loro difesa, sempre\navendo riguardo e dando opera d\u2019accostarsi al loro capitano, ma la\ntraversa del mare e la fortuna forte l\u2019impediva. L\u2019ammiraglio a tutte\nle galee che avea appresso di se fece trarre l\u2019ancore, e ritrarsi\nalquanto fuori delle grosse maree, e dirizzossi contro a\u2019 suoi nimici\ncon la sua galea grossa e con sette altre che avea in sua compagnia;\ne date le prode contro a\u2019 nimici, feciono testa. Il capitano delle\ngalee veneziane e quello delle catalane, con seguito di gran parte\ndella loro armata, si trassono innanzi, avendo contrario il mare, per\nassalire i loro nimici. I Genovesi vedendoli venire, mandarono loro\nincontro due delle loro galee sottili per assaggiarle con le loro\nbalestra, e cominciare lo stormo a modo di badalucco. Il capitano\nde\u2019 Catalani s\u2019avanz\u00f2 innanzi, e quello de\u2019 Veneziani appresso, per\ninvestire la galea dell\u2019ammiraglio de\u2019 Genovesi, ma trovandole serrate\ne bene in concio, non le investirono, e non si afferrarono con loro, o\nper codardia, o per maestria di tramezzare l\u2019altre galee de\u2019 Genovesi\ninnanzi che si raccogliessono al loro ammiraglio: ma dietro a loro tre\ngrosse de\u2019 Veneziani si misono a combattere la galea dell\u2019ammiraglio\ndi Genova, e l\u2019altre galee contro quelle ch\u2019erano in diverse parti del\nmare; e cominciata da ogni parte l\u2019aspra battaglia tra l\u2019una armata\ne l\u2019altra, le due grosse de\u2019 Veneziani si misono per proda e una per\nbanda a combattere la sopra galea dell\u2019ammiraglio de\u2019 Genovesi. Quivi\nfu lunga e aspra e grande battaglia, perocch\u00e8 d\u2019ogni parte s\u2019aggiunsono\ngalee a quello stormo, e quivi furono molti fediti e morti da catuna\nparte; e valicato l\u2019ora del vespero, per lo grande aiuto delle galee\nde\u2019 Genovesi che soccorsono il loro ammiraglio, le tre de\u2019 Veneziani\nche s\u2019erano afferrate con quella rimasono sbarattate e prese; e\nl\u2019altre galee de\u2019 Veneziani e Catalani, ch\u2019erano passate e divise tra\nl\u2019ammiraglio e l\u2019altre galee genovesi, combattendo in diverse parti\ncacciarono delle galee de\u2019 Genovesi: in prima dieci galee, che per\ncampare le persone diedono in terra verso sant\u2019Agnolo, abbandonati i\ncorpi delle galee a\u2019 nimici, morti e perduti assai de\u2019 compagni, il\nrimanente si fugg\u00ec a Pera; e dopo queste altre tre galee de\u2019 Genovesi\nfuggendo innanzi a\u2019 Veneziani feciono il simigliante, e abbandonati i\ncorpi delle galee si fuggirono a Pera. I Veneziani e\u2019 Catalani misono\nfuoco in quelle galee, e tutte le profondarono; e oltre a queste altre\nsei galee de\u2019 Genovesi si fuggirono nel Mare maggiore per campare.\nDall\u2019altra parte i Genovesi combattendo per forza d\u2019arme delle galee\nde\u2019 Veneziani e Catalani e Greci in diversi abboccamenti, con grande\nuccisione di catuna parte, ne vinsono e presono assai: ma per\u00f2 non\nsapea l\u2019uno dell\u2019altro chi avesse il migliore. La tempesta del mare era\ngrande, e non lasciava riconoscere n\u00e8 raccogliere insieme alcuna delle\nparti. E avendo per questo modo disordinato e fortunoso combattuto\nfino alla notte senza sapere chi avesse vinto o perduto, l\u2019uno residuo\ndell\u2019armata e l\u2019altro si ridussono a terra alle Colonne al porto di\nSanfoca; e dividendoli la notte, dilungata l\u2019una parte dall\u2019altra il\npi\u00f9 che si pot\u00e8, nel detto porto cercarono per quella notte alcuno\nsollevamento dalle fatiche agli affannati corpi.\nCAP. LX.\n_Di quello medesimo._\nLa mattina vegnente, a d\u00ec 14 di febbraio, i Veneziani, Catalani e Greci\nche si conobbono essere maltrattati in quella battaglia da\u2019 Genovesi,\ninnanzi che \u2019l sole alzasse sopra la terra, per paura che i Genovesi,\nravveduti del danno che aveano fatto loro, non li sorprendessono\nin quel luogo, si partirono, e andarsene a un porto che si chiama\nTrapenon, ch\u2019\u00e8 nella forza de\u2019 Greci, ove poterono stare pi\u00f9 sicuri. I\nGenovesi venuto il giorno, ricercarono la loro armata, e trovarono meno\nle tredici galee profondate, e le sei ch\u2019erano andate fuggendo i nimici\nnel Mare maggiore: e della loro gente si trovarono molto scemati, tra\nmorti e annegati e fuggiti. Dall\u2019altra parte trovarono, che aveano\nprese quattordici galee de\u2019 Veneziani, e dieci de\u2019 Catalani e due de\u2019\nGreci, e allora conobbono che i nimici come rotti s\u2019erano partiti e\nfuggiti a Trapenon. E trovandosi avere morti di loro nimici intorno\ndi duemila, e presine milleottocento, ebbono certezza della loro poco\nallegra vittoria, e incontanente de\u2019 loro prigioni fediti e magagnati\nlasciarono quattrocento, acciocch\u00e8 non corrompessono la loro gente, e\nper fare alcuna misericordia della loro vittoria. Ma tanto fu il loro\ndanno de\u2019 morti e fediti, e d\u2019avere perdute le loro galee, che della\ndetta vittoria non poterono far festa. Questa battaglia non ebbe ordine\nn\u00e8 modo, anzi fu avviluppata e sparta come la tempesta marina: e per\u00f2\ncom\u2019ella fu varia e non potuta bene cernere n\u00e8 vedere, non l\u2019abbiamo\npotuta con pi\u00f9 certo e chiaro ordine recitare.\nCAP. LXI.\n_Come per le discordie de\u2019 paesani la Sicilia era in grave stato._\nPartendoci dalle battaglie fatte per gl\u2019Italiani negli strani paesi,\nci occorre l\u2019intestino male dell\u2019isola di Sicilia: la quale non avendo\nnemico strano, tanto mortalmente crebbe il furore delle loro parti, che\nsenza alcuna misericordia, come salvatiche fiere, ovunque s\u2019abboccavano\ns\u2019uccidevano, per aguati, per tradimenti, e per furti di loro tenute\ncontinovo adoperavano il fuoco e il ferro, onde molti gentiluomini,\ne altre genti del paese perderono la materia delle paesane divisioni\nper le loro violenti morti; e ancora per questo tanto si disusarono i\ncampi della cultura, tanto si consumarono i frutti ricolti, che l\u2019isola\nper addietro fontana d\u2019ogni vittuaglia, per inopia e per fame faceva\nle famiglie de\u2019 suoi popoli in grande numero pellegrinare negli altri\npaesi. E per partirci un poco da tanta crudele infamia, la seguente\nferina crudelezza, con vergogna degli uomini di quella lingua, sia\nper ora termine a questa materia. Un Catalano, il quale teneva una\nrocca nella Valle di... fece a\u2019 suoi compagni tenere trattato col\nconte di Ventimiglia, il quale avendo voglia d\u2019avere quella rocca,\ncon troppa baldanzosa fidanza sotto il trattato entr\u00f2 nel castello\ncon centoquattro compagni, bench\u00e8 pi\u00f9 ve ne credesse mettere: ma come\ncon questi fu dentro, per l\u2019ordine preso pe\u2019 traditori furono chiuse\nle porti, e \u2019l conte e i compagni presi; e avendovi uomini i quali si\nvolevano ricomperare grande moneta, ed erano da riserbare per i casi\nfortunevoli della guerra, tanto incrudel\u00ec l\u2019animo feroce de\u2019 Catalani,\nche senza arresto spogliati ignudi i miseri prigioni, e legati colle\nmani di dietro, l\u2019uno dopo l\u2019altro posto a\u2019 merli della maggiore torre\ndella rocca, sopra uno dirupinato grandissimo furono dirupinati senza\nniuna misericordia, lacerando i miseri corpi con l\u2019impeto della loro\ncaduta a\u2019 crudeli sassi. Il conte solo fu riserbato, non per movimento\nd\u2019alcuna umanit\u00e0, ma per cupidigia di avere per la sua testa alcuno suo\ncastello vicino a\u2019 crudi nemici. Chi crederebbe questa sevizia trovare\ntra\u2019 fieri popoli delle barbare nazioni, la quale tra i cristiani, tra\ni consorti d\u2019uno reame, tra i vicini pass\u00f2 le crudelt\u00e0 de\u2019 tigri, e la\nfierezza de\u2019 pi\u00f9 salvatichi animali che la terra produca? E perocch\u00e8\ntrovare non si potrebbe maggiore, trapassiamo a un\u2019altra di minore\nnumero, ma forse non di minore infamia.\nCAP. LXII.\n_Come fu in Firenze tagliate le teste a pi\u00f9 de\u2019 Guazzalotri di Prato._\nAvendo narrata la grande crudelt\u00e0 de\u2019 Catalani, un\u2019altra sotto ombra\ndi non vera scusa, non senza biasimo dell\u2019abbandonata mansuetudine\ndel nostro comune, ci s\u2019offera a raccontare. I Guazzalotri di Prato,\ncome \u00e8 detto addietro, innanzi che il comune il comperasse, usando la\ntirannia di quello tirannescamente, ne furono abbattuti: per questo\nl\u2019animo di Iacopo di Zarino caporale di quella casa era mal contento,\navvegnach\u00e8 assai onestamente sel comportasse. Avvenne che alquanti\ncittadini di Firenze, animosi di setta, calunniarono lui e alquanti\ncittadini di Firenze di trattato contro al comune, della qual cosa\nconvenne che in giudicio si scusassono, e non trovandosi colpevoli, fu\ninfamia a quella gente che quello aveano loro apposto, ed egli con gli\naltri infamati furono prosciolti. Avvenne appresso, o per fuggire il\npericolo degl\u2019infamatori, o per sdegno conceputo, andando per podest\u00e0 a\nFerrara, fu ritenuto dal tiranno di Bologna e poi lasciato, rimanendo\nper stadico il figliuolo; e tornato a Firenze, e preso sospetto di\nlui, fu confinato a Montepulciano: i quali confini, qual che si fosse\nla cagione, e\u2019 non seppe comportare, e fece suo trattato col signore\ndi Bologna per ritornare in Prato; per la qual cosa venne a Vaiano in\nValdibisenzio, e fece richiedere de\u2019 suoi amici, e da Siena vennono\nlettere al comune di Firenze di questo fatto: per le quali il nostro\ncomune di presente vi mise gente d\u2019arme alla guardia, per modo che\nnon se ne potea dottare. Nondimeno i cittadini che reggevano allora il\ncomune, animosi per setta, volendo aggravare l\u2019infamia, in su la mezza\nnotte feciono chiamare delle letta e armare i cittadini, e trarre fuori\ni gonfaloni, come se i nimici fossono alle porti, di che i reggenti\nne furono forte biasimati. Nondimeno seguendo loro intendimento,\naveano fatto venire da Prato tutti gli uomini di casa i Guazzalotri,\ni quali per numero furono sette; e incontanente, come uomini guelfi\ne innocenti, e che dell\u2019imprese di Iacopo di Zarino erano ignoranti,\nvennono a Firenze: ed essendo tutti in su la porta del palagio de\u2019\npriori, un fante giunse il d\u00ec medesimo, che le guardie erano rinforzate\nin Prato, il quale disse loro da parte di Iacopo, com\u2019egli intendea\nd\u2019essere quella notte in Prato. Costoro di presente furono a\u2019 signori\ne a\u2019 loro collegi, e dissono quello che in quell\u2019ora Iacopo avea loro\nmandato a dire, scusando la loro innocenza. I priori co\u2019 loro collegi\nnon dimostrando di loro alcuno sospetto, gli licenziarono per quel\ngiorno: l\u2019altra mattina gli feciono chiamare, e tutti senza sospetto\nandarono a\u2019 signori, fuori d\u2019un giovane, il quale quanto che non\nfosse colpevole, temette di venire in esaminazione; gli altri furono\nritenuti, e messi nelle mani del capitano del popolo, uomo di poca\nvirt\u00f9, e fatti pigliare certi Pratesi, e un Fiorentino de\u2019 Galigai,\ne due fabbri di contado, tutti per gravi martori confessarono, come\ncoloro che questo feciono fare vollono, e subitamente, improvviso\nagli altri cittadini, il detto capitano, del mese di marzo 1351,\nfece decapitare i nove, e i fabbri impiccare; la qual cosa fu tenuta\ncrudele e ingiusta sentenza, e molto dispiacque a\u2019 cittadini, perocch\u00e8\nmanifesto fu che non erano colpevoli. Abbiamone detto steso per due\ncagioni, l\u2019una per manifestare di quanto pericolo sono le sette\ncittadinesche, che i giusti spesso com\u2019e\u2019 colpevoli involgono in\ncapitale sentenza; la seconda per dimostrare quanto a Dio dispiace\nquando si spande l\u2019innocente sangue: che per quello che i Guazzalotri\npoco innanzi sparsero per tirannia nella loro terra, il loro per\nsimigliante modo fu sparto nella citt\u00e0 di Firenze.\nCAP. LXIII.\n_Come il tiranno d\u2019Orvieto fu morto._\nIn questo anno, del mese di marzo, essendo tiranno d\u2019Orvieto Benedetto\ndi messer Bonconte de\u2019 Monaldeschi, il quale poco dinanzi aveva morti\ndue suoi consorti per venire alla tirannia, e stando in quella per\noperazione de\u2019 suoi consorti, da uno fante nel suo palagio fu morto.\nPer la morte di costui la citt\u00e0 fu in grave divisione; ma coll\u2019aiuto\ndi gente e d\u2019ambasciadori perugini s\u2019acquet\u00f2 alquanto il popolo\ncon alcuno lieve e non fermo stato, perocch\u00e8 tutta la terra era\ninsanguinata per la divisione della casa de\u2019 Monaldeschi, e avendo\ndentro poca concordia, e di fuori sparti per lo contado e distretto\ni cittadini cacciati, rimase lo stato dubbioso a potere sostenere; e\nper la cavalleria che l\u2019arcivescovo di Milano aveva in Toscana e nella\nMarca, i comuni di parte guelfa poco consiglio vi misono, onde ne\nsegu\u00ec la rivoltura che appresso seguendo nostro trattato nel suo tempo\nracconteremo.\nCAP. LXIV.\n_Come i Fiorentini assediarono Vertine._\nNel predetto mese di marzo i Fiorentini feciono porre l\u2019oste al\ncastello di Vertine, e strignerlo con due campi al trarre delle\nbalestra, e rizzaronvi due mangani che tutto d\u00ec gittavano, abbattendo\ne guastando le case della terra. Nell\u2019oste avea seicento cavalieri,\ne millecinquecento masnadieri di soldo, i quali deliberarono di\ncombattere il castello e vincerlo per battaglia: ma avvenne mirabile\ncosa, che quasi pareva fatta per arte magica, che il tempo si corruppe\nall\u2019acqua, che d\u00ec e notte non rist\u00f2 infino alla Pasqua; e imped\u00ec tanto\nl\u2019oste, che alla battaglia non si pot\u00e8 venire per niun modo, e quelli\ndel castello ebbono agio di farlo pi\u00f9 forte alla difesa; e per questa\ncagione, e perch\u00e8 dentro avea franca masnada di buoni briganti, poco\nparea si curassono de\u2019 Fiorentini, e minacciavano di darlo al Biscione;\ne cos\u00ec francamente il tennono in fino all\u2019uscita d\u2019aprile, come\nappresso diviseremo.\nCAP. LXV.\n_Come in corte fu fermata la pace dal re d\u2019Ungheria a\u2019 reali di Puglia._\nEssendo per lungo tempo trattata in corte di Roma a Vignone la pace\ntra il re d\u2019Ungheria e i reali del regno di Cicilia di qua dal Faro,\npapa Clemente essendo guarito della sua infermit\u00e0, nella quale aveva\navuta grave riprensione di coscienza, perch\u00e8 aveva sostenuta la detta\ncausa in contumacia, potendola acconciare, con singulare sollecitudine\nmise opera che la pace si facesse. Ed essendo il re d\u2019Ungheria con un\nsolo fratello re di Pollonia, senza avere altri consorti fuori de\u2019\nreali del regno di Cicilia, e gi\u00e0 soddisfatto in parte non piccola\ndella vendetta del fratello, agevolmente si dispose a volere la pace,\ngradendola al papa e a\u2019 cardinali che con istanza ne pregavano, e per\u00f2\nmand\u00f2 a corte suoi ambasciadori con pieno mandato, informati di sua\nintenzione, lo eletto di cinque chiese, e un vescovo d\u2019Ungheria, e\nGulforte Tedesco fratello di messer Currado Lupo vicario nel Regno del\ndetto re; e del mese di gennaio 1351, i detti ambasciadori in presenza\ndel papa e de\u2019 cardinali, come ordinato fu per lo detto papa, si fece\nla pace con gli ambasciadori del re Luigi e della reina Giovanna in\nnome di tutti i reali di quella casa. E per parte del re Luigi e della\nreina furono fatte l\u2019obbliganze, per le quali, secondo che \u2019l papa e i\ncardinali aveano trattato, il re e la reina doveano dare e restituire\nal re d\u2019Ungheria trecentomila fiorini d\u2019oro in diversi termini,\nper sodisfacimento delle spese che il re d\u2019Ungheria avea fatte in\nquell\u2019impresa del Regno. E fatte le dette cautele e la detta pace, il\npapa per l\u2019autorit\u00e0 sua e del consiglio de\u2019 suoi cardinali per decreto\nconferm\u00f2 ogni cosa, confermando la pace, e consentendo all\u2019obbligagione\npecuniaria del reame. E fornito ogni cosa solennemente, innanzi che\ndella casa si partissono le parti, gli ambasciadori del re d\u2019Ungheria,\nimprovviso a tutti, seguendo il mandato segreto che aveano dal\nloro signore, di grazia spontaneamente, per propria volont\u00e0 del re\nd\u2019Ungheria, finirono e quetarono al re, e alla reina, e a\u2019 reali di\nPuglia, e al Regno, e alla Chiesa di Roma, di cui \u00e8 il detto reame,\ni detti trecentomila fiorini d\u2019oro, dicendo, come il loro signore non\navea fatta quell\u2019impresa per avarizia, ma per vendicare la morte del\nsuo fratello. E incontanente si part\u00ec Gulforte, e torn\u00f2 in Ungheria a\nfare assapere al re come fatto era quanto egli avea comandato, a grande\ngrado e piacere di santa Chiesa. E i sopraddetti prelati andarono\nnel Regno a trarne gli Ungheri che v\u2019erano salvamente, e a fare per\ncomandamento del loro signore restituire al re Luigi e alla reina tutte\nle citt\u00e0, e terre e castella che la sua gente vi tenea. E fatto questo\naccordo, quale che si fosse la cagione, il re d\u2019Ungheria non lasci\u00f2\nincontanente i reali ch\u2019aveva prigioni in Ungheria, anzi gli tenne\ninsino al settembre prossimo, come al suo tempo si dir\u00e0, occorrendoci\naltre cose che prima richieggono il debito alla nostra penna.\nCAP. LXVI.\n_Come l\u2019arcivescovo trattava pace colla Chiesa._\nIn questo tempo, del verno, l\u2019arcivescovo di Milano continovo mantenea\na corte solenni ambasciadori a procurare la sua riconciliazione con\nsanta Chiesa, e a ci\u00f2 movea il re di Francia con forza di grandi doni\nche gli faceva, e al continovo pregava per sue lettere il papa e\u2019\ncardinali che perdonassono all\u2019arcivescovo, ed egli per essere pi\u00f9\nfavoreggiato domandava pace. I parenti del papa e certi cardinali\nerano s\u00ec altamente provveduti, e s\u00ec spesso, che continovo pregavano per\nlui il papa, e la contessa di Torenna non finava, per la qual cosa il\npapa dimenticava l\u2019onore e l\u2019ingiurie di santa Chiesa. E non ostante\nche tenesse sospesi gli ambasciatori de\u2019 comuni di Toscana delle cose\nche aveano proposto loro, gli ambasciadori continovo ricordavano in\nconcistoro l\u2019offese fatte per l\u2019arcivescovo e pe\u2019 suoi antecessori,\ne l\u2019ingiurie e violenze che fatte avea, e continovo faceva a\u2019 comuni\ndi Toscana fedeli e divoti di santa Chiesa. Il papa non ostante ci\u00f2\nfavoreggiava oltre al modo onesto la causa del tiranno, onde per alcuno\ncardinale ne fu cortesemente ripreso; a costui e agli altri cardinali\nche mostravano in concistoro di essere zelanti dell\u2019onore di santa\nChiesa, procedendo il tempo, coll\u2019ingegno e coll\u2019arte e co\u2019 doni del\ntiranno furono racchiuse le bocche, e aperte le lingue in suo favore,\nsicch\u00e8 ultimamente pervenne alla sua intenzione, come seguendo al suo\ntempo dimostreremo.\nCAP. LXVII.\n_Della gran fame ch\u2019ebbono i barbari di Morocco._\nAvvenne in quest\u2019anno nel reame di Morocco e nel reame della Bella\nMarina un\u2019inopinata fame per sterilit\u00e0 del paese, la qual fame gitt\u00f2\ngran carestia in Granata e nella Spagna, e stesesi per la Navarra,\ne appresso in Francia infino a Parigi: che per portare il grano a\u2019\nbarbari, per disordinato guadagno che se ne facea, venne lo staio di\nlibbre cinquanta di peso in Parigi in valuta di due fiorini d\u2019oro,\ne per lo paese non molto meno. E i barbari saracini per sostentare\nla vita s\u2019ordinarono continovo digiuno, il quale sodisfacevano con\ntre once di pane dato loro, e con un poco d\u2019olio quanto teneva la\npalma della mano, nel quale intignevano il detto pane, e con questo\nmantenevano la loro vita: nondimeno gran quantit\u00e0 ne morirono di fame\nin quell\u2019anno.\nCAP. LXVIII.\n_Come i rettori di Firenze cominciarono segretamente a trattare accordo\ncon l\u2019eletto imperadore._\nMentre che il comune di Firenze e di Siena aveano gli ambasciadori\na corte di papa contro all\u2019arcivescovo di Milano, avvedendosi che\nla Chiesa per le preghiere del re di Francia e d\u2019altri baroni, e per\nla grande quantit\u00e0 di moneta che il tiranno spendea in corte, colla\nquale avea recato in suo favore tutta la corte, ed era per essere\nriconciliato e fatto assai maggiore che non era in prima, diffidandosi\ndi non potere per loro resistere alla sua potenza, ordinarono molto\nsegretamente di volere far muovere della Magna messer Carlo re de\u2019\nRomani eletto imperadore, e per\u00f2 mandarono e feciono venire d\u2019Alemagna\na Firenze segretamente un suo cancelliere con grande mandato: il quale\nfu collocato e stette tutto il verno racchiuso in san Lorenzo per modo,\nche i Fiorentini non sapeano chi si fosse, e di notte andavano a lui\nsegretari del comune, i quali trattavano il modo della venuta del detto\neletto, col favore e aiuto grande del detto comune, per abbattere la\ntirannia dell\u2019arcivescovo: e in fine vennono col detto cancelliere a\npiena concordia, tanto che, nonostante l\u2019antico odio del nome imperiale\na\u2019 detti comuni, fu loro lecito di piuvicare la detta concordia accetta\na\u2019 detti popoli, come a suo tempo racconteremo.\nCAP. LXIX.\n_Come la gente de\u2019 Fiorentini che andavano a fornire Lozzole furono\nrotti dagli Ubaldini._\nEntrando nel mese d\u2019aprile 1352, essendo commesso per lo comune di\nFirenze al capitano del Mugello che fornisse Lozzole che i Fiorentini\ntenevano nel Podere, acciocch\u00e8 pi\u00f9 chiusamente si facesse, si mise\na farlo con s\u00ec poca provvisione, che pi\u00f9 d\u00ec innanzi fu palese agli\nUbaldini la cavalcata che fare si doveva. I quali in que\u2019 d\u00ec aveano\ncolla gente dell\u2019arcivescovo di Milano preso il Monte della Fine a\u2019\nconfini di Romagna, il quale era stato accomandato, ma non difeso da\u2019\nFiorentini. E avendo la gente apparecchiata, si misono in pi\u00f9 aguati\nnell\u2019alpe, ove stettono pi\u00f9 d\u00ec aspettando la scorta de\u2019 Fiorentini\nper fornire Lozzole. Il folle capitano di Mugello con quattrocento\ncavalieri e con pedoni del Mugello, non avendo prima presi i passi\npi\u00f9 forti dell\u2019alpe, n\u00e8 fatto provvedere se aguato vi fosse, si mise\nper la via del Rezzuolo con la salmeria e con la sua gente ad entrare\nnell\u2019alpe, e lasciossi uno degli aguati de\u2019 nimici addietro; quando\nebbono valicato Rezzuolo furono assaliti da\u2019 nimici dinanzi, e da lato\ne didietro per modo, che piccola difesa v\u2019ebbe, altro che di fuggire\nchi pot\u00e8. Rimasonvi morti cinquanta uomini tra a cavallo e a piede, e\nottanta presi con tutta la salmeria; e di questo fallo non fu altra\nvendetta in Firenze, se non che chi fu morto o preso per la mala\ncondotta s\u2019ebbe il danno. Il capitano fu Rosso di Ricciardo de\u2019 Ricci\ndi Firenze.\nCAP. LXX.\n_Come s\u2019ebbe Vertine a patti e disfecesi la rocca._\nEssendo stato il castello di Vertine lungamente assediato e traboccato\nda\u2019 dificii, e non volendosi arrendere, i Fiorentini diliberarono di\nfarlo combattere: e a d\u00ec 20 d\u2019Aprile, gli anni Domini 1352, con molta\nbaldanza e con poco ordine si strinsono al castello assalendolo da\npi\u00f9 parti; e in alcuno luogo furono infino al rompere delle mura,\nma per non avere dificii da coprire, n\u00e8 le scale che bisognavano\na assalire, condotti alle mura, con danno e con vergogna, mortine\nalquanti, e fediti e magagnati assai degli assalitori, si ritrassono\ndella battaglia, la quale aveano mantenuta tre ore del d\u00ec. L\u2019assedio\nvi si fortific\u00f2, e strinsono il castello pi\u00f9 di presso, e ordinavano\ndi combatterlo con pi\u00f9 ordine e con maggiore forza. Que\u2019 d\u2019entro\nvedendosi senza speranza di soccorso, per fuggire il pericolo della\nbattaglia trattarono di rendere la terra, salve le persone e l\u2019armi, e\nche potessono trarre tutto il grano che aveano nel castello di Vertine\ndi que\u2019 della casa da Ricasoli, infra quindici d\u00ec prossimi. Il trattato\nfu fermo, e il primo d\u00ec di Maggio del detto anno n\u2019uscirono que\u2019 da\nRicasoli con centocinquantotto masnadieri, molto bella gente d\u2019arme; e\nil comune prese la terra, e incontanente fece abbattere due fortezze\nche v\u2019erano a modo di rocche, l\u2019una di que\u2019 da Ricasoli, e l\u2019altra\ndi que\u2019 da Vertine, acciocch\u00e8 pi\u00f9 per quelle tenute non si potesse\nrubellare.\nCAP. LXXI.\n_Esempio di cittadinesca variet\u00e0 di fortuna._\nIn questo tempo avvenne una cosa notevole in Firenze, la quale per se\nnon era degna di memoria, ma concedelesi luogo per esempio delle cose\navvenire. Un giudice di legge di grande fama nella pratica de\u2019 piati\ncriminali e civili, di assai nuova progenie, e di piccolo stato ne\u2019\nsuoi principii, venne per suo guadagno in ricchezza, e con prospera\nfortuna, il d\u00ec di calen di maggio del detto anno, dottorato un suo\nfigliuolo e menata moglie, con dote di fiorini millecinquecento d\u2019oro,\ne con eredit\u00e0 di patrimonio di fiorini tremilacinquecento d\u2019oro in\npossessioni a lui pervenute, celebr\u00f2 solenne festa in pi\u00f9 d\u00ec in grande\nallegrezza. E verificandosi la parola detta per santo Gregorio sopra\nil Giobbe, il quale disse: _Praenuntia tribulationis est laetitia\nsatietatis_: poco appresso avvenne, che essendo ingrati della non\ndebita e sformata dote e successione ereditaria della detta donna,\nvollono alla madre della fanciulla per male ingegno della loro arte\nsottrarre altri certi beni, la quale turbata si difendea a ragione.\nI legisti ordinarono un piato tacito, e avendo avuta per altri fatti\nuna procura dalla detta donna, si sforzarono, non avendo avversario,\ndi venire alla sentenza. Ma come Iddio volle, la corte s\u2019avvide del\nbaratto; e scoperto l\u2019inganno, il figliuolo fu condannato nel fuoco\ncon un suo nipote; e il padre confidandosi di difendere a ragione si\nrappresent\u00f2 in giudicio. Ed essendo per essere arso un suo nipote\nch\u2019avea nome Lotto del maestro Cambio de\u2019 Salviati, uomo di buona\ncondizione e amato da\u2019 cittadini, accadde essere de\u2019 priori di Firenze,\nil quale per onore della sua casa oper\u00f2 tanto, che fu condannato nel\nfuoco per falsit\u00e0, a condizione, che se infra dieci d\u00ec non pagasse\nal comune lire quattromila, e stesse a Perugia un anno a\u2019 confini;\ned essendo gi\u00e0 stato da dieci mesi a\u2019 confini, tanto seppe adoperare\ncon un altro podest\u00e0, che rivoc\u00f2 i suoi confini, e torn\u00f2 a Firenze\ninnanzi al tempo, e mostrossi palese pi\u00f9 d\u2019un mese. Volendosi fare\ncancellare del detto bando, e restituire alla matricola ov\u2019era stato\nraso, e non trovandosi modo come di ragione fare si potesse, rimase in\nbando del fuoco per avere rotti i confini, i quali aveva poco tempo a\nubbidire ed era libero. Costui fu il primo che mise in pratica nella\nnostra citt\u00e0 di conducere i civili piati in criminali, e per quella\nmedesima cagione fu infamato e condannato egli e \u2019l suo figliuolo; il\nquale poi dopo l\u2019esilio di presso a otto anni mor\u00ec in bando, avendo\nprima il padre ricomperato dal comune per grandi riformagioni il suo\nfallo d\u2019avere rotti i confini lire milledugento. E dopo la morte del\nfigliuolo la donna ritrasse della casa la dote e \u2019l patrimonio in\ngrande abbassamento di quella famiglia, lasciando esempio a\u2019 suoi\ncittadini, che come la scienza convertita in pratica di male suasioni,\ne le disordinate dote fanno gli uomini arricchire e montare in stato,\ncos\u00ec quelle medesime operazioni e dote spesso sono materia e cagioni di\ngravi ruine: questo ci scusi averne fatto qui la detta memoria.\nCAP. LXXII.\n_Come un gran re de\u2019 Tartari venne sopra il re di Proslavia._\nAvvenne in quest\u2019anno, che un re del lignaggio de\u2019 Tartari, avendo\navuta la sua gente briga col re di Proslavia infedele, avegnach\u00e8\nsuddito al re d\u2019Ungheria, e fatto danno l\u2019una gente all\u2019altra, il detto\nre de\u2019 Tartari sentendosi di grande potenza, per prosunzione della sua\ngrandezza, ovvero per trarre la gente del suo paese che aveano a quel\ntempo grandissima fame, usc\u00ec del suo reame con infinito numero di gente\na pi\u00e8 e a cavallo, ed entr\u00f2 nel regno de\u2019 Proslavi. Il re de\u2019 Proslavi\ncolla sua gente si fece incontro a quella moltitudine per ritenerli\na certe frontiere, tanto che avesse il soccorso dal re d\u2019Ungheria, il\nquale di presente vi mand\u00f2 quarantamila arceri a cavallo: e aggiuntosi\ncolla gente del re de\u2019 Proslavi, di presente commisono la battaglia co\u2019\nTartari, de\u2019 quali tanti n\u2019uccisono, che la lena manc\u00f2 agli uomini, e\nlo taglio alle spade, e le saette agli archi. Ma per la soprabbondante\nmoltitudine de\u2019 Tartari, non potendoli gli Ungheri e i Proslavi pi\u00f9\ntagliare, convenne ch\u2019abbandonassono il campo, non senza grande danno\ndella loro gente. I Tartari vinti rimasono vincitori: ma per disagio\ndi vivande, e per la corruzione dell\u2019aria, costretti prima a manicare\nde\u2019 corpi morti, sentendo che per li due re si faceva apparecchiamento\ndi ritornare in campo con maggiore e pi\u00f9 potente esercito, per paura,\ne per lo gran difetto che i Tartari aveano di vittuaglia, si tornarono\naddietro in loro paese. Questa novella avemmo da pi\u00f9 e diverse parti in\nFirenze del mese d\u2019aprile 1352.\nCAP. LXXIII.\n_Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio._\nRitornando all\u2019italiane tempeste, essendo rimasa la citt\u00e0 d\u2019Orvieto\ncon grande dissensione tra\u2019 cittadini dopo la morte di Benedetto di\nmesser Bonconte loro tiranno, i cittadini da capo si cominciarono a\ninsanguinare insieme, e uccidea l\u2019uno l\u2019altro nella citt\u00e0 e di fuori,\ncome s\u2019uccidono le bestie al macello. Ed era s\u00ec corrotta la citt\u00e0 ed\nil contado, che in niuna parte si poteva andare o stare sicuro, e\ni Perugini e gli altri comuni di Toscana erano s\u00ec oppressati dalla\ngente del Biscione, che appena poteano intendere alla loro difesa,\nsicch\u00e8 de\u2019 fatti d\u2019Orvieto non si potevano intramettere come a quel\ntempo bisognava. Avvenne che Petruccio di Peppo Monaldeschi, come\nche d\u2019animo e di nazione fosse guelfo, avendo rispetto a pigliare la\ntirannia d\u2019Orvieto, per suo trattato fece venire a condotta degli\nUbaldini a Cetona dugento cavalieri, e procacci\u00f2 d\u2019avere gente dal\nprefetto da Vico: e quando si vide il bello, avendo raunato nella\nterra assai fanti, lev\u00f2 il romore e corse la terra, e mise dentro i\ndugento cavalieri ch\u2019avea in Cetona, e uccise Bonconte suo consorto,\nnipote di Benedetto, e pi\u00f9 altri, e ridusse la citt\u00e0 nella forza de\u2019\nghibellini, credendo poterla tiranneggiare per se; ma in fine, come\nal suo tempo racconteremo, la signoria rimase al prefetto da Vico e a\nparte ghibellina, tradita la patria e i consorti per singolare invidia\nde\u2019 suoi congiunti.\nCAP. LXXIV.\n_Come l\u2019armata de\u2019 Genovesi and\u00f2 a Trapenon per danneggiare i nemici._\nDopo la battaglia fatta in Romania tra\u2019 Genovesi, Veneziani e Catalani,\navendo i Genovesi preso riposo per alcuno tempo, e ritornate le sei\ngalee fuggite nel Mare maggiore, riconoscerono la loro amara vittoria,\npresono cuore dimenticando il danno loro per l\u2019animosit\u00e0 ch\u2019aveano\ncontro a\u2019 loro nemici ch\u2019erano rifuggiti a Trapenon, e procacciarono\naiuto da Pera, e mandarono per rinfrescamento di galee armate,\nstrignendo che quante pi\u00f9 ne potessono mandare armate il facessono\nsenza indugio, a fine di disfare affatto l\u2019armata de\u2019 Veneziani e\nCatalani, avendo anche speranza di vincere Costantinopoli. E racconce\nle loro galee, e rifornite le ciurme e\u2019 soprassaglienti se n\u2019andarono a\nTrapenon, ove i Veneziani e\u2019 Catalani s\u2019erano rifuggiti; e assai volte\ntentarono d\u2019assalirli, ma gli avversari aveano la forza della terra,\ne l\u2019avvantaggio della guardia del porto, sicch\u00e8 poco li curavano;\ne quando vidono un tempo al loro viaggio fatto e fermo, e che era\ncontradio a\u2019 loro nemici a poterli impedire, con trentotto galee\nracconce e rifornite si misono in mare, e atandosi con le vele e co\u2019\nremi, avendo il vento in poppa, a contradio de\u2019 Genovesi valicarono in\nCandia: e giunti in Candia misono in terra, e disarmarono. E stando\nnell\u2019isola, per la corruzione di loro fediti e de\u2019 disagi sostenuti\ninfermarono e corruppono molto la terra, e mandarono due loro galee per\navere aiuto da Vinegia, le quali s\u2019abbatterono in dieci galee ch\u2019e\u2019\nGenovesi mandavano in aiuto alla loro armata, ma l\u2019una per forza di\nremi camp\u00f2, l\u2019altra diede a terra, e abbandonato il corpo della galea\nsalvarono le persone.\nCAP. LXXV.\n_Come i Genovesi assediarono Costantinopoli._\nL\u2019armata de\u2019 Genovesi non avendo potuto impedire l\u2019armata de\u2019\nVeneziani e Catalani che non fossono passati all\u2019isola di Negroponte,\nnon attesono a seguirli, ma attesono ad assediare Costantinopoli per\nmare, e fermarono di fare ogni loro podere per abbattere l\u2019aiuto che i\nVeneziani aveano dall\u2019imperatore. E stando ivi, giunse in loro aiuto\nsessanta legni armati di Turchi, e le dieci galee che il comune di\nGenova avea mandate loro. Mega Domestico che allora governava l\u2019imperio\ncome tiranno, vedendo i Veneziani rotti e soperchiati in quella guerra\nda\u2019 Genovesi, e che la loro forza cresceva, e sentendosi il vero\nimperatore, il quale s\u2019avea fatto a genero, nemico, per non venire\na peggio tratt\u00f2 pace co\u2019 Genovesi, e fermossi la detta pace a d\u00ec 6\nmaggio del detto anno: e fu in patto, ch\u2019e\u2019 Veneziani del paese fossono\nsalvi in avere e in persona, e che i Genovesi non dovessono pagare\nin Costantinopoli commercio, e che vi potessono fare porto, e andare\ne stare come amici: e che d\u2019allora innanzi l\u2019imperadore non dovesse\nricettare i Veneziani n\u00e8 i Catalani, n\u00e8 dare loro alcuno aiuto. E ferma\nla pace, i Genovesi con tutta loro armata se ne vennono in Candia per\nvincere il paese; e volendo porre in terra, ebbono incontro i paesani\ncon trecento cavalieri, e le ciurme delle galee, e contradissono\nla prima scesa. I Genovesi si provvidono di fare parate, e dietro a\nquelle misono i balestrieri, e messe le scale in terra, a contradio de\u2019\nnemici presono campo; e stando in terra trovarono il paese corrotto,\ne avvelenata l\u2019aria e la terra dalla corruzione sparta dalle galee de\u2019\nVeneziani e Catalani, e anche tra loro avea de\u2019 fediti e degl\u2019infermi,\ne per questa cagione, e per i molti disagi sostenuti lungamente,\npensarono che il soprastare era pestilenzioso e mortale, si ricolsono a\ngalea, e misonsi in mare per tornarsi a Genova; e innanzi pervenissono\nalla patria pi\u00f9 di mille cinquecento uomini morti gettarono in mare: e\nnondimeno lasciarono nel golfo di Vinegia dieci galee per danneggiare\ni Veneziani. E del mese d\u2019agosto del detto anno con trentadue galee\ntornarono a Genova col loro ammiraglio, e con settecento prigioni\nveneziani, e con molta preda dell\u2019acquisto fatto sopra i nemici e\nsopra le spoglie de\u2019 Greci. Della qual vittoria, avvengnach\u00e8 molto ne\nmontasse in fama il comune di Genova, pi\u00f9 tristizia che allegrezza, pi\u00f9\npianto e dolore che festa torn\u00f2 alla loro patria; e trovossi all\u2019ultimo\ndi questa maladetta guerra di queste armate, che tra morti in\nbattaglia, e annegati in mare, e periti di pestilenza, tra l\u2019una parte\ne l\u2019altra vi morirono pi\u00f9 d\u2019ottomila Italiani in quell\u2019anno. E questo\navvenne solo per attizzamento d\u2019invidia di pari stato di due popoli\nGenovesi e Veneziani, che catuno si volea tenere il maggiore.\nCAP. LXXVI.\n_Concordia fatta dall\u2019imperadore a\u2019 comuni di Toscana._\nTornando al lungo trattato menato in Firenze per li Fiorentini e\nPerugini e Sanesi, molto segretamente con messer Arrigo proposto\nd\u2019Esdria dell\u2019ordine di certi frieri, vececancelliere di messer Carlo\neletto imperadore re di Boemia e re de\u2019 Romani, il quale con molto\nsenno e gran diligenza avendo il mandato dal suo signore, e per mezzano\ntra lui e gli ambasciadori de\u2019 sopraddetti comuni messer Ramondo l\u2019uno\ndegli usciti guelfi di Parma marchese di Soraga, capitano di guerra\ndel comune di Firenze, scritte le convenenze e\u2019 patti di concordia, si\nsostenne la piuvicazione di quelli per lo detto vececancelliere e per\nli detti comuni, tanto ch\u2019ebbono la fermezza da corte come il papa avea\nriconciliato per sentenza l\u2019arcivescovo di Milano, e fatto la concordia\ncon lui, come nel principio del nostro terzo libro si potr\u00e0 trovare; e\nquesta concordia fu ferma del detto mese d\u2019aprile del detto anno.\nCAP. LXXVII.\n_Come si lev\u00f2 una compagnia nel Regno, e fu rotta dal re Luigi._\nAvvenne non ostante che la pace fosse fatta tra il re d\u2019Ungheria e i\nreali di Puglia, e deliberato fosse per lo papa la coronazione del re\nLuigi, per la baldanza che i soldati forestieri aveano presa nel Regno,\nuno Beltramo della Motta nipote di fra Moriale, che ancora teneva la\ncitt\u00e0 d\u2019Aversa, fece raccolta di cavalieri di sua lingua, e di Tedeschi\ne d\u2019Italiani ch\u2019erano nel Regno senza soldo, ed ebbe quattrocento\nbarbute e cinquecento masnadieri: e cominci\u00f2 a correre per Terra di\nLavoro, di consiglio e consentimento di Fra Moriale, secondo il suono,\nbench\u00e8 secondo la vista dimostrava il contradio, e prendea i casali,\ne facea rimedire la gente, e molto conturbava il paese: e i baroni e\u2019\ncavalieri regnicoli che voleano venire a Napoli alla coronazione del\nre erano da costoro forte impediti, e i cammini erano rotti per loro,\ne spesso assaliti, e per soperchia baldanza s\u2019erano ridotti a Cesa, tra\nla citt\u00e0 d\u2019Aversa e l\u2019Acerra. E stando ivi, in gran vergogna del futuro\nre Luigi, il re infiammato di questa ingiuria, subitamente e improvviso\na\u2019 ladroni accolse de\u2019 baroni ch\u2019erano venuti a lui, e di Napoletani da\nmille cavalieri, e mont\u00f2 a cavallo in persona, e seguitato da\u2019 suoi,\na d\u00ec 28 d\u2019aprile del detto anno occup\u00f2 Beltramo della Motta e la sua\ncompagnia, i quali per lo subito assalto non feciono retta, ma chi pot\u00e8\nfuggire non attese il compagno: e cos\u00ec fuggendo molti ne furono morti e\npresi, che pochi ne camparono. Beltramo della Motta con venti compagni\nfugg\u00ec a Alife e camp\u00f2. In Napoli furono giudicati a morte venticinque\npaesani ch\u2019erano in quella compagnia, gli altri rimasono prigioni: e la\ndetta compagnia fu al tutto consumata e spenta con onore del re Luigi,\ne con pi\u00f9 lieta festa della sua coronazione, che appresso seguit\u00f2, come\ntosto diviseremo.\nCAP. LXXVIII.\n_Come i Perugini guastarono intorno a Cortona._\nIn questo mese d\u2019aprile del detto anno, i cavalieri dell\u2019arcivescovo\ndi Milano ch\u2019erano stati lungamente al servigio del signore di\nCortona all\u2019Orsaia, si partirono di l\u00e0, e lasciarono dugentocinquanta\ncavalieri. I Perugini aontati dell\u2019ingiuria fatta loro da\u2019 Cortonesi,\ndi presente, avuto trecento cavalieri da\u2019 Fiorentini, con settecento\nbarbute e con gran popolo cavalcarono sopra Cortona, ardendo e\nguastando le case, e le vigne e\u2019 campi, e tagliando gli alberi,\naoperando il fuoco e il ferro, e guastarla intorno per molti giorni,\nsenza potere i Cortonesi difendere in niuna parte, di fuori che\ndall\u2019Orsaia a Cortona, per la guardia vi fecero i dugentocinquanta\ncavalieri del Biscione: ma senza arsione, cos\u00ec consumarono que\u2019\ncavalieri quella parte difendendo, come i Perugini l\u2019altre parti per\nloro vendetta.\nCAP. LXXIX.\n_Come i Fiorentini fornirono Lozzole._\nI Fiorentini poco tempo innanzi per mala condotta rotti dagli Ubaldini\nnell\u2019alpe, volendo fornire Lozzole, provvidono di fornirlo con pi\u00f9\navviso e provvedenza; che senza fare apparecchiamento nel Mugello,\navendo in Firenze cavalieri e pedoni, e la vittuaglia apparecchiata,\nsenza alcuna vista mandarono improvviso agli Ubaldini, e feciono\npigliare a buoni masnadieri i passi e i poggi dell\u2019alpe. E presi i\npassi la notte, la mattina vi mandarono cento cavalieri, e quattrocento\nbalestrieri eletti, e seicento buoni masnadieri di soldo e tutta la\nsalmeria con loro, i quali andarono senza contasto. E furono sopra\nil battifolle degli Ubaldini, il quale era sopra Lozzole, innanzi\nche potessono avere soccorso; e vedendosi sorprendere alla gente de\u2019\nFiorentini, abbandonaro la bastita e l\u2019arme, e gittaronsi per le ripe\nper salvare le persone; i Fiorentini presono l\u2019arme e la roba ch\u2019era\nnella bastita, e aggiunsonla alla loro salmeria, e misono ogni cosa nel\ncastello di Lozzole, e arsono il battifolle de\u2019 nimici, e sani e salvi\nsenza trovare contasto si tornarono a Firenze del mese di maggio del\ndetto anno.\nTAVOLA DEI CAPITOLI\n _Qui comincia la Cronica di Matteo Villani, e prima\n _CAP. II. Quanto durava il tempo della moria in catuno\n _CAP. III. Della indulgenzia diede il papa per la detta\n _CAP. IV. Come gli uomini furono peggiori che prima_ 10\n _CAP. V. Come si stim\u00f2 dovizia, e segu\u00ec carestia_ 11\n _CAP. VI. Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso_ 12\n _CAP. VII. Come alla compagnia d\u2019Orto san Michele\n _CAP. VIII. Come in Firenze da prima si cominci\u00f2 lo\n _CAP. IX. Raggiugnimento di principi che furono cagione\n _CAP. X. Come il re d\u2019Ungheria fece ad Aversa uccidere\n _CAP. XI. La cagione della morte del duca di Durazzo_ 21\n _CAP. XII. Come il re d\u2019Ungheria entr\u00f2 in Napoli_ 22\n _CAP. XIII. Come il re d\u2019Ungheria vicitava il regno\n _CAP. XIV. Come il re d\u2019Ungheria partitosi del Regno\n _CAP. XV. Novit\u00e0 del reame di Tunisi, e pi\u00f9 rivolgimenti\n _CAP. XVI. Come per la partita del re d\u2019Ungheria del\n Regno i baroni e\u2019 popoli si dolsono_ 26\n _CAP. XVII. Come si reggeva la sua gente nel Regno\n _CAP. XVIII. Come messer Luigi si fe\u2019 titolare re al\n _CAP. XIX. Come il re e la reina ritornarono nel Regno_ 30\n _CAP. XX. Come il re e la reina Giovanna entrarono\n _CAP. XXI. Come il re Luigi si fe\u2019 fare cavaliere, e\n _CAP. XXII. Brieve raccontamento di cose fatte per\n il re d\u2019Inghilterra contra quello di Francia_ 33\n _CAP. XXIII. Come gli Ubaldini furo cominiciatori della\n guerra che il comune di Firenze ebbe con loro_ 36\n _CAP. XXIV. Come i fedeli del conte Galeotto si rubellarono\n da lui e dieronsi al comune di Firenze_ 36\n _CAP. XXV. Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini,\n e presero Montegemmoli e loro castella_ 37\n _CAP. XXVI. Come il re di Francia comper\u00f2 il Delfinato_ 40\n _CAP. XXVII. La cagione perch\u00e8 il re d\u2019Araona tolse\n _CAP. XXVIII. Come il re di Maiolica vend\u00e8 la sua\n parte di Mompelieri al re di Francia_ 42\n _CAP. XXIX. Come s\u2019ordin\u00f2 il generale perdono a Roma\n _CAP. XXX. Come il re di Maiolica and\u00f2 per racquistare\n _CAP. XXXI. Come i baroni italiani e catalani per loro\n discordie guastarono l\u2019isola di Cicilia_ 46\n _CAP. XXXII. Come il re Filippo di Francia e \u2019l figliuolo\n _CAP. XXXIII. Come il re di Francia fu ingannato\n del trattato di Calese con gran danno_ 51\n _CAP. XXXIV. Come messer Carlo eletto imperadore\n _CAP. XXXV. Come il re Luigi prese pi\u00f9 castella_ 56\n _CAP. XXXVI. Come il re Luigi prese il conte d\u2019Apici_ 57\n _CAP. XXXVII. Come il re Luigi Assedi\u00f2 Nocera_ 58\n _CAP. XXXVIII. Come Currado Lupo liber\u00f2 Nocera_ 60\n _CAP. XXXIX. Come il re Luigi rifiut\u00f2 la battaglia\n _CAP. XLI. Come mor\u00ec il re Alfonso di Castella_ 64\n _CAP. XLII. Come il doge Guernieri fu preso in Corneto\n _CAP. XLIII. Come i Fiorentini presero Colle_ 67\n _CAP. XLIV. Come i Fiorentini ebbono Sangimignano a\n _CAP. XLV. Di tremuoti furono in Italia_ 70\n _CAP. XLVI. Come sommerse Villacco in Alamagna_ 71\n _CAP. XLVIII. Come la gente del re d\u2019Ungheria sconfisse\n _CAP. XLIX. Come i Napoletani ricomperarono la vendemmia\n _CAP. L. Come si fe\u2019 triegua nel Regno_ 78\n _CAP. LI. Di novit\u00e0 di barbari di Bella Marina_ 80\n _CAP. LII. Come Balese tornando per lo suo reame contro\n al figliuolo ebbe grande fortuna, e poi fu avvelenato_ 81\n _CAP. LIII. Come per lievi cagioni suscit\u00f2 novit\u00e0 in Romagna_ 83\n _CAP. LIV. Come messer Giovanni Manfredi rubell\u00f2\n _CAP. LV. Come il capitano di Forl\u00ec prese Brettinoro\n _CAP. LVI. Come i cristiani d\u2019Europa cominciarono a\n _CAP. LVII. Perch\u00e8 s\u2019intramesse il dificio d\u2019Orto san\n _CAP. LVIII. Come la Chiesa mand\u00f2 il conte per racquistare\n _CAP. LIX. Processo de\u2019 traditori di Romagna, e di\n _CAP. LX. Come messer Giovanni de\u2019 Peppoli cerc\u00f2 accordo\n _CAP. LXI. Come messer Giovanni de\u2019 Peppoli and\u00f2\n _CAP. LXII. Come il conte scoperse l\u2019altro trattato che\n _CAP. LXIII. Come messer Iacopo Peppoli rimaso in\n Bologna si provvidde alla difesa_ 103\n _CAP. LXIV. L\u2019aiuto che messer Iacopo accolse per\n _CAP. LXV. Del male stato che si condusse la citt\u00e0 di\n Bologna, e di certi trattati che allora si tennono_ 106\n _CAP. LXVI. Come i soldati mossono quistione al conte,\n e fu loro assegnato messer Giovanni Peppoli_ 108\n _CAP. LXVII. Come messer Giovanni tenne suoi trattati\n _CAP. LXVIII. Secondo trattato di Bologna_ 112\n _CAP. LXIX. Come l\u2019arcivescovo di Milano mand\u00f2 a\n prendere la possesione di Bologna_ 114\n _CAP. LXX. Come capit\u00f2 il conte di Romagna e l\u2019oste\n _CAP. LXXI. Come i Guazzalotri di Prato cominciarono\n _CAP. LXXII. Come i Fiorentini andarono a oste a\n _CAP. LXXIII. Come i Fiorentini comperarono Prato,\n _CAP. LXXIV. Come i guelfi forono cacciati dalla Citt\u00e0\n _CAP. LXXV. Come mor\u00ec il re Filippo di Francia_ 124\n _CAP. LXXVI. Come la Chiesa rinnov\u00f2 processo contra\n _CAP. LXXVII. Come il tiranno di Milano si colleg\u00f2\n _CAP. LXXVIII. Come fu assediata Imola dal Biscione\n _CAP LXXIX. Come il capitano di Forl\u00ec tolse al conticino\n da Ghiaggiuolo e al conte Carlo da Doadola\n _CAP. LXXX. Come nella citt\u00e0 d\u2019Orbivieto si cominci\u00f2\n _CAP. LXXXI. Come la citt\u00e0 d\u2019Agobbio venne a tirannia\n _CAP. LXXXII. Come il comune di Perugia e il capitano\n del Patrimonio andarono a oste ad Agobbio_ 137\n _CAP. LXXXIII. Come cominci\u00f2 l\u2019izza da\u2019 Genovesi\n _CAP. LXXXIV. Come quattordici galee di Veneziani\n presono in Romania nove de\u2019 Genovesi_ 141\n _CAP. LXXXV. Come i Genovesi di Pera presono Negroponte,\n _CAP. LXXXVI. Come fu morto il patriarca d\u2019Aquilea,\n _CAP. LXXXVII. Come il legato del papa si part\u00ec del\n _CAP. LXXXVIII. Come il re d\u2019Ungheria ritorn\u00f2 in\n Puglia conquistando molte terre_ 146\n _CAP. LXXXIX. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia_ 148\n _CAP. XC. Come fu data l\u2019ultima battaglia ad Aversa\n _CAP. XCII. Come il conte d\u2019Avellino con dieci galee\n stette a Napoli, e Aversa s\u2019arrend\u00e8 al re_ 152\n _CAP. XCIII. Come il re d\u2019Ungheria e il re Luigi vennono\n _CAP. XCIV. Come il conte d\u2019Avellino di\u00e8 al suo figliuolo\n per moglie la duchessa di Durazzo_ 157\n _CAP. XCV. Della grande potenza dell\u2019arcivescovo di\n Milano, e come i Fiorentini temeano di Pistoia,\n _CAP. XCVI. Come certi rettori di Firenze vollono\n _CAP. XCVII. Come i Fiorentini assediarono Pistoia\n _CAP. XCVIII. Come il re d\u2019Inghilterra sconfisse in\n LIBRO SECONDO\n _CAP. II. Come il comune di Firenze usava la pace\n _CAP. III. Come l\u2019arcivescovo di Milano appuose tradimento\n e condann\u00f2 messer Iacopo Peppoli_ 172\n _CAP. IV. Come l\u2019arcivescovo ferm\u00f2 d\u2019assalire improvviso\n _CAP. V. Come si mise in ordine il consiglio preso_ 176\n _CAP. VI. Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e\n _CAP. VII. Come gli Ubertini, e\u2019 Tarlati, e i Pazzi\n assalirono il contado di Firenze_ 179\n _CAP. VIII. Come i Fiorentini mandaro ambasciadori al\n _CAP. IX. Come l\u2019oste si lev\u00f2 da Pistoia e puosesi a\n _CAP. X. Come l\u2019oste ebbe gran difetti a Campi e a\n _CAP. XI. Come i rettori di Firenze abbandonarono il\n _CAP. XII. Come l\u2019oste del Biscione valic\u00f2 il passo, e\n _CAP. XIII. Come il conte di Montecarelli si rubell\u00f2\n a\u2019 Fiorentini e venne al capitano_ 190\n _CAP. XIV. Come si forn\u00ec la Scarperia e il Borgo_ 191\n _CAP. XV. Come l\u2019oste assedi\u00f2 la Scarperia_ 192\n _CAP. XVI. Come i Fiorentini afforzarono Spugnole_ 194\n _CAP. XVII. Come si difese Pulicciano di grave battaglia_ 195\n _CAP. XVIII. Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e\n gli Ubertini vennono in sul contado di Firenze, e\n furonne cacciati per forza da\u2019 Fiorentini_ 196\n _CAP. XIX. Come Bustaccio entr\u00f2 e rend\u00e8 la Badia a\n _CAP. XX. Come l\u2019arcivescovo tent\u00f2 i Pisani di guerra\n _CAP. XXI. Come l\u2019oste deliber\u00f2 combattere la Scarperia_ 204\n _CAP. XXII. Come i Tarlati sconfissono i cavalieri\n _CAP. XXIII. Come i Fiorentini procuraro di mettere\n _CAP. XXIV. Come la reina Giovanna si fece scusare\n _CAP. XXV. Come i Genovesi e i Veneziani ricominciarono\n _CAP. XXVI. Come l\u2019armata genovese and\u00f2 a Negroponte\n e assedi\u00f2 Candia, e quello che ne segu\u00ec_ 212\n _CAP. XXVII. Come i Veneziani feciono lega co\u2019 Catalani,\n e di nuovo armarono cinquanta galee_ 213\n _CAP. XXVIII. Come la imperatrice di Costantinopoli\n col figliuolo si fugg\u00ec in Salonicco_ 215\n _CAP. XXIX. Come la Scarperia sostenne la prima battaglia\n _CAP. XXX. Come la Scarperia ripar\u00f2 alla cava de\u2019\n _CAP. XXXI. Del secondo assalto dato alla Scarperia_ 220\n _CAP. XXXII. Del terzo assalto dato_ 221\n _CAP. XXXIII. La partita dell\u2019oste dalla Scarperia_ 224\n _CAP. XXXIV. Come l\u2019armata de\u2019 Genovesi si part\u00ec da\n _CAP. XXXV. Come i Veneziani e\u2019 Catalani s\u2019accozzarono\n _CAP. XXXVI. Come i Brandagli si vollono fare signori\n _CAP. XXXVIII. Come il re Luigi mand\u00f2 il gran siniscalco\n _CAP. XXXIX. Come il re Luigi accolse i baroni del\n _CAP. XL. Come il re Luigi sostenne gli Aquilani che\n _CAP. XLI. Come papa Clemente sesto fe\u2019 la pace\n _CAP. XLII. Come messer Piero Saccone prese il Borgo\n _CAP. XLIII. Come i Perugini arsono intorno al Borgo\n _CAP. XLIV. D\u2019una cometa ch\u2019apparve in oriente_ 245\n _CAP. XLV. Come fu preso il castello della Badia\n _CAP. XLVI. Come i Fiorentini cercarono lega co\u2019 comuni\n di Toscana, e accrebbono loro entrata_ 248\n _CAP. XLVII. Come i Romani feciono rettore del popolo_ 249\n _CAP. XLVIII. Di una lettera fu trovata in concistoro\n _CAP. XLIX. Come il re d\u2019Inghilterra essendo in tregua\n col re di Francia acquist\u00f2 la contea di Guinisi_ 253\n _CAP. L. Il piato fu in corte tra\u2019 due re per la contea di\n _CAP. LI. Come l\u2019arcivescovo di Milano ragun\u00f2 i suoi\n soldati per rifare guerra a\u2019 Fiorentini_ 255\n _CAP. LII. Come i Fiorentini, e\u2019 Perugini, e\u2019 Sanesi\n mandarono ambasciadori a corte_ 257\n _CAP. LIII. Come l\u2019ammiraglio di Damasco fece novit\u00e0\n _CAP. LIV. Come i Fiorentini disfeciono terre di Mugello_ 260\n _CAP. LV. Come la Scarperia fu furata e racquistata_ 261\n _CAP. LVI. Come messer Piero Sacconi cavalc\u00f2 con\n mille barbute infino in su le porte di Perugia_ 263\n _CAP. LVII. Come i Chiaravallesi di Todi vollono rubellare\n _CAP. LVIII. Come que\u2019 da Ricasoli rubellarono Vertine\n _CAP. LIX. Come i Veneziani e\u2019 Catalani furono sconfitti\n _CAP. LXI. Come per le discordie de\u2019 paesani la Sicilia\n _CAP. LXII. Come fu in Firenze tagliate le teste a pi\u00f9\n _CAP. LXIII. Come il tiranno d\u2019Orvieto fu morto_ 277\n _CAP. LXIV. Come i Fiorentini assediarono Vertine_ 278\n _CAP. LXV. Come in corte fu fermata la pace dal re\n _CAP. LXVI. Come l\u2019arcivescovo trattava pace colla\n _CAP. LXVII. Della gran fame ch\u2019ebbono i barbari di\n _CAP. LXVIII. Come i rettori di Firenze cominciarono\n segretamente a trattare accordo con l\u2019eletto\n _CAP. LXIX. Come la gente de\u2019 Fiorentini che andavano\n a fornire Lozzole furono rotti dagli Ubaldini_ 283\n _CAP. LXX. Come s\u2019ebbe Vertine a patti e disfecesi la\n _CAP. LXXI. Esempio di cittadinesca variet\u00e0 di fortuna_ 285\n _CAP. LXXII. Come un gran re de\u2019 Tartari venne sopra\n _CAP. LXXIII. Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio_ 289\n _CAP. LXXIV. Come l\u2019armata de\u2019 Genovesi and\u00f2 a\n Trapenon per danneggiare i nemici_ 290\n _CAP. LXXV. Come i Genovesi assediarono Costantinopoli_ 291\n _CAP. LXXVI. Concordia fatta dall\u2019imperadore a\u2019 comuni\n _CAP. LXXVII. Come si lev\u00f2 una compagnia nel Regno,\n _CAP. LXXVIII. Come i Perugini guastarono intorno\n _CAP. LXXIX. Come i Fiorentini fornirono Lozzole_ 296\n TOMO PRIMO\n p. 7 v. 28 li ro (in alcuna copia) libro\n \u2014 20 \u2014 25 traditore, del traditore del sangue\n \u2014 118 \u2014 14 cominciorono cominciarono\n messer Giovanni messer Giovanni\nNota del Trascrittore\nOrtografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo\nsenza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in\nfine libro sono state riportate nel testo.", "source_dataset": "gutenberg", "source_dataset_detailed": "gutenberg - Cronica di Matteo Villani, vol. I\n"} +] \ No newline at end of file